XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere

Resoconto stenografico



Seduta antimeridiana n. 73 di Mercoledì 17 dicembre 2014

INDICE

Audizione di Sebastiano Ardita, già direttore della direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria:
Bindi Rosy , Presidente ... 3 
Ardita Sebastiano , già direttore della direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ... 3 
Bindi Rosy , Presidente ... 8 
Lumia Giuseppe  ... 8 
Fava Claudio (Misto-PSI-PLI)  ... 9 
Sarti Giulia (M5S)  ... 10 
Bindi Rosy , Presidente ... 10

Testo del resoconto stenografico
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PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE ROSY BINDI

  La seduta inizia alle 14.45.

  (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Audizione di Sebastiano Ardita, già direttore della direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno prevede l'audizione di Sebastiano Ardita, già direttore della direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (DAP) dal 2002 al 2011 e attualmente procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Messina. L'audizione si svolge nell'ambito del filone d'inchiesta dedicato alla cosiddetta «operazione farfalla» e, più in generale, alle modalità di attuazione del regime di detenzione di cui all'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario nei confronti dei detenuti per mafia. Il dottor Ardita, che nella scorsa legislatura è già stato sentito in Commissione antimafia nella seduta del 15 maggio 2012 sulla gestione del 41-bis negli anni 1992-1993, nell'ambito del processo nei confronti del generale Mori ha reso dichiarazioni in merito a contatti diretti tra l'ufficio ispettivo del DAP e il SISDE, nonché in merito all'esistenza del cosiddetto «protocollo farfalla». La seduta odierna si svolge nelle forme dell'audizione libera e, ove necessario, i lavori proseguiranno in forma segreta. Ringrazio il dottor Ardita. Speriamo che anche da questa sua audizione vengano ulteriori chiarimenti su questa vicenda, che si svela e si vela ogni volta. A ogni passo che facciamo, ci troviamo di fronte a nuovi interrogativi, per cui siamo lieti di ascoltarla oggi. In seguito, i commissari le rivolgeranno sicuramente alcune domande. Do la parola al dottor Ardita per lo svolgimento della sua relazione.

  SEBASTIANO ARDITA, già direttore della direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Grazie, presidente. In adesione al tema che mi viene fornito come oggetto di audizione, ritengo che preliminarmente sia importante orientarsi sui riferimenti normativi e sulle possibili relazioni tra i servizi d'informazione e il penitenziario. Per farlo, occorre appunto riferirsi alla disciplina normativa vigente.
  Questo serve a sgomberare il campo dal pericolo di impostazioni che possono essere viziate dal pregiudizio o dal luogo comune rispetto all'attività dei servizi, che è comunque un'attività istituzionale normata da leggi.
  Dobbiamo vedere perché rispetto al penitenziario vi siano delle particolarità, degli aspetti e dei momenti d'impatto che devono essere oggetto di problematica attenzione.
  La disciplina dei servizi è stata regolata da due leggi nel periodo che ci riguarda. La prima normativa, che è stata in vigore fino all'agosto del 2007, era la legge n. 801 del 24 ottobre del 1977. Non andiamo più in là nel tempo, altrimenti andremmo a rilevare altre normative. Quella che ci interessa è questa. Questa normativa è stata poi superata da una nuova disciplina, quella della legge n. 124 del 3 agosto 2007.
  Entrambe le normative, sia quella del 1977 che quella del 2007, tracciano i compiti del servizio. La legge del 1977 stabilisce che tra questi vi sono compiti Pag. 4informativi e di sicurezza, per la difesa dello Stato democratico e delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, contro chiunque vi attenti o contro ogni forma di eversione.
  La legge del 2007 specifica meglio che i servizi devono ricercare ed elaborare nei settori di competenza tutte le informazioni utili a difendere, anche in attuazione di accordi internazionali, la sicurezza interna della Repubblica e delle istituzioni democratiche poste dalla Costituzione a suo fondamento da ogni minaccia, da ogni attività eversiva, da ogni aggressione criminale o terroristica. È un'importantissima funzione, che riguarda la raccolta di informazioni per la sicurezza dello Stato. Questo è il compito tracciato dalle leggi.
  La legge del 1977, che era vigente anche all'epoca del «protocollo farfalla», che è oggetto di questa audizione, all'articolo 7 stabiliva già che il servizio non può avere alle sue dipendenze magistrati, neanche in modo saltuario. Questo concetto è stato ripreso e specificato più ampiamente nella nuova legge n. 124 del 2007, che aggiunge l'espressione «neanche a titolo di collaborazione».
  Qual è lo scopo della precisazione di questo aspetto normativo ? Evidentemente è quello di salvaguardare la funzione di controllo dell'illegalità nell'azione dei servizi. Questo è lo scopo per cui non ci possono essere alle dipendenze dei servizi né magistrati né altre figure, come giornalisti, ministri di culto eccetera.
  Con riferimento alle funzioni, vi è un'altra nota rilevante che serve a capire quale può essere l'impatto rispetto al penitenziario. In base all'articolo 9 della legge del 1977 e agli articoli successivamente ripresi dalla legge del 2007, vi è un obbligo di riferire solo ai vertici dei rispettivi Ministeri. I servizi d'informazione, pertanto, riferiscono solo ai vertici dei Ministeri dell'interno e della difesa; non hanno l'obbligo di riferire all'autorità giudiziaria. Per questa ragione, non hanno la qualifica di agenti e ufficiali di polizia giudiziaria.
  Mentre la normativa del 1977, che era in vigore nel 2004-2005, poco o nulla diceva sul piano operativo, quella del 2007 ha introdotto una serie di contenuti nuovi, quali, per esempio, alcune clausole di garanzia per il personale dei servizi di informazione, stabilendo che non è punibile il personale dei servizi di informazione che ponga in essere condotte previste dalla legge come reato, se queste sono state legittimamente autorizzate di volta in volta in quanto indispensabili alle finalità istituzionali dei servizi.
  Questa causa di giustificazione, tuttavia, non si applica, ovviamente, quando si tratti di reati particolarmente gravi, ovvero reati contro la vita, l'integrità fisica, la personalità individuale, la salute o l'incolumità di una o più persone.
  Questa giustificazione non si applica neanche ai delitti contro l'amministrazione della giustizia – attenzione, però – salvo che si tratti di condotte di favoreggiamento personale. Pertanto, al massimo è possibile fare un favoreggiamento personale, non altri delitti contro l'amministrazione della giustizia.
  La legge specifica che ciò è valido, sempre che tali condotte di favoreggiamento non si realizzino attraverso false dichiarazioni all'autorità giudiziaria oppure attraverso occultamento della prova di un delitto, ovvero non siano dirette a sviare le indagini disposte dall'autorità giudiziaria.
  Si tratta, pertanto, di una normativa molto specifica, che, sia pur tracciando una questione che riguarda l'ipotesi specifica delle attività cosiddette «di reato» autorizzate, stabilisce un limite generale, cioè che alcuni beni giuridici non si possono violare. Con riferimento all'amministrazione della giustizia, stabilisce che l'unico reato che si può commettere è il favoreggiamento personale, ma il comportamento non può mai consistere in qualcosa che svii l'attività giudiziaria.
  Questo è un elemento importante. In una materia nella quale non esiste una specifica disposizione che stabilisce cosa possono fare i servizi in carcere, come fa l'interprete a ricostruire tutto il sistema ? Lo fa in base ai princìpi generali dell'ordinamento, Pag. 5cioè in base a una serie di norme che orientano l'operatore del diritto verso la soluzione più esatta.
  Venendo allo specifico, la questione dei rapporti che possono esistere tra i servizi di informazione e il penitenziario passa attraverso alcune rilevanti circostanze.
  La prima è che il mondo penitenziario è un mondo nel quale si trovano soggetti i quali sono di per sé privati della libertà, quindi si trovano in una condizione di minorata difesa generale. Questo pone una generale regola di cautela nel valutare tutte le condotte che possono impattare con le loro posizioni giuridiche.
  C’è una questione ancora più rilevante, perché di carattere generale, che riguarda la buona amministrazione della giustizia: il mondo penitenziario è un mondo nel quale ci sono persone che hanno commesso reati, quindi inevitabilmente conoscono i propri fatti di reato, se ne hanno commessi – si presume che siano colpevoli, una volta giudicati con sentenza passata definitivamente in giudicato – e possono conoscere anche fatti che riguardano altri soggetti. Esiste un potenziale informativo nelle carceri. Questo è un dato ineluttabile, legato alla caratteristica dei soggetti che vi sono contenuti.
  Dunque, questa normativa facoltizza i servizi di informazione a determinate attività, in modo legittimo. Infatti, dal loro punto di vista, i servizi possono anche svolgere un compito che è in linea con l'obiettivo istituzionale. Questa va poi coordinata e resa compatibile con la vita penitenziaria.
  Il nostro non è un sistema di diritto libero, in cui tutto è giuridicamente consentito, nel caso in cui la volontà amministrativa e la volontà politica lo vogliano. Il nostro è uno Stato di diritto, in cui il diritto traccia i princìpi fondamentali, stabilisce quali solo i beni giuridici e, in base al principio di comparazione e di bilanciamento dei beni giuridici, è possibile definire legittima un'attività che non è normata specificamente da leggi, ma che va ispirata a questioni generali.
  Ho fatto questa ampia premessa per dire cosa ? L'ho fatta per dire che i rapporti tra servizi di informazione e mondo carcerario è una materia delicatissima, nella quale, affinché si possa arrivare a una conclusione che non sia dettata da pregiudizio, occorre che sia chiaro quali sono i pericoli che possono derivare da un'attività, sia pur legittima – attenzione – e normativamente regolare, dei servizi di informazione.
  Perché dico questo ? Tutta la questione che riguarda i colloqui con persone private della libertà, i cosiddetti «colloqui investigativi», è una materia fortemente garantita e fortemente tracciata da norme, che stabiliscono: in che circostanze questi colloqui possono essere concessi, chi è il soggetto legittimato a entrare in contatto con il detenuto, qual è l'autorità che decide se è possibile o meno autorizzare questo contatto e che se ne assume la responsabilità politica.
  Tutto quello che vi ho detto è contenuto nell'articolo 18-bis della legge n. 354 del 1975 sull'ordinamento penitenziario, che stabilisce cosa sono i colloqui investigativi, da chi possono essere effettuati, da chi vengono autorizzati e in quale circostanza.
  Vi è poi un'interfaccia processuale, che non è casuale, in base alla quale sin dal verbale illustrativo della collaborazione deve essere indicato se una persona ha effettuato colloqui investigativi e poi, in qualunque momento, su richiesta del difensore, il presidente di un collegio, cioè il giudice, può invitare il pubblico ministero ad accertare e a riferire se il soggetto ha svolto colloqui investigativi.
  Perché avviene questo ? È evidente che, nella fase della formazione della prova, che è una fase fondamentale rispetto alla quale si determinano gli interessi della buona amministrazione della giustizia, occorre tracciare tutto il percorso individuale che ha portato una persona a collaborare.
  Non per nulla, la disciplina che regola la gestione dei collaboratori di giustizia stabilisce regole severissime nella fase iniziale della collaborazione, che scandiscono una tempistica di raccolta della prova e anche una modalità di espiazione della Pag. 6pena nella fase in cui avviene la raccolta della prova. Mi riferisco ai famosi 180 giorni di isolamento assoluto del collaboratore di giustizia.
  Tutto questo traccia un modello di tutela della genuinità del processo, che ha dei garanti nel sistema. I garanti sono coloro i quali hanno la responsabilità penitenziaria dei soggetti che un domani potenzialmente possono diventare collaboratori della giustizia.
  Indubbiamente metterò a disposizione della Commissione tutto ciò che è a mia conoscenza. Questa è la premessa per poter comprendere il senso degli eventuali accordi che possono intervenire tra servizi di informazione e Ministero della giustizia, amministrazione penitenziaria e direttori del carcere, organi che svolgono il controllo sulla gestione penitenziaria.
  Il modello di funzionamento normativo dei servizi è un modello molto garantito, tanto garantito da far dire a volte che è un freno all'attività di questi servizi. C’è una ragione che ispira questa garanzia: il fatto che il soggetto istituzionale che può verificare l'impatto dell'attività dei servizi di informazione su altre sfere giuridiche deve essere sempre posto nella condizione di riconoscere un eventuale impatto su altri beni giuridici, di rilevarlo e, dunque, di opporsi all'attività o di rendere questa sua conoscenza fruibile dagli organi che esercitano il controllo democratico sui servizi di informazione, in primo luogo agli organi parlamentari.
  Nel rapporto tra servizi di informazione e amministrazione penitenziaria possono esserci dei momenti di collaborazione. In certi casi, potremmo dire che devono esserci momenti di collaborazione. Facciamo un esempio. Se dal mondo penitenziario venisse fuori un'informazione importante che riguarda la sicurezza, potrebbe essere utile che questa informazione, oltre ad essere comunicata all'autorità giudiziaria, venga comunicata anche ai servizi di sicurezza.
  Posso citarvi un caso specifico, che è successo storicamente. Ricordo che ero giunto da pochi mesi all'ufficio detenuti quando a un certo punto la corrispondenza molto inquietante fra detenuti ascritti al circuito 41-bis faceva riferimento a dei monumenti importanti del patrimonio archeologico italiano, quali il Museo egizio di Torino e il Colosseo. C'erano state le stragi continentali che si erano abbattute sui Georgofili e su San Giovanni in Laterano.
  Si temeva che quello potesse essere un riferimento connesso al pericolo di un attentato nei confronti del Colosseo. Era doveroso e giusto che il penitenziario informasse le autorità giudiziarie, perché si potevano temere questi attentati, non certo da parte di soggetti ignoti e di soggetti che operavano a titolo individuale, ma da parte di soggetti incardinati in associazioni di tipo mafioso.
  L'autorità giudiziaria per prima doveva essere informata, ma contestualmente anche i servizi di informazione potevano avere altre informazioni, che, incrociate con quelle offerte, potevano servire a impedire un fatto grave. Cosa sarebbe successo se fosse venuto giù il Colosseo e non avessimo informato i servizi di sicurezza ?
  Dunque, ci sono delle cose che possono essere legittimamente motivo di riversamento di informazioni.
  Un problema diverso è quali altre attività possono essere svolte. Tutto ciò che esce dal penitenziario in modo naturale, secondo le categorie generali dell'ordinamento giuridico e secondo il modo in cui si arriva alla collaborazione con la giustizia, e che ha una rilevanza per la sicurezza nazionale, può essere conferito, ma che attività può essere fatta, viceversa, dai servizi sul penitenziario ?
  Le possibilità sono assolutamente poche, per non dire nulle, in termini di contatto con la popolazione detenuta. Abbiamo spiegato che i princìpi generali dell'ordinamento giuridico, che riguardano la salvaguardia della prova e le modalità di gestione dei collaboratori di giustizia, tendenzialmente portano a far guardare con molta attenzione queste possibili attività.
  Io non uso mai una terminologia assolutistica, perché occorre verificare caso per caso. Ecco perché in genere l'utilizzo di protocolli, cioè di sistemi automatici di Pag. 7attività, è problematico, quando non riguardi le mere informazioni ritenute fredde e prive di un contenuto che potrebbe essere d'interesse prioritario o esclusivo dell'autorità giudiziaria.
  Comunque, anche per i protocolli informativi, lo strumento del sistema automatico, dal mio punto di vista – potrò sbagliarmi – mal si attaglia all'importante posizione di garanzia che esiste con riferimento alle attività del penitenziario.
  In seguito vedremo se ci sarà il tempo di verificare i contenuti di qualche atto. Se vogliamo essere più concreti, quale potrebbe essere la possibilità ? Ci potrebbe essere la possibilità di un contatto di tipo personale tra soggetti che appartengono al servizio di informazioni e un detenuto, ma questo comporta quel problema che abbiamo detto poc'anzi: si impatta a piè pari nelle norme sul colloquio investigativo, che non consentono questo tipo di attività o lo consentono a certe condizioni e per certi soggetti.
  Sostanzialmente, una volta che si stabiliscono regole generali, si vietano le diverse forme di contatto. Abbiamo ricordato le ragioni poc'anzi nelle norme che abbiamo citato.
  Proviamo ad andare oltre, giusto per recuperare uno spazio di esclusività o di rilevanza all'attività dei servizi d'informazione. Quali informazioni può dare un detenuto al 41-bis che magari da anni è ascritto a un circuito penitenziario e che, rispetto al regime penitenziario, non è posto in condizione di comunicare, se non con quattro persone al massimo ? Può comunicare al massimo con quattro persone, che fanno parte del gruppo di socialità.
  Questo soggetto è detenuto da molto tempo e ha un filtro importante nelle comunicazioni con l'esterno, che gli rende difficile le comunicazioni con l'esterno. Non gliele impedisce, perché, come voi sapete, c’è un limite al limite rispetto alle comunicazioni, ma sicuramente gliele rende molto difficoltose.
  È pressoché impossibile che questo soggetto possa ricevere dall'esterno notizie di qualcosa di grave che può succedere all'esterno e poi, a sua volta, riversarlo ai servizi di informazione. Pertanto, siamo fuori dal target proprio dell'attività meramente informativa, che invece si basa sull'immediatezza.
  Tendenzialmente un detenuto di mafia che sta al 41-bis è in grado di riferire dell'esistenza di un'associazione mafiosa o del suo perseverare, di reati commessi nel passato da un'associazione mafiosa o dei reati commessi nel presente o che potranno essere commessi nel futuro da un'associazione mafiosa.
  In tutti i casi, le attività di cui deve riferire ineriscono alla competenza specifica e attuale dell'autorità giudiziaria. Sarà impensabile negare all'autorità giudiziaria la conoscenza di circostanze, di fatti e di dati che provengono dal penitenziario da soggetti che sono a conoscenza di queste informazioni. Diversamente opinando, il sistema che è stato costruito dal legislatore non avrebbe ragion d'essere.
  Invece, queste cautele hanno proprio questo scopo specifico. Vero è che una cosa è la confidenza e un'altra cosa è la collaborazione, ma è normale che il contatto con la persona che è ristretta abbia come naturale e principale obiettivo quello di consacrare quelle informazioni in un atto che poi è giuridicamente rilevante, cioè la collaborazione e la testimonianza.
  Questo percorso può essere svolto tutto in un medesimo contesto o a tratti, attraverso un cammino personale di ravvedimento e poi una decisione finale di collaborare. Quale che sia la scelta e quale che sia il percorso, il rischio è che un soggetto che collabora con la giustizia si trovi ad avere un pregresso, in violazione delle norme sui colloqui investigativi e, dunque, anche se potenzialmente idoneo a consentire che su quelle dichiarazioni si fondi una condanna, è potenzialmente in condizione di essere dichiarato inattendibile da un giudice, perché sono state violate tutte le norme sul colloquio investigativo, ovvero è stata messa una mina nella formazione della prova.
  Il rischio che si corre è di andare a impattare con la corretta amministrazione della giustizia, che in soldoni significa Pag. 8rischiare di far condannare persone innocenti o di far assolvere persone che hanno commesso reati. Questo è il problema fondamentale.
  Questo è un bene giuridico di tale entità che non può essere trascurato e di fronte al quale scattano quelle che tecnicamente sono considerate dalla dottrina e dalla giurisprudenza, in assenza di elementi che vietano o impongono certe condotte, le posizioni di garanzia. La posizione di garanzia è quella che assume dentro l'amministrazione penitenziaria il soggetto che ha la responsabilità di impedire che queste norme vengano violate. Con questo bisogna fare i conti quando si pensa di poter consentire attività legittime di altri organi dello Stato.
  In questo momento stiamo parlando della fisiologia delle cose, non stiamo parlando di servizi deviati o di attività di inquinamento volontarie. Parliamo della fisiologia, di cose fatte in buona fede e che possono comportare danni e problemi al processo.
  Torniamo alla posizione di garanzia. Chi ha una posizione di garanzia ? Ce l'ha l'amministrazione penitenziaria. Ci sono due figure che, nel caso di possibile volontà del servizio di informazione di entrare in contatto, dal suo punto di vista legittimamente, con un detenuto, vengono chiamate in causa.
  Un soggetto è il direttore del carcere, che è colui che materialmente ha la responsabilità giuridica di ciò che accade nell'istituto penitenziario.
  Quando questa attività si svolge o si programma che si svolga in una generalità di casi, il soggetto che ha la responsabilità, a cui gerarchicamente si rifà il direttore del carcere, e che, dunque, deve valutare, in termini di impatto dal punto di vista giuridico, questa scelta generalizzata di penetrazione nel penitenziario è il direttore dell'ufficio detenuti.
  Sono queste le figure che devono interagire e che hanno una posizione di garanzia, nel senso che sono nella condizione, se vengono a conoscenza di un'attività di tal fatta, di rappresentare quali sono i pericoli e i rischi che l'ordinamento segnala in tutte le sue parti.
  Perché dico questo ? Lo dico perché si parla di protocolli firmati da uffici diversi dall'ufficio detenuti, ovvero da capi dipartimento, che nel nostro sistema, benché abbiano la legale rappresentanza dell'ente e, dunque, siano coinvolti nelle scelte che riguardano l'ente, non hanno la funzione di amministrazione attiva, in ordine alla quale sono garanti di ciò che materialmente deve essere fatto. Devono, quindi, interpellare, per forza di cose, i soggetti che sono chiamati a svolgere questo ruolo, che, come dicevo, sono i direttori delle carceri e i direttori degli uffici centrali, da cui i direttori delle carceri dipendono.
  Senza questo intervento, l'attività non è garantita. C’è un pezzo di Stato che non interviene con la funzione di garanzia prevista. Pertanto, è un'attività quantomeno irregolare. Io uso un eufemismo. Non dico «illegale», non dico «illegittima», non dico «di reato». Dico «irregolare». È un'attività che non passa dagli organi che devono occuparsene.
  Questo è il quadro generale che, dal mio personale punto di vista, riguarda i rapporti tra servizi di informazione e mondo penitenziario. Spero di essere stato sufficientemente chiaro. Naturalmente sono qui a rispondere alle vostre domande, con riferimento a fatti specifici o specifiche applicazioni di questi princìpi.

  PRESIDENTE. Grazie. Devo dire che la chiarezza del quadro generale ci è stata offerta e, quindi, possiamo anche approfondire gli aspetti che riguardano alcune vicende particolari.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  GIUSEPPE LUMIA. Questa audizione è preziosissima, perché il quadro normativo è molto chiaro e ci aiuta a comprendere anche fatti e notizie, che abbiamo appreso, come lei diceva, presidente, anche in sede di Commissione e che stanno emergendo anche in sede processuale, sulla presenza dei servizi all'interno delle carceri.Pag. 9
  Dottor Ardita, più volte i vertici dei servizi hanno affermato che i loro agenti non sono mai entrati nelle carceri e non si sono mai inseriti usando altre tipologie, ad esempio la professione di avvocato.
  Secondo la sua esperienza al DAP, sul piano teorico lei ha spiegato che questo non sarebbe possibile. Sul piano concreto sarebbe stata possibile un'interferenza di questo tipo ?
  L'altra domanda che le vorrei porre è la domanda principe, che già la presidente aveva introdotto nell'oggetto di questa audizione, e riguarda la vicenda «operazione farfalla». Vorrei sapere se lei ha mai visto documenti e se qualcuno gliene ha mai parlato durante il suo incarico al DAP. La mia domanda riguarda, quindi, la vicenda «farfalla» retrocessa agli anni in cui lei ha vissuto all'interno del dipartimento.
  Ci sono otto boss delle diverse mafie (li vorrei citare, così vediamo se suscita un suo interesse): Fifetto Cannella, boss di Brancaccio, condannato all'ergastolo per la strage di via D'Amelio; Vincenzo Boccafusca, padrino del mandamento di Porta Nuova; Salvatore Rinella, capomafia di Trabia, vicino al famoso pentito Nino Giuffrè; il catanese Giuseppe Maria Di Giacomo, autore di recente di alcune rivelazioni sulla reale identità del famoso «faccia di mostro»; due camorristi, Antonio Angelino e Massimo Clemente; il famosa ’ndranghetista Angelo Antonio Pelle, che, peraltro, nel passato riuscì pure a evadere dal carcere di Rebibbia.
  Vorrei sapere se, oltre al fatto che noi abbiamo potuto appurare con documenti all'interno della Commissione, ovvero che questi soggetti hanno avuto contatti con i servizi, lei si dà una spiegazione intorno a questi nomi molto importanti.
  Dopo la cessazione, almeno formale, dell’«operazione farfalla», si registrano due altri contatti, uno con Sergio Flamia e un altro con Rosario Cattafi. Anche su questo vorremmo avere notizie.
  C’è un'ultima cosa molto delicata e importante che vorrei chiederle e su cui ho riflettuto. In tutta questa vicenda, resta defilato Bagarella. Vorrei sapere se lei, invece, nel passato ha trovato tracce di un ruolo di Bagarella intorno a questi possibili contatti e a una funzione che lui potrebbe aver svolto anche all'interno delle carceri. Vorrei anche da questo punto di vista una sua opinione.

  CLAUDIO FAVA. Ringrazio il dottor Ardita. Collegandomi alla domanda del senatore Lumia, le chiedo di dirci tutto quello che sa, come e quando l'ha saputo, su questo «protocollo farfalla», e anche di darci alcune valutazione su questi fatti. Il «protocollo farfalla» è un fatto. Per nostra fortuna, è consacrato in alcuni fogli, quindi non è più affidato alla memoria orale di chi è stato da noi interrogato.
  Si è detto che questa collaborazione serviva a prevenire eventuali attentati e, quindi, a garantire la sicurezza dello Stato. Lei ha mai avuto la sensazione, leggendo o rileggendo queste carte o comunque assumendo informazioni direttamente, che potessero essere anche altri gli scopi per cui era stato stabilito questo rapporto con otto detenuti, ad esempio sapere cosa sarebbe potuto accadere, ma forse anche capire se ci sarebbero state altre disponibilità a collaborare con la giustizia ? Forse poteva essere anche un modo per monitorare eventuali collaboratori di giustizia.
  Che lei sappia o che capisca, alla luce dell'esperienza che ha avuto per molti anni al DAP, è un episodio occasionale oppure, anche alla luce di quello che diceva il senatore Lumia, ovvero episodi molto recenti che riguardano contatti tra i servizi e alcuni detenuti, è un profilo che è proseguito nel corso degli anni, anche se con strumenti diversi ?
  A questo proposito, vorrei qualche sua valutazione su alcuni ordini di servizio che mi sembra siano successivi al «protocollo farfalla» e che prefiguravano una sorta di rete di intelligence interna alle carceri per controllare l'universo carcerario. Questi ordini di servizio furono firmati dal dottor Leopardi, che era capo dipartimento. Non so tecnicamente quale fosse il suo incarico, però certamente non aveva l'incarico che invece aveva lei, di occuparsi dell'ufficio detenuti.Pag. 10
  In questi ordini di servizio si prevedeva una rete che possiamo definire segreta, nel senso che non era a conoscenza della magistratura e sfuggiva anche all'ordinaria catena gerarchica. Questa rete comprendeva 250 guardie carcerarie, che erano scelte personalmente dal dottor Leopardi e che dovevano riferirsi a lui in via assoluta ed esclusiva, saltando tutti gli altri anelli gerarchici.
  Ci sono due ordini di servizio scritti, il n. 2 del 9 maggio 2006 e un altro di poco successivo, che avevano il compito di sviluppare un'attività di intelligence vera e propria. Ci fu anche una riunione di tutti i direttori delle carceri regionali. Alcuni si rifiutarono di partecipare a questa rete.
  Chi le parla ha provato a definire, andando a ritroso con la memoria, una sorta di Gladio carceraria, che aveva soprattutto il compito di «assumere dati informativi di natura anche fiduciaria, riguardanti ciascuna delle persone sottoposte al 41-bis».
  Le chiedo se lei sapeva e se può aiutarci a inserire questa vicenda nella fisiologia o nella patologia dei rapporti che in passato ci sono stati tra le agenzie di informazione e il mondo carcerario.

  GIULIA SARTI. Aggiungo anch'io una domanda per il dottor Ardita, che ringrazio per il contributo che ci sta fornendo. Io vorrei chiederle se, oltre al «protocollo farfalla» e alla convenzione attuale, che hanno lasciato entrambi una traccia scritta, che, quindi, finalmente oggi possiamo vedere, durante il periodo in cui lei era al DAP potrebbero esserci stati anche altri tipi di accordi o altri documenti. Glielo chiedo perché è emerso in più occasioni anche questo protocollo fantasma. Vorrei chiederle conto anche di questo. Vorrei sapere se ne ha mai sentito parlare.

  PRESIDENTE. Propongo di procedere in seduta segreta.

  (Così rimane stabilito. La Commissione procede in seduta segreta, indi riprende in seduta pubblica)

  PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Ardita e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.30.