XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro

Resoconto stenografico



Seduta n. 35 di Mercoledì 6 maggio 2015

INDICE

Comunicazioni del presidente:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 

Sulla pubblicità dei lavori:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 6 

Audizione del dottor Gian Carlo Caselli:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 6 
Caselli Gian Carlo  ... 8 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 
Caselli Gian Carlo  ... 12 
Corsini Paolo  ... 17 
Caselli Gian Carlo  ... 17 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 18 
Caselli Gian Carlo  ... 18 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 18 
Caselli Gian Carlo  ... 18 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 18 
Caselli Gian Carlo  ... 18 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 18 
Caselli Gian Carlo  ... 18 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 18 
Caselli Gian Carlo  ... 18 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 19 
Caselli Gian Carlo  ... 19 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21 
Caselli Gian Carlo  ... 21 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21 
Caselli Gian Carlo  ... 21 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21 
Caselli Gian Carlo  ... 21 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21 
Caselli Gian Carlo  ... 21 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 22 
Caselli Gian Carlo  ... 22 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 23 
Caselli Gian Carlo  ... 23 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 23 
Caselli Gian Carlo  ... 23 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 23 
Caselli Gian Carlo  ... 23 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 23 
Caselli Gian Carlo  ... 23 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 23 
Caselli Gian Carlo  ... 23 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 23 
Caselli Gian Carlo  ... 24 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 24 
Caselli Gian Carlo  ... 24 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 24 
Caselli Gian Carlo  ... 24 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 24 
Caselli Gian Carlo  ... 24 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 24 
Caselli Gian Carlo  ... 24 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 24 
Caselli Gian Carlo  ... 24 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 24 
Caselli Gian Carlo  ... 24 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 25 
Caselli Gian Carlo  ... 25 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 25 
Caselli Gian Carlo  ... 25 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 25 
Caselli Gian Carlo  ... 25 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 25 
Caselli Gian Carlo  ... 25 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 25 
Caselli Gian Carlo  ... 25 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 25 
Lavagno Fabio (PD)  ... 26 
Caselli Gian Carlo  ... 26 
Lavagno Fabio (PD)  ... 27 
Caselli Gian Carlo  ... 27 
Lavagno Fabio (PD)  ... 27 
Caselli Gian Carlo  ... 27 
Lavagno Fabio (PD)  ... 27 
Caselli Gian Carlo  ... 27 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 27 
Cervellini Massimo  ... 27 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 27 
Cervellini Massimo  ... 27 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 27 
Cervellini Massimo  ... 27 
Caselli Gian Carlo  ... 27 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 28 
Caselli Gian Carlo  ... 28 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 28 
Caselli Gian Carlo  ... 28 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 28 
Caselli Gian Carlo  ... 28 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 28 
Caselli Gian Carlo  ... 28 
Cervellini Massimo  ... 28 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 28 
Cervellini Massimo  ... 28 
Caselli Gian Carlo  ... 28 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 28 
Caselli Gian Carlo  ... 28 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 29 
Caselli Gian Carlo  ... 29 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 29 
Caselli Gian Carlo  ... 29 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 30

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIUSEPPE FIORONI

  La seduta comincia alle 14.30.

Comunicazioni del presidente.

  PRESIDENTE. Comunico che, con nota pervenuta il 23 aprile, il dottor Allegrini ha depositato una relazione riservata concernente l'esito delle ricerche sinora effettuate presso l'Archivio centrale dello Stato. Nella relazione si segnala, tra l'altro, che in base ai documenti consultati, «all'interno delle carte del Gabinetto» del Ministero dell'interno «esisteva un fascicolo 11001/145 con intestazione “Aldo Moro” che, pur elencato sia per il quinquennio 1976-1980 che per il successivo 1981-1985, non è mai giunto in Archivio centrale». In quel fascicolo potrebbe essere stato archiviato anche il noto appunto originariamente classificato «segretissimo» riguardante la provenienza da un deposito del Nord del munizionamento rinvenuto in via Fani. Nella citata relazione si sottolinea altresì che, benché vi siano agli atti della Commissione stragi presieduta dal senatore Pellegrino numerosi documenti riconducibili al citato fascicolo, non si può avere la certezza che sia stato trasmesso alla suddetta Commissione l'intero fascicolo e «non è possibile accertare l'integrità del fascicolo “Aldo Moro” che doveva essere versato in originale all'Archivio centrale dello Stato».
  Ciò premesso, nel corso dell'odierna riunione, l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha convenuto di inviare una richiesta di chiarimenti al Ministro dell'interno e all'Archivio centrale dello Stato, nonché per conoscenza alla Presidenza del Consiglio.
  Il 30 aprile è pervenuta una nota – di libera consultazione – dell'avvocato Bonifacio Giudiceandrea, legale di Giovanni Senzani. Nella nota si comunica, tra l'altro, la decisione di Senzani «di chiarire formalmente in via istituzionale (e dunque alla Commissione ) di essere totalmente estraneo alla vicenda del rapimento e della morte dell'on. Aldo Moro». L'avvocato Giudiceandrea osserva, inoltre, che qualsiasi notizia che attribuisca a Senzani «un ruolo nella vicenda non solo è falsa ma contrasta con gli esiti – conosciuti da tutti – dei cinque o sei processi istruiti dalla autorità giudiziaria romana (senza considerare che all'epoca il professor Senzani aveva consapevolmente scelto di non difendersi tecnicamente nei processi e che dunque non tutte le condanne da lui subite sono il frutto di un reale contraddittorio fra accusa e difesa)».
  Nella nota si afferma, altresì, che «tutte le altre illazioni sui contatti fra il professor Senzani e i servizi segreti di ogni risma sono non solo calunniose e frutto delle estemporanee rivelazioni di qualche pentito, ma contrastano con il trattamento – non certo di favore – subito dal Senzani negli anni della sua detenzione». Il legale di Senzani sottolinea, quindi, «la vera e propria efficacia calunniosa della escalation di notizie false, molte delle quali provengono dai membri – protetti dalla immunità [...] – della Commissione».
  La nota si conclude con la richiesta di portare le suddette considerazioni a conoscenza dei membri della Commissione. A tal fine, copia della suddetta lettera sarà inviata a tutti i componenti della Commissione.
  Sulla base delle prime risultanze di alcuni accertamenti in corso di perfezionamento da parte della dottoressa Giammaria Pag. 4e del colonnello Pinnelli, nel corso dell'odierna riunione, l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha altresì convenuto di richiedere alcuni chiarimenti al Ministero della giustizia e di affidare alla dottoressa Giammaria, con l'ausilio degli organi di polizia giudiziaria e delle altre autorità competenti, il compito di compiere ulteriori approfondimenti istruttori, anche mediante acquisizione di informazioni da parte di persone informate dei fatti.
  Nella medesima riunione si è altresì concordato di calendarizzare nelle prossime settimane le audizioni di alcuni studiosi che hanno effettuato ricerche dedicate al caso Moro: Valdimiro Satta, Marco Clementi, Gianremo Armeni, Stefania Limiti, Sandro Provvisionato e Pino Casamassima.
  Su richiesta degli interessati, si è invece deciso di non procedere, almeno per il momento, alle audizioni di Giovanni Galloni e di Nicolò Amato.
  Ricordo, inoltre, che – come già comunicato lo scorso 15 aprile – sono stati acquisiti presso gli uffici giudiziari di Roma alcuni reperti e atti processuali; essi saranno trasmessi alla Direzione centrale della polizia di prevenzione-Servizio antiterrorismo, affinché proceda a taluni accertamenti.
  L'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha inoltre deliberato di avvalersi della collaborazione, a titolo gratuito e a tempo parziale, di tre sottufficiali dei Carabinieri: il luogotenente Giuseppe Boschieri, il maresciallo Gaetano Lamberti e il maresciallo Mario Lauri.
  Comunico, quindi, che è stato affidato alla dottoressa Tintisona l'incarico di esperire, con l'ausilio delle competenti strutture della polizia, alcuni accertamenti istruttori.
  Nel quadro delle verifiche riguardanti i tentativi di trattativa per la liberazione di Moro e l'ipotizzata intenzione del Presidente Leone di concedere la grazia alla brigatista Paola Besuschio, la dottoressa Picardi è stata incaricata di esaminare, presso l'Archivio storico del Senato, la documentazione del fondo «Giovanni Leone», limitatamente al quadriennio 1977-1980.
  Sempre nel corso della odierna riunione, l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha altresì convenuto di affidare tre incarichi alla polizia scientifica, lo svolgimento di alcuni accertamenti istruttori al colonnello Pinnelli e talune attività investigative allo S.C.I.C.O. della Guardia di finanza.
  L'avv. Nunzio Raimondi e il maresciallo capo Danilo Pinna hanno prestato, rispettivamente il 23 aprile e il 6 maggio, il prescritto giuramento e hanno quindi formalmente assunto l'incarico di collaboratori della Commissione. Tali incarichi saranno svolti secondo gli indirizzi già comunicati all'Ufficio di presidenza.
  La dottoressa Picardi ha trasmesso il 23 aprile una relazione riservata nella quale segnala l'interesse per l'inchiesta parlamentare di alcuni fascicoli processuali custoditi presso gli uffici giudiziari di Firenze. Al fine di consentire la visione e l'eventuale acquisizione della suddetta documentazione, l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha autorizzato lo svolgimento una missione a Firenze e a Prato del colonnello Occhipinti, per la durata massima di due giorni.
  Sono altresì pervenute alcune relazioni da parte di collaboratori della Commissione. In particolare:
   il dottor Donadio ha presentato il 22 aprile una relazione – di libera consultazione – concernente tematiche di interesse per l'audizione del senatore Manca; il 28 aprile due relazioni segrete contenenti alcune proposte operative, alle quali si è convenuto di dare seguito; il 30 aprile una ulteriore relazione segreta;
   la dottoressa Picardi ha depositato il 23 aprile un'audiocassetta, rinvenuta presso gli uffici giudiziari di Roma, che sarà trasmessa al RIS di Roma quale possibile termine di raffronto ai fini degli accertamenti in corso sulle altre audiocassette già acquisite dalla Commissione; il 27 aprile copia di un verbale segreto di interrogatorio, per rogatoria, acquisito Pag. 5presso la Procura della Repubblica di Roma;
   il 29 aprile il dottor Siddi ha depositato il verbale delle dichiarazioni rese da persona informata dei fatti;
   la dottoressa Giammaria ha depositato il 22 aprile una relazione concernente le dichiarazioni rese da alcune persone informate dei fatti presenti a via Fani il giorno della strage, una nota relativa all'acquisizione di documentazione presso la Corte di assise di Roma, le trascrizioni, a cura del RIS di Roma, delle registrazioni contenute nelle audiocassette rinvenute presso l'ufficio corpi di reato del Tribunale di Roma; tutta la suddetta documentazione, riguardando indagini in corso, è secretata;
   il colonnello Pinnelli ha depositato, con nota secretata del 23 aprile, la lettera con cui il comando della Legione Lazio dell'Arma dei carabinieri risponde ad una richiesta di informazioni della Commissione; con successive note secretate pervenute il 29 aprile e il 4 maggio, il foglio matricolare di due sottufficiali dell'Arma dei carabinieri; con nota del 5 maggio, il verbale delle sommarie informazioni acquisite, insieme alla dottoressa Giammaria da una persona informata dei fatti;
   sullo stesso argomento, il 5 e il 6 maggio la dottoressa Giammaria ha presentato due note, con annessa documentazione, entrambe secretate;
   il generale Paolo Scriccia ha depositato il 27 aprile documentazione di libera consultazione concernente il generale Nicolò Bozzo;
   sempre con riferimento al generale Bozzo, con nota riservata pervenuta il 30 aprile, il colonnello Pinnelli ha depositato una lettera del Comando generale dell'Arma dei carabinieri;
   il tenente colonnello Giraudo ha presentato il 5 maggio una relazione riservata concernente talune notizie riportate dalla stampa con riferimento alla perizia autoptica eseguita sul corpo di Aldo Moro e contenente alcune proposte operative, alle quali si è convenuto di dare seguito;
   il colonnello Occhipinti ha depositato, in data 23 e 28 aprile, documentazione riservata riguardante alcuni accertamenti condotti;
   con nota del 22 aprile l'onorevole Claudio Martelli ha fatto pervenire, come convenuto nel corso della sua audizione del 15 aprile, il capitolo del suo libro «Ricordati di vivere» riguardante Aldo Moro, che sarà inviato a tutti i componenti della Commissione;
   facendo seguito a quanto concordato il 18 marzo nel corso dell'audizione del Viceministro Luigi Casero, con nota pervenuta il 30 aprile il generale Edoardo Valente, vicecapo di gabinetto del Ministero dell'economia e delle finanze, ha comunicato il completamento del versamento degli atti riguardanti il caso Moro agli Archivi di Stato e ha trasmesso l'elenco degli atti versati; nella nota si fa presente che, entro la fine di maggio, sarà trasmessa alla Commissione anche copia digitale di tutti gli atti versati;
   il generale Nunzio Antonio Ferla, direttore della Direzione investigativa antimafia, ha trasmesso, il 23 aprile, una relazione riservata contenente alcune informazioni richieste dalla Commissione;
   il comandante del RIS di Roma, colonnello Ripani, con nota pervenuta il 24 aprile, ha informato la Commissione che – ove nulla osti e previa verifica della ritualità degli avvisi che, nel rispetto delle garanzie previste dal codice di procedura penale, devono essere inviati alla Procura della Repubblica di Roma e alle parti offese – il 19 maggio avranno inizio alcuni accertamenti tecnici non ripetibili; al riguardo, il colonnello Pinnelli, con nota pervenuta il 4 maggio, ha depositato gli avvisi notificati alla Procura della Repubblica di Roma e alle parti offese;
   il 27 aprile e il 5 maggio sono pervenuti due esposti;Pag. 6
   con nota pervenuta il 30 aprile, il dottor Giovanni Salvi ha comunicato che risponderà ai quesiti scritti formulati dalla Commissione a seguito della sua audizione non appena avrà potuto consultare alcuni atti presso la Procura di Roma;
   il 4 maggio è pervenuta la nota con cui il capo di gabinetto del Ministero della difesa comunica l'autorizzazione della collaborazione, con incarico a titolo gratuito e a tempo parziale, del maresciallo capo dei Carabinieri Danilo Pinna;
   il 5 maggio sono pervenute due note della Direzione centrale della polizia di prevenzione: la prima, classificata «riservata», concerne l'organigramma della DIGOS di Roma nel 1978, mentre la seconda, secretata, alcune informazioni riguardanti un brigatista.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.

Audizione del dottor Gian Carlo Caselli.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Gian Carlo Caselli, che ringraziamo per la cortese disponibilità con cui ha accolto l'invito a intervenire oggi in Commissione.
  Con l'odierna audizione la Commissione amplia lo spettro dei propri accertamenti istruttori andando ad approfondire i risultati di inchieste giudiziarie che, pur non riguardando direttamente il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro, presentano comunque profili di obiettivo rilievo e interesse ai fini della nostra inchiesta.
  Com’è noto, nel corso della sua attività il dottor Caselli non si è, infatti, occupato del caso Moro, ma ha svolto a Torino per circa un decennio, a partire dalla metà degli anni Settanta, estese indagini riguardanti esponenti di primo piano delle Brigate Rosse.
  È, dunque, d'interesse per la Commissione conoscere gli elementi raccolti nel corso di questa sua esperienza che possono essere utili per l'inchiesta parlamentare da un duplice punto di vista, in primo luogo perché ci possono aiutare a completare il profilo di singoli aderenti alle Brigate Rosse che sono stati poi coinvolti nel sequestro e nell'assassinio dell'onorevole Moro e, in secondo luogo, perché consentono di delineare con maggiore precisione il quadro complessivo dell'organizzazione terroristica che compì la strage di via Fani.
  Ricordo, inoltre, che il dottor Caselli ha ricoperto l'incarico di procuratore capo dalla Repubblica di Torino dal 2008 e che, in tale veste, ha avuto modo di seguire anche le prime indagini che vennero condotte con riferimento alla nota lettera anonima recapitata al quotidiano La Stampa, nella quale si prospettava un coinvolgimento di appartenenti a organismi di intelligence nella strage di via Fani, oggi oggetto di ulteriore approfondimento da parte della Procura generale della Corte d'appello di Roma.
  A tale proposito la Commissione ha già svolto le audizioni dell'allora procuratore presso la Corte d'appello di Roma, dottor Luigi Ciampoli, e di Enrico Rossi, già ispettore della polizia di Stato, che all'epoca curò i primi accertamenti. Sarebbe estremamente utile acquisire maggiori dettagli su come venne valutata dalla Procura di Torino la suddetta lettera anonima e sugli accertamenti che la stessa Procura ritenne di condurre per il tramite del procuratore aggiunto, dottor Sandro Ausiello.
  Mi permetto anche di sottoporre al nostro ospite alcuni quesiti che credo possano essere utili, per poi dare la parola al dottor Caselli e integrarli con tutti i vostri.
  L'8 settembre 1974, nell'ambito delle indagini coordinate dal pubblico ministero Bruno Caccia e da lei in qualità di giudici istruttori, i Carabinieri del generale Dalla Pag. 7Chiesa arrestarono a Pinerolo due capi storici delle Brigate Rosse, Renato Curcio e Alberto Franceschini. Secondo quanto lei ha dichiarato nel corso di un'intervista a La Repubblica il 6 settembre 2014, è certo che nelle ore precedenti le operazioni di Pinerolo uno sconosciuto chiamò il medico Enrico Levati, l'uomo che aveva messo in contatto Silvano Girotto, detto Frate Mitra, con i capi delle BR. La telefonata diceva: «Curcio sarà arrestato domenica a Pinerolo». Levati chiamò Moretti, ma nessuno dei due riuscì ad avvisare Curcio. Furono condotte indagini per identificare l'autore della telefonata ?
  Nella sua audizione del 10 febbraio 2000 dinanzi alla Commissione stragi, presieduta dal senatore Pellegrino, Silvano Girotto confermò la telefonata anonima a Levati, lasciando tuttavia intendere, sulla base di alcune confidenze ricevute dal capitano dei Carabinieri Pignero, che aveva curato la sua infiltrazione nelle BR, che essa potesse provenire da ambienti vicini al Ministero dell'interno.
  Leggo uno stralcio di quell'audizione che mi sembra rilevante: «Presidente: “Levati chi avverte ?”
  Girotto:  “Gli chiesi che cosa aveva fatto e lui mi rispose che aveva avvisato subito i compagni, ma non mi dice quali compagni. Il capitano Pignero mi aveva detto che i nominativi dei carabinieri che facevano parte di quel nucleo non erano conosciuti neanche all'interno dell'Arma, almeno così mi disse. Gli stessi carabinieri che avevano partecipato all'operazione dell'arresto, il mattino dell'8 settembre a Pinerolo, avevano saputo dell'obiettivo dell'operazione poche ore prima di eseguirla. Un contesto del genere, che addirittura il giorno prima fossero stati avvisati, mi ha turbato e ho visto che ha turbato anche il capitano. Disse che poi avrebbe verificato, ma con mio stupore, nell'incontro seguente con il capitano, quando ripresi l'argomento (perché mi aspettavo che fosse diventato un argomento di primo piano da chiarire), gli chiesi se stavano indagando per quella fuga di notizie, perché era una cosa grave. Ricordo che ho ricevuto una risposta vaga, ha lasciato cadere il discorso, non ha voluto approfondire l'argomento e mi ha detto che stavano vedendo”.
  Presidente: “Il Ministero dell'interno era stato informato ? Lei lo ha scritto”.
  Girotto: “Lui disse che era stato informato qualcuno al Ministero dell'interno, che lo sapevano lui, il generale Dalla Chiesa e qualcuno al Ministero dell'interno, erano pochissimi a saperlo. Poi tutto questo non viene più ripetuto”.
  Presidente: “Questo sembrerebbe presupporre un doppio tradimento: da un lato, gli apparati di sicurezza informano le Brigate Rosse dell'agguato cui Curcio poteva sfuggire, dall'altro chi riceve un indizio all'interno delle Brigate Rosse non informa Curcio. Nel libro lei nota che sarebbe bastata una telefonata per dire che a Pinerolo c'era una bomba e la zona si sarebbe riempita delle forze dell'ordine, Curcio avrebbe fiutato la trappola e l'avrebbe schivata”.
  Girotto: “Certamente”».
  Cosa le risulta in proposito ? Le chiedo un commento.
  Aggiungo ancora qualche altra cosa. Nel libro Mara, Renato e io. Storia dei fondatori delle BR, Alberto Franceschini racconta che, quando fu arrestato, gli vennero da lei mostrate alcune foto che raffiguravano gli incontri di Girotto con Curcio, accompagnato dallo stesso Franceschini, e con Moretti. Osserva sul punto Franceschini: «Era facilmente riconoscibile anche Mario Moretti e lui – il dottor Caselli – mi chiese: “Conosce questo ?”, indicando con l'indice la sua faccia. Io risposi che non sapevo chi fosse e Caselli mi disse: “Provi a chiedersi perché hanno deciso di arrestarvi quando c'era lei insieme a Curcio. Lei non è l'unico che si è incontrato con Girotto. Anche quello della foto si è incontrato con lui. Anzi, lei con Girotto non ci ha praticamente mai parlato. L'ha visto a distanza”. Infatti, quando Renato incontrò Girotto, prima del nostro arresto, io aspettai in macchina, ma non capivo cosa volesse dirmi Caselli. Forse voleva insinuare che Mario era protetto dai Carabinieri. La sua frase mi mise a disagio, ma non volevo farmi vedere in Pag. 8difficoltà, così gli risposi che probabilmente i Carabinieri avevano arrestato me perché gli stavo più simpatico».
  Conferma l'episodio ricordato da Franceschini ed era questo il senso della sua preoccupazione ?
  In relazione al sequestro di Aldo Moro, il quotidiano l'Unità, il 19 marzo 1978, pubblica un articolo dal titolo Fotografati i killer dopo la strage, a firma di tal Sergio Criscuoli. Nell'articolo si fa esplicito riferimento a una pista investigativa, ossia al noto rullino. Lo dico per i membri della Commissione. «Passiamo, dunque, alla seconda novità: la foto scattata pochi istanti dopo la strage. Il rullino è stato impressionato da un inquilino di un palazzo che si affaccia in via Mario Fani, il quale l'ha consegnato ai magistrati. Si è appreso che è stato fatto un ingrandimento delle dimensioni di una parete e, in questo modo, si è riusciti a distinguere i particolari. Con un pennarello sono stati cerchiati numerosi volti, poi si è cercato di identificarli uno per uno. Oltre ai passanti e ai soccorritori sono stati notati alcuni volti che corrisponderebbero alle foto segnaletiche di noti presunti brigatisti del Nord. Alle indagini si è affiancato per questo il giudice torinese Marciante, che segue l'inchiesta sull'assassinio del giornalista Casalegno. Il procuratore è giunto per questo a Roma».
  È mai venuto a conoscenza di questo episodio o di connessioni tra il caso Moro e l'omicidio Casalegno ?
  Nell'audizione citata del 10 febbraio 2000, Silvano Girotto manifesta sorpresa per la capacità operativa dimostrata dalle BR a via Fani rispetto alla scarsa preparazione militare che aveva constatato durante il periodo delle sue infiltrazioni. «Manca: “Nel 1974 quale era l'addestramento operativo militare delle Brigate Rosse ?”.
  Girotto: “Scarsissimo era non soltanto l'aspetto militare, minore, ma proprio l'impostazione, la gestione di un'organizzazione clandestina”.
  Presidente: “A queste domande lei ha già risposto dicendo che la preparazione professionale, quanto alla difesa dall'infiltrazione, era scarsa. Quanto alla preparazione militare, Moretti disse: ’L'odio di classe che abbiamo dentro arma le nostre pistole e le fa sparare da sole’, ma Curcio disse: ’Qualche volta, però, ci spariamo sui piedi’. Quindi, il grado di preparazione militare delle Brigate Rosse che ha conosciuto sembrava scarso e, d'altronde, non l'ha mai visto in azione, avendoli incontrati solo tre volte. Quindi, con questa esperienza, non rimase sorpreso dell'efficacia militare dell'attacco di via Fani ?”
  Girotto: “Rimasi molto colpito. Non riconoscevo le Brigate Rosse come le avevo viste io. Le mie, ovviamente, erano solo riflessioni che feci per via Fani e che non sono presenti nella parte scritta che le ho inviato. Si tratta di riflessioni che nascono dall'esperienza”».
  A suo giudizio, è plausibile che le Brigate Rosse, senza alcun supporto esterno, abbiano compiuto un simile salto di qualità nell'arco di poco più di tre anni ?
  Do la parola al dottor Caselli.

  GIAN CARLO CASELLI. Grazie, presidente, di questa opportunità di interloquire con la Commissione. Ovviamente, saluto, insieme al presidente, tutti i commissari.
  Devo dire subito che mi si chiede un esercizio non soltanto di memoria – anche di memoria – ma anche di carattere contenutistico-qualitativo che non mi è mai appartenuto. Mi si chiedono impressioni, sensazioni, giudizi e valutazioni. Il mio mestiere è sempre stato un altro, ossia ragionare sulla base dei fatti, delle prove e dei riscontri. È quello il perimetro al quale io mi sono sempre rigorosamente attenuto. Chiedo scusa se lo anticipo, ma anche oggi, nel rispondere a queste domande, entro questo perimetro devo necessariamente, per rispetto anche della Commissione, rimanere.
  Comincio con la prima domanda, quella che riguarda l'anonimo. Consentitemi di utilizzare, come si dice quando si depone davanti a un tribunale – questa è una Commissione d'inchiesta e, quindi, Pag. 9anche qui devo chiedere l'autorizzazione – appunti scritti come aiuto alla memoria.
  Io mi sono occupato di terrorismo rosso, ossia di Brigate Rosse e di Prima Linea, banda armata di non minore pericolosità e capacità di colpire, per dieci anni pieni: sostanzialmente, dal 1974 al 1982. Ero giudice istruttore a Torino.
  In una prima fase ho lavorato, come tutti i giudici istruttori di allora, come magistrato monocratico. Poi, dal 1976 in poi, con l'omicidio Coco e l'assegnazione della causa del processo da parte della Cassazione a Torino, il mio capo, il mio consigliere dirigente, Mario Carassi, decide di creare un pool di tre magistrati, di cui faccio parte anch'io, perché un po’ di Brigate Rosse avevo cominciato a capire, con altri due magistrati.
  Si comincia, quindi, a lavorare in pool dal 1976 in poi. Tutti i processi relativi alle Brigate Rosse e a Prima Linea sono affidati a un pool di cui ho sempre fatto parte anch'io, insieme ad altri colleghi.
  Quello che delle Brigate Rosse io so, se posso rischiare addirittura il ridicolo e citare me stesso, l'ho condensato in un libro, che sicuramente molti di loro conosceranno, Terrorismi in Italia, società editrice Il Mulino, a cura di Donatella Della Porta. Proprio con Donatella Della Porta ho scritto una breve storia delle Brigate Rosse che è sempre stata, da chi si intende di queste cose, «apprezzata» per la periodizzazione, per la distinzione. Le Brigate Rosse durano quindici anni. Non si può capire qualcosa delle Brigate Rosse se non si distinguono le varie epoche, i vari periodi, le varie fasi e anche le varie generazioni.
  L'omicidio Moro, oggetto della Commissione, cade nella terza fase, nel terzo periodo, quello che qui noi abbiamo definito «strategia dell'annientamento», nel 1977-1978, quando le Brigate Rosse, che avevano dichiarato guerra al cuore dello Stato con il sequestro Sossi e l'omicidio Coco, impegnano ancora di più la loro azione militare e criminale cercando l'annientamento dello Stato. Il sequestro Moro ha sicuramente anche questi obiettivi.
  I momenti centrali di questa mia attività sul versante Brigate Rosse, tralasciando Prima Linea, sono il processo ai capi storici – l'inchiesta abbraccia gli anni 1974-1975 – e poi il tormentatissimo processo in Corte d'assise, che si snoda dal 1976 al 1977, al 1978, e subisce varie interruzioni e rinvii.
  Su quel processo le Brigate Rosse, che partivano dall'assunto che la rivoluzione non si processa, che la lotta armata non si condanna e che bisognerà fare di tutto – e di tutto hanno fatto – per impedire il processo, hanno scaricato un volume di fuoco semplicemente impressionante. Il numero di morti di quel processo è senza uguali rispetto a quello di qualunque altro episodio della storia delle Brigate Rosse.
  Il secondo momento è la confessione di Patrizio Peci, che prima opera come confidente dei Carabinieri, a termini di legge, a termini di Codice di procedura penale. I colloqui del generale Dalla Chiesa e dei suoi ufficiali delegati con Peci sono autorizzati dal sottoscritto, d'accordo con i suoi colleghi dell'Ufficio istruzione.
  Nell'allora Ufficio istruzione il giudice istruttore poteva fare questo e di più. Oggi il giudice istruttore non esiste più, lo sapete, ma all'epoca il giudice istruttore era il dominus del processo da tutti i punti di vista, compresa l'autorizzazione o meno di colloqui con Tizio e Caio in carcere.
  Peci decide poi di collaborare formalmente con la magistratura il 1o aprile 1980. Non è un pesce d'aprile, ma è una data molto importante, perché è l'inizio della fine delle Brigate Rosse, del loro crollo verticale e, di conseguenza, anche di Prima Linea.
  Peci parla di un «piellino» che voleva essere reclutato dalle Brigate Rosse. Si scopre poi che è Roberto Sandalo, il quale di Prima Linea sa di tutto e di più e, conseguentemente, un altro filone dell'indagine porta alla fine anche di Prima Linea.
  Il processo ai capi storici si intreccia con il caso Moro nella terza tornata, celebrata davanti alla Corte d'assise di Torino con presidente Guido Barbaro, quando finalmente il processo si conclude, nel 1980.Pag. 10
  In questa tornata il primo giorno dell'udienza le BR uccidono il maresciallo Berardi, che aveva lavorato con il nucleo speciale del questore Santillo. L'ultimo giorno d'udienza, quando stanno per entrare in camera di consiglio i magistrati della Corte d'assise, a Genova uccidono il commissario Esposito, un altro uomo, questa volta strettissimo collaboratore – uno dei più intelligenti collaboratori – del questore Santillo.
  Durante il sequestro c’è l'agguato all'agente di custodia Cutugno, che reagisce sparando. Cutugno viene ucciso e Piancone, un militante BR, viene catturato. I suoi compagni lo caricano in macchina e lo scaricano davanti a un ospedale.
  Viene «gambizzato» – orribile neologismo che ormai, per fortuna, si sta dimenticando – l'ex sindaco di Torino, Picco. C’è un attentato anche contro un uomo della DIGOS di nome Demartini. Ci sono altri attentati minori, probabilmente sollecitati dalle Brigate Rosse, con gruppi di altra denominazione.
  Nel bel mezzo di questa tornata del processo, che è quella che si concluderà con le condanne, nel totale rispetto delle regole e persino – fu un colpo di genio del presidente della Corte d'assise – nel rispetto dell'identità politica dei terroristi, cui fu consentito di controinterrogare Sossi, per esempio.
  Questo fu, ripeto, un colpo di genio. Quando io lessi sul giornale che il giorno dopo sarebbe stato consentito di controinterrogare Sossi, feci un salto sulla sedia, dicendo «Stiamo diventando matti». Invece fu, ripeto, un colpo di genio, perché in quel modo, oltre al rispetto delle regole processuali, fu fatto toccare con mano addirittura il rispetto dell'identità politica dei brigatisti. Il loro assunto, ossia che la rivoluzione non si processa e la lotta armata non si condanna, salvo che lo Stato getti via la sua maschera falsamente democratica, rivelando il suo volto autenticamente fascista, autenticamente reazionario, autenticamente repressivo, questo assunto, partendo dal quale, credendoci, essi uccidevano, crolla e le cose per le Brigate Rosse cambiano.
  Nel bel mezzo di quel processo piomba il sequestro Moro. Sicuramente loro ricordano, loro sanno, anche per il lavoro che stanno svolgendo, che la prima rivendicazione del sequestro avviene nell'aula della Corte d'assise di Torino, forse dallo stesso Curcio, dalla gabbia di quella Corte d'assise.
  In uno dei volantini che cadenzano il sequestro Moro c’è la richiesta di liberazione – questo è il loro linguaggio – di alcuni prigionieri politici – questo è sempre il loro linguaggio – e, se non ricordo male, uno o forse anche due degli imputati di Torino rientravano nell'elenco.
  C’è poi un intreccio che riguarda le armi usate. Io mi sono occupato in pool dell'omicidio Coco (assassinato insieme all'agente Saponara e all'appuntato Deiana, l'8 giugno 1976, a Genova). La Cassazione manda gli atti a noi. Viene usato un Kalashnikov, che è, se non sbaglio – la seconda perizia, quella sul caso Moro, non l'ho fatta io, non l'ha fatta il nostro ufficio – lo stesso che sarà poi usato per Moro. C’è questa identità di arma (Kalashnikov) adoperata per gli uni e per gli altri.
  C’è poi un intreccio tra il caso Sossi e il caso Moro, che ho scoperto – francamente, non ne sapevo nulla – quando mi è stato chiesto di scrivere una prefazione, che ho scritto, a un libro edito da Rizzoli: Annachiara Valle Parole, opere e omissioni. La Chiesa nell'Italia degli anni di piombo. Vi si parla delle trattative all'epoca del sequestro Moro.
  Sono questioni sulle quali state lavorando voi, non è che debba esporre nulla di nuovo, penso. Invece, io scopro una cosa, per quanto riguarda il sequestro Sossi, nuova per me, cioè che c'era stato un signore, che nel libro è indicato per nome e cognome, Corrado Corghi, che aveva incontrato due volte Franceschini e altri brigatisti. La cosa che maggiormente mi colpisce, leggendo quelle pagine, è che questo intermediario di qualcuno con le Brigate Rosse – il titolo del libro fa presumere chi potesse essere, la moglie di... Non la voglio fare troppo lunga, però, e soprattutto non voglio divagare, altrimenti poi non mi potete più seguire.Pag. 11
  Corrado Corghi dice, tra le altre cose, che la Corte d'assise di Genova libererà i detenuti della «22 ottobre», cosa che poi puntualmente si avvererà. Come sicuramente tutti voi conoscete, quell'ordinanza di scarcerazione dei detenuti della «22 ottobre», di cui le Brigate Rosse in cambio di Sossi avevano chiesto la liberazione, non viene eseguita dal Procuratore generale Coco perché, anche se l'appiglio formale era diverso, egli ritiene questa ordinanza emessa sotto costrizione, sotto una specie di ricatto, e quindi nulla.
  Le Brigate Rosse gliela faranno pagare due anni dopo, nel 1976. Il sequestro Sossi è del 1974, l'omicidio Coco del 1976. L'omicidio Coco è sicuramente una rappresaglia delle Brigate Rosse nei confronti di Coco perché non aveva eseguito l'ordinanza.
  Il mio interrogativo, al quale però non so dare una risposta, è il seguente: se non è mai stato detto nulla di quelle trattative, se non è mai stato detto nulla dell'anticipazione che alle Brigate Rosse sarebbe stata fatta della liberazione da parte della Corte d'assise dei detenuti della «22 ottobre»... Questa è una questione su cui interrogarsi. Se Coco non ne sapeva nulla e non gli era mai stato detto nulla, a parte che Coco avrebbe fatto esattamente la stessa identica cosa, perché era un magistrato tutto d'un pezzo e addirittura di più... C'era la magistratura che si occupava di queste cose. Il processo venne trasferito a Torino dopo la liberazione di Sossi, non prima. A me è sempre sembrata una cosa un po’ singolare che i magistrati di Genova, o dopo di Torino, perlomeno a quanto mi risulta, non sapessero nulla mentre qualcuno parlava con esponenti autorevolissimi delle Brigate Rosse di questo sequestro e – poi non se n’è fatto nulla – dell'asilo politico, che non era tale e che i prigionieri liberati avrebbero dovuto avere a Cuba o in qualche altro Paese, non so più quale, magari con l'intermediazione di questo o di quello.
  L'intreccio Sossi-Moro, che sono due facce della stessa medaglia che si contrappongono, che fanno a pugni, io lo vedo nella gestione dei sequestri. Le Brigate Rosse hanno sempre sicuramente avuto come obiettivo delle loro azioni criminali quello di spaccare il fronte che essi definivano nemico, il fronte avversario, il fronte istituzionale, il fronte che a loro si opponeva.
  Quando hanno sequestrato Ettore Amerio, un dirigente FIAT, il primo episodio riguardante le Brigate Rosse di cui mi sono occupato a Torino, hanno chiesto la fine della cassa integrazione. Ci sono stati urla e strepiti da una parte e dall'altra (si deve fare, non si deve fare). Il fronte contrapposto alle Brigate Rosse era spaccato.
  Quando sequestrano Sossi, utilizzando alcune cose che Sossi dice nei suoi «verbali», ossia negli interrogatori da parte del «tribunale del popolo», denunziano un traffico di armi che, secondo loro – credo che mai nulla di concreto e di effettivamente accaduto sia stato provato – avrebbe fatto capo addirittura alla questura di Genova, con la connivenza di questo o di quello. Così però riescono a creare uno sconquasso terrificante, e ancor più lo creano quando chiedono e ottengono la liberazione dei prigionieri politici della «22 ottobre», questa liberazione viene concessa dalla Corte d'assise e poi non eseguita dal procuratore. Il loro scopo è comunque ottenuto: hanno spaccato, hanno creato delle tremende divaricazioni.
  Io credo che lo scopo fosse questo anche per quanto riguarda il caso Moro, prima con la strage degli uomini che lo scortavano e poi con la lunga prigionia di Moro e, alla fine, con la sua esecuzione – posso dire – di stampo nazista. Io così vedo alcune esecuzioni delle Brigate Rosse, al di là della coloritura politica che avevano.
  Devo smetterla con le divagazioni. Qui dico cose che nascono esclusivamente dalle letture che ho fatto su questi argomenti, cioè le lettere di Moro e il memoriale di Moro, anche se, da buon torinese, le mie letture sono qualificate. Non voglio citare un componente della Commissione inimicandomi magari tutti gli altri, ma io Gotor l'avevo letto ben prima di questa Pag. 12Commissione e ben prima che diventasse noto alle cronache e alla pubblicistica.
  Nel memoriale di Moro ci sono cose che, brutte o sbagliate... Per me Moro è stato anche in prigionia un grandissimo uomo, un uomo libero nonostante la prigionia, un uomo che ha saputo governare se stesso e che cercava di governare anche i brigatisti, tentando, nei limiti del possibile, di orientare anche il discorso all'esterno con i familiari e con altri che eventualmente potessero essere o fossero stati raggiunti dai brigatisti. Moro aveva una lucidità e un'intelligenza politica che ha dimostrato mille volte nella sua vita e che in quella circostanza ha dimostrato forse più che in tutte le altre occasioni, perché era particolarmente difficile, se non impossibile, mantenere i nervi a posto nonostante la pressione emotiva straordinaria e terribile che quella prigionia esercitava.
  Io ho scritto una volta, e lo ripeto adesso perché può servire forse anche alla Commissione, che di Sossi nell'inchiesta sui capi storici delle Brigate Rosse si scopre il luogo di prigionia. È una villetta dalle parti di Alessandria, a Serrazzano. Quando con i carabinieri si entra in quella villetta, è completamente spoglia ma in un sottoscala si trovano ancora delle tavole numerate di quel materiale che sembra compensato, ma che compensato non è. I carabinieri ci mettono cinque minuti a sistemare le tavole seguendo la numerazione. Quella è la cella di Sossi. Io l'ho scritto tante volte. Prima Caccia, che era con me come pubblico ministero ed era il mio maestro investigativo-giudiziario, e poi io ci siamo fatti chiudere dentro quella cella. Potete credere che io sono stato in quella cella due minuti. Non ho gridato «tiratemi fuori» perché avevo un minimo di rispetto di me e non volevo fare una simile figura con i carabinieri, ma avevo una gran voglia di farlo, perché la costrizione anche fisica – figuriamoci quella psicologica – stando chiuso in un cubo che a me sembrava di mezzo metro per mezzo metro, anche se sicuramente era più grosso, è davvero eccezionale, straordinaria e difficilissima da reggere.
  Nel memoriale, nonostante o proprio per questa lucidità, per questa gestione straordinariamente lucida e intelligente che Moro cercava di attuare, sono scritte cose che io mi sono sempre stupito, e mi stupisco ancora adesso nel constatarlo, che le Brigate Rosse non abbiano mai utilizzato per quei fini di rottura, di spaccatura, di smembramento, di lacerazione del fronte avversario, che è il fine loro tipico.
  Io del caso Moro non mi sono mai direttamente occupato, se non come lettore di giornali, di libri e nei colloqui frequentissimi che avevamo per scambio di informazioni con i colleghi romani: noi dicevamo loro quello che veniva fuori dall'inchiesta Peci e loro ci raccontavano alcune cose di quello che veniva fuori dalla loro inchiesta, ma quello che poteva servire soprattutto riguardo alla colonna di Torino, nella misura in cui ciò che avevano appreso poteva integrare le conoscenze che Peci ci stava fornendo. Mi sembra però di ricordare (ne sono praticamente certo) che, se non nel primo, in uno dei primissimi volantini di rivendicazione, le Brigate Rosse scrivono sostanzialmente: «Al proletariato, al popolo nulla sarà nascosto. Tutto ciò che Moro ci rivelerà nel corso del processo lo diffonderemo».

  PRESIDENTE. Poi non è stato fatto. Dissero che erano tutte cose banali, che avrebbero fatto la controinformazione.

  GIAN CARLO CASELLI. Se per loro quelle che si leggono nel memoriale sono cose banali, allora sono terroristi diversi da quelli che sono sempre stati descritti e immaginati.
  Io credo che Moretti, nella sua intervista a Rossanda e Mosca, che è una sorta di biografia, sia stato interpellato anche su questo punto e risponda: «Non avevamo capito». Se non si capiscono le cose che sono scritte lì – faccio un nome soltanto, perché loro sanno che io mi sono occupato anche processualmente, come procuratore di Palermo, di questo caso: Andreotti – allora è meglio cambiare mestiere. Sarebbe stato meglio per tutti se questi Pag. 13terroristi avessero cambiato mestiere prima di spargere tanto sangue in Italia. Non sapevano ancora quello che dal processo di Palermo sarebbe venuto fuori.
  Apro una brevissima parentesi. Checché se ne dica, se ne pensi e gran parte dei media abbia cercato di contrabbandare – uso questa parola e me ne assumo tutta la responsabilità – il senatore Andreotti, all'esito del processo di Palermo, con sentenza di Cassazione, che conferma la sentenza della Corte d'appello di Palermo, è stato dichiarato penalmente responsabile per aver commesso (nel dispositivo c’è proprio l'espressione «reato commesso») il reato di associazione a delinquere con Cosa Nostra fino al 1980; reato commesso, ma prescritto. Non scatta, quindi, la condanna, ma il reato è commesso. Non ci sono dubbi: la responsabilità penale del senatore Andreotti, stando agli atti processuali e a queste sentenze, è assolutamente fuori discussione.
  Non si sapeva ancora, evidentemente, ma del senatore Andreotti sono scritte cose che, giuste o sbagliate, credibili o non credibili, verificate o non verificate, riscontrate o non riscontrate, sono, nell'ottica delle Brigate Rosse, cose che non possono e non si dovrebbero tenere per sé. Invece, così è avvenuto.
  Questa è la differenza, ripeto, rispetto al sequestro Sossi. Con riferimento al sequestro Sossi, tutto è stato divulgato, tutto è stato disvelato, vero o sbagliato che fosse. Sembra che fosse tutto sbagliato, che questo traffico d'armi non ci fosse, che si trattasse di calunnie. Erano voci che circolavano, che erano arrivate anche a Sossi. Nel sequestro Moro, invece, nulla è stato disvelato.
  Quando si pente, Peci fa qualche accenno, molto sommario, al caso Moro, alla strage della scorta e al sequestro. Non appena c’è questo accenno, noi prendiamo, come nostro dovere, gli atti e li trasferiamo a Roma, che è territorialmente competente. Tanto più che Peci, se ricordo bene, parlava soprattutto di quelle che si chiamano responsabilità morali, anche se qui la parola «morale» è totalmente fuori luogo, è una parola soltanto tecnica.
  Peci aveva ricostruito la composizione del comitato esecutivo e della direzione strategica dei vari fronti e, quindi, c'era sicuramente, o perlomeno si riteneva che ci fosse (così diranno molte sentenze), una responsabilità decisionale di tutti i vertici delle Brigate Rosse per quanto riguarda le operazioni di particolare rilievo, come quella riguardante Moro.
  Quindi, vi era la necessità di informare in toto la Procura di Roma o, meglio ancora, l'Ufficio istruzione di Roma. Noi eravamo collegati con il consigliere Gallucci, che allora dirigeva l'Ufficio istruzione. Poi, naturalmente, c'erano frequenti rapporti anche con Sica, Imposimato e Priore.
  Ricordo, sempre che i miei ricordi siano esatti, che Peci ebbe a indicare anche il capo colonna. Voi sapete che la ripartizione territoriale delle Brigate Rosse avveniva per colonne. Ogni città aveva la propria. Il capo colonna di Torino prima di Peci, che fu arrestato ben prima di Peci, era un certo Fiore che, se non ricordo male, avrebbe fatto parte del commando.
  Sul memoriale di Moro non ho niente da dire, perché, ripeto, sono tutte cose de relato, apprese indirettamente, leggendo e cercando di informarmi. In realtà c’è stata una brevissima occasione nella mia vita in cui me ne sono occupato direttamente. È stato quando la Commissione presieduta dal senatore Gualtieri e poi dal senatore Pellegrino ha nominato il collega Gherardo Colombo e il sottoscritto – all'epoca non avevamo altri impegni, eravamo in una fase di stand-by – consulenti esterni ad hoc di quella Commissione, proprio per esaminare alcune lettere di Moro.
  Noi l'abbiamo fatto come meglio ci riusciva ed è in quella occasione, in quella circostanza, che io ho maturato quella convinzione riguardo alle qualità eccezionali di Moro di cui ho parlato in precedenza. Leggendo le sue lettere, mi sembrava di respirare la sua forza, il suo coraggio, la sua intelligenza politica, nonostante le grandi difficoltà che in quel momento sicuramente lo angosciavano.
  Tralascio altre cose e vengo subito a Pinerolo. Su Pinerolo mi ero «preparato», Pag. 14immaginando una domanda al riguardo, insieme a quella relativa al libro Mara, Renato e io di Franceschini. Sono le uniche due su cui mi ero preparato, sulle altre confesso di no.
  Dopo il sequestro Sossi oso dire che finalmente lo Stato italiano si attrezza, nel senso che, invece di trattare le imprese criminali delle Brigate Rosse come cose «qualunque», si cerca di specializzarsi per capirne di più, per raffinare sempre di più la propria sensibilità, per sapere quante più cose possibili e, quindi, per cercare di penetrare più in profondo nella realtà di quella organizzazione e delle organizzazioni simili che operavano sul versante del terrorismo rosso.
  È proprio dopo il sequestro Sossi che i Carabinieri creano il Nucleo speciale presso la Corte d'appello di Torino. La Cassazione assegna il processo Sossi a Torino e, poco dopo, la Polizia di Stato crea un analogo Nucleo speciale, affidandolo a un grandissimo poliziotto, che era il questore Santillo. Questi due Nuclei mettono in campo le carte vincenti, sempre. L'esperienza ci insegna. Si può essere più o meno fortunati o più o meno abili, i risultati possono venire anche a seconda di queste variabili, ma le carte vincenti che danno speranza di venire a capo del crimine organizzato, che si tratti di terrorismo o di mafia, sono due: specializzazione e centralizzazione. Occorrono uomini, che si tratti di poliziotti, magistrati o carabinieri, che facciano solo questo, in modo da capirne sempre di più. Quanto alla centralizzazione, occorre che tutti i dati siano fatti confluire in un unico motore di raccolta, in modo da non perdere nessuna ipotesi di conoscenza, di intervento, di approfondimento.
  I Nuclei speciali di Dalla Chiesa e Santillo mettono in campo quotidianamente questi parametri. Sono «speciali» nel senso di specializzati, di specialistici al massimo possibile per quei tempi, in cui non esistevano ancora i personal computer e altre tecnologie avanzate. Si scriveva tutto a mano e si facevano le schede a mano.
  I risultati arrivano, anche perché il generale Dalla Chiesa... Io sono un suo ammiratore, perché ho lavorato con lui e coi suoi uomini per molti anni, fianco a fianco, gomito a gomito, superando difficoltà anche non da poco. Poi l'ho molto apprezzato quando è andato a lavorare a Palermo, come superprefetto antimafia. Non ho il tempo per raccontarvi la storia dei rapporti tra il generale Dalla Chiesa e il sottoscritto. È una storia molto lunga, che parte forse in un certo modo, poi si sviluppa progressivamente e alla fine si conclude con reciproca, assoluta e incondizionata stima, con tutte le conseguenze che ne possono derivare.
  Il generale Dalla Chiesa – lo dico con rispetto, addirittura con affetto; ho fatto quella premessa proprio perché mi si capisca – ha un grande merito, che è quello di non obbedire (udite udite) all'Arma. Lo statuto, cioè l'atto istitutivo, del Nucleo speciale antiterrorismo era – sintetizzo – individuare, trovare, catturare e sottoporre ai necessari accertamenti giudiziari gli autori del sequestro Sossi. Era circoscritto al sequestro Sossi.
  Il merito di Dalla Chiesa è disobbedire. Egli non cerca prima di tutto gli autori del sequestro Sossi. Prima di tutto cerca le Brigate Rosse. È la prima volta che si cerca di capire, e i carabinieri di Dalla Chiesa ci riescono, e con loro gli uomini di Santillo e di conseguenza noi. Se non ci fosse il continuo gettito delle acquisizioni di polizia giudiziaria, la magistratura (pubblico ministero e giudice istruttore) da sola potrebbe fare ben poco, per non dire nulla.
  Dalla Chiesa cerca e trova le Brigate Rosse, come organizzazione, come struttura organizzativa, come sistemi di reclutamento, di proselitismo, di propaganda – anche se armata, naturalmente, era propaganda – di finanziamento, di addestramento e via seguitando. Realizza schede articolate per ciascuno di coloro che o erano già stati individuati tempo prima, con un'inchiesta di Milano, o erano comunque sospettati di poter essere, o di essere stati effettivamente, appartenenti alle BR, o di poterlo essere diventati nel Pag. 15frattempo, o di essere a rischio di diventarlo. Sono schede molto articolate e molto precise.
  Da un lato, usava la tecnica di individuazione dei covi, uno dopo l'altro, perché si scopre come se li procacciavano. Se li procacciavano comprandoli regolarmente – si fa per dire – da un notaio. Il brigatista di turno, brigatista regolare... Loro sanno che i regolari sono i clandestini a tempo pieno e gli irregolari sono quelli che non erano affatto clandestini. Avevano il loro lavoro, ma facevano i brigatisti fuori dell'orario di lavoro normale, facendo però cose importanti per le Brigate Rosse. Peci comincia come militante irregolare e, quando decide di pentirsi, racconta prima di tutto la sua esperienza milanese di militante irregolare. Anche lì è un fiume di rivelazioni importanti.
  Qui la parentesi la voglio aprire perché può essere interessante anche per conoscere, visto che questo mi avete chiesto tra le righe, e non soltanto tra le righe. Regolari e irregolari – i regolari sono clandestini; gli irregolari, invece, svolgono una normale attività – hanno un nome di battaglia, conosciuto soltanto all'interno delle Brigate Rosse. Peci racconta tutto quel che sa, ed è davvero tutto, ed è importantissimo, decisivo e definitivo, della colonna di Torino, che ha comandato come militante regolare. Militante regolare diventa, però, soltanto quando arriva a Torino. Prima era transitato a Milano e lì, come irregolare, aveva conosciuto soltanto altri irregolari e qualche regolare, perché c'era la compartimentazione.
  Quando noi sviluppiamo, sul piano giudiziario, le dichiarazioni di Peci, questa parte milanese tocca svilupparla a me e a un collega bravissimo, giudice istruttore anch'egli, che si chiamava Mario Griffey. Andiamo a Milano e convochiamo, a piede rigorosamente libero, perché avevamo appena cominciato e non avevamo elementi sufficienti per fare niente più di una convocazione, un'informazione di garanzia, se si chiamava già così, e poi un interrogatorio, tutti quei militanti irregolari, che erano i brigatisti della porta accanto, chi professore, chi operaio, chi impiegato, chi infermiere, persone «normalissime».
  Ciascuna si presentava col suo avvocato di fiducia, avvocati che erano di solito appartenenti anch'essi culturalmente e magari anche politicamente a una determinata area – culturalmente e politicamente: nient'altro – e devo dire (sarà per i rapporti non sempre facili tra Milano e Torino, che adesso sono un po’ più distesi, ma all'epoca c'era molta rivalità) questi avvocati, e con gli avvocati anche gli imputati, non nascondono niente di ciò che pensano: «Guarda un po’ questi signori» – forse pensavano qualcosa di diverso – «che vengono qui a farci perdere tempo prezioso e a spendere malamente i soldi dello Stato per chiederci se Tizio, Caio, Nevio o Sempronio, mio cliente, che io conosco personalmente, e che è una persona per la quale metterei la mano sul fuoco, sia brigatista».
  Le prime fasi degli interrogatori erano proprio così: «Che cosa volete da noi ? Perché ci fate perdere tempo ? Ci possiamo salutare e andare ?», finché, facendo il nostro mestiere, noi contestavamo una determinata circostanza: «Scusi, signor Mario Rossi le risulta che qualcuno la chiami Riccardo ?» Riccardo era il nome di battaglia, conosciuto soltanto all'interno delle Brigate Rosse. In quel momento capivano e non avevano più dubbi che noi fossimo «dentro» l'organizzazione, perché il nome di battaglia poteva conoscerlo soltanto qualcuno interno all'organizzazione che aveva parlato.
  Lo capivano, se ne rendevano conto, e, poiché avevano pochissimo da perdere – perché i militanti irregolari rispondevano di associazione e basta e di qualche fatterello minore assolutamente non gravemente punito – hanno confessato, parlato, riscontrato in maniera formidabile Peci uno per uno.
  Apro una parentesi sull'importanza dei collaboratori di giustizia, sia per la mafia, sia per le Brigate Rosse. Se non ci fossero i collaboratori di giustizia, non conosceremmo i segreti di quelle organizzazioni criminali e, senza conoscere i segreti, vuoi Pag. 16delle Brigate Rosse, vuoi di mafia, non si entra dentro l'organizzazione, si gira intorno. Si scalfisce qualcosa in superficie, ma sostanzialmente quelle organizzazioni non vengono avvicinate come serve per poterle, se tutto funziona bene, disarticolare.
  Stavo dicendo di Pinerolo. Il Nucleo di Dalla Chiesa non soltanto lavora scoprendo il segreto dell'approvvigionamento di alloggi, che era l'acquisto con regolare rogito notarile, documento abilissimamente falsificato con modulo autentico rubato in questo o quell'altro ufficio comunale di paesini lontani, ma utilizza anche il metodo tradizionale dell'infiltrato. È la storia di quello che non so se chiamare Frate Mitra o Silvano Girotto. Lo chiamo Silvano Girotto, ma era meglio noto, almeno per chi navigava nell’entourage in cui Girotto si inserì, come Frate Mitra. Aveva avuto una lunga storia, che conoscerete. La storia di Girotto sicuramente è conosciuta.
  Girotto si infiltra. Non lo accolgono subito. Incontra un po’ di gente nella zona di Borgomanero, dove aveva operato come frate, prima di andare a fare il guerrigliero in America meridionale. Frate Mitra nasce da qui. Nella zona di Borgomanero aveva ancora molti personaggi che lo avevano stimato, ammirato, conosciuto. A questi si rivolge Girotto. Uno di questi è Levati, di cui voi avete già parlato facendo la domanda. Levati lo mette in contatto con altre persone ben più autorevoli di lui. Levati era un medico. Era il tipico militante irregolare, irregolarissimo. Non era regolare, di sicuro. La persona più significativa e importante – parlo, naturalmente, nell'ambito delle Brigate Rosse – che incontra, è un avvocato, Giovambattista Lazagna, una persona meritevole.
  Lazagna era decorato di medaglia d'argento della Resistenza, partigiano vero, autentico. Ha scritto un bellissimo libro, Ponte Rotto, che racconta la lotta partigiana molto bene da parte di chi l'ha fatta e non l'ha soltanto sentita raccontare da qualcuno. Poi si è avvicinato a Feltrinelli, si è avvicinato a quegli ambienti. Dico subito che fu poi sottoposto a processo e condannato in primo grado, in appello e in Cassazione. Qui interessa ricordare che Lazagna è colui che, secondo l'accusa che noi sostenevamo – che sarà poi confermata nei tre gradi di giudizio – ha fatto una specie di esame del sangue, una specie di esame di affidabilità a Girotto, evidentemente superato da Girotto perché poi ha contatti con uno o due in montagna e poi il terzo contatto a Pinerolo.
  Gli uomini del Nucleo di Dalla Chiesa – lo chiamo Nucleo di Dalla Chiesa, perché, anche se formalmente il comandante era il colonnello Franciosa, di fatto, è inutile negarlo, il comandante era il generale Dalla Chiesa – con il colonnello Franciosa si trovano di fronte a un dilemma. L'appuntamento di Pinerolo serve per fare entrare Girotto in clandestinità, per farne un militante regolare, perché potesse addestrare. Ecco perché Girotto dirà, in risposta a una delle domande: «Non erano granché preparati». Difatti volevano lui come istruttore.
  Il dilemma è: consentiamo che Girotto entri come clandestino, come militante regolare, nelle Brigate Rosse e che, quindi, sicuramente, prima o poi – più prima che poi – uccida ? Oppure no, perché non possiamo consentire lo sviluppo di un'operazione che può portare, e sicuramente porterebbe, a commettere dei reati ?
  Decidono che debba assolutamente prevalere – non c’è scampo – il profilo istituzionale, ragion per cui decidono di intervenire e di arrestare Curcio e Franceschini, che vengono catturati l'8 settembre.
  Girotto, però, che è un temerario, uno spregiudicato e ha conosciuto bene Levati e, quindi, se lo può permettere, cerca ancora Levati, il quale accetta ancora di essere incontrato. Levati non sospetta che sia stato Girotto a far arrestare Curcio e Franceschini. Anzi, Levati racconta una serie di cose a Girotto, che sono quelle che formano oggetto della domanda, ossia la famosa telefonata in cui si dice: «Domenica sarà arrestato Curcio».
  Levati non incontrerà mai più Girotto, perché, subito dopo quegli incontri, meramente successivi all'arresto di Curcio e Pag. 17Franceschini, le Brigate Rosse diramano un volantino in cui rivelano il ruolo che ha avuto Girotto in questa vicenda. È il volantino comunemente noto come: «Sotto la toga del frate si nasconde il serpente», o un concetto del genere, che usano le Brigate Rosse.
  Finalmente ci siamo. Quella telefonata che era e – per quanto mi riguarda – rimane tuttora un mistero, chi l'abbia fatta io non lo so. Credo che nessuno l'abbia mai potuto accertare, anche se qualcuno immagino ci abbia provato a tutti i livelli. Anche a livello giudiziario ci abbiamo provato. C’è un fascicolo contro ignoti, naturalmente, sul quale si è lavorato.
  Caccia ed io sapevamo che ci sarebbe stata un'operazione importante, ma non sapevamo né dove, né quando: domenica e Pinerolo per noi erano dati assolutamente sconosciuti, prima; saranno noti dopo.
  Chi fa la telefonata sa più di quanto non sapessero in quel momento i due titolari dell'inchiesta, che con i Carabinieri lavoravano davvero gomito a gomito, fianco a fianco, ventiquattr'ore su ventiquattro, quando era necessario, insieme.
  Levati dice anche a Girotto che ha cercato di fare in modo che Curcio venisse avvertito. Il suo obiettivo era avvertire Curcio, ma non ci è riuscito. Ha anche avuto modo di contattare Moretti, il quale, però, non ha potuto avvertire Curcio e Franceschini.

  PAOLO CORSINI. Non ha potuto o non ha voluto ?

  GIAN CARLO CASELLI. Secondo me – lo dico col massimo rispetto di questo mondo; vi prego di crederlo, nonostante la mia fretta di essere conciso – porci questa domanda è molto ingenuo, per non dire peggio. È positivo che Moretti sia stato avvertito. Se Moretti lo avesse potuto fare e non l'avesse fatto, lo avrebbero scannato il giorno dopo, o l'avrebbero scannato in carcere quando è stato arrestato anche lui. Non ci piove. Non esiste alternativa. Viene fuori, pubblicato anche da tutti i giornali, che tu sai – è provato, riprovato, riscontrato – e non hai avvertito nessuno: allora sei come minimo un delinquente e un farabutto e io ti ammazzo; io, Brigate Rosse, te la faccio pagare.
  Non è avvenuto nulla di tutto questo, per fortuna del signor Moretti e anche per fortuna del rispetto delle leggi dello Stato, perché non tocca alle Brigate Rosse farsi giustizia da sé, ma sarebbe avvenuto.
  C’è anche una leggenda metropolitana, una favola, ossia che Moretti fosse addirittura a Pinerolo e che fosse sfuggito all'arresto. Scherziamo ? Questo non può esistere. È assurdo e impensabile, in primo luogo perché a Pinerolo ci sono già due capi del livello di Curcio e Franceschini. Se ci fosse stato anche un terzo capo, sarebbe stata follia pura, dal punto di vista dell'organizzazione brigatista. Sarebbe stato impensabile In secondo luogo, perché – l'avrei detto comunque da solo – c’è l'avvertimento che Levati trasmette a Moretti. Rispondevo soltanto alla seconda parte della domanda che mi sono fatto da solo. Se Moretti fosse stato davvero a Pinerolo e poi fosse venuto fuori che lui sapeva, non solo lo avrebbero scannato, ma lo avrebbero pelato vivo. Non esiste.
  Allo stesso modo, se avesse avuto modo di avvertire, un «processo», secondo me – di questo non ho certezze e non dovrei dirlo, perché non ho un riscontro e non me sono mai occupato – sarebbe stato probabile e verosimile. Lo facevano sempre, come facevano un'inchiesta sul sottoscritto per vedere di ammazzarlo. Poi magari intitolavano «Casella postale» questa inchiesta, lo riferisco tanto per aprire una parentesi leggera, banale, persino frivola e ridicola.
  Interrogando Peci, tra le altre cose, una volta, nell'intervallo, gli dissi: «Scusi, ma io ho un buon concetto di me medesimo. Non mi aspettavo che intitolaste il dossier che mi riguardava – che loro chiamavano «inchiesta» e in cui erano monitorati tutti i movimenti miei e della scorta, evidentemente in vista di qualcosa di poco piacevole – Number One, Zorro, Nembo Kid o qualcosa del genere, ma neanche mi aspettavo che la intitolaste proprio soltanto “Casella postale”».Pag. 18
  Peci mi guarda e mi fa: «Non è un gioco di enigmistica, con cambio di vocale tra Caselli e Casella. Si ricordi, dottore, che chi ha fatto l'inchiesta su di lei è – e qui ne dice nome e cognome – che di mestiere faceva il postino». A questo punto chiamare l'inchiesta del postino «Casella postale» era logico.
  Facevano le inchieste e avevano fior di dossier su tutto e su tutti. Figuriamoci se non hanno cercato di sapere come sono andate le cose quando qualcuno avvisa Moretti e l'avvertimento non arriva a Curcio. Moretti avrà dovuto dare – penso, è verosimile e logico; poi magari non è avvenuto niente di tutto questo, per carità – delle spiegazioni precise, altrimenti lo avrebbero scannato. Sono le Brigate Rosse, non le Dame di San Vincenzo.
  In carcere, le Brigate Rosse, ma forse soprattutto Prima Linea – diamo a ciascuno il suo – hanno ammazzato fior di compagni di militanza semplicemente perché c'era il sospetto che potessero cominciare a collaborare. Li hanno scannati a mani nude, nel cortile, durante l'ora di passeggio. Non si scherza con queste cose.
  Chi ha fatto circolare la storia che Moretti fosse a Pinerolo e che i Carabinieri hanno arrestato soltanto gli altri due – il che non è possibile, non esiste – io non so chi sia. Sicuramente, però, fra coloro che mettono in giro questa voce ci possono essere anche, se non proprio dei brigatisti, dei nostalgici, degli irriducibili della lotta armata, perché questa è una maniera come un'altra per ripetere ancora una volta che la lotta armata è invincibile, non si processa.
  Vedere a tutti costi un traditore, vedere a tutti i costi qualcuno che ha tradito i capi, come erano Curcio e Franceschini in quel periodo, è un po’ come dire: «Per fregarci, per fregare la lotta armata, per arrestare la rivoluzione ci vogliono comportamenti di questo tipo, altrimenti non ce la farete mai». Non è così.

  PRESIDENTE. Che idea si è fatto di chi ha dato la notizia di cose che neanche i magistrati sapevano.

  GIAN CARLO CASELLI. Non mi sono fatto nessunissima idea.

  PRESIDENTE. Quali magistrati erano a conoscenza dell'operazione ?

  GIAN CARLO CASELLI. Due magistrati: Caccia ed io, soltanto noi.

  PRESIDENTE. Ma non eravate al corrente di ulteriore dettagli ?

  GIAN CARLO CASELLI. Ripeto, non sapevamo la data e il luogo. Chi ha fatto la telefonata ha parlato di domenica e Pinerolo. Noi sapevamo essere in preparazione un'operazione importante, ma che riguardasse Curcio e Franceschini...

  PRESIDENTE. C'era una fonte autorevolissima tra gli investigatori. Non può essere diversamente.

  GIAN CARLO CASELLI. Presidente, lei è troppo intelligente per farmi delle domande alle quali non posso rispondere. Se proprio pretende una risposta, le dirò, pur essendo un cattolico con molti limiti, che le vie del Signore sono infinite anche in questo caso. Non ci sono soltanto gli investigatori. Ci sono obblighi di segnalazione, obblighi di rapporto, gli spifferi e via seguitando. Non lo so e non lo posso sapere. Se lo sapessi, avrei fatto quello che mi competeva come magistrato.

  PRESIDENTE. Un fascicolo sulla fuga di notizie fu aperto ?

  GIAN CARLO CASELLI. Fu aperto, sia pure contro ignoti, e non furono ottenuti risultati. Mi pare che di questo problema si sia già occupato ampiamente qualcuno nella Commissione presieduta dal senatore Pellegrino. Anche lì, se ricordo, i risultati sono che non si trovò alcun elemento obiettivo, niente di niente.
  Ripeto, a me Moretti – dico delle cose che non dovrei dire – per la mancata gestione del memoriale qualche interrogativo me lo suscita, se è lui che non lo ha Pag. 19gestito, insieme agli altri. In questo caso, francamente e sinceramente, non mi suscita interrogativi. Non può.

  PRESIDENTE. Le dico perché: è vero che la cosa più ovvia sia pensare che, se avessero ritenuto Moretti responsabile del mercato avvertimento a Curci, l'avrebbero «suicidato». È innegabile, però, che hanno una notizia... O le BR erano in grado di «infiltrare» le forze dell'ordine, o avevano degli informatori. Questa è la vicenda di Pinerolo.
  Delle due l'una: o quando interrogano Moro non sono in grado di capire le cose che leggono perché non erano in grado di scrivere neanche le domande che venivano fatte e, quindi, erano dei poveretti sprovveduti che stavano lì; oppure, quelli che hanno avvertito di Pinerolo sono gli stessi che hanno detto: «Questa roba qui tenetevela». È questo il motivo per cui noi abbiamo solo fotocopie, fotocopie parziali, e non abbiamo registrazioni autentiche. Questo è il sospetto che aleggia. Uno può anche pensare che qualcuno il patto prima o poi l'avrà fatto.

  GIAN CARLO CASELLI. Presidente, io non sono in grado di rispondere a una domanda di questo tipo. Io ho scritto, con mio figlio Stefano, un libro intitolato Le due guerre. Anzi, l'ha scritto lui. Io ho parlato, lui registrava e poi scriveva. È un libro in cui io ho anche raccontato molte delle mie esperienze all'epoca delle Brigate Rosse, compreso l'episodio di Levati e di Girotto. È tutto raccontato, in termini che a Girotto, tra l'altro, non sono neanche piaciuti. Ho dovuto spiegargli che io le cose le vedevo così. In quel libro io premetto – è la mia premessa di sempre – che io non conosco misteri, non conosco segreti. Non so niente più di quello che c’è scritto nelle carte processuali. Di più non ho mai voluto sapere niente. Se qualcuno provava a dirmi qualcosa che non era nelle carte processuali lo stoppavo immediatamente.
  Torno al mio ricordo dei due minuti nella prigione di Sossi. Io ho avuto un'impressione così forte di costrizione che mi sono sempre detto, ed è la prima volta che lo dico in pubblico – per spiegare – che non voglio sapere niente di quello che non mi riguarda direttamente attraverso i meccanismi processuali, perché non sono sicuro della mia tenuta – allora; adesso spero che non debba mai più succedere, ma vivo ancora sotto scorta – in caso di sequestro. Io non sono Moro.
  Queste sono domande, per carità, doverose da parte soprattutto della vostra Commissione, che deve avere – non può non averlo – anche un taglio politico e non soltanto un taglio strettamente e squisitamente giudiziario, ma io non sono assolutamente in grado di rispondere. Nel caso di specie, però, rispondo, ancora una volta, secondo logica e buonsenso. Insisto sulla logica e sul buonsenso e sulle risultanze processuali, provate e straprovate.
  Levati la telefonata la riceve. Levati – dice lui – parla con Moretti. Non può esserci spiegazione diversa negativa per Moretti, altrimenti (lasciamo perdere lo scannamento) la logica e il buonsenso andrebbero a farsi benedire. Le cose, quando si ricostruiscono, con riferimento a questo episodio, secondo logica e buonsenso, possono avere soltanto questa spiegazione e questa risposta.
  Adesso vado alle domande che erano state formulate. Su Pinerolo ho risposto. Quanto a Mara, Renato e io, mi dispiace per il signor Franceschini – credo di averlo anche scritto da qualche parte, non so più dove – ma ricorda male.
  Devo dire, onestamente, che io sono prevenuto nei confronti di Franceschini, perché mi ha aggredito nel carcere di Saluzzo, e mi ha aggredito a freddo, per così dire. Si stava avviando alla conclusione l'inchiesta sui capi storici delle BR e io stavo facendo il giro di tutti i detenuti, perché, prima di chiudere l'inchiesta, dovevo contestare anche tutti i fatti minori, altrimenti non potevo rinviare a giudizio. Allora era il giudice istruttore che rinviava a giudizio, una procedura che chi non è stato uomo di legge allora non riesce neanche a capire. Ecco perché noi raccoglievamo le prove e poi su quelle prove decidevamo chi mettere o non mettere in Pag. 20carcere, chi rinviare o non rinviare a giudizio. Il giudice istruttore era arbitro delle prove da lui stesso raccolte. Era un ibrido – a dire davvero poco – che il nuovo Codice ha giustamente cancellato. Come giudice istruttore, io dovevo fare il giro di tutte le carceri italiane in cui erano detenuti allora brigatisti rientranti, o come capi storici, o comunque come brigatisti, nel processo ai capi storici per contestare loro tutto, in modo da poter legittimare il rinvio al giudizio. Dovevo contestare magari un'auto rubata che era sfuggita agli interrogatori, oppure una detenzione abusiva di armi e via di seguito.
  Quando vado a interrogarlo nel carcere di Saluzzo, Franceschini mi accusa di aver osato pronunziare il nome di Mara Cagol non so più in quale circostanza, cosa assolutamente destituita di qualsivoglia fondamento. Io questi nomi li pronunciavo allora soltanto in sede di interrogatorio, negli atti processuali, anche se poi mi sono occupato molto anche di pubblicistica. Allora erano soltanto cose processuali e niente di più. Dopo avermi contestato questa orribile colpa, si alza e fa per darmi un pugno. Franceschini dice di avermi preso, tra l'altro. Invece non è vero, mi ha soltanto sfiorato, per mia fortuna, perché c’è un maresciallo dei Carabinieri, il maresciallo Baldassi, che si interpone e lo ferma.
  Io lo denuncio, naturalmente. Non posso non farlo. Ci fu poi un processo a Milano – i processi di Torino ancora oggi vanno a Milano – in cui io depongo e Franceschini viene condannato.
  L'aggressione di Franceschini era finalizzata a far saltare i termini massimi di custodia cautelare, perché eravamo molto prossimi. Se il giudice istruttore titolare in quel momento del processo fosse stato sostituito da un altro giudice, anche soltanto per i tempi burocratici per la sostituzione, i termini massimi di custodia cautelare sarebbero scaduti e il processo sarebbe morto. Il processo senza detenuti – a parte il fatto che sarebbero tornati tutti clandestini – come sapete, non ha corsie, obbligatoriamente, per legge, preferenziali rispetto a quello con detenuti, che passa avanti a tutti gli altri. Quindi, chissà quando mai si sarebbe celebrato.
  Io, però, secondo il nostro dovere e la nostra prassi, metto il mio mandato di giudice istruttore nelle mani del mio consigliere istruttore Mario Carassi, che, a sua volta, avrà interpellato il presidente della Corte d'appello. Mi rispondono, come quasi sempre avviene in questi casi – altrimenti sarebbe troppo facile disfarsi di un magistrato aggredendolo, insultandolo o facendo altro: i processi non si farebbero mai – «Lei si è tutelato con una denunzia, che seguirà il suo corso. È perfettamente in grado...» Avrebbero potuto eventualmente ricusarmi, ma non l'hanno fatto mai.
  Poco tempo dopo, le requisitorie dell'allora sostituto procuratore generale – che poi diventerà procuratore della Repubblica, il pubblico ministero del mio processo, Bruno Caccia – vengono pubblicate da una casa editrice, che adesso non esiste neanche più. Quel libro ho avuto il torto di prestarlo e ora non si trova. Esso riporta integralmente, perché erano ormai pubbliche, essendo state depositate agli atti del processo, le requisitorie di Caccia, le richieste di rinvio a giudizio, con le motivazioni e le prove. Il libro si intitola Banda armata, o qualcosa del genere, ed è preceduto da tre prefazioni, una dell'avvocato Giannino Guiso, storico difensore di brigatisti rossi, l'altra di un certo Tommei, che per quelli della mia generazione non è un nome qualunque. Tommei è figlio di un protagonista della radio di tantissimi anni fa, molto divertente, molto capace e molto intelligente. Questo Tommei è suo figlio e gravitava nell'area di Controinformazione, la patinatissima rivista diretta da un'altra persona molto intelligente, che si chiamava Bellavita, se non sbaglio, poi riparato in Francia, e molto ben fatta dal punto di vista contenutistico, letterario e tipografico. Controinformazione era, però, una rivista delle BR. Di lì non si scampa. La terza prefazione era di Alberto Franceschini. Delle cose che Alberto Franceschini ha detto di me in quella prefazione, uno un po’ masochista potrebbe anche Pag. 21esserne orgoglioso, perché mi definisce «la ruota più efficiente del triciclo sgangherato della controrivoluzione». Il «triciclo sgangherato della controrivoluzione» era costituito dal procuratore generale titolare dell'ufficio del pubblico ministero, Reviglio della Veneria, che aveva delegato l'inchiesta al pubblico ministero, cioè la seconda ruota sgangherata, che era Bruno Caccia, mentre la terza ruota ero io.
  È un attacco, nell'ottica brigatista, all'inchiesta e ai protagonisti dell'inchiesta, a me in particolare, in realtà tutt'altro che piacevole per un magistrato che ha sempre fatto, come io ritengo e rivendico di aver sempre fatto, solo ed esclusivamente il suo dovere, applicando solo ed esclusivamente la legge, senza obbedire, né mentalmente, né inconsapevolmente, neppure in questo modo, ad altro.
  Io sono convinto che – anche questo l'ho scritto, ragion per cui non c’è motivo perché non lo dica – quando Franceschini viene arrestato...

  PRESIDENTE. Avrà capito o avrà interpretato in malafede.

  GIAN CARLO CASELLI. Sì, ma devo spiegare anche che non mi voleva bene Franceschini. Appena viene arrestato... Se avete capito, non sto a raccontare quest'altro episodio.

  PRESIDENTE. Non è che non crediamo. La vicenda del pugno l'abbiamo capita. Qualche sospetto che non la ami ci è venuto.

  GIAN CARLO CASELLI. Io so che nel libro Mara, Renato e io, per la parte che ho potuto verificare, cioè la parte che mi riguarda, Franceschini afferma, perché ricorda male, delle cose che non esistono, per esempio, riguardo ad alcune fotografie. Io non faccio vedere nessuna fotografia, oppure, se faccio vedere delle fotografie – può anche darsi che i Carabinieri avessero delle fotografie – Franceschini si è avvalso della facoltà di non rispondere. Non ha detto una parola che sia una e io non gli ho fatto domande, anzi.

  PRESIDENTE. Mi sembra che anche questo ruoti intorno al dare l'idea che Moretti fosse una specie di protetto, attribuendo a lei l'idea che fosse protetto.

  GIAN CARLO CASELLI. Se c’è qualcuno che dice che le Brigate Rosse hanno perso perché c'era un bieco traditore al loro interno, è Franceschini. Sicuramente è Franceschini. Io non voglio parlar male di Franceschini, se non per quello che mi riguarda. Per il resto...

  PRESIDENTE. Delle foto non ha mai parlato, né tanto meno ha fatto commenti su Moretti.

  GIAN CARLO CASELLI. Quando io sono diventato capo del DAP (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) e partecipavo a dibattiti anche all'interno delle carceri, una volta ho incrociato Franceschini, che mi ha avvicinato, mi ha teso la mano e io gliel'ho stretta. Non ho dell'astio particolare. Racconto le cose per come le ho vissute e dette.
  C’è subito un contatto brusco con Franceschini, quando si presenta, cosa che Caccia mi rimproverava ancora allora. Franceschini, in sostanza, si siede davanti a me e la prima cosa che mi chiede è: «Ma lei non è di Magistratura Democratica ?», come per dire: «Tu dovresti essere dalla parte mia, non da quest'altra parte». Io, occhi negli occhi, gli rispondo: «Sì, perché ?». Capisce l'antifona e se ne sta rigorosamente zitto.
  Non potevo fargli vedere, non credo, non ricordo di avergli fatto vedere delle foto, ma soprattutto non posso aver fatto commenti di quel tipo. Non appartengono allo stile, al ruolo del giudice istruttore, che questi atti oltretutto li compiva con il sostituto procuratore generale Caccia seduto accanto a lui, che era di un rigore e di una correttezza... Io ho imparato da lui rigore e correttezza, se li ho mai avuti. Spero di averli avuti. Caccia non aveva niente da imparare da nessuno. Queste cose non si dicono. Si fanno domande e si verbalizzano risposte. Queste cose non esistevano.Pag. 22
  Comunque, nel libro Mara, Renato e io Franceschini dice una cosa che storicamente è impossibile. Non esiste, ancora una volta. È il segno che non ricorda bene, perché, nel libro Mara, Renato e io afferma anche che io gli avrei detto: «Questo è Ognibene», oppure: «Mi parli di Ognibene, mi dica quello che sa di Ognibene».
  Ognibene, in quel momento, io non sapevo ancora neanche chi fosse, non solo che esistesse. Non avevo mai visto una scheda relativa a Ognibene, che magari esisteva. Non l'avevo mai vista. Di Ognibene sentii parlare per la prima volta nel settembre del 1974, verso la fine, quando si scopre il covo di Robbiano di Mediglia. È un momento tragico.
  Non sto a raccontarvi come si arriva al covo di Robbiano di Mediglia, l'operazione. Si era capita la tecnica di procacciamento delle sedi e, quindi, quando avevano un indizio di un dato tipo, andavano quasi a colpo sicuro.
  La faccio breve, sperando di non essere preso in giro per questa mia forma. Farla breve non è il mio forte, in questo caso, perché sono cose importanti. La sintesi non è mai il mio modo.

  PRESIDENTE. Neanche il nostro.

  GIAN CARLO CASELLI. C’è un conflitto a fuoco. I Carabinieri arrestano Bassi e Bertolazzi, due capi storici delle Brigate Rosse, nella zona del Lodigiano, serbatoio delle BR dell'epoca. Poi si chiudono dentro il covo, dentro l'appartamento, per vedere se arriva qualcuno e intanto cominciano a esaminare le prime carte.
  Arriva effettivamente qualcuno, ma viene intercettato e affrontato lungo le scale. Segue un conflitto a fuoco in cui muore un brigatista. Un altro uccide il maresciallo Maritano e viene, a sua volta, ferito.
  Ognibene io ho fatto fatica anche a identificarlo, perché che fosse Ognibene sarà venuto fuori contattando quelli del Lodigiano. Era una persona sconosciuta. Forse il primo verbale dice proprio «persona che rifiuta di fornire le sue generalità». Io sono andato in ospedale a sentirlo subito, perché volevo vedere se poteva venirne fuori qualcosa. Non è detto che il verbale cominci così. Può darsi che in quel momento avessero già accertato chi era. Comunque, c’è una fase in cui non si sa chi è quello che ha sparato a Maritano, uccidendolo.
  Faccio ancora una divagazione. Mi avvertono nel cuore della notte che c’è stato quel conflitto a fuoco. Io avverto Caccia. Dopodiché, chiediamo ai Carabinieri di accompagnarci, se possono, se vogliono, immediatamente a Robbiano di Mediglia, perché volevamo essere sul posto. Un carabiniere ucciso, un lutto di questa gravità all'interno della nostra inchiesta, ci aveva duramente colpiti.
  Lo dico fingendo di scherzare su cose che non sono assolutamente possibile oggetto di scherzo: il viaggio che abbiamo fatto – i carabinieri erano molto nervosi quella mattina, comprensibilmente – da Torino a Robbiano di Mediglia è stato un viaggio allucinante. Erano le prime ore del mattino, quindi non c'era traffico. Ci si poteva anche permettere un po’ di velocità. Io ho sempre detto che vivo con la scorta dal 1974 e la pelle l'ho rischiata molte volte, ma forse, senza scherzare troppo, quella mattina l'ho rischiata più che in qualunque altra occasione.
  Quando arriviamo a Robbiano di Mediglia, facciamo tutte le cose. Una cosa che vi può interessare – molto indirettamente, ma vi può interessare – è che i carabinieri devono interrompere l'analisi e la catalogazione del materiale di quella base, che è quella più ricca e piena zeppa di materiali che io abbia mai incrociato nelle mie inchieste. C'era di tutto e di più delle Brigate Rosse. C'era tutto quello che poteva interessare il sequestro Sossi: autografi di Sossi a non finire, registrazioni di chi era stato con Feltrinelli sul traliccio, registrazioni di quel che era accaduto in Trentino con Pisetta, altro personaggio che indirettamente può interessarvi. Non fanno in tempo a continuare il lavoro di catalogazione. Il risultato è che, soltanto ventiquattr'ore dopo la celebrazione del funerale, quando la situazione si è «normalizzata», Pag. 23ricominciano il lavoro e viene fuori un'indicazione preziosa che porta a un altro covo a Piacenza.
  Quando si arriva a Piacenza, il covo, purtroppo per noi, è ormai svuotato. Si trattava di un covo che avrebbe dovuto essere interessante, perché era l'unico covo delle Brigate Rosse con il telefono. Nessun altro mai aveva un telefono fisso.
  Dico soltanto che c'era sul pavimento – se l'abbiano lasciata cadere, se l'abbiano dimenticata, se l'abbiano voluta far trovare non lo so – una cassetta con novanta minuti di registrazione degli interrogatori di Sossi. È provato, quindi, che registravano, è provato che avevano le cassette, è provato che le tenevano e che le custodivano da qualche parte. Erano novanta minuti.
  Il testo integrale di quell'interrogatorio è riportato in un libro famoso, o famigerato – dipende dai punti di vista – che fu la prima storia articolata delle Brigate Rosse. Lo ha scritto un giornalista molto informato e documentato, Vincenzo Tessandori, giornalista de La Stampa ed è stato pubblicato da Garzanti. Una delle appendici contiene la trascrizione integrale di quei novanta minuti di interrogatorio di Sossi.
  Ripeto, io non potevo parlare a Franceschini di Ognibene. So che avevo anche litigato con gli autori del libro che sono due giornalisti che conosco bene.

  PRESIDENTE. Anche questo secondo punto credo che l'abbiamo capito bene.

  GIAN CARLO CASELLI. Voglio dire che c'erano delle altre cose. Questa di Ognibene era clamorosa e me la ricordo ancora adesso. Altre ne avevo evidenziate subito, leggendo il libro.

  PRESIDENTE. La parte che a noi interessava era quella relativa alle foto, che rimetteva in mezzo Moretti. Veniamo alla vicenda più recente.

  GIAN CARLO CASELLI. Se posso rispondere alle domande che mi avete fatto, Marciante, per quanto ne so io, non si è mai assolutamente occupato di queste cose. Sono portato a escludere che abbia mai fatto un viaggio a Roma per questo.

  PRESIDENTE. Come potremmo fare per appurarlo ?

  GIAN CARLO CASELLI. Sentite Marciante. Deve essere in pensione come me, perché è magistrato mio coetaneo. Può darsi che l'abbia mandato qualcuno, per carità, non lo so. Era un pubblico ministero. Non mi risulta che si sia mai occupato di Brigate Rosse.

  PRESIDENTE. Si riferisce al famoso rullino che fu ritenuto inutile. Il giornalista, praticamente un ragazzo, che faceva solo la cronaca giudiziaria, scrive un articolo che riferisce quello che è stato detto. L'unica possibilità è sentire Marciante. Lei non ha memoria che qualcuno si fosse interessato di questo.

  GIAN CARLO CASELLI. Posso anche, con riserva, essere male informato. Per ricordare, ricordo bene. Marciante non si è mai occupato di Brigate Rosse. I pubblici ministeri di Torino che si occupavano di Brigate Rosse erano tanti, ma lui non c'era.

  PRESIDENTE. Neanche dell'omicidio di Casalegno ?

  GIAN CARLO CASELLI. Penso proprio di no. Le cose funzionavano in una maniera un po’ complicata e qui potrebbe aprirsi una piccola breccia.
  Per un lungo periodo questi processi li facevano soltanto i giudici istruttori di Torino, salvo il processo ai capi storici delle Brigate Rosse, che ha fatto Caccia, insieme a me, insegnandomi il mestiere di magistrato, di inquirente.
  Dopo, soprattutto con il pool, le inchieste successive, ossia Coco, gli omicidi...

  PRESIDENTE. Quindi, ci si poteva pure essere trovato Marciante, sta dicendo ?

Pag. 24

  GIAN CARLO CASELLI. Voglio dire che, come sempre, la segnalazione del fatto di reato, del crimine, in questo caso dell'omicidio, arrivava sul tavolo della Procura. C'era un pubblico ministero intestatario del processo, ma questo processo veniva trasferito subito praticamente all'Ufficio istruzione. Quando Caccia diventa procuratore della Repubblica di Torino, le cose cambiano, perché Caccia costituisce un pool anche lui e, quindi, conseguentemente, i pubblici ministeri seguono... Peci lo interroghiamo in tre: il collega Griffey, di cui vi ho già detto, il sottoscritto e Alberto Bernardi, un pubblico ministero designato da Caccia.

  PRESIDENTE. Per quello che ci riguarda, ci conviene sentirlo.

  GIAN CARLO CASELLI. Penso di sì. L'omicidio del giornalista Casalegno è successivo al sequestro dell'onorevole Moro, se non sbaglio. Se non ricordo male, a me sembra che l'uccisione di Casalegno risalga al 1979. Ma non ne sono certo: sulle date la mia memoria non è sicura.

  PRESIDENTE. L'articolo è del marzo 1978.

  GIAN CARLO CASELLI. Questo non l'esclude. Per esempio – faccio l'avvocato del diavolo – se il Kalashnikov di Coco (1976) è lo stesso col quale fu ucciso Moro (1978), le date possono accavallarsi e intervallarsi. Un'indagine può richiamarsi a un'altra.

  PRESIDENTE. L'ultimo punto riguarda la sorpresa espressa da Silvano Girotto sul grado di preparazione militare raggiunto dalle BR in poco più di tre anni. È sempre lo stesso filone: se Moretti era intelligente di suo o lavorava per conto terzi. Tutte le domande che le abbiamo fatto sono su questo, per capirci.

  GIAN CARLO CASELLI. Io mi sono occupato di Brigate Rosse storiche e poi con Peci mi sono occupato di Brigate Rosse successivamente alla loro nascita. Anche Peci di addestramento non ci ha mai parlato. Andavano a sparare da qualche parte, ed era forse l'addestramento per loro sufficiente. Se qui effettivamente ci sia una tecnica militare sofisticata, cosa che io ignoro – l'ho letto qualche volta – lo intuisco dalla vostra domanda.

  PRESIDENTE. È un passaggio in avanti rispetto a quello che dice lei prima.

  GIAN CARLO CASELLI. Voglio dire, però, e qui parlo di cosa cognita emergente dalle mie inchieste, che le Brigate Rosse, insieme a Prima Linea e agli altri terroristi, hanno sempre sopravvalutato le nostre possibilità di intervento.
  Potrei fare centinaia di esempi, ma l'esempio più banale è questo: quando noi scopriamo che tutti gli alloggi delle Brigate Rosse sono a nome, cognome e indirizzo di un signore che era andato dal notaio e, quindi, con un faticosissimo raffronto tra i catasti e il tipo di alloggio si scoprono le basi, loro capiscono...

  PRESIDENTE. L'omicidio Casalegno è del 1977.

  GIAN CARLO CASELLI. Chiedo scusa, ricordavo male le date.

  PRESIDENTE. Ritorniamo al tema. Lei dice che sopravvalutavano la vostra forza.

  GIAN CARLO CASELLI. Si. Quando noi scopriamo la tecnica di «provvista» di alloggi, che è quella del notaio e del documento con fotografia del brigatista che va dal notaio, con nome, cognome, luogo e data di nascita di fantasia, con il raffronto fra il rogito, quando si riusciva a recuperarlo dal catasto, e l'anagrafe di quella città, se il nome non esisteva, se era un nome di fantasia, si andava a colpo sicuro e si trovava un alloggio delle Brigate Rosse. Tant’è che all'ultimo covo che troviamo ci accoglie un meraviglioso cartello: «Benvenuti, dottor Criscuolo» – era il braccio destro di Santillo – «e dottor Pag. 25Caselli», ma, ovviamente, avevano già vuotato l'appartamento di tutto quello che c'era.
  Quando scoprono – ecco il cartello – che noi abbiamo capito, cambiano tecnica di approvvigionamento degli alloggi e utilizzano soprattutto alloggi affittati o con falso nome, o con prestanome, o con compagni di strada assolutamente...

  PRESIDENTE. Non c'era l'obbligo di registrazione.

  GIAN CARLO CASELLI. È allora che viene introdotto l'obbligo di registrazione, e si preoccupano. Pensano che l'obbligo di registrazione porterà a setacciare le città. Per sei mesi, in particolare quelli di Prima Linea, restano rigorosamente fermi, perché devono cambiare, ancora una volta, tecnica di approvvigionamento.

  PRESIDENTE. Potrebbero averla cambiata pure nell'organizzazione del sequestro ?

  GIAN CARLO CASELLI. Io volevo dire soltanto che ci sopravvalutavano. Io ero uno di coloro che, quando venne approvata quella norma pensavano (sbagliando, perché non sapevo quale sarebbe stata la loro reazione): «Ecco come si fa a perder tempo, perché ci saranno le questure d'Italia sommerse da carte su carte e ancora carte che mai nessuno avrà tempo di consultare e, quindi, tutto questo non servirà a nulla».
  Loro, invece, sopravvalutavano le nostre capacità di intervento. Si sono spaventati e per sei mesi hanno sospeso ogni azione perché hanno dovuto cambiare totalmente la loro logistica.
  Allo stesso modo, in modo speculare, molte volte si sono sopravvalutate le Brigate Rosse. Per esempio, con riferimento all'inchiesta sui capi storici delle Brigate Rosse – lo si poteva intuire, ma lo scoprimmo poi per tabulas con certezza quando cominciò la slavina dei pentiti – in quel momento le Brigate Rosse sono, salvo Moretti, praticamente azzerate. Tutti i capi storici sono stati arrestati. Non hanno più clandestini, non hanno più militanti regolari. Ne hanno un paio. Tuttavia, la prima volta che uccidono, deliberatamente, volontariamente, è nel 1976.

  PRESIDENTE. Prima di dover chiudere, perché è convocata la seduta dell'Aula, mi permetto di interromperla, perché ci sono le ultime quattro domande che ha lasciato il collega Grassi, che riguardano vicende che noi abbiamo seguito a lungo. Non riguardano lei, ma gliele poniamo solo perché era il procuratore capo. Riguardano la famosa vicenda della lettera anonima de La Stampa.

  GIAN CARLO CASELLI. Chiedo scusa: sentite il collega Ausiello. Non so se in quel periodo lì... Io non ricordo esattamente quando ho cominciato a fare il procuratore della Repubblica. Prima ero procuratore generale. Di questa lettera, però, non ho assolutamente alcun ricordo.

  PRESIDENTE. Dobbiamo sentire, quindi, Ausiello.

  GIAN CARLO CASELLI. Chiedete, per cortesia, al collega Ausiello.

  PRESIDENTE. Va bene.

  GIAN CARLO CASELLI. Se una cosa viene trasmessa per competenza a Roma, indagini non se ne fanno più. Per esempio, quando la Procura di Novara ha a che fare con il famoso, o qui davvero famigerato, ex appartenente alla Guardia di finanza, di cui forse vi siete occupati anche voi, che dichiara che erano lì pronti a intervenire e poi è stato dato l'ordine, le prime notizie le ha la Procura di Novara. Io, che ero procuratore generale, dico al collega a Saluzzo: «Prendi e manda tutto a Roma».

  PRESIDENTE. Quel che ci interessa, però, riguarda tutta la parte di indagine prima della trasmissione a Roma. Dovremo assolutamente sentire o chiedere ad Ausiello.Pag. 26
  Do ora la parola ai colleghi che vogliono intervenire, chiedendo loro di essere molto sintetici.

  FABIO LAVAGNO. Sarò brevissimo. Il dottor Caselli potrà rispondermi con un sì o con un no. Non avrei fatto questa domanda se non avesse accennato agli eventi funesti che caratterizzarono il processo di Torino e alle difficoltà che crearono a quel processo. Tra le difficoltà, come il dottor Caselli ricorderà benissimo, vi era quella di far accettare ai giurati l'incarico o di non far rifiutare, più che altro, l'incarico.
  Molto probabilmente, lei mi risponderà con un sì o, molto più probabilmente, con un no. Da più parti si dice che la federazione torinese del Partito Comunista operasse per convincere i giurati a non rifiutare l'incarico. In particolare, in un'intervista Giuliano Ferrara, all'epoca dirigente della federazione torinese, alla domanda «Caselli sapeva o non sapeva ?», dà per scontato che Caselli sapesse, «dal momento che lui e Violante facevano le riunioni con noi».
  Quindi, la domanda è, ovviamente: sì o no ?

  GIAN CARLO CASELLI. Non posso dire sì o no, abbia pazienza. Devo spiegare. Ferrara in parte dice il vero, ma in un'altra parte deforma completamente le cose.
  Nel 1977 le Brigate Rosse uccidono l'avvocato Croce, vecchio gentiluomo, presidente dell'Ordine degli avvocati di Torino. Lo affrontano verso sera nell'androne dello stabile nel quale si trova anche il suo studio. Alle spalle gli gridano «Avvocato !», lui si gira e lo ammazzano. Per la città di Torino è un momento terribile. È un momento terribile, perché non si riesce a formare la giuria. Il presidente Barbaro aveva sospeso il processo nel 1976 per l'omicidio Coco, vorrebbe riprenderlo nel 1977 e non riesce neanche a ricominciarlo. Deve andare al 1978.
  Non si riesce a formare la giuria. Non si riescono a trovare non 60, non 600, ma 6 cittadini torinesi che accettino di indossare la fascia tricolore. Sul tavolo del presidente Barbaro uno dopo l'altro arriva una montagna di certificati medici recanti «sindrome depressiva», che è la traduzione in termini clinici della paura. La città di Torino è crollata. I terroristi in quel momento hanno vinto.
  C’è una reazione in progress, per me decisiva, nella sconfitta delle Brigate Rosse. L'idea è di Novelli, sindaco di Torino in quel momento, di Viglione, presidente della Giunta regionale – Novelli era comunista, Viglione socialista – e di Dino Sanlorenzo, presidente del Consiglio regionale, comunista. Loro hanno l'idea, coinvolgendo tutti, tutti coloro che volevano essere coinvolti – a Torino sono stati coinvolti tutti: il Partito Comunista sicuramente, ma anche la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista, la Chiesa, la scuola, i circoli intellettuali, anche le fabbriche alla fine – in attività di organizzazione prima e di esecuzione poi di assemblee.
  Abbiamo cominciato a fare assemblee – dico «abbiamo» perché anch'io ne ho fatte decine e decine, per non dire centinaia – nelle sedi di partito, nelle sedi di sindacato, nelle parrocchie, nelle scuole, nei circoli letterari e nelle bocciofile, nelle fabbriche alla fine. Ricordo le assemblee oceaniche nei reparti della FIAT. In tutti i reparti della FIAT erano presenti brigatisti effettivi non ancora individuati – li avremmo individuati poi – o aspiranti brigatisti. Tutto ciò per discutere con lo strumento della democrazia, la riunione, il confronto, il dibattito, l'approfondimento, su che cos'era il terrorismo.
  Viene fuori che il terrorismo non è nemico solo delle persone colpite o che avrebbero ancora potuto essere colpite. Il terrorismo è nemico della democrazia, è nemico di tutti, perché mette a repentaglio le libertà e i diritti di tutti. Sta determinando un'involuzione e un imbarbarimento della convivenza civile.
  Quello che le Brigate Rosse volevano – l'ho detto prima – è che lo Stato gettasse via la maschera falsamente (secondo loro) democratica, per rivelare quella (secondo loro) autentica, reazionaria.

Pag. 27

  FABIO LAVAGNO. Il presidente mi sta invitando a chiudere.

  GIAN CARLO CASELLI. Questa è una cosa importante, perché sono stato diffamato.

  FABIO LAVAGNO. Lo capisco. È per quello che tengo a chiarire questo punto.

  GIAN CARLO CASELLI. Io ho avuto rapporti con il Partito Comunista, come con altri partiti, per organizzare queste assemblee, ma per niente altro. Chi dice qualcosa di diverso...

  FABIO LAVAGNO. Ci si riferisce a incontri individuali. È quello che volevo chiarire.

  GIAN CARLO CASELLI. Su quello che ha detto Ferrara c’è qualcosa da dire. Io ho avuto rapporti con loro e con tantissimi altri. Con loro forse di più, perché c’è da dire che erano quelli che tiravano la volata. Obiettivamente il Partito Comunista... Saverio Vertone, grande amico di Ferrara, sulla rivista Nuovasocietà era uno dei paladini: «Basta con la storia dei compagni che sbagliano, basta con gli equivoci, basta con l'ambiguità. O di qua o di là».

  PRESIDENTE. C’è l'ultima domanda, se è veloce, perché dobbiamo chiudere la seduta.

  MASSIMO CERVELLINI. È velocissima. Collaboratori e infiltrati sono un elemento decisivo. Lei, dottor Caselli, lo ha ricordato. Che idea si è fatta rispetto a eventuali intrecci di queste due figure ? Sono state sempre figure separate, o a volte intorno ad alcune persone fisiche c'erano entrambi i ruoli ? Collaboratori, da una parte, e infiltrati, dall'altra, sono sempre state due figure separate, o alcune figure fisiche le comprendevano, nel senso che alcuni collaboratori erano stati precedentemente infiltrati ? Questa è la domanda.
  Passo all'altra. Lei ha detto che, se Moretti avesse svolto un altro ruolo, sarebbe stato sottoposto...

  PRESIDENTE. Se fosse stato un traditore, l'avrebbero fatto fuori.

  MASSIMO CERVELLINI. Io ricordo, però, che Moretti è stato sottoposto a una forma di processo. Ricordo che Moretti, come accade in tutte le organizzazioni clandestine caratterizzate dalla brutalità con cui si interviene quando c’è un sospetto... Quando, però, nel processo il sospetto non è tale da procedere... Il problema è che Moretti era un leader, non era una rotella dell'ingranaggio. Il «processo», però, c’è stato e, come per i processi di omicidio...

  PRESIDENTE. Lei dice che si è autoassolto ?

  MASSIMO CERVELLINI. No. Se non risulti colpevole di omicidio, esci e sei un cittadino libero. Non c’è una via di mezzo. È chiaro ?

  GIAN CARLO CASELLI. La distinzione tra collaboratori e infiltrati, per quanto riguarda il magistrato, è nettissima: sono due mondi diversi, due mondi che non si toccano mai. Se le forze di polizia, legittimamente, usano questo o quell'altro soggetto come infiltrato, sono cose di esclusiva pertinenza della polizia, che non ci riguardano.
  Girotto, che è stato un infiltrato, noi lo conosciamo soltanto quando decidono loro, insieme a Girotto, che deve deporre anche davanti all'autorità giudiziaria e, quindi, stendiamo centinaia di pagine di verbale. Prima io non sapevo neanche chi fosse Girotto. Sono categorie diverse.
  Chiedo scusa, ma voglio fare al riguardo una precisazione, perché un'altra voce che circola è storia del doppio arresto di Peci. Non esiste neanche questa storia. Non ho tempo per dimostrare, anche qui per tabulas, come non esista il doppio arresto e come vi sia stato un unico Pag. 28arresto, almeno per quanto mi risulta, che mi consente di affermare queste cose con certezza, sulla base...

  PRESIDENTE. Non credo che fosse questa la domanda.

  GIAN CARLO CASELLI. Quello è il caso principale. Se Peci fosse mai stato arrestato due volte, e non è vero, per quanto ne so, sarebbe allora il classico collaboratore-infiltrato, mentre non è così.
  Passo a rispondere alla seconda domanda.

  PRESIDENTE. Sempre la stessa cosa su Moretti.

  GIAN CARLO CASELLI. Sì, ma io rispondo soltanto... Su Pinerolo, secondo il buonsenso, mi sembra che si possa dire che lui si sia tenuto il messaggio avuto da Levati senza farne parte e senza doverne poi rispondere. Ho usato la parola «scannato» tanto per intenderci. Se c’è stato qualcos'altro, benissimo. Se l'hanno processato...

  PRESIDENTE. L'osservazione era: essendo uno dei capi, se anche gli hanno fatto un processo interno, magari ha avuto un impatto minore quando i rimanenti capi erano andati a finire in galera. Questo è il dubbio che il senatore Cervellini ha espresso nella domanda.

  GIAN CARLO CASELLI. È un dubbio che io non sono in grado di contrastare o confermare.

  PRESIDENTE. Solitamente finiva in quella maniera lì, come è successo per Peci.

  GIAN CARLO CASELLI. So soltanto che quanto meno avrà... Su Pinerolo non ho dubbi. Tutto il resto non lo so, proprio non lo so. Non ho elementi per affermare una cosa o un'altra. Su Pinerolo, però, io continuo a essere convinto...

  MASSIMO CERVELLINI. Non ha dubbi, nonostante lei confermi anche quest'oggi la vicenda di Pinerolo.

  PRESIDENTE. Moretti è stato informato da chi aveva avuto, a sua volta, l'informazione, ma non è riuscito a trasmettere nulla a Curcio. Non si è detto che non ha voluto. È certo che non abbia potuto, altrimenti, in quel caso specifico, ci avrebbe rimesso le penne.

  MASSIMO CERVELLINI. Lei, dottor Caselli, conferma la sua opinione su Moretti in riferimento a Pinerolo, nonostante in quell'occasione vi fossero livelli di informazione fortemente superiori ai suoi, per circostanze, orari, partecipanti ? È chiaro ?

  GIAN CARLO CASELLI. Mi permetta: non erano livelli di informazione. Qui c'era una spia bella e buona. È una cosa diversa dall'informazione. Questa spia chi fosse non lo so, ma a me, per le domande che mi avete fatto, interessa soltanto... Scusate, mi interessa tutto, ma la mia risposta deve essere circoscritta al perimetro seguente: Moretti ha saputo; se Moretti non avesse avvertito, avrebbe...

  PRESIDENTE. Il dottor Caselli ha detto due cose. Lo preciso, altrimenti ripetiamo sempre le stesse cose. Ha detto, in primo luogo, all'inizio dell'audizione, che non parla delle sue opinioni o delle sue riflessioni non riscontrabili nei fatti: non l'ha mai fatto nella sua attività da magistrato e non intende farlo qui. Questa è stata la sua premessa. Parla solo di cose di cui ha avuto conoscenza diretta.
  In secondo luogo, ha risposto rispetto a Moretti e all'arresto di Pinerolo, di cui ha avuto conoscenza diretta; e mi sembra che in tutti i modi ci abbia detto che non è possibile immaginare che Moretti intenzionalmente non abbia avvertito Curcio e Franceschini, perché, se fosse stato così, ci avrebbe rimesso molto probabilmente la vita.

  GIAN CARLO CASELLI. Francamente, di questo «processo» io non ho mai letto Pag. 29nulla, per colpa mia, mancanza mia, difetto mio.
  C’è una premessa, presidente, che avrei dovuto fare e che faccio adesso. L'ho sempre fatta tutte le volte che ho parlato, in qualsivoglia sede, di queste cose. Io dico quello che mi risulta, soltanto quello che mi risulta, ciò che risulta dalle carte processuali, soltanto dalle carte processuali, e neanche tutto quello che risulta dalle carte processuali, ma soltanto quello che, essendo scritto nelle carte processuali, è stato poi riscontrato. Lo dico alle 16.14 del giorno 6 maggio 2015, perché questa è materia – voi ci state lavorando – in cui potrebbero sempre emergere altre circostanze.
  Quanto alla sopravvalutazione, ci si è sempre chiesti come le Brigate Rosse si approvvigionassero di armi. A parte l'episodio del «Papago», con Moretti che porta quel natante carico di armi, un terzo delle quali si trovano grazie a Patrizio Peci, tutte sotterrate in bidoni in un'aia di un casolare di Biella, la nostra inchiesta, per quanto riguarda quella fase, ci porta a dire che il Kalashnikov in quella stagione non l'hanno comprato così. Indagando su tutte le armi, è emerso che il Kalashnikov si poteva comprare per posta. Noi abbiamo accertato che un certo Spaggiari, che era un grosso gangster marsigliese francese, un Kalashnikov l'ha comprato per posta.
  C’è una stagione in cui non era un'arma da guerra automatica, ma era semiautomatica, perché un dentino impediva...

  PRESIDENTE. Quindi, era facilissimo da comprare.

  GIAN CARLO CASELLI. Si poteva comprare. Penso a tutti i delitti commessi a Torino con la famigerata Nagant, un revolver che consentiva il silenziatore, di provenienza dell'esercito cecoslovacco, presente in tutta la storia dell'esercito cecoslovacco, con impressa la stella a cinque punte. Per loro era anche una sorta di feticcio. Mi dispiace fare battute, ma ammazzavano più volentieri, da criminali com'erano, con quel revolver.
  Le armi di dotazione quotidiana, ordinaria, le compravano nelle armerie presentandosi con un documento.

  PRESIDENTE. Come quello con cui prendevano le case.

  GIAN CARLO CASELLI. Con un ciclostile su cui era scritto: «Costui frequenta regolarmente» – o anche non regolarmente – «il poligono di tiro tal dei tali». Per comprare bastava avere i soldi, un documento apparentemente buono e un certificato, sicuramente falsificato.
  Passo alla sopravvalutazione e poi ho davvero finito, presidente. Mi scusi, ma questo è importante. Le Brigate Rosse hanno sempre sopravvalutato anche noi. Quando vengono sciolti i Nuclei speciali di Dalla Chiesa e quelli di Santillo – francamente, io non ho mai ben capito perché, ma vengono sciolti in coincidenza con la fine dell'inchiesta sui capi storici delle Brigate Rosse – le BR uccidono il maresciallo Berardi, per la precisione, non soltanto per proiettare questo omicidio sul processo ai capi storici, ma anche per poter distribuire un volantino in cui sostanzialmente è detto: «Movimento, attenzione: abbiamo ucciso Berardi anche per far capire a voi quello che noi abbiamo capito. I Nuclei non sono stati sciolti per ristrutturare e meglio articolare, come è stato detto, la risposta, il contrasto delle istituzioni alle formazioni armate. I Nuclei sono stati sciolti per meglio distribuire sul territorio il personale, così da poter avere un controllo più ravvicinato dell'antagonismo. Ecco perché Berardi è stato trasferito al commissariato di Porta Palazzo, la zona più popolare di Torino, ed ecco perché noi l'abbiamo ucciso: per far capire che abbiamo capito».
  Non era vero. Non era assolutamente vero. Quello dello scioglimento dei Nuclei è stato un errore, secondo me, che noi non abbiamo contrastato. Me ne pento ancora adesso.
  Un giorno il generale Dalla Chiesa viene da me personalmente e mi dice: «Giudice, secondo voi, noi dei Nuclei abbiamo lavorato bene ?» Io rispondo, anche se in Pag. 30modo meno sbrigativo di come lo riferisco: «Generale, che domanda è ? Certo che avete lavorato bene». «Se abbiamo lavorato bene, allora fatelo sapere, perché stanno per...» Qui non mi ricordo il verbo, forse era «ristrutturarci», «scioglierci», «riorganizzarci». Stavano per fare qualcosa che Dalla Chiesa giudicava negativamente.
  Vado subito dai miei due capi, Caccia e Carassi, facciamo una riunione di tutti i magistrati che si occupavano di queste cose – erano già cominciati i pool – discutiamo e diciamo che sarebbe un errore clamoroso. Noi, però, sosteniamo di dover stare zitti, perché questa era una decisione di competenza esclusiva dell'Esecutivo. Noi eravamo espressione del potere giudiziario e la cosa non ci riguardava, non potevamo interferire. Sarebbe stata un'invasione di campo. Allora, ragionavamo così.
  Vi prego di credere che, pentito come sono ancora oggi di essere stato zitto mentre si faceva questa cosa, che, secondo me, già allora appariva un errore, come poi sarà dimostrato – tant’è che soltanto dopo l'uccisione di Moro viene recuperato il Nucleo speciale, questa volta interforze, affidato di nuovo a Dalla Chiesa – da quel momento zitti, almeno io personalmente, non saremmo stati mai più. Tutte le volte in cui c’è stata una decisione, anche di competenza dell'Esecutivo, che potesse avere o che avesse refluenze sul giudiziario (il processo, le inchieste, le intercettazioni) io zitto non sono mai più stato.
  Adesso che sono in pensione non ho più questo problema. Forte, però, di quell'esperienza negativa, ho cominciato a occuparmi di problemi che molte volte mi hanno attirato, magari anche in maniera comprensibile, l'accusa di occuparmi di fatti altrui, di invadere il campo e di esorbitare rispetto ai limiti di mia competenza, come ho esorbitato rispetto ai limiti di tempo che lei cercava disperatamente di pormi.

  PRESIDENTE. No, limiti che ci hanno posto le Camere, perché è ripresa l'Aula e non possiamo proseguire.
  Noi ringraziamo il dottor Caselli per il tempo e la pazienza e ci aggiorniamo alla settimana prossima.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.20.