XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro

Resoconto stenografico



Seduta n. 37 di Mercoledì 3 giugno 2015

INDICE

Comunicazioni del presidente:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 

Sulla pubblicità dei lavori:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 4 

Audizione dell'onorevole Salvo Andò:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 4 
Andò Salvo  ... 5 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 
Andò Salvo  ... 7 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8 
Andò Salvo  ... 8 
Grassi Gero (PD)  ... 10 
Andò Salvo  ... 10 
Grassi Gero (PD)  ... 10 
Andò Salvo  ... 10 
Grassi Gero (PD)  ... 10 
Andò Salvo  ... 10 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 12 
Andò Salvo  ... 12 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 13 
Andò Salvo  ... 13 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Andò Salvo  ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Andò Salvo  ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Andò Salvo  ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Andò Salvo  ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Andò Salvo  ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Andò Salvo  ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Andò Salvo  ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Andò Salvo  ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Andò Salvo  ... 14 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15 
Grassi Gero (PD)  ... 15 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIUSEPPE FIORONI

  La seduta comincia alle 14.25.

Comunicazioni del presidente.

  PRESIDENTE. Comunico che nel corso della riunione odierna l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha convenuto di acquisire alcuni archivi digitali versati presso l'Archivio centrale dello Stato (relativi ad atti dei servizi di informazione, del Ministero dell'economia e delle finanze e del Ministero degli affari esteri), affidando al dottor Allegrini l'incarico di procedere ai conseguenti adempimenti.
  Segnalo, inoltre, che il 22 maggio è pervenuta, da parte del capo della Polizia, l'autorizzazione alla collaborazione con la Commissione dell'ispettore Maurizio Sensi e del sovrintendente Pier Salvatore Marratzu. Quest'ultimo, in data odierna, ha prestato il prescritto giuramento e ha assunto quindi formalmente l'incarico di collaboratore della Commissione, che sarà svolto secondo gli indirizzi già comunicati.
  Nella citata riunione, l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha altresì autorizzato lo svolgimento da parte della dottoressa Giammaria e del sovrintendente Marratzu, con l'assistenza di personale di polizia giudiziaria dell'Arma dei carabinieri e della sezione di polizia giudiziaria presso il Tribunale di Milano, di una missione a Milano e di una a Firenze – della durata massima di un giorno ciascuna – con facoltà di richiedere l'esibizione e di acquisire documentazione di interesse.
  Il dottor Donadio ha depositato: il 22 maggio, due relazioni riservate; il 25 maggio, una relazione segreta; il 29 maggio, due note riservate; il 3 giugno quattro note riservate. Le suddette relazioni contengono alcune proposte operative, alle quali nel corso della odierna riunione l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha convenuto di dare seguito. Nella stessa riunione si è, inoltre, convenuto di mettere a disposizione della Procura di Reggio Calabria alcuni documenti riservati e segreti.
  Il colonnello Pinnelli ha depositato: una nota riservata pervenuta il 6 maggio; una nota riservata pervenuta il 22 maggio; una nota riservata e una segreta pervenute il 29 maggio.
  Il tenente colonnello Giraudo ha depositato: in data 22 maggio, due note segrete e due riservate riguardanti lo svolgimento di accertamenti in corso, nonché due proposte – una segreta e una riservata – di estensione di acquisizioni documentali; il 3 giugno, una ulteriore proposta riservata di estensione di acquisizioni documentali. Nel corso della odierna riunione l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha convenuto di dare seguito alle suddette richieste.
  Il sovrintendente Marratzu ha depositato il 22 maggio e il 3 giugno documentazione di libera consultazione acquisita presso gli uffici giudiziari di Roma.
  Il colonnello Occhipinti ha depositato il 25 maggio una relazione segreta e il 29 maggio il verbale riservato di consegna di copia di atti reperiti presso la Questura di Firenze.
  Comunico, inoltre, che con nota di libera consultazione pervenuta il 20 maggio, il Ministro degli affari esteri Gentiloni ha confermato la disponibilità ad assicurare il necessario supporto diplomatico alle procedure di declassifica delle informazioni Pag. 4riguardanti il caso Moro provenienti da fonti estere. Nella lettera si preannuncia, inoltre, l'invio di documentazione di interesse ai fini dell'estradizione di un latitante e si fornisce un aggiornamento circa le operazioni di versamento di documentazione all'Archivio centrale dello Stato.
  Sempre il 20 maggio è pervenuta, con nota riservata del Procuratore della Repubblica di Milano, copia di atti giudiziari di interesse, che – secondo quanto convenuto dall'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, nel corso della riunione odierna – potranno essere condivisi con la Procura della Repubblica di Reggio Calabria, nell'ambito dello scambio di informazioni e documentazione in corso con tale ufficio giudiziario.
  Con due note pervenute il 27 maggio, l'Archivio storico del Senato ha comunicato l'avvenuta declassifica, da parte del DIS, di cinque documenti, che sono divenuti pertanto di libera consultazione.
  Sempre il 27 maggio il comandante del RIS di Roma, colonnello Ripani, ha trasmesso il verbale riservato di inizio degli accertamenti tecnici non ripetibili delegati dalla Commissione. Successivamente, con nota di libera consultazione pervenuta il 29 maggio, lo stesso colonnello Ripani ha manifestato la piena «disponibilità a consentire la partecipazione a tutte le attività tecniche da parte degli aventi diritto e comunque da persone indicate dalla Commissione», suggerendo altresì «di concordare una o più date in cui effettuare degli incontri nei quali verranno illustrate le finalità degli accertamenti e le attività poste in essere». A tal fine, il RIS di Roma «è disponibile ad incontrare i componenti della Commissione interessati a partecipare alle operazioni».
  Al riguardo, nella riunione odierna l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha deliberato di ascoltare in audizione il colonnello Ripani una volta terminati gli accertamenti in corso.
  Nella medesima riunione, si è altresì convenuto di procedere all'audizione di esponenti delle Brigate Rosse coinvolti nel caso Moro.
  Comunico, inoltre, che il 29 maggio il Comando generale dell'Arma dei carabinieri ha trasmesso copia digitale di alcuni documenti di libera consultazione richiesti dalla Commissione.
  Il 3 giugno è pervenuta una nota di libera consultazione del senatore Flamigni, riguardante la disponibilità, all'epoca dei fatti, di vetture blindate per l'onorevole Moro.
  Ricordo, infine, che nella serata di mercoledì 10 giugno, presso la Sala del Mappamondo a palazzo Montecitorio, si svolgerà l'audizione della dottoressa Tintisona e di alcuni funzionari della polizia scientifica e del servizio centrale antiterrorismo della Polizia. L'audizione – che ha per oggetto gli esiti degli accertamenti sinora condotti con riferimento alla strage di via Fani – si svolgerà in parte in seduta pubblica, con diretta streaming sul canale web della Camera, e in parte in seduta segreta.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.

Audizione dell'onorevole Salvo Andò.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione dell'onorevole Salvo Andò, che ringraziamo per la cortese disponibilità con cui ha accettato l'invito a intervenire oggi in Commissione.
  L'onorevole Andò è stato, come è noto, vicepresidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia massonica P2, presieduta dall'onorevole Tina Anselmi, nel corso dell'VIII e della IX legislatura, nonché, nel corso della X legislatura, autorevole componente della Commissione parlamentare d'inchiesta sui risultati della lotta al terrorismo e sulle cause che hanno impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi, presieduta allora dal senatore Libero Gualtieri.Pag. 5
  Gli atti di tali inchieste parlamentari relativi al caso Moro sono stati già acquisiti dalla nostra Commissione; tuttavia, è evidente che le acquisizioni documentali sono in grado di testimoniare solo l'attività svolta e i risultati conseguiti, non anche le piste investigative che per ragioni diverse non è stato possibile, in tutto o in parte, esplorare.
  Per questa ragione, abbiamo ritenuto di ascoltare in audizione i presidenti e alcuni componenti delle precedenti Commissioni che si sono occupate del caso Moro, così da disporre di un quadro completo di tutti gli approfondimenti che sono stati condotti e di quelli che restano da effettuare.
  In tale contesto, infatti, abbiamo ascoltato l'onorevole Bianco, il senatore Pellegrino, il senatore Flamigni, il presidente Violante, l'onorevole Martelli, il senatore Manca e l'onorevole Bielli.
  In questo stesso solco si colloca anche l'odierna audizione, dalla quale ci attendiamo utili spunti di riflessione per il proseguimento della nostra inchiesta.
  In particolare, con riferimento al ruolo della loggia P2 nel caso Moro, due sono i profili che la Commissione è interessata ad approfondire, salvo le domande che i colleghi poi vorranno porre. Il primo riguarda la presenza di numerosi iscritti alla loggia P2 tra quanti all'epoca occupavano posizioni di responsabilità nelle forze di polizia e nei servizi di informazione e sicurezza. In proposito, la relazione dell'onorevole Anselmi richiama le dichiarazioni rese dal Sottosegretario Lettieri rilevando che «le riunioni al Viminale del comitato di coordinamento delle forze dell'ordine vedevano presenti, intorno allo stesso tavolo, una maggioranza di iscritti alla loggia P2 tra gli organi tecnici di ausilio ai responsabili politici».
  In alcune di queste circostanze la Commissione d'inchiesta sulla P2 si è chiesta «se l'inadeguatezza degli apparati informativi e di polizia dello Stato abbia avuto a suo fondamento motivazioni di ordine esclusivamente tecnico o sia invece da riportare ad altro ordine di considerazioni». La Commissione, tuttavia, non è giunta a conclusioni certe sul punto, pur denunciando «l'ambiguo rapporto identificato tra Licio Gelli e i servizi segreti».
  Sarebbe utile, pertanto, se l'onorevole Andò potesse fornirci qualche elemento di dettaglio sugli approfondimenti che la Commissione P2 condusse in proposito e sui motivi per i quali, a suo giudizio, essi non condussero a nessun esito certo.
  Il secondo profilo di interesse riguarda il ruolo che, attraverso alcuni mezzi di informazione, la loggia P2 avrebbe esercitato sul dibattito riguardante la cosiddetta «linea della fermezza». In proposito, in un articolo pubblicato da Repubblica.it il 7 giugno 1984 si attribuisce all'onorevole Andò la seguente dichiarazione: «Se era Gelli a influenzare la linea del Corriere, non può non ricondursi l'atteggiamento della fermezza all'esclusiva esigenza di fare il gioco di una parte politica, di un disegno politico, addirittura di singoli personaggi politici». Chiederei, pertanto, all'onorevole Andò se può soffermarsi sui contenuti di questa dichiarazione, indicando gli elementi sui quali fonda le sue valutazioni.
  Quanto all'attività svolta dalla Commissione stragi nella X legislatura, ricordo che vennero affrontate, tra le altre, anche le questioni relative al ritrovamento nel 1990 delle carte di via Monte Nevoso. Nelle prossime settimane la Commissione avvierà uno specifico approfondimento della vicenda, della quale inviterei l'onorevole Andò a segnalarci, se ne ha memoria, i profili che più ritiene meritevoli di attenzione e i dubbi che rimasero a suo tempo.
  Do la parola all'onorevole Andò.

  SALVO ANDÒ. Signor presidente, signori componenti della Commissione d'inchiesta, vi ringrazio per questa audizione.
  Come ha ricordato il presidente, ho fatto parte della Commissione d'inchiesta sulla loggia P2 nell'VIII e nella IX legislatura, ne sono stato vice presidente, e ho anche fatto parte della Commissione stragi, sebbene per un periodo abbastanza breve, dal momento che poi mi sono dimesso quando sono divenuto presidente alla Camera del gruppo del Partito socialista italiano.Pag. 6
  La prima questione alla quale lei ha fatto riferimento attiene alla presenza di iscritti alla loggia P2 nei comitati che coordinavano e monitoravano le attività investigative, che erano tre. In particolare, ce n'era uno che collaborava direttamente con il Ministro Cossiga ed era costituito da vertici militari e dei servizi; ne facevano parte Giudice, Grassini, Santovito, Torrisi ed altri. Si trattava di soggetti che, oltre a dare pareri tecnici, certamente erano nelle condizioni di orientare le azioni che si intraprendevano per salvare Moro, e quindi di conoscere tutti i fatti che via via emergevano dall'attività investigativa.
  Di quel comitato non facevano parte ministri, ma sicuramente l'attività dello stesso produceva documenti, forniva indicazioni che venivano in un certo senso poi gestite da tutte le autorità politiche coinvolte nelle indagini.
  Di quel Comitato faceva parte – credo abbia partecipato a una sola riunione – il generale Siracusano, l'ufficiale che ha coordinato i posti di blocco in tutto il territorio della città di Roma.
  La Commissione P2 si è chiesta quale influenza potessero avere quelle presenze ai fini di una gestione efficace delle indagini. Devo dire che, per quanto riguarda tale argomento, nel corso delle indagini ci siamo trovati non tanto di fronte a difficoltà di tipo investigativo (abbiamo potuto procedere a tutte le audizioni ritenute necessarie), bensì a un'oggettiva scarsità di indizi che potessero consentire di acquisire utili elementi per comprendere se e in che misura la P2 aveva condizionato le attività svolte per salvare la vita dell'onorevole Moro. Era questo l'obiettivo a cui si guardava nella prima fase di lavoro della nostra Commissione, allorché abbiamo precisato gli obiettivi della nostra indagine. Non sono emersi fatti certi con riferimento a eventuali azioni di depistaggio provenienti sia dai comitati che collaboravano con il Ministro Cossiga sia da singoli elementi coinvolti nell'attività degli stessi comitati.
  Credo che loro conoscano la relazione conclusiva, ma c’è un passo nel quale si dice, alla fine dei quattro anni di lavoro della Commissione: «Allo stato degli atti non si hanno sicuri riscontri sul collegamento tra questo livello qualificato di rapporti» – cioè i rapporti tra la loggia e gli ambienti militari, i cui rappresentanti più significativi sedevano nel comitato di consulenza utilizzato da Cossiga – «e la vicenda specifica in esame. Gli interrogativi da più parte sollevati non trovano nel lavoro della Commissione risposte certe, anche se non si può sottacere la precisa valenza politica che Gelli attribuiva ai rapporti instaurati con gli ambienti militari e dei servizi, che dimostrano nella gestione della vicenda Moro tutta la loro insufficienza».
  In un certo senso, la nostra indagine si è soprattutto orientata nella direzione di accertare le ragioni per le quali l'attività investigativa nel corso di un periodo così lungo sia risultata insufficiente. È emersa una sovrapposizione di azioni da parte di diversi corpi che agivano separatamente senza che vi fosse un coordinamento in grado di assegnare a ciascuno di essi precisi compiti. Da questo punto di vista non sono emerse azioni od omissioni esplicitamente dolose, tali da configurare dei reati. Del resto, anche le indagini giudiziarie – mi riferisco in particolare all'indagine sulle attività della loggia massonica P2 – non credo che abbiano prodotto risultati abbastanza convincenti, se è vero che alla fine quel procedimento si è concluso in Cassazione con una sfilza di assoluzioni.
  Devo dire che la Commissione, nella seconda fase della sua attività, quindi dopo l'avvio della IX legislatura, via via è sembrata meno interessata ad approfondire la vicenda Moro nel contesto delle attività svolte dalla loggia P2 e da Gelli, così come era nelle intenzioni originarie. Nonostante gli sforzi compiuti, non siamo riusciti a trovare sicuri riscontri ad alcune tesi che taluno in Commissione avanzava, e quindi ad andare al di là di vaghi, generici indizi. Era prevedibile che alcune informazioni relativamente a quanto emergeva all'interno dei comitati che operavano presso il Ministero degli interni potessero arrivare a Pag. 7Gelli, ma non abbiamo acquisito prove certe di documenti che siano effettivamente pervenuti al «venerabile».
  L'unico elemento indiziario fondato è quello che ricordava il presidente, e che peraltro è emerso attraverso le attività svolte dalla Commissione Moro, relativamente a quanto riferito dal Sottosegretario Lettieri con riferimento ai vertici militari dei servizi coinvolti nelle indagini.
  Altro elemento certo, peraltro a voi ben noto, è costituito da quanto dichiarato da Elio Coppa, che era un vicequestore, poi passato a collaborare con Grassini, di cui è diventato il vice. Egli ha spiegato che il servizio, su suggerimento di Gelli, dato direttamente a Grassini con il quale il «venerabile» saltuariamente collaborava, ha cercato di approfondire la conoscenza di una eventuale pista rossa e avrebbe potuto portare a coloro che avevano sequestrato Moro. Si trattava peraltro di un'indicazione abbastanza generica, in quanto avrebbe detto di guardare meglio in ambienti dell'ultrasinistra ove forse poteva venir fuori qualche indicazione utile al ritrovamento di Moro.
  Di più Cioppa non ci ha detto. C'era una circostanza che mi appariva singolare: Cioppa non era un piduista al tempo in cui collaborava alle indagini, ma lo è diventato successivamente. Questa situazione si ripropone con riferimento ad un altro personaggio che collaborava con le indagini, il professor Faraguti, che faceva parte della Commissione che doveva procedere a decifrare i messaggi di Moro e dei brigatisti. Anch'egli dopo la vicenda Moro diventò piduista.

  PRESIDENTE. Lo diventano dopo.

  SALVO ANDÒ. Lo diventano successivamente.
  Noi non abbiamo avuto modo di ricavare elementi di conferma documentale di questi indizi. Personalmente, poi ho avuto modo di occuparmi della vicenda Moro allorché ho fatto alcune ricerche dovendo preparare delle relazioni per convegni ai quali partecipavo. Mi sono interessato ad approfondire alcuni temi relativi alle transizioni istituzionali, con riferimento alla nostra storia repubblicana, occupandomi in particolare del periodo che va dalla fine del centrosinistra alla morte di Moro. Devo dire, però, che non sono riuscito ad acquisire informazioni utili con riferimento al ruolo che la P2 può avere svolto nella progettazione e nella gestione del sequestro o a eventuali sinergie esistenti tra le attività della loggia e le attività di poteri esterni al nostro paese interessati a promuovere un'opera di destabilizzazione politica.
  Nella seconda fase dei lavori della Commissione, peraltro, come ho avuto modo di ricordare, il caso Moro sostanzialmente non costituiva più un oggetto della nostra indagine per le ragioni che ho avuto modo di indicare.
  Con riferimento all'attività della Commissione, nell'intero arco temporale in cui essa ha operato, si sono confrontati tre indirizzi a proposito dell'attività investigativa da svolgere. Uno tendeva ad approfondire le ragioni per le quali Moro era stato sequestrato, e all'interno di esso si cercava di approfondire il tema relativo all'esistenza di una pista estera, di una mano esterna alle BR che aveva, in un certo senso, commissionato il delitto per interferire nell'evoluzione della vicenda politica italiana.
  Un secondo indirizzo tendeva a capire se vi erano ragioni diverse da quelle dell'inefficienza, dell'incapacità investigativa, che avevano impedito di ritrovare Moro; se taluno poteva temere il ritorno di Moro nella vita politica italiana, se fossero state realizzate – soprattutto quanto a tempistica – tutte le iniziative che da più parti venivano suggerite per poter aprire uno spiraglio che consentisse non una trattativa, ma comunque di verificare la praticabilità di una linea che potesse portare al rilascio dell'ostaggio senza violare le leggi dello Stato.
  La Commissione ha quindi perseguito insieme questi due obiettivi investigativi.
  E vengo alla questione della fermezza. Per quanto riguarda la linea della fermezza – credo fosse la seconda parte della sua domanda...

Pag. 8

  PRESIDENTE. Corriere della sera e fermezza.

  SALVO ANDÒ. Sul Corriere della sera posso dare degli elementi che non derivano soltanto da ciò di cui si è occupata la Commissione. Per dieci anni sono stato responsabile del dipartimento problemi dello Stato presso la direzione del Partito Socialista. Su quanto avveniva all'interno del Corriere della Sera avevamo idee ben precise nel PSI. Nel Corriere si andavano verificando movimenti strani, dopo l'avvento di Tassan Din in una posizione chiave nel giornale. Soprattutto questa nostra attenzione si era focalizzata sulla vicenda Tobagi, una vicenda a prima vista incomprensibile: Tobagi non faceva attività politica, ma attività sindacale all'interno del giornale; notoriamente aveva incontrato difficoltà a svolgere questo tipo di attività; aveva avuto rapporti molto conflittuali con Fiengo, che era il capo della cellula sindacale interna, che contava moltissimo; sembrava essere stato emarginato, pur essendo, per giudizio unanime, un giornalista molto bravo. Tobagi aveva espresso opinioni ben precise sull'involuzione che era avvenuta nella vicenda del Corriere dal punto di vista gestionale. Ne aveva anche parlato con alcuni giornalisti del Corriere, se non ricordo male soprattutto con Da Rold.
  Non c’è dubbio che il gruppo di Gelli all'interno del Corriere aveva realizzato una presenza egemonica. Basti pensare a tutto ciò che succede all'interno del giornale nel momento in cui Gelli mette sotto tutela la nuova proprietà, impegnandosi a venire a capo di una situazione debitoria pesantissima. Il rapporto del «venerabile» con Calvi come lo spiegavamo ? Lo spiegavamo come un rapporto che doveva creare una cintura protettiva intorno a Calvi in un momento molto difficile per il banchiere, in un momento in cui si sentiva abbastanza isolato, con riferimento ai rapporti col sistema politico. Dal punto di vista di Gelli, il Corriere rappresentava non tanto un grande affare di cui occuparsi magari lucrandoci molto – il Corriere non era un grande affare, allora, dal punto di vista finanziario, e in ogni caso di questo si era occupato Ortolani già qualche anno prima – ma uno strumento formidabile per condizionare le vicende della politica.
  Ai tempi del caso Eni-Petromin – di cui la Commissione si è occupata – Gelli chiede un incontro con Craxi. L'incontro viene in un primo tempo rifiutato; Craxi non vedeva di buon occhio le logge – e si esprimeva anche pubblicamente in questi termini – e i cappucci.
  Poi, con l'intervento di Nisticò e del proprietario dell'Hotel Raphael, l'incontro avvenne perché Gelli, che si presentava come l'ingegner Luciani, doveva dare comunicazioni importanti con riferimento a un piano di attacco al Partito Socialista. Si trattava di notizie che potevano avere un qualche fondamento, in un momento in cui ancora la segreteria Craxi non era consolidata.
  Gelli si presenta a Craxi come un personaggio che esercita un grande potere e gli dice: «Lei sa che noi siamo in grado di condizionare non soltanto il Corriere, ma buona parte dalla stampa italiana. Stia attento perché...». E parla dell'affare Eni-Petromin, un'operazione che dovrebbe finanziare – così fa capire – coloro i quali sono ostili a Craxi dentro e fuori il PSI. Alcune di queste notizie le ho acquisite non attraverso il lavoro della Commissione, ma parlando con Craxi di quella vicenda. Gelli inoltre spiega di essere «nelle condizioni di liquidare anche un Presidente della Repubblica attraverso una campagna ben orchestrata dal Corriere della sera». E conclude: «Mi faccia sapere. Siamo a disposizione». Ecco che cos'era il Corriere della sera per Gelli.
  Con riferimento, però, alla vicenda Tobagi, devo dire che questa è stata una pista stranamente non esplorata. Perché Tobagi ? Quali fili aveva toccato e soprattutto perché si è stati, anche sul piano dell'accertamento della verità processuale, assolutamente tiepidi nel verificare fino in fondo quello che era accaduto, con riferimento sia a Marco Barbone, sia alla sua donna, Caterina Rosenzweig ?
  Noi abbiamo fatto, come PSI, una vera e propria campagna sul caso Tobagi. Ugo Pag. 9Intini, Paolo Pillitteri ed io siamo stati denunciati dal giudice Spataro perché chiedevamo approfondimenti, perché eravamo perplessi di fronte alla gestione delle indagini. Chiedevamo giustizia nei confronti di Tobagi. Devo dire che sono ci rimasti molti dubbi.
  Che Gelli contasse all'interno del Corriere è fuori discussione. Gelli, per esempio, per convincere Calvi, che non aveva fama di uomo particolarmente generoso, a imbarcarsi in quella avventura avrà usato qualche argomento, avrà vantato qualche copertura politica. L'idea che mi sono fatto è che non sempre Gelli, che ci teneva a far sapere di sapere, poi, in realtà, fosse nelle condizioni di muovere tutto quello che diceva di poter muovere.
  Me ne sono convinto indagando un po’ sulla questione delle nomine, perché non è pensabile che Gelli potesse gestire tutte quelle nomine in ordine alle quali si vantava di aver avuto un'influenza decisiva. Sembra che da lui siano passati tutti i vertici militari e dei servizi poi coinvolti nello scandalo della P2. Non è, francamente, pensabile che Gelli si presentasse come il capo di una loggia, per quanto importante, che già allora aveva fama di essere una loggia deviata – basti pensare ai nemici che aveva all'interno della massoneria, ai contrasti erano esplosi a causa della sua ascesa all'interno dell'organizzazione – e riuscisse a portare a termine operazioni politicamente così rilevanti.
  In occasione della deposizione di uno degli aspiranti alla nomina, che poi non è riuscito ad avere, è stato spiegato che Gelli si era mosso a suo favore e aveva fornito precise assicurazioni. Da allora ho avuto il preciso sospetto che, per esempio per le nomine dei militari, Gelli conoscesse le terne dei candidati, e che convocasse i tre della terna, così da poter dire, una volta avvenuta la nomina, all'interessato: «La fratellanza l'ha aiutata. Adesso lei agisca di conseguenza». È molto facile conoscere le terne, soprattutto se passano dalla Presidenza del Consiglio. Basta avere l'accesso ai fascicoli per sapere quali sono i curricula inseriti nei dossier. Insomma, assicurava a tutti la sua protezione.
  La linea della fermezza era la linea del Corriere. Per quanto riguarda la posizione di Gelli sulla linea della fermezza, l'idea che mi sono fatto è che Gelli, tutto sommato, non avesse una sua linea politica. Si è scritto tanto sul «piano di rinascita» di Gelli, gli si è attribuita anche una dignità quasi scientifica, ma Gelli non aveva una statura intellettuale tale da poter interloquire su questioni siffatte.
  Diciamo la verità: molte cose che sono scritte nel suo piano, costituivano opinioni correnti anche a livello accademico, sostenute anche da autorevoli studiosi. Ricordo che a metà degli anni Sessanta nella rivista Gli Stati, i migliori costituzionalisti, da La Pergola a Crisafulli, Sandulli e tanti altri, sul piano delle riforme istituzionali dicevano cose non molto diverse da quelle che venivano sostenute nel «piano di rinascita». Certamente costoro non facevano parte della combriccola di Gelli, ma esprimevano posizioni, anche ben argomentate, su ciò che serviva al paese, sull'utilità di un esecutivo stabile, di un esecutivo forte. Gelli attraverso il suo piano mette insieme alcune proposte che vengono suggerite da questo e quello, ma non mi pare fosse in grado di esprimere un pensiero politico alto su questi argomenti.
  Inoltre ritengo che Gelli non avesse una linea politica. L'importante era poter influire sulle decisioni. Del resto, la sua storia personale è quella di un doppiogiochista. Quando ancora non era nella P2, Gelli ha giocato sui due tavoli del fascismo e dell'antifascismo, soprattutto in quel periodo di mezzo, molto difficile, che va dalla fine del fascismo alla Costituente.
  Certamente Gelli non era favorevole ai comunisti al governo, ad una svolta del tipo di quella che Moro voleva realizzare, ma io non credo che la sua idea fosse quella di favorire un particolare orientamento politico. Quando parla della necessità che si formi in Italia uno schieramento di maggioranza largo, esprime l'idea propria di chi vuole una certa pacificazione politica e sociale per poter fare comodamente gli affari propri, giocando Pag. 10con tutti i soggetti politici di volta in volta utili. Era questa la sua idea della buona politica.
  Gelli ha parlato in due occasioni della vicenda Moro, stando alle testimonianze che abbiamo acquisito in Commissione. Una volta, la sera dello stesso giorno del rapimento, quando dice, più o meno: «Il dado è tratto. Adesso vediamo quello che succede».

  GERO GRASSI. È delle 11 della mattina, Hotel Excelsior, Roma.

  SALVO ANDÒ. Alle 11... Può darsi.

  GERO GRASSI. «Il più è fatto».

  SALVO ANDÒ. Lei ha sicuramente una memoria più fresca. Io riferisco vicende di trent'anni fa. Da allora non me ne occupo, non mi occupo soprattutto gli aspetti di dettaglio che riguardano il sequestro.

  GERO GRASSI. Mi scusi, ma all'epoca io andavo ancora a scuola. Ho avuto la possibilità di leggere.

  SALVO ANDÒ. Il problema non è tanto della tempistica. Il sequestro era già avvenuto. Gelli subito dopo il sequestro vuole far capire che in una situazione di vuoto di potere può giocare una partita importante.
  Poi, qualche mese dopo, parlando con due giornalisti, fece un'altra dichiarazione, dicendo: «Il caso Moro è tutt'altro che chiuso. Questo è un affare di Stato». Lo stile è sempre lo stesso, far capire di sapere. Il personaggio è un imbroglione protetto anche da politici che contano. Molte delle cose che fa capire di conoscere e molte delle situazioni che presenta come se dipendessero da una sua capacità di fare, spesso costituiscono delle millanterie. Noi abbiamo avuto modo di ascoltare in sede di audizione alcuni suoi interlocutori, che ci spiegavano anche la mimica di Gelli nel raccontare le cose. Quando riceveva delle telefonate, usava toni allusivi, faceva l'occhiolino, lasciando intendere a chi era presente che ci fosse chissà chi dall'altra parte del filo. Il personaggio era questo.
  Certo, rispetto alla linea della fermezza si è avuta in seno alla Commissione una contrapposizione anche di tipo ideologico; non si trattava di una contrapposizione su questo piano esplicita, perché rimaneva sottotraccia. Eravamo a pochissimi anni dallo svolgimento dei fatti. Non devo dire qui a voi quali fossero i ruoli e le posizioni che le diverse parti politiche assumevano di pronto al caso Moro. Anche se tali posizioni spesso sono state eccessivamente semplificate.
  Credo, per esempio, che non vi fosse una linea della trattativa neanche all'interno del Partito Socialista, anzi Craxi più volte è intervenuto per dire che non si voleva trattare con nessuno. Il problema era quello di verificare se, aprendo un canale di comunicazione con le BR, essendo esse già divise all'interno sulla gestione del sequestro, si sarebbero potuti avere più ampi spazi di manovra per salvare l'ostaggio. Naturalmente, più durava questo dialogo, più difficile diveniva la gestione del prigioniero per le BR.
  Con riferimento alle carte di via Monte Nevoso, la Commissione stragi non ritengo che abbia fatto rilevanti scoperte, ulteriori rispetto a quanto già si conosceva.
  Conoscevo bene Dalla Chiesa. Avevo con lui una certa frequentazione, essendo responsabile dei problemi dello Stato del PSI mi capitava di avere scambi opinione. Mi è capitato di parlare con lui anche della vicenda Moro, delle probabili borse sottratte, le carte che non si trovavano. Non ho l'impressione che nascondesse qualcosa. Si è addirittura detto che alcune carte siano state fatte vedere ad alcuni uomini politici, per esempio Andreotti, e che siano state sottoposte ad una selezione preventiva. Nulla di tutto ciò è emerso in seno alla Commissione stragi, almeno per il tempo in cui io ne sono stato membro.
  Non credo, quindi, che da questo punto di vista vi siano state acquisizioni decisive. Ripeto, il caso Moro era tra gli obiettivi privilegiati che ci assegnavamo, almeno all'inizio dei nostri lavori. Via via non lo è stato più perché non disponevamo di Pag. 11riscontri tali da suffragare gli indizi e le ipotesi di cui ci si occupava. Abbiamo detto sul caso Moro poco nella nostra relazione conclusiva per questa ragione. L'altra nostra preoccupazione era di non sviluppare un'indagine parallela a quella della Commissione Moro, che era partita un anno prima della nostra.
  Se poi vogliamo vedere come si è arrivati alla relazione, credo che siano ingiustificate certe ricostruzioni dietrologiche, che sono state fatte con riferimento alla relazione. Qualcuno, come Teodori, ha spiegato che sembrava che su questi indizi la Commissione dovesse emettere un ruggito, mentre poi c’è stato solo un miagolio. La verità, lo ripeto, è che noi non avevamo alcuna carta in mano per poter dire che probabilmente la P2 o i suoi vertici avessero svolto una qualche funzione, soprattutto con riferimento alla gestione del sequestro. Questo assolutamente non lo si poteva dire.
  Certo, ho dedicato, come molti altri commissari, la necessaria attenzione alla vicenda delle e carte di Moro, delle borse mai rinvenute. E su questo può darsi che Gelli con i suoi terminali sia venuto in possesso di qualcosa. Ho spesso pensato a un'altra vicenda, che può costituire un utile precedente: la vicenda delle carte del SIFAR. Si diceva allora che attraverso Allavena probabilmente quelle carte non fossero andate all'estero, che fossero rimaste in Italia e che fossero state messe a disposizione di chi era interessato ad avere quei dossier. La P2 poteva avere interesse, a mio giudizio, ad acquisire quelle carte. Se esse fossero state messe nella disponibilità di Gelli, egli avrebbe potuto portare a buon fine ricatti che non erano rivolti tanto a condizionare i percorsi della politica, quanto a creargli delle gratitudini e a fare delle operazioni di scambio per poter portare a buon fine i suoi affari.
  Finisco, se ho inteso bene le sue domande, con un'osservazione che riguarda che cosa c'era oltre Gelli. Da questo punto di vista si è giocata una partita difficile all'interno della Commissione P2. All'inizio sembrava che la presidente volesse privilegiare sul piano investigativo la fase precedente il sequestro. Vi sono state, in questo senso, delle interviste e delle dichiarazioni fatte dall'onorevole Anselmi in alcune feste de l'Unità.
  Qual era il ragionamento di Tina Anselmi ? Era più o meno questo: tutto sommato, la P2 e le Brigate Rosse vogliono la stessa cosa; vogliono fermare Moro e, quindi, vi è un'oggettiva convergenza di progetti tra le BR e la P2. E sviluppando questo ragionamento si cercava di capire anche se vi fossero forze esterne all'Italia che vedevano in Moro una minaccia e, quindi, spingevano in direzione della sua eliminazione non solo politica.
  La lettura delle carte legittimava le più diverse interpretazioni in ordine alle ragioni del sequestro e alla scarsa convinzione con cui, secondo taluni, si è cercato di individuare il covo ove era tenuto prigioniero Moro.
  Mi è capitato per ragioni di studio di rileggere non soltanto i comunicati delle BR e le lettere di Moro, ma anche alcuni scritti e discorsi di Moro. Non solo alcune delle difficili monografie prodotte come studioso di diritto penale, soprattutto le prime tre monografie, ma anche il discorso del 1976 al congresso della DC e quello sul caso Lockheed alla Camera nel 1977, nonché gli interventi alla Costituente, in particolare sull'articolo 2 e sulle norme riguardanti la giurisdizione, sulla funzione della pena e della legge naturale. Moro scriveva talvolta in modo oscuro, ma il suo pensiero era complessivamente chiaro, soprattutto quando si trattava di difendere principi fondamentali in materia di libertà. Alla Costituente nei suoi discorsi talvolta si registrano impuntature polemiche in questo campo, non compatibili con l'idea che si ha di Moro come politico assai flessibile. Era particolarmente attento affinché la Costituzione fosse ed apparisse come la fondamentale carta dei diritti, al punto che rivolgendosi politicamente a Togliatti, in seduta plenaria, ebbe a dire: «O la Costituzione è questo, e quindi è in questo senso antifascista, o non ha ragion d'essere, come costruzione del diritto». Questa era la cultura di Moro.Pag. 12
  Da questo punto di vista nelle lettere Moro non dice assolutamente nulla di nuovo e di diverso rispetto a un pensiero costante in materia di garanzie. Del resto, credo che se noi consideriamo i primi libri di Moro, quelli pubblicati nel 1939 e nel 1943, e poi Moro costituente, vediamo che Moro da afascista diventa antifascista.
  Su questo terreno Moro diventa di un rigore e di un'intransigenza assoluti, al punto da porsi all'opposizione rispetto soluzioni compromissorie che mettessero in ombra il carattere antifascista della Costituzione magari per venire incontro, sul terreno delle libertà fondamentali, a due esigenze diverse, la tutela della sicurezza collettiva e la tutela delle libertà individuali. Moro spiega che garantire diritti umani in costituzione significa condannare il fascismo, essere antifascisti, considerato che in questo campo il fascismo è stato negatore delle libertà.
  Da questo punto di vista, a proposito delle lettere, che hanno già dato luogo a tante polemiche, faremmo torto a Moro e alle sue straordinarie qualità, se gli facessimo dire cose diametralmente opposte a quelle che lui pensava e aveva scritto.
  Mi dica se devo integrare.

  PRESIDENTE. Grazie. Do ora la parola ai colleghi che desiderano porre domande o formulare osservazioni.

  PAOLO BOLOGNESI. Il Partito Socialista, a un certo punto, almeno dagli scritti e da quello che emerge, ha avuto dei momenti in cui propendeva per una trattativa, o per qualcosa del genere. Vorrei sapere se lei ne è a conoscenza, se ha partecipato alla trattativa e quali erano i canali. Vorrei sapere quali erano, quanto meno per sommi capi, se lo sa, non dico le persone, ma le direzioni in cui si è mossa la dirigenza socialista per cercare di aprire quella trattativa.

  SALVO ANDÒ. Sono stato eletto parlamentare nel 1979 e sono entrato in segreteria, allora si chiamava esecutivo, nel 1981, al congresso di Palermo. Pertanto, non facevo parte del gruppo dirigente del PSI all'epoca del sequestro.
  Certo, sono stato chiamato a guidare il dipartimento dei problemi dello Stato, ho cercato di ricostruire anche vicende che erano accadute negli anni precedenti, parlandone con il mio predecessore, l'onorevole Balzamo, e parlandone anche con Craxi.
  Ricordo che ho provato grande sorpresa nel non avere rinvenuto un solo documento presso gli uffici del partito che riguardasse la vicenda Moro nel PSI. E invece si trattava di un fatto spiegabile. Non disponevamo di grandi strutture. Non ve ne erano state prima di Craxi – forse solo Mancini aveva curato qualcosa in questo senso – e non se ne erano create neanche dopo l'avvento di Craxi, il quale non aveva dimestichezza con questo tipo di apparati, vertici militari, servizi, strutture che si occupano dell'ordine pubblico. Non si interessava di trame, di dossier, di tutto un mondo sotterraneo che vive di queste cose, e che spesso è anche contiguo al mondo politico. Spiegava che tutto ciò non ha nulla a che fare col primato della politica e che gli attori politici devono occuparsi dei processi politici reali, non della spazzatura che spesso li intossica. Basti pensare che da Presidente del Consiglio non ha avuto un sottosegretario delegato ai servizi; era convinto che molte delle informative che gli arrivavano fossero di scarsa o scarsissima rilevanza. Non credo fosse nelle condizioni, in occasione del sequestro, di poter agire autonomamente, di poter disporre di uomini fidati per acquisire notizie in proprio.
  Sulla questione della liberazione di Moro il suo comportamento è stato assolutamente lineare, ripeteva sempre la stessa idea: «Gli Stati forti trattano. Gli Stati deboli si arroccano». Citava alcuni episodi relativi a sequestri avvenuti in altri paesi e diceva che certamente i tedeschi non avevano uno Stato debole, ma erano riusciti in casi analoghi a ottenere risultati salvando l'ostaggio senza umiliare lo Stato.
  Era convinto di un fatto: non c'era, di fronte al rischio concreto dell'uccisione di Moro, un problema di sicurezza dello Pag. 13Stato, ossia di sconfitta dello Stato. Il problema era salvare Moro, e ciò non significava condannare lo Stato democratico a soccombere. È chiaro che bisognava fare tutto quello che si poteva fare evitando di dare alle BR un riconoscimento attraverso la trattativa, attribuendo ad esse la qualifica di soggetto politico interlocutore dello Stato. Tuttavia, si trattava di compiere azioni che consentissero di allungare i tempi, facendo piccole concessioni, non una trattativa, e manifestando la disponibilità concreta a salvare l'ostaggio. Quando Craxi diceva: «La nostra non è un'iniziativa umanitaria, ma un'iniziativa rispettosa dei valori della Costituzione», esprimeva un concetto tipicamente moroteo. La sua idea del primato della persona umana era la stessa di Moro.
  Naturalmente, ciò che sorprende, con riferimento a tutta questa vicenda del «che fare», è la posizione di attendismo che alcune forze politiche, o alcune parti di forze politiche, avevano assunto di fronte a una vicenda rispetto alla quale si sapeva che una soluzione Sossi nel caso di Moro era impraticabile. Era impossibile. I canali utilizzati da Signorile e da Vassalli portavano a ritenere che comunque non si sarebbe avuta una liberazione incondizionata senza passare attraverso la concessione di qualcosa.
  Naturalmente, in merito a questo qualcosa, occorreva vedere quale fosse l'onerosità politica di ciò che si sarebbe dovuto pagare. Si trattava di fare qualche intervento sulle carceri, di renderle più vivibili ? Si trattava di prendere in considerazione la possibilità di un atto di clemenza nei confronti della Besuschio o di Buonoconto, i quali non si erano macchiati di fatti di sangue ? Non si è arrivati al punto di poter verificare in concreto la fattibilità di queste iniziative. Devo dire che da questo punto di vista Andreotti era molto duro. La linea del Governo era molto chiusa, molto dura.
  Aveva ragione Andreotti quando spiegava che non si poteva offendere la memoria delle vittime. Le famiglie delle vittime si sarebbero date fuoco se si fosse fatta una trattativa che poteva portare alla liberazione di alcuni brigatisti. Non si poteva neanche mandare un segnale devastante alle forze dell'ordine, del tipo: «Voi prendete i brigatisti, poi noi trattiamo e li liberiamo».
  Tuttavia, sulla questione della grazia c'era una posizione piuttosto interessante, di piena disponibilità, da parte del Presidente Leone. Fanfani aveva spiegato a Craxi che Leone era con la penna in mano per firmare un eventuale atto di clemenza. Era Andreotti a porre tutta una serie di problemi, soprattutto sotto il profilo giuridico, quando si trattava di entrare nel merito delle soluzioni proposte. Opponeva questioni giuridiche, ma talvolta veri e propri cavilli, quale quello di valutare lo stato dei processi. Di fronte a una situazione così drammatica, io penso che su questo terreno forse qualche forzatura alla procedura penale si sarebbe anche potuta fare.
  L'unica cosa che non si poteva fare, per esempio, era passare da una riunione all'altra non assumendo nessuna iniziativa conclusiva. Mi pare che l'ultima riunione della DC si sia svolta tre giorni prima del ritrovamento.

  PRESIDENTE. Si sarebbe dovuta riunire quella mattina.

  SALVO ANDÒ. Sì, ma si era perduto troppo tempo. Se ricordo bene, c'era già stata una riunione quattro giorni prima, in cui si era detto di aggiornarsi, di riunirsi di lì a qualche giorno. Era chiaro che ormai si era in una situazione nella quale la vita di Moro era appesa a un filo, occorreva concedere qualcosa che mettesse in difficoltà la parte trattativista delle BR. Non si poteva rinviare di giorni perché andava deciso nel giro di poche ore.
  Devo dire che, tra l'altro, si erano mossi alcuni dirigenti della DC, come Fanfani e Leone, nel senso sollecitato dai socialisti. Vassalli, il quale era particolarmente legato a Moro anche per ragioni accademiche – era stato suo commissario nel concorso a cattedra e poi per il conseguimento dell'ordinariato – voleva che si desse un segnale politico: «Dateci un inputPag. 14politico, poi noi lo costruiamo dal punto di vista tecnico. Non è un problema insuperabile». Per la conoscenza che tutti abbiamo di Vassalli giurista, egli era sicuramente in grado di costruire un percorso siffatto.

  GERO GRASSI. Io vorrei chiederle se è a conoscenza della possibilità che Walter Tobagi sia stato intercettato dalle BR per gestire nel cosiddetto carcere del popolo un'intervista ad Aldo Moro.

  SALVO ANDÒ. Sì. So che Tobagi ha rifiutato.

  GERO GRASSI. Sa che ha rifiutato, perfetto. Lei ha conoscenza che la sua morte possa essere ricongiunta proprio a questo rifiuto ?

  SALVO ANDÒ. No, non credo proprio. Io ho parlato a lungo con Craxi di ciò, diceva di essere stato negli ultimi tempi preoccupato per l'isolamento che si era creato nel Corriere della sera intorno a Tobagi. Era inviso non solo ai terroristi ma anche all’establishment del giornale.

  GERO GRASSI. Io non le sto chiedendo se crede. Le sto chiedendo se sa.

  SALVO ANDÒ. Ciò che so è che con la sua azione Walter Tobagi metteva a rischio alcuni equilibri all'interno del Corriere.

  GERO GRASSI. Cerco di essere più preciso. Quello che dice lei è vero. La battaglia di Tobagi all'interno del Corriere toccava direttamente Gelli tramite Tassan Din, Ortolani e Di Bella...

  SALVO ANDÒ. E Fiengo.

  GERO GRASSI. ...che erano legati a Gelli.
  È anche vero che Tobagi era stato invitato dalle Brigate Rosse a fare l'intervista. Giustamente si rifiutò. Tenga presente che nel periodo di cui stiamo parlando Marco Barbone voleva entrare nelle BR, che gli commissionarono un delitto eccellente.

  SALVO ANDÒ. Una prova di «seria» militanza.

  GERO GRASSI. Quello di Tobagi, che nel frattempo aveva subito non solo l'ostracismo del Corriere, ma anche la lotta interna ai Carabinieri di Milano relativamente alla P2.

  SALVO ANDÒ. All'interno della Pastrengo.

  GERO GRASSI. Esatto. Tobagi era seguito e, tutto sommato, protetto dal duo Covolo-Arlati. Quando Arlati, che era stato l'esecutore di via Monte Nevoso nel 1978, fu costretto a dimettersi dai Carabinieri, gli subentrò Bonaventura.

  SALVO ANDÒ. Quello che ha fatto le fotocopie.

  GERO GRASSI. Quello che avrebbe fatto le fotocopie. A quel punto, Tobagi non ebbe più la protezione dei Carabinieri, perché Bonaventura notoriamente flirtava con l'ala dei Carabinieri che l'onorevole Anselmi definisce non buona. A quel punto Tobagi viene ucciso. Tenga presente che l'indicazione a Barbone di uccidere Tobagi arriva dal filone classico e storico delle Brigate Rosse, per cui, secondo una disciplina... L'hanno scritto, quindi è pubblico. Secondo i Carabinieri che lo proteggevano, a un certo punto il Corriere gli viene meno, Bonaventura gli viene meno, Tobagi resta solo e, come spesso succede...

  SALVO ANDÒ. Ho capito.

  GERO GRASSI. Non so se sono stato sufficientemente chiaro.

  SALVO ANDÒ. Sì, onorevole, ma i movimenti di Tobagi venivano registrati dall'interno del Corriere, non dalle BR. C'era qualcuno dentro il Corriere che voleva dargli una lezione, o addirittura far Pag. 15fuori Tobagi. Conosceva l'orario di uscita, le abitudini familiari, troppe cose per non essere una fonte interna.
  Inoltre, voglio dire una cosa: Craxi era molto legato a Tobagi. Gli voleva proprio bene e aveva un ottimo rapporto con Dalla Chiesa. Di tutte queste operazioni del Corriere che mettevano a rischio Tobagi, però, non credo che fosse stato informato nei particolari. Mi riferisco ai Carabinieri, a questa sua pista, che mi pare interessante. Credo che, su questo versante, se Dalla Chiesa fosse venuto a conoscenza di trame, Craxi sarebbe stato tempestivamente informato.
  In occasione della campagna di stampa fatta dall’Avanti! per far luce sul delitto Tobagi, sono venute fuori notizie abbastanza inquietanti in ordine alle protezioni di cui godeva Marco Barbone. C'erano settori della buona società che simpatizzavano per quei giovani rivoluzionari. Craxi più volte ha parlato di certi salotti buoni milanesi che manifestavano simpatia verso quei bravi ragazzi che facevano i terroristi o erano ad essi contigui. Diceva che in questi salotti quei ragazzi frequentavano persone che contano, anche nel mondo dell'informazione, e che venivano insomma coccolati. Erano gli stessi che avevano costruito una sfera protettiva che era addirittura arrivata fino ai palazzi di giustizia.
  Più di questo non so.

  PRESIDENTE. Onorevole Grassi, le do la parola, ma evitiamo di interpretare.

  GERO GRASSI. Non faccio alcuna interpretazione. Vorrei fornire io un'informazione all'onorevole Andò. I palazzi di giustizia cui si riferiva Craxi, con prove, sono quelli di Genova e di Firenze.

  PRESIDENTE. Ringraziamo l'onorevole Andò della sua audizione e ci aggiorniamo al prossimo martedì.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.15.