XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro

Resoconto stenografico



Seduta n. 9 di Martedì 18 novembre 2014

INDICE

Comunicazioni del presidente:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 

Sulla pubblicità dei lavori:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 

Seguito dell'audizione del senatore Giovanni Pellegrino:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 4 
Pellegrino Giovanni  ... 4 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 4 
Fornaro Federico  ... 4 
Pellegrino Giovanni  ... 5 
Fornaro Federico  ... 5 
Pellegrino Giovanni  ... 5 
Fornaro Federico  ... 5 
Pellegrino Giovanni  ... 5 
Fornaro Federico  ... 5 
Pellegrino Giovanni  ... 5 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 6 
Pellegrino Giovanni  ... 6 
Fornaro Federico  ... 6 
Pellegrino Giovanni  ... 7 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 
Pellegrino Giovanni  ... 7 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 
Pellegrino Giovanni  ... 7 
Galli Carlo (PD)  ... 7 
Pellegrino Giovanni  ... 8 
Galli Carlo (PD)  ... 8 
Pellegrino Giovanni  ... 8 
Distaso Antonio (FI-PdL)  ... 8 
Pellegrino Giovanni  ... 9 
Distaso Antonio (FI-PdL)  ... 10 
Pellegrino Giovanni  ... 10 
Grassi Gero (PD)  ... 11 
Pellegrino Giovanni  ... 11 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 11 
Pellegrino Giovanni  ... 11 
Garofani Francesco Saverio (PD)  ... 11 
Pellegrino Giovanni  ... 12 
Garofani Francesco Saverio (PD)  ... 12 
Pellegrino Giovanni  ... 12 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 
Pellegrino Giovanni  ... 12 
Garofani Francesco Saverio (PD)  ... 12 
Pellegrino Giovanni  ... 12 
Garofani Francesco Saverio (PD)  ... 13 
Pellegrino Giovanni  ... 13 
Fornaro Federico  ... 13 
Pellegrino Giovanni  ... 14 
Fornaro Federico  ... 14 
Pellegrino Giovanni  ... 14 
Fornaro Federico  ... 14 
Pellegrino Giovanni  ... 14 
Fornaro Federico  ... 14 
Pellegrino Giovanni  ... 14 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 14 
Carra Marco (PD)  ... 14 
Pellegrino Giovanni  ... 15 
Compagna Luigi  ... 16 
Pellegrino Giovanni  ... 17 
Compagna Luigi  ... 18 
Pellegrino Giovanni  ... 18 
Piepoli Gaetano (PI)  ... 18 
Pellegrino Giovanni  ... 18 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 18

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIUSEPPE FIORONI

  La seduta comincia alle 13.35.

Comunicazioni del presidente.

  PRESIDENTE. Comunico che l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei Gruppi, nella riunione del 13 novembre scorso ha convenuto di precedere ai seguenti adempimenti istruttori: acquisizione, per la parte di interesse, del resoconto dell'audizione del 12 novembre 2014 del dottor Luigi Ciampoli presso il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica; acquisizione di copia degli atti di tutti i fascicoli della procura della Repubblica di Roma non ancora archiviati concernenti il caso Moro; svolgimento dell'audizione dei magistrati della procura di Roma che hanno condotto le recenti indagini sulla presenza di una motocicletta Honda in via Fani al momento della strage; svolgimento dell'audizione dell'ispettore di polizia in quiescenza Enrico Rossi – già fissata per la settimana prossima – che ha compiuto accertamenti sulla lettera anonima dell'ottobre 2009, inviata al quotidiano La Stampa, nella quale si ipotizzava la presenza di due uomini dei servizi segreti a bordo della motocicletta Honda vista da alcuni testimoni a via Fani al momento della strage; svolgimento dell'audizione di due testimoni della strage di via Fani.
  Comunico, altresì, che nell'odierna riunione l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei Gruppi, ha convenuto sull'opportunità che la Commissione si avvalga, quale ufficiale di collegamento con le competenti strutture dell'Arma dei Carabinieri, del colonnello Leonardo Pinnelli, selezionato in una rosa di tre nomi designati dal Comandante generale dell'Arma con lettera del 13 novembre scorso.
  Sempre nell'odierna riunione dell'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei Gruppi, si è inoltre convenuto sull'opportunità che la Commissione si avvalga, quale ufficiale di collegamento con le competenti strutture della Guardia di finanza, del colonnello Paolo Occhipinti, il cui nominativo è stato indicato dal Comandante generale della Guardia di finanza con lettera del 15 novembre scorso.
  Comunico inoltre che, su conforme avviso dell'Ufficio di presidenza, giovedì alle 15 la Commissione procederà all'audizione del professor Luciano Infelisi, già magistrato della procura di Repubblica di Roma incaricato delle indagini sulla strage di via Fani.
  Segnalo, infine, che, con nota pervenuta alla segreteria della Commissione il 17 novembre scorso, l'Archivio storico del Senato ha trasmesso copia digitale di alcuni documenti concernenti le riunioni dei gruppi e dei comitati istituiti presso il Ministero dell'interno durante il sequestro di Aldo Moro. Si tratta di documenti liberamente consultabili, dei quali – ai sensi dell'articolo 3 della deliberazione sul regime di divulgazione degli atti e dei documenti – è consentita la consultazione e l'estrazione di copia, previa richiesta scritta.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.

Pag. 4

Seguito dell'audizione del senatore Giovanni Pellegrino.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'audizione del senatore Giovanni Pellegrino, che ringraziamo ancora una volta per la cortese disponibilità con cui ha accolto l'invito a tornare questo pomeriggio nella nostra Commissione.
  Ricordo che nel corso della seduta dell'11 novembre scorso il senatore Pellegrino ha svolto la sua relazione e ha risposto a numerose domande formulate dai colleghi.
  Successivamente la Commissione ha ascoltato in audizione il Procuratore generale presso la Corte d'appello di Roma, dottor Luigi Ciampoli, e il Sostituto procuratore generale, dottor Otello Lupacchini, i quali hanno illustrato alcune ipotesi investigative, soffermandosi, peraltro, su due figure: quella di Steve Pieczenik, l'esperto del Dipartimento di Stato statunitense che partecipò ai lavori di uno dei comitati istituiti presso il Ministero dell'interno all'epoca del sequestro di Aldo Moro, e quella del signor Bruno Barbaro, testimone della strage di via Fani e responsabile di una ditta che aveva una sede in via Fani e un'altra a poca distanza da Forte Braschi.
  Prima di cedere la parola ai colleghi iscritti a parlare, vorrei chiedere al senatore Pellegrino se le due persone menzionate – mi riferisco a Pieczenik e a Barbaro – sono state, a suo tempo, oggetto di attenzione, anche, se ritiene, in riferimento alle osservazioni fatte dal procuratore Ciampoli e, in caso affermativo, quali sono state le risultanze degli accertamenti condotti.
  Faccio presente che ove necessario i lavori della Commissione potranno proseguire in una seduta segreta a richiesta del presidente Pellegrino.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Di Barbaro assolutamente no, non ce ne siamo mai occupati, anzi, ne sento il nome per la prima volta.
  Di Pieczenik, invece, noi avevamo addirittura disposto l'audizione. Avevamo raggiunto accordi e fissato l'orario, quando, all'ultimo momento, Pieczenik ci fece sapere che non voleva più venire. Disse che non gli sembrava un'audizione seria perché era tardiva, alle 20.30, ragion per cui non lo sentimmo. Naturalmente, leggemmo tutte le dichiarazioni che aveva reso e che sono state caratterizzate da un crescendo nel tempo, ma, alla fine, tutto sommato, coincidono con la dichiarazione del professor Cappelletti che vi ho letto nell'altra seduta, ossia che a un dato momento non c'era alcuna intenzione di salvare Moro. Si faceva un calcolo che politicamente il Moro vivo, che aveva scritto quella lettera e che aveva parlato alle Brigate Rosse, sarebbe stato più dannoso del Moro ucciso, con le conseguenze che ci furono.

  PRESIDENTE. Conferma, quindi, quanto già ci ha detto la settimana scorsa.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  FEDERICO FORNARO. Ringrazio anch'io il presidente Pellegrino per l'audizione della scorsa settimana. Ricordo l'obiettivo di queste audizioni, che sono state pensate per verificare con chi ha avuto esperienza prima di noi se ci siano ancora aspetti, nodi e questioni che, a loro giudizio, varrebbe la pena di approfondire e, invece, altri che, sempre a loro giudizio, siano già stati sviscerati, rimandando quindi al lavoro delle Commissioni precedenti.
  Con questo spirito io vorrei porre tre questioni, riprendendo il filo non solo dell'audizione della volta scorsa, ma anche del libro che ormai quattordici anni fa il senatore Pellegrino scrisse insieme a Fasanella e Sestieri, Segreto di Stato. Invito i colleghi davvero a leggerlo perché è una miniera di informazioni. Do anche atto, senatore, che c’è un'assoluta coerenza tra le affermazioni di quattordici anni fa e quelle che lei ha reso la settimana scorsa.
  Vengo ai tre nodi. In un passaggio relativo all'audizione del giudice Arcai, che aveva indagato sul MAR (Movimento di Pag. 5azione rivoluzionaria) di Fumagalli, lei fa riferimento – ovviamente, in relazione alla predetta audizione – al fatto che al vertice dell'organizzazione ci fosse una tecnostruttura in grado di presiedere al terrorismo di opposto colore, sia rosso sia nero. Più avanti risponde positivamente a una domanda dei giornalisti che la interrogano sul fatto che gli apparati che hanno utilizzato il terrorismo nero potrebbero anche aver utilizzato allo stesso modo – lei usa l'espressione «usa e getta» – le Brigate Rosse. Ovviamente, c’è una curiosità rispetto a quale idea lei si sia fatto della tecnostruttura. Questa è una prima questione. Passando alla seconda...

  GIOVANNI PELLEGRINO. Mi può fare una domanda alla volta ?

  FEDERICO FORNARO. Perfetto. Io preferivo questo approccio e, quindi, sono assolutamente d'accordo. Inviterei a usare questa metodologia, che credo aiuti molto.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Su questo, Arcai insistette molto e addirittura richiamò la nostra attenzione sul fatto che il traliccio di Segrate su cui morì Feltrinelli non era molto lontano da un'officina dove lavorava Fumagalli. Naturalmente, restava un'ipotesi, anche se lui ci invitò a rileggere e a studiare gli atti dell'inchiesta che aveva condotto sulla strage di Brescia fin quando il coinvolgimento, da parte dell'allora capitano Delfino (poi generale), del figlio di Arcai nell'indagine di Brescia l'aveva costretto ad abbandonare quell'indagine.
  Il tema della possibilità di una tecnostruttura che gestisse completamente gli opposti terrorismi in una logica di stabilizzazione dell'equilibrio di Yalta ci fu, però, riproposto con notevole serietà durante l'inchiesta Moro da Bozzo, uno dei principali collaboratori del generale Dalla Chiesa, il quale ci disse che questa era anche un'idea del generale, che però non era stata mai sufficientemente approfondita.
  A memoria io ricordo questi due spunti, che mi colpiscono per la loro coincidenza.

  FEDERICO FORNARO. La seconda domanda è in qualche modo collegata alla prima. Le chiedo se, come lei descrive, avrebbe potuto esserci una tecnostruttura stabilizzatrice.
  In altre fattispecie lei torna su Hyperion, ossia sulla centrale francese, ovviamente con altre logiche. Non ci sono segnalazioni che Hyperion abbia utilizzato o abbia avuto collegamenti col terrorismo nero, ma lei parla giustamente di un luogo che ha avuto protezioni da parte sia degli apparati istituzionali sia di apparati non italiani, in una logica di stabilizzazione sempre riguardante Yalta. Lei torna molto su questo tema. Crede che un approfondimento, avendo la possibilità di accesso, auspicabilmente, agli archivi di alcuni dei servizi stranieri che hanno operato o che hanno avuto collegamento con Hyperion possa aiutare a capire di più anche rispetto alla vicenda specifica del rapimento e dell'uccisione di Moro ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Sì, capire veramente che cosa c’è stato all'Hyperion penso sarebbe utilissimo, non solo per Moro, ma anche per una decriptazione più complessiva di tutti quelli che potremmo chiamare i misteri della Guerra fredda.
  Per quanto riguarda Moro, io ricordo – sono passati tanti anni – la figura dell'Abbé Pierre, ossia il fatto che l'Abbé Pierre viene a Roma e riesce a proteggere dall'indagine una nipote che sembrava coinvolta nell'inchiesta sulle Brigate Rosse romane.

  FEDERICO FORNARO. Mi sposto adesso a dopo il sequestro Moro. Siamo nel dicembre del 1978 e vengono arrestati alcuni brigatisti fiorentini. Addosso a uno di questi viene trovato un elenco di undici banche finanziarie svizzere. Questa può essere una questione riproponibile ? Potrebbe aiutare a capire di più anche l'origine delle Brigate Rosse oppure no ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Questo rimanda alla dichiarazione di Bozzo. Secondo il pensiero di Dalla Chiesa, riferito Pag. 6da Bozzo, la «centrale» aveva sede, se non sbaglio, a Berna, o comunque in Svizzera.
  Volevo dire su questo punto qualcosa a completamento di ciò che ho detto nella scorsa seduta. Dopo essere andati a tentoni – dobbiamo riconoscerlo – nella vicenda Moro, per cui un'audizione portava la nostra attenzione su un aspetto, un'altra audizione su un altro e così via, decidemmo, dopo le affermazioni di Scàlfaro, di vedere se in quella matassa aggrovigliata fatta da fili di colori diversi ne potessimo prendere in mano uno, svolgerlo e seguirlo fino alla fine. In effetti, prendemmo il filo delle carte Moro che partiva da Firenze, che ci portò a Milano e ci fece capire il vero modo con cui il covo di via Monte Nevoso era stato scoperto. Dopo le audizioni di Chelazzi e Tindari Baglione, due magistrati fiorentini, lo stesso filo ci riportò a Firenze.
  A quel punto, il vero problema è che noi consegnammo tutto questo alla procura di Roma, la quale aveva ancora in corso l'inchiesta sul Moro-sexies, che fino a quel momento si occupava dei due sulla Honda e della mancata estradizione di Casimirri dal Nicaragua, e le offrimmo un materiale che poteva anche non portare da nessuna parte, ma che meritava di essere sviluppato. Era un filo che doveva continuare a essere seguito.
  Noi, per esempio, grazie a Chelazzi individuammo la persona proprietaria dell'appartamento in cui il comitato esecutivo delle Brigate Rosse si riuniva e dove fu decisa l'uccisione di Moro. Si tratta di un certo architetto Barbi.
  Mi consta che l'architetto Barbi sia stato interrogato da Ionta. Che ha detto a Ionta ? Se il proprietario di una casa offre alle Brigate Rosse la sua abitazione perché vi si riunisca il comitato esecutivo che deve decidere della sorte di Moro, forse la formulazione di un'accusa di concorso in omicidio sarebbe stata eccessiva, ma la contestazione di un'ipotesi di favoreggiamento sarebbe rientrata nella normale prassi giudiziaria. Barbi era già stato condannato, perché parte del comitato rivoluzionario toscano, ma di fronte alla possibilità di un nuovo processo forse avrebbe potuto parlare, raccontare più cose, chiarire che cosa avesse voluto dire Morucci in quella dichiarazione su chi fosse il padrone di casa. Chi era il padrone di casa l'avevamo scoperto, ma non sapevamo chi fosse l’«anfitrione», cioè l'organizzatore della riunione, e chi l'irregolare che batteva a macchina i comunicati delle Brigate Rosse che venivano distribuiti in tutta Italia. C'erano poi le indicazioni convergenti di Chelazzi e Tindari Baglione sul ruolo di vertice di Senzani nelle Brigate Rosse già durante il sequestro Moro.
  L'effetto di tutto questo – l'ho già raccontato l'altra volta – fu per me devastante. Ci fu un frettoloso ascolto di Bonaventura da parte di Ionta, per dargli la possibilità di ritrattare quello che aveva detto sul fatto che una parte dei documenti fosse stata tolta dal covo per essere mandata a Dalla Chiesa prima che ci arrivasse Pomarici. Ci fu anche l'ascolto – se non sbaglio – del dottor Spataro su quel tema. In sostanza, ci fu un depotenziamento di tutto quello che Bonaventura ci aveva raccontato, cui seguì poi la chiusura dell'inchiesta.
  L'altra volta io sono incorso in un equivoco, perché avevo capito che stavate acquisendo la richiesta di archiviazione dell'inchiesta sulla motocicletta Honda. Si tratta, però, dell'indagine recente, quella sull'ipotesi dei due agenti dei servizi.

  PRESIDENTE. Lei si riferiva all'archiviazione Ionta ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Sì, all'archiviazione Ionta. Sarebbe interessante vedere perché chieda l'archiviazione, come essa venga disposta e capire da lui perché quegli spunti d'indagine non siano stati sviluppati. È come se un filo che noi avevamo seguito e che, a un certo punto, avevamo affidato in mano alla procura di Roma si sia interrotto. Mi è rimasto questo rincrescimento e insieme questa curiosità intellettuale.

  FEDERICO FORNARO. Passo all'ultima domanda. Quattordici anni fa lei scrive, in riferimento al caso Moro: «La Pag. 7verità ricostruita finora è abbastanza insoddisfacente e denuncia contraddizioni, inverosimiglianze e aporie». È un'affermazione che mi sento di sottoscrivere.
  Più avanti, lei parla di «un patto di omertà che lega brigatisti, ceto dirigente e istituzioni». A cosa si riferiva e soprattutto, a suo giudizio, quel patto di omertà vale ancora oggi ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Sul primo profilo il fratello di Moro, che era allora ancora un magistrato in servizio, ha scritto un libro bellissimo in cui, partendo dall'agguato di via Fani e arrivando al trasporto di Moro da via Fani a via Montalcini, alla prigionia e all'uccisione, dimostra – se non sbaglio – dodici o tredici aporie, ossia cose che non tornano.
  Quanto alla seconda domanda, è un'impressione. Devo dire che l'esito che ha avuto la consegna alla procura di Roma del nostro materiale ha rafforzato in me questo puro sospetto, ossia che, a un certo punto, siano stati pagati dei prezzi di impunità per consentire agli apparati, in particolare a Dalla Chiesa, di sconfiggere, come meritoriamente ha fatto, le Brigate Rosse. Su quei prezzi di impunità c’è un patto di silenzio per cui non si vuole andare avanti. Questa, naturalmente, è una mia impressione, ma è l'impressione del muro contro cui io ho picchiato e che mi fu anticipata da quella assolutamente inopinata e forte opposizione che noi trovammo non appena imboccammo quel filone di indagine.
  Vi ho già detto che il figlio del generale Dalla Chiesa e Spataro fanno un Libro bianco per dire che io volevo infangare il nome di Dalla Chiesa, perché sospettavo – ed era vero che lo sospettavo, era una delle ipotesi – che in via Monte Nevoso ci fosse un infiltrato. Poi addirittura cento deputati di tutti i partiti (nessun senatore, però) scrivono una lettera al Presidente della Repubblica per chiedere di fermare l'inchiesta della Commissione. Quando succedono quelle cose, tu hai l'impressione che senza volerlo, forse addirittura in maniera inavvertita, stai mettendo le mani su un nervo dolente e che, quindi, in qualche modo devi essere fermato. Noi non ci fermammo, però. Alla fine abbiamo concluso qualche cosa, ma non tutto quello che avremmo potuto concludere.

  PRESIDENTE. Presidente Pellegrino, si tratta di una sorta di trattativa a fini buoni ? Mi esprimo così, visto che è un'espressione che va di moda.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Direi di sì. Lo dissi l'altra volta: è difficile combattere battaglie così difficili come quella che si è combattuta contro il sequestro Moro senza pagare qualche prezzo anche in termini di impunità e quindi di legalità. Forse, però, storicamente sapere quali prezzi siano stati pagati a distanza di tanti anni sarebbe giusto.

  PRESIDENTE. Dopo trentasei anni sarebbe giusto saperlo.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Ce lo potrebbero pure raccontare.

  CARLO GALLI. Presidente Pellegrino, ho una domanda che nasce dalla sua relazione della volta scorsa. Lei ha detto che nel contrasto al caso Moro fu svolta un'attività di facciata da parte delle forze dell'ordine, ma che, a un certo punto, l'azione sotterranea, che sarebbe potuta essere ben più efficace per liberarlo, fu interrotta.
  Il procuratore generale Ciampoli ha collegato quella interruzione alla presenza in Italia di Pieczenik come parte di una strategia specifica, volta a porre come primo obiettivo dell'azione delle istituzioni la secretazione delle eventuali rivelazioni di Moro e a pagare, a fronte di questa secretazione, il prezzo della morte di Moro.
  L'elemento che pare presenti qualche fattore di problema è il seguente: perché le Brigate Rosse, dopo aver detto che avrebbero riferito al proletariato le eventuali rivelazioni di Moro, cessano da quella linea, da quella strategia, e non rendono pubblico ciò che esse ammettono di avere sentito da Moro ? C’è una qualche evidenza Pag. 8che questo comportamento, che può sembrare assurdo, sia una sorta di contropartita di una trattativa, non tanto con le forze di polizia, quanto con pezzi di apparati italiani e non italiani ? C’è un'evidenza, non dico una prova di carattere giudiziario, ma qualche cosa più che un sospetto, che in realtà dietro quel brusco cambiamento di strategia ci fossero dei rapporti che qualcuno ha istituito con le Brigate Rosse ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Innanzitutto la ringrazio di questa domanda, che nella parte iniziale mi dà una grande soddisfazione intellettuale, perché io ritenevo che quello fosse un mio pensiero. Qualche volta mi sono anche domandato se non ci stessi riflettendo troppo e se non mi stessi fissando su tutte queste vicende. Vedo che, per la prima volta, c’è un magistrato italiano che lo prende sul serio, se ho capito la domanda.

  CARLO GALLI. Sì.

  GIOVANNI PELLEGRINO. In realtà, era il contenuto della traccia d'indagine che noi passammo alla Procura di Roma. Nel documento che vi ho fornito, quel tema è studiato. Io lo definii «la teoria del doppio ostaggio». A un certo momento, cioè, le Brigate Rosse avevano cercato di piegare lo Stato a una trattativa, ponendo come prezzo della trattativa la liberazione di Moro, ma non avevano ottenuto successo. A quel punto hanno pensato di poter mettere sul campo un secondo oggetto di trattativa, che erano non tanto le cose che Moro aveva loro rivelato – il senatore Gotor ha scritto un paio di libri importanti su questo argomento – che pure erano importanti, quanto le cose che Moro avrebbe potuto dire e che nessuno sapeva quali fossero.
  Su questo punto le Brigate Rosse aprono una trattativa che, secondo me, aveva due destinatari. Da una parte c'erano coloro che potevano avere interesse a coprire il segreto, ossia gli apparati occidentali. Se Moro era in possesso di segreti sensibili per l'Alleanza occidentale, l'Alleanza occidentale aveva interesse a che quei segreti non venissero propalati. Dall'altra parte c'era chi aveva interesse a carpire quei segreti, ossia i servizi del blocco orientale. Secondo me, su questo punto l'offerta è duplice da parte delle Brigate Rosse: «Noi abbiamo in mano queste carte: chi offre di più ?»
  Un libro scritto da Alberto Franceschini, che si intitola La borsa del presidente, è sparito misteriosamente dalle librerie. Io, però, l'ho letto. Franceschini collega tutto all'Hyperion e a uno del Superclan che poi era finito nell'Hyperion. Franceschini ritiene che le carte Moro siano state commerciate da Moretti a fronte di un salvacondotto personale. Moretti, cioè, riesce a guadagnare il prezzo della sua libertà per alcuni anni perché, in realtà, mercifica quei documenti, costituiti dai documenti del processo cui si aggiungono i documenti delle borsa di Moro, che, come è noto, non sono mai stati trovati.
  Mi fa piacere che un procuratore della Repubblica di Roma abbia detto quelle cose. La domanda era: perché il suo predecessore non ha continuato le indagini nella direzione da noi indicata ? Rispetto alle audizioni che noi facemmo di Ionta e degli altri magistrati che si erano occupati di tali questioni, l'aspetto di ciò che avveniva dall'altra parte della barricata durante il sequestro Moro era completamente ignorato. Non c'era alcun interesse indagativo su questo.

  ANTONIO DISTASO. Saluto il senatore Pellegrino e pongo due questioni, di carattere forse meno stringente dal punto di vista investigativo, ma sicuramente importanti dal punto di vista storico-politico, su cui si è molto discusso in questi anni. Arriverò alla domanda per chiedere se ci sono ancora alcuni aspetti personalmente a me non del tutto chiari. Enuncio le due questioni, poi il senatore mi dirà se vuole che interrompa a metà.
  La prima domanda riguarda il ruolo del Partito socialista italiano. Come è noto, c'erano la posizione ufficiale, che fu resa nota all'epoca da Craxi e da chi ricopriva ruoli di livello, come Signorile, che era un Pag. 9esponente di primo piano: sono noti e acquisiti agli atti – credo, per quello che ho letto – i suoi rapporti con taluni esponenti di Mondo Operaio o con organizzazioni collaterali che forse operavano in quella zona grigia tra la politica e il confine con l'illegalità all'epoca della lotta armata.
  Richiamo queste circostanze per dire che, al di là dell'importanza storica, mentre c'era la linea ufficiale della fermezza di gran parte della DC e del Partito comunista, il PSI ebbe il coraggio di avere, all'epoca, una posizione ufficiale diversa, che poi penso abbia praticato.
  In proposito ricordo di aver letto che ci fu un contatto ben preciso con una persona detenuta in un carcere della Calabria, se non ricordo male, che forse rappresenta la vera traccia dell'indicazione di via Gradoli, al di là di tutte le altre cose che sono state dette sui professori di Bologna e sulle sedute spiritiche. Ci fu un'indicazione precisa riguardo la questione di via Gradoli. La prima domanda è se risulta che agli atti del lavoro fatto dalla sua Commissione o di chi altro ha lavorato in questa direzione esiste qualche traccia documentabile, che non sia solo gossip. Questa è la prima domanda.

  GIOVANNI PELLEGRINO. A questa domanda specifica, a mia memoria, risponderei di no. Non mi ricordo che questo sia emerso dalla nostra indagine. Naturalmente, il materiale della nostra indagine era notevolissimo e, quindi, potrei non ricordare tutto.
  Tuttavia, con riferimento all'inizio della sua domanda, una delle audizioni più interessanti che noi abbiamo avuto in Commissione, a mio personale giudizio, fu quella di Claudio Signorile. L'audizione fu chiarissima, innanzitutto nel dare un senso all'iniziativa politica che, a un certo punto, il Partito socialista assunse quando anche i suoi membri ebbero l'impressione che si continuasse soltanto con operazioni di facciata, ma che una vera intenzione di salvare Moro fosse venuta meno. Con realismo politico Signorile ci disse che, naturalmente, agivano anche per una finalità politica, ossia per aprirsi un varco nella morsa, che sentivano chiudersi su di loro, dell'intesa fra DC e PCI. Aprire uno spazio alla liberazione di Moro probabilmente avrebbe posto in crisi quell'intesa.
  Io vi inviterei a rileggere quelle che sono ritenute, a mio avviso a torto, le pagine finali del memoriale di Moro. Se le critiche che Moro muove da un lato ad Andreotti e dall'altro a Berlinguer fossero state rese pubbliche, la solidarietà nazionale non sarebbe durata un giorno di più. Lo stesso Cossiga – non ricordo se nell'audizione o in un colloquio privato – mi disse che si era dimesso da Ministro dell'interno perché quella era la condizione per cui il Governo della solidarietà nazionale non cadesse subito per il semplice fatto dell'uccisione di Moro.
  Signorile, quindi, fu chiarissimo: ritenevano che tutto si fosse fermato in quell'azione sotterranea degli apparati e che bisognasse prendere iniziative per vedere se si potessero riallacciare quelle trattative sotterranee.
  In effetti, qualche cosa la ottennero, perché, tramite Pace, contattarono Morucci e Faranda, che, a seguito di quel contatto, aprirono una contraddizione interna alle Brigate Rosse. Aprire una contraddizione all'interno delle Brigate Rosse significava innanzitutto rischiare la vita, tant’è vero che subito dopo, quando Moro viene ucciso, Morucci e Faranda escono dalle Brigate Rosse e poi – questo è un altro aspetto non chiarissimo – vengono catturati o si fanno catturare. Morucci, però, aveva portato con sé la Skorpion con cui Moro era stato ucciso.
  Su quell'aspetto specifico non ricordo nulla. Sull'iniziativa del PSI, però, Signorile è stato chiarissimo.
  Io avrei voluto confermare tutto questo sentendo Craxi. Avevamo già prenotato gli aerei per andare in Tunisia quando poi, per noti motivi, quell'audizione suscitò una sollevazione parlamentare.
  Eravamo potuti andare in Sudafrica a interrogare Maletti, che era stato condannato con sentenza passata in giudicato e, quindi, era un latitante: ciò non aveva determinato alcuno scandalo, anzi, fu l'inizio Pag. 10di un pellegrinaggio giudiziario a Johannesburg. Dopo di noi, infatti, alcuni magistrati capirono che era importante sentire Maletti e lo andarono a trovare. Si raggiunse addirittura un'intesa tra Governo italiano e Governo sudafricano per cui Maletti poté venire in Italia ed essere sentito dalla Corte d'assise di Milano senza che ciò destasse scandalo. Destò scandalo, però, che noi andassimo a sentire Craxi in Tunisia.
  Craxi ci scrisse una lettera in cui ci disse che improvvisamente non stava bene. Io poi, però – mi fa piacere metterlo qui agli atti del Parlamento – ho ricevuto dalla figlia di Craxi un autografo del padre al Governo tunisino in cui egli diceva che era stato costretto a mentire al Parlamento italiano, perché in realtà era in condizione di fare quell'audizione, e che non l'avrebbe fatto una seconda volta.
  Secondo me, sono errori che si commettono. Dopo poco tempo Craxi morì e il Governo italiano mandò ad Hammamet Minniti, che fu sommerso da fischi e lazzi.
  Secondo me, in fondo, c'era in coloro che si opponevano anche una sostanziale sfiducia in chi vi parla in questo momento, perché si temeva che Craxi potesse fare di quell'audizione un palcoscenico per aprire una polemica contro la magistratura, il pool di Milano e così via. Io sono convinto che Craxi non l'avrebbe fatto; ma, se avesse provato a farlo, penso che in qualsiasi momento avrei interrotto l'audizione, la registrazione.
  In realtà, quello fu un errore gravissimo, soprattutto da parte del mio partito, perché l'audizione sarebbe potuta servire a favorire una distensione tra noi e una parte dell'orizzonte politico italiano. Fu un'occasione, purtroppo, francamente perduta.

  ANTONIO DISTASO. La seconda questione attiene ai rapporti con la Chiesa e il Vaticano. È nota l'amicizia personale di Moro con l'arcivescovo, poi cardinale, Montini, poi Paolo VI. Si arriva agli ultimi giorni, quando il Papa rivolge quel famoso appello pubblico agli uomini delle Brigate Rosse. Su questo tema c’è un aspetto che io non so se abbia un'importanza solo storiografica o anche dal punto di vista investigativo.
  Io dico quello che risulta a me, avendo acquisito questi dati da una deposizione della signora Moro durante uno dei processi – non ricordo quale – e da un mio colloquio con la buonanima del professor Dell'Andro, a cui io ero legato anche da rapporti di amicizia familiare e che era, come noto, uno stretto collaboratore di Aldo Moro. L'episodio è questo: quando Paolo VI rivolge l'appello agli uomini delle Brigate Rosse, invitando a liberare Aldo Moro, la signora Moro dice, in una delle deposizioni, che furono fatte aggiungere al Papa le parole: «senza condizioni». Renato Dell'Andro me lo confermò personalmente.
  Chiaramente al riguardo le solite dietrologie si sono sprecate, sostenendo che fossero stati la Democrazia Cristiana, Tizio o Caio, ma non abbiamo riscontri. Il collega Grassi ha certamente più contezza e memoria di me delle circostanze e, se vorrà aggiungere qualcosa, mi farà piacere, perché credo che sia una questione molto importante. L'appello del Papa, fatto con quel trasporto emotivo, con quelle parole inusuali per un pontefice di fronte a degli assassini, aveva una sua rilevanza. Forse per me, che vivevo le cose essendo all'epoca di un'età che non mi rendeva pienamente cosciente degli eventi, quelle due parole «senza condizioni» potrebbero anche aver vanificato qualcosa che si sarebbe potuto realizzare negli ultimi giorni e nelle ultime ore.
  Passo alla domanda. Il fatto è certo, ma non si sa di più. Voi avete riscontrato qualche elemento concreto ulteriore, al di là dei «si dice» o delle impressioni ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. La risposta è negativa. Il commento che posso fare è che il primo a valutare negativamente quel «senza condizioni» fu Moro, perché in una delle ultime lettere alla moglie dice: «Anche il Papa ha fatto pochino». Vado a memoria, ma mi sembra che la frase fosse questa. E aggiunge: «Forse ne avrà scrupolo».Pag. 11
  Effettivamente, quel «senza condizioni» depotenziava l'appello, pur accorante, che il Papa faceva: «Uomini delle Brigate Rosse, mi inginocchio davanti a voi». Se il Papa l'abbia fatto di sua spontanea volontà o se sia stato indotto a farlo non lo so. Conoscendo l'amicizia di Montini per Moro, forse è difficile pensare che lo avrebbe fatto spontaneamente, perché Montini comincia a morire con la morte di Moro. Muore dopo tre mesi.

  GERO GRASSI. Intervengo solo perché stiamo parlando di questo fatto. Nella Commissione stragi c’è una dichiarazione di Guerzoni che attribuisce l'espressione «senza condizioni» a padre Macchi o al vicedirettore dell’Osservatore Romano, su input di Giulio Andreotti.
  Il Papa riceve una lettera dal Governo italiano firmata da Andreotti, Presidente del Consiglio, il quale gli fa la cornice dalla quale non muoversi. Se voi leggete attentamente la lettera di Andreotti al Papa, notate che l'espressione «senza condizioni» non è scritta alla lettera, ma sostanzialmente nella comunicazione di Andreotti al Papa quel termine c’è. Lo dico semplicemente perché lo si rileva dai reperti del caso Moro, ossia dalle lettere di Andreotti, e dai resoconti della Commissione terrorismo e stragi contenenti le dichiarazioni di Guerzoni.

  GIOVANNI PELLEGRINO. La ringrazio. La sua memoria delle cose che ho fatto io è migliore della mia, perché io questo aspetto non lo ricordavo. Ricordavo la drammaticità di quell'audizione di Guerzoni che, in buona sostanza, ci disse che il Presidente del Consiglio Andreotti era tra i mandanti delle Brigate Rosse. Sotto sotto, questo è il sospetto che venne fuori in quell'audizione. Tuttavia, non riuscimmo a trovare delle verificazioni oggettive allora e non penso che ci siano oggi.
  È vero, però, che tutto riporta alle cose iniziali che ha detto Pieczenik, ossia che era venuto in Italia non tanto per salvare Moro, quanto per impedire che il Governo italiano, trattando con le Brigate Rosse, facesse fesserie. Era chiaro, quindi, che c'era un limite alla possibilità di trattativa, che obbediva a un orizzonte di interessi superiori e che certamente ha funzionato, anche se io sono convinto che la trattativa sia andata avanti fino quasi a concludersi.
  Ne ho avuto conferma molto più tardi, quando non ero più presidente della Commissione, dall'arcivescovo della mia città, Ruppi, il quale dichiarò, prima privatamente, in un colloquio che avemmo perché io allora presiedevo la provincia di Lecce, e poi in una dichiarazione che fece alla Gazzetta del Mezzogiorno, che un vescovo calabrese gli aveva telefonato dicendo che Moro entro breve sarebbe stato liberato perché la trattativa era quasi conclusa.
  Anche se mi ripeto – i vecchi hanno la tendenza a ripetersi – io sono convinto che quella che sembra la parte finale del memoriale di Moro sia, in realtà, la stesura dell'atto che Moro fa, dicendo sostanzialmente: «Se mi liberate, questi sono i patti». Questo ha senso solo con una trattativa che era andata molto avanti e che era vicina a concludersi.

  PAOLO BOLOGNESI. Era una trattativa tra Moro e le Brigate Rosse o un discorso più vasto ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Era probabilmente la trattativa tra Vaticano e Brigate Rosse in cui Moro era coinvolto, perché le Brigate Rosse volevano sapere che cosa avrebbe fatto Moro subito dopo. Lui offre, quindi, il prezzo della rinuncia alla vita politica, di quella critica aspra che fa ad Andreotti e Berlinguer, che è una mina sotto la stabilità del Governo di solidarietà nazionale, e dell'iscrizione al Gruppo Misto. Moro, presidente dalla Democrazia Cristiana, che, liberato, si iscrive al Gruppo Misto e non al Gruppo della Democrazia Cristiana, avrebbe avuto effetti devastanti.

  FRANCESCO SAVERIO GAROFANI. Ringrazio il senatore Pellegrino per la puntualità della sua ricostruzione e anche per la pazienza che sta dimostrando nella durata dei nostri lavori.Pag. 12
  Io vorrei porgli fondamentalmente una questione. Condivido il metodo, in una vicenda così complicata e intricata, di cercare, come avete fatto voi, di individuare un filo e di seguire una traccia fino alla fine.
  Nella nostra breve esperienza, nel tratto di strada che abbiamo fatto fin qui, noi abbiamo già ascoltato molte voci e preso atto di una complessità. Vorrei sapere, secondo il suo giudizio, che grado di autonomia le Brigate Rosse hanno avuto nella progettazione, nella pianificazione e nell'esecuzione del rapimento.
  Il procuratore generale Ciampoli, in audizione, ci ha parlato di un campo di battaglia in cui già a via Fani erano presenti diversi attori dei servizi interni e dei servizi stranieri, implicitamente facendo ritenere che anche a quel livello del rapimento, cioè a quel livello di pianificazione e di esecuzione, partecipassero altri protagonisti, oltre ai brigatisti.
  È un problema di non poco conto datare a che punto di quella vicenda intervenga un'eterodirezione. È cosa diversa un rapimento, una strage compiuta con la partecipazione di servizi – se vuole – deviati, oppure compiuta soltanto dalle Brigate Rosse e poi, come dice Pieczenik, fare in modo di non liberare l'ostaggio perché questa soluzione è più utile alla ragion di Stato.
  Questa è la prima domanda.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Che cosa posso rispondervi ? Vi rispondo che provo invidia per voi, perché vi state muovendo su un quadro di acquisizioni giudiziarie evidentemente molto più avanzato e ben diverso da quello su cui ci muovevamo noi. Noi avevamo un'inchiesta romana che era tutta chiusa nell'ambito romano, in cui addirittura sembrava che ciò che avveniva a Firenze fosse fuori dall'orizzonte dell'indagine.
  Sulla base di quegli accertamenti giudiziari la possibilità che il «Tex Willer» che sparava benissimo non fosse un uomo delle Brigate Rosse restava una pura ipotesi astratta, che Morucci smentì attribuendo a se stesso quel ruolo dello sparatore infallibile.
  Era un sostituto procuratore generale quello che è venuto in audizione ?

  FRANCESCO SAVERIO GAROFANI. Era il procuratore generale presso la Corte di appello, Ciampoli.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Evidentemente la magistratura ha delle acquisizioni nuove di cui io non sono a conoscenza. Quell'audizione è pubblica o secretata ?

  PRESIDENTE. È pubblica.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Per soddisfare una mia curiosità intellettuale sarei interessato a leggere quell'audizione. Vorrei capire, però, se il procuratore generale si è limitato a dare corpo a una pubblicistica ormai infinita che c’è sull'argomento, o se ha elementi oggettivi che lo portano a dire quello che ha detto.

  FRANCESCO SAVERIO GAROFANI. Nella scorsa audizione lei individuava, se non ricordo male, nel comunicato n. 6 del 15 aprile 1978 il momento di svolta nella gestione dei cinquantacinque giorni e, quindi, della fine di Aldo Moro. Perché, se è così, la prima lettera a Cossiga viene subito resa nota, tradendo il patto di segretezza che era stato stipulato ? Non ritiene che sia quello, invece, il momento in cui si segna tragicamente il destino di Moro ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Dalla pubblicazione di quella lettera la situazione di Moro diventa oggettivamente più difficile, perché qualsiasi trattativa avrebbe dovuto tenere presente che egli aveva detto sostanzialmente: «Potrei raccontare...». Il fatto che Moretti la pubblichi potrebbe significare che in quella fase iniziale Moretti fosse già fermo nell'idea di dover uccidere l'ostaggio.
  L'ultima telefonata che fa, però, è una telefonata drammatica, quando sembra Pag. 13voler dire: «Fate qualche cosa che ci consenta di salvare la faccia, senza che lo uccidiamo». Se in quel periodo, in quei cinquantacinque giorni, avesse avuto un percorso di coscienza che gli avesse fatto cambiare idea, non lo so. Moretti non ha mai voluto essere sentito dalla Commissione stragi. Sostanzialmente, come diceva Morucci, è una sfinge, non parla.
  Per me la svolta, però, sta in una frase di quel comunicato. A un certo punto c’è scritto: «A questo punto facciamo una scelta». È proprio la dichiarazione di un'inversione di rotta, o di una parziale correzione di rotta: «Non renderemo pubblica, ma affideremo ai mezzi di divulgazione dell'organizzazione clandestina la verità che Moro ha confessato».
  Secondo me, in quel momento Moretti lancia l'idea di poter avere una seconda moneta di scambio per l'apertura di una qualche trattativa, per tendere a che cosa non lo so: da parte dello Stato il riconoscimento politico, che è quello che i brigatisti volevano; da parte di altri la distruzione o la consegna delle carte, a seconda degli interessi opposti dei due schieramenti.

  FRANCESCO SAVERIO GAROFANI. L'ultima domanda riguarda la possibilità presunta di una trattativa di cui parlavano i socialisti.
  Lei ha fatto riferimento all'audizione di Signorile e si è soffermato a lungo anche sull'ipotesi di andare a incontrare Craxi. Per completezza e per quello che risulta, avendo conosciuto alcuni di quei protagonisti da vicino, immagino che abbiate sentito anche la voce della Democrazia Cristiana.
  Io ricordo che Bodrato, che guidò una delegazione democristiana all'incontro con i socialisti, tornò dicendo di non aver avuto alcun elemento concreto di una possibile trattativa, solo la manifestazione legittima di una scelta politica, come lei ha correttamente spiegato.
  Credo che Zaccagnini e Bodrato fossero personaggi al di sopra di ogni sospetto per l'amicizia e i rapporti personali con Moro. Immagino che nessuno possa anche soltanto sospettarli di aver ceduto, su quel piano, a una ragion di Stato superiore, nascondendo qualcosa.
  Per correttezza e per quel che risulta – immagino che l'abbiate sentito anche voi nell'audizione – quella delegazione di democristiani tornò dall'incontro con i socialisti senza alcun elemento concreto ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Bodrato non mi sembra che l'abbiamo sentito. Galloni sì. In realtà, però, che cosa avrebbero dovuto riferirgli i socialisti ? I socialisti lanciarono un amo. Parlarono con Piperno, il quale parlò con Pace, in un momento in cui non era noto che Pace fosse entrato a far parte delle Brigate Rosse. Pace era nell'area di Potere Operaio o dell'autonomia, ora non ricordo. I socialisti lanciavano all'interno questo canale e facevano arrivare alle Brigate Rosse l'idea che si sarebbe potuta aprire una trattativa. Se, però, poi abbiano avuto risposte, non lo sappiamo.
  Sta di fatto che Piperno ci disse che gli rimase sempre il sospetto che a Moretti non fosse stata riferita quell'iniziativa, tant’è vero che volle incontrarlo nel luglio del 1978 in una casa che ci descrive confusamente, ma che ci dice essere vicina a Piazza Cavour. Restò sorpreso dall'ambiente che frequentava quella casa, che gli fece capire che le Brigate Rosse erano molto meno isolate di quanto si poteva pensare che fossero.

  FEDERICO FORNARO. Mi collego alla domanda e alla risposta del collega Garofani. Lei la settimana scorsa – su questo punto è tornato più volte – parlava di una torsione che avviene all'incirca attorno alla metà di aprile. Questo fatto potrebbe essere collegato alle dichiarazioni che farà successivamente, in un libro-intervista, il famoso americano dal nome impronunciabile, il quale afferma di portare avanti una strategia dei due tempi. All'inizio, Pieczenik sostiene, apriamo e diamo un segnale di disponibilità alla trattativa, per prendere tempo. Prendiamo tempo anche per Pag. 14capire se riusciamo a prenderli. Poi, invece, attuiamo la strategia che lei ha descritto, per la quale, alla fine – per dirla in estrema sintesi – Moro morto era meglio che Moro vivo.
  Secondo lei, il 18 aprile e, quindi, il comunicato relativo al Lago della Duchessa e la scoperta di via Gradoli si collocano all'interno di questa sua interpretazione e potrebbero star dentro anche in questo piano a due tempi di Pieczenik ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Può darsi. Forse uno dei più bei romanzi di Márquez è Cronaca di una morte annunciata. Quando un evento si determina senza che nessuno lo voglia veramente fino in fondo, una serie di singole azioni finisce poi, guidata dal fato, per convergere verso l'esito fatale.
  Da quello che diceva lei, verrebbe fuori quasi una vicenda speculare: Pieczenik che agisce sui due tempi, Moretti che agisce sui due tempi e i socialisti che cercano di inserirsi al determinarsi del secondo tempo per vedere se il secondo tempo potesse avere uno svolgimento diverso.
  Non lo so, francamente.

  FEDERICO FORNARO. Come ultima osservazione, se fosse vera e provata questa strategia a due tempi, il ritrovamento di via Gradoli andrebbe visto sotto una luce completamente diversa. Qualcuno ha voluto far trovare via Gradoli, qualcuno ha voluto lanciare un messaggio doppio: Lago della Duchessa e via Gradoli.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Il problema è chi ha messo la scopa, chi ha messo la doccia sulla scopa, chi ha fatto piovere nella casa di sotto. La verità, per esempio, secondo Ionta – questo non è consacrato nelle sue audizioni, ma me lo disse privatamente – era che Morucci voleva far fuori Moretti, perché voleva contrastare la deriva militarista delle Brigate Rosse.
  Pertanto, creò quella sorta di trappola per determinare l'irruzione nel covo, nella speranza che venisse catturato Moretti. È un'ipotesi di Ionta, però.

  FEDERICO FORNARO. È altrettanto vero, però, che il fatto di aver reso pubblica immediatamente la scoperta del covo rende impossibile, attraverso i pedinamenti, seguire chi abitava in quel covo e arrivare evidentemente...

  GIOVANNI PELLEGRINO. Moretti lo vede alla televisione.

  FEDERICO FORNARO. Dice: «Guarda, quella è casa mia».

  GIOVANNI PELLEGRINO. Potremmo interrompere per due minuti ?

  PRESIDENTE. Facciamo una pausa e poi riprendiamo.

  La seduta, sospesa alle 14.35, riprende alle 14.40.

  PRESIDENTE. Riprendiamo la seduta.

  MARCO CARRA. Grazie, presidente Pellegrino. Io sono tra coloro i quali, sulla base evidentemente delle letture e di qualche studio, si sono fatti l'idea che questa vicenda e, più in generale, la vicenda del terrorismo rosso, con particolare riferimento alle Brigate Rosse, non sia unicamente italiana, ma abbia contorni di carattere planetario e, quindi, stia dentro un determinato contesto storico-politico, con interessamenti e attenzioni da parte di molti soggetti extra-italiani.
  In questo quadro intendo farle una domanda di carattere generico relativa a Mario Moretti, figura della quale in questi primi incontri della nostra Commissione non si è parlato. Io sapevo che, nonostante i reiterati tentativi, egli non ha mai inteso partecipare alle attività, o meglio alle audizioni che gli venivano richieste da parte delle Commissioni d'inchiesta. Forse è il caso di reiterare nei suoi confronti – e magari anche di qualcun altro, poi ci ragioneremo meglio – una richiesta.
  Moretti è una figura la cui biografia è piuttosto nota ed è stata descritta, dal mio punto di vista, in modo impeccabile, dal Pag. 15collega Flamigni, il quale le ha dedicato un libro vero e proprio. È una biografia del tutto particolare.
  Lei poco fa ci ha ricordato che, secondo Franceschini, Moretti guadagna la libertà perché mercifica documenti in suo possesso. Questa considerazione mi porta a dire che Moretti abbia avviato una trattativa in un momento successivo, ma che questo escluda il fatto che egli fosse un uomo dei servizi segreti.
  Sulla figura di Moretti le pongo una domanda. Ciò che viene raccontato, ciò che è stato detto dallo stesso Franceschini e da altri in riferimento a lui, ha un fondamento ? Può essere considerato un uomo legato a determinati apparati ? Ripeto, la sua biografia è piuttosto chiara e alcuni collegamenti lo sono altrettanto. La «casualità» vuole che quest'uomo sfugga in diverse circostanze agli arresti di altri capi brigatisti. Da un lato, sembra un assassino fantoccio, un terrorista fantoccio, un uomo con il profilo del delinquente; dall'altro sembra un fantoccio in mano a qualche entità superiore. Non uso a caso il termine «entità», che viene spesso utilizzato anche in riferimento a Hyperion.
  Naturalmente, la figura di Moretti – questa è la mia domanda, lo ripeto, di carattere generale – si associa a una seconda, perché Moretti e Cossiga, dal mio punto di vista, sono due facce della stessa medaglia. Mi riferisco a Cossiga Ministro dell'interno fallimentare, che ha prodotto un fallimento, appassionato di servizi segreti, che, dal mio punto di vista – può darsi che io sia stato profondamente condizionato da determinate letture – si diverte a giocare alla guerra facendo posti di blocco un po’ dappertutto. Quello era il suo divertimento, così narrano le cronache. È un ministro totalmente subalterno agli Stati Uniti, in particolare alla figura di Kissinger.
  Le chiedo una sua opinione. Lei ci ha indicato – credo che sia stato preziosissimo, almeno per quanto mi riguarda ascoltarla è stato davvero illuminante – alcuni lati oscuri che dovrebbero essere approfonditi dalla Commissione. Io non voglio pensare che il Viminale dell'epoca rientri all'interno di questo paragrafo. Tuttavia, interrogarci e aprire una sorta di capitolo per comprendere che cosa sia stato il Viminale dell'epoca mi pare interessante. Io non credo che il Ministero dell'interno sia escluso da questa vicenda, tutt'altro. Tralascio il giudizio politico su Cossiga: per me può bastare il fatto che dicesse che Gladio era il luogo del patriottismo; questo per me la dice tutta, dal mio punto di vista. Il Viminale, all'epoca, era praticamente la loggia P2. Io credo che anche comprendere meglio che cosa sia stato quel ministero potrebbe forse aiutarci a comprendere un po’ più nel dettaglio questa vicenda.
  Questi sono i due macro-capitoli che intendevo sottoporle, chiedendole una sua autorevole opinione. Grazie.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Io rispetto a voi sconto il carattere datato delle mie informazioni e anche della letteratura che era disponibile quando mi sono interessato per un compito istituzionale di tutte queste vicende.
  Io rimasi molto colpito dall'affermazione di Dalla Chiesa alla Commissione Moro per cui le Brigate Rosse erano una cosa e le Brigate Rosse più Moretti una cosa diversa. Dalla Chiesa sottolineava la frequenza dei viaggi all'estero di Moretti e, quindi, la possibilità di suoi contatti con l’intelligence straniera. L'impressione che io ho avuto su Moretti, però, è che non fosse un fantoccio. Moretti, anche per dichiarazione di Ionta e dei magistrati che l'avevano interrogato, è un capo militare di notevole attitudine, un organizzatore, un personaggio estremamente attento ai dettagli, che spesso sfugge alle insidie. Quando viene criticato, per esempio, da Franceschini per il modo con cui sfugge alla cattura consentita dall'infiltrazione di frate Girotto, Moretti risponde dicendo che la verità era che Franceschini e Curcio stavano sempre insieme perché, essendo tutti e due innamorati della Cagol, non si mollavano. Ognuno doveva sorvegliare l'altro. Non è un capo politico, però. L'idea che ho avuto io è che Moretti, quanto alla Pag. 16gestione politica del sequestro Moro, indubbiamente doveva avere suggeritori più alti. L'idea che mi feci allora è che non ci fosse bisogno di andare a guardare molto lontano, perché nelle Brigate Rosse c'erano persone che indubbiamente, rispetto allo spessore politico e alla cultura politica, erano superiori a Moretti. Ho fatto l'altra volta non solo il nome di Senzani, ma anche quello di Fenzi, il cognato di Senzani. Anche i contatti di Moretti con il Superclan sono abbastanza accertati, soprattutto con Simioni. Ripeto, però, che non ne farei un fantoccio.
  Su Cossiga le dico, francamente, che abbiamo un giudizio completamente diverso. Secondo me, Cossiga era un grande agente occidentale. Lui è il vero protagonista – se non sbaglio, l'ho detto anche l'altra volta – della nascita del Governo D'Alema. Ha creato l'UDR per dare un supporto a una maggioranza che aveva perduto Bertinotti. Va in Libia e tratta con Gheddafi la consegna dei due di Lockerbie. Era una persona pienamente inserita nel sistema dell’intelligence occidentale, naturalmente a livello nazionale, il che lo condizionava e ne limitava l'azione.
  Nella vicenda Moro, Cossiga ha coscienza di essere condizionato e limitato nell'azione, ma per tale circostanza paga un prezzo personale fortissimo, ne resta profondamente segnato. È una ferita che non passa, tant’è vero che, nella speranza di riuscire a uscire da quella sorta di strettoia dei condizionamenti, elabora il piano Victor. Si trattava di un piano molto circostanziato, autografo di Cossiga, che però dimostrava la speranza che quei corpi di polizia e quegli apparati a cui Cossiga aveva dato fiducia riuscissero a individuare la prigione di Moro, a fare un blitz e a salvarlo. Probabilmente non gliel'avrebbero fatto fare, su questo sono d'accordo, ma non per sua responsabilità, bensì perché ognuno gioca nella vita le carte che il destino gli mette in mano e Cossiga era responsabile del Viminale di un Paese inserito in un'alleanza di tipo imperiale, nel momento in cui due imperi combattevano una guerra mondiale a bassa intensità. Pertanto, la situazione era, per forza di cose, condizionata.
  Probabilmente, se io mi riaggiornassi e leggessi la nuova biografia di Moretti e i nuovi documenti, potrei anche cambiare idea. Solo gli stupidi non cambiano idea.

  LUIGI COMPAGNA. A quest'ultimo proposito, non certo per far cambiare idea all'amico Pellegrino, che ringrazio e che ho trovato in ottima forma rispetto ai tempi antichi in cui era presidente della Commissione per le autorizzazioni a procedere, nel 1992, io aggiungerei alla considerazione fatta a proposito di Cossiga che egli era e si sentiva «ufficiale in servizio permanente» dell'alleanza occidentale proprio grazie al suo rapporto con Aldo Moro: quindici anni prima del 1978, Moro aveva pensato a lui, giovane costituzionalista con alle spalle la sua prima legislatura.
  L'angolazione che vorrei porre al presidente Pellegrino mi riconduce ad alcune evocazioni da lui fatte questa mattina. Egli ha evocato una trattativa che si svolge certamente e che non va a buon fine, nella quale, a suo modo, è protagonista lo stesso Aldo Moro. Ci ha invitato più volte a rileggere attentamente i testi di Moro. Io lo trovo un ottimo suggerimento.
  Io ricordo – forse lo ricorda anche Pellegrino – che non è ancora arrivata alcuna lettera di Moro, rapito due giorni prima, quando esce un fondo sul Corriere della Sera di Alberto Ronchey. È un articolo, come si addice al giornalismo di Ronchey – il quale, non a caso, era chiamato «l'ingegnere» da Fortebraccio – tutto di fatti. Spiega da dove vengono le Brigate Rosse, menziona Reggio Emilia, spiega se ci possono essere collegamenti. Riferendosi a Moro, dice in sostanza: «Moro è effettivamente il vertice del sistema politico italiano, di una certa storia, di una certa evoluzione. Adesso voglio vedere che fa: si mette a fare le convergenze parallele con le Brigate Rosse ?» Non c'era nulla di qualunquistico. Quella ipotesi era formulata con una certa eleganza. Ciononostante, alcuni amici personali Pag. 17di Moro – penso a Spadolini – reagirono dicendo che questo Ronchey era proprio un cafone. In qualche modo io, però, ho l'impressione che sia proprio quello che Moro ha fatto costantemente in quei cinquanta giorni.
  Collega Garofani, lei parlava dell'elemento concreto. È chiaro che l'elemento concreto non può provenire dal carcerato Moro. C’è, però, un terreno concreto su cui Moro insiste caparbiamente, in modo cocciuto, proprio da giurista pugliese, per usare questa espressione. Qual è ? «Prezzi di legalità – per usare l'espressione pellegriniana di questa mattina – in passato ne abbiamo pagati parecchi e abbiamo fatto operazioni importanti, chiedetelo al colonnello Giovannone. Abbiamo fatto operazioni importanti e le abbiamo pagate con prezzi di legalità in vicende che riguardavano il terrorismo mediorientale». La più attuale, ovviamente, era la vicenda di Fiumicino di qualche anno prima, che portò quasi alla rottura diplomatica con Israele.
  Passo alla mia domanda a Pellegrino. La volta scorsa su questo terreno di ricerca di tracce investigative – uso il suo linguaggio – voi vi siete sentiti limitati dalla condizione internazionale di quei Paesi, o li trascuraste perché preferiste ripercorrere tutta la vicenda delle indagini della magistratura (Roma, Firenze e via elencando) ?
  A mio parere, se noi attribuiamo importanza soprattutto a quella drammatica conclusione, all'ultimo scritto di Moro, vediamo che si sente deluso dal suo partito e dall'ipotesi politica che aveva concorso a determinare. Addirittura la rifiuta, la respinge. Ci sono considerazioni sul Gruppo Misto. Tuttavia, erano cose già affiorate in lettere, talvolta addirittura con eccessi di cattiverie ad personam verso Zaccagnini o Cossiga.
  Il terreno concreto che si va dipanando, per quanto ne possiamo sapere noi, è soltanto quello di fare qualcosa di analogo a quanto si era fatto e, secondo Moro, si era adusi a fare nei confronti del terrorismo palestinese.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Anche Moro era inserito pienamente nell'Alleanza atlantica. Su questo non c’è dubbio. Anzi, Cossiga più volte ha sottolineato che, quanto a rapporti con i servizi segreti, Moro era più bravo di lui. Direi, però, che, mentre Cossiga era un atlantico ortodosso, Moro era incline a una qualche eterodossia, cioè a tendere agli estremi, ai limiti la compatibilità con gli interessi dell'Alleanza per acquistare sul piano nazionale maggiore libertà di azione. La stessa vicenda della solidarietà nazionale andava in quella direzione.
  L'ammiraglio Martini, però, alla fine disse che l'Alleanza aveva trovato una soluzione che rendeva compatibile l'ingresso dei comunisti nella maggioranza di governo con la permanenza dell'Italia nella NATO: era una legge di riforma della Presidenza del Consiglio, con la creazione di un livello di cabinet di cui facessero parte il Presidente del Consiglio e i Ministri dell'interno, della difesa e degli esteri, a cui i comunisti non avrebbero potuto accedere, e un livello più basso del Governo in cui, invece, l'apertura ai ministri comunisti poteva essere accettata. Questa soluzione era stata studiata a livello di intese tra le varie intelligence militari dei Paesi dell'Alleanza, i quali, naturalmente, non potevano consentire che persone del PCI fossero a conoscenza di determinati segreti strategici.
  Quanto a noi, cercavamo il bandolo di un filo, ma non sapevamo quale dei vari fili ci avrebbe potuto portare a quel livello. Non escludevamo che questo potesse avvenire. In realtà, il filo che abbiamo seguito, secondo me – lo dico senza falsa modestia – anche piuttosto bene e con un poco di fortuna, che ci ha fatto andare da Firenze a Milano, da Milano a Firenze e via discorrendo, avrebbe potuto poi svilupparsi al livello a cui diceva lei. Questo se, però, si fosse indagato veramente, per esempio, sul ruolo di Senzani, una persona – l'onorevole Carra poc'anzi faceva riferimento a Moretti quanto a possibile doppiezza – due volte più doppia di Moretti quanto a rapporti, viaggi negli Stati Uniti, ritorni in Italia.Pag. 18
  Questo, però, andava al di là dei poteri concreti di una Commissione parlamentare d'inchiesta, soprattutto alla fine di una legislatura in cui, benché nel mondo la guerra fredda fosse finita, c'era un Parlamento che della fine della guerra fredda non riusciva a farsi ragione fino in fondo. Tutta l'esperienza finale della Commissione che io ho presieduto fu segnata profondamente da questo aspetto.
  Alla fine quel documento su Moro non l'approviamo per responsabilità del Gruppo di cui io facevo parte. Io l'avevo portato in Ufficio di presidenza, che all'unanimità aveva detto che si poteva approvare, salvo il rappresentante dei DS che chiese tempo per proporre alcuni emendamenti; secondo quegli emendamenti, Senzani doveva essere sicuramente un agente della CIA, o quasi, il che fece saltare tutto.
  Poi si è proseguito – la Commissione Mitrokhin fu un fatto speculare rispetto a quelle vicende – nel senso che la colpa doveva essere tutta dall'altra parte. Il Vajont ? È stata la CIA. No, è stato il KGB.
  Ora voi avete questa fortuna: mi pare che finalmente si sia presa coscienza che la guerra fredda è finita da tempo.

  LUIGI COMPAGNA. Mi scusi, ma l'unico punto di riferimento del «riconoscimento politico» – per usare la formula impiegata dalle Brigate Rosse – non può che essere quello che è avvenuto (è giusta la sua intuizione), proprio grazie a Moro ministro degli esteri, con il movimento palestinese. Quella è una forma di riconoscimento politico.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Sì, non c’è dubbio. Questo faceva parte, però, dell'eterodossia di Moro, non di Cossiga.

  GAETANO PIEPOLI. Presidente Pellegrino, vorrei porle una domanda. Nella sua valutazione, anche sulla base dell'enorme lavoro che è stato fatto dalle Commissioni d'inchiesta e dalle istruttorie da lei svolte, in relazione alla sua opinione rispetto agli attori e ai protagonisti di quella vicenda, si può dire che in fondo l'unico che abbia consapevolezza che il suo rapimento rappresenta per il sistema politico-istituzionale italiano l'equivalente di un colpo di Stato sia solo Aldo Moro ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Sì. Penso che lei abbia pienamente ragione e questo mi consente di completare la risposta al senatore Compagna.
  Non c’è dubbio che il capo del partito della trattativa sia Moro. Il vero stratega della trattativa è lui. È Moro che, in una condizione difficilissima, tenuto conto della cultura e dei mezzi intellettuali che aveva, cerca di gestire il quadro complessivo. Coerentemente con la sua filosofia e, quindi, con il suo cattolicesimo, non valeva la pena di morire: era più giusto salvarsi.
  Naturalmente, il consiglio di studiare le carte di Moro mi viene dalla lettura dei libri di Gotor. Delle carte di Moro alcune devono essere oggetto di interpretazione. Le altre, quelle che sono uscite dal carcere e che hanno avuto dei destinatari, vanno sottoposte, invece, a quel procedimento che gli antichi studiosi del diritto romano chiamavano di duplex interpretatio, che si usava quando si trattava di risalire da un testo del Corpus iuris civilis di Giustiniano al testo del giurista classico da cui era tratto. Dei testi di Moro che sono pervenuti fuori e che hanno avuto dei destinatari bisogna vedere quale parte sia attribuibile a Moro e quale, invece, sia attribuibile al filtro imposto dai suoi carcerieri. Ancora una volta, io non penso che il filtratore fosse Moretti, ma qualcuno che avesse non la cultura e la capacità militare di Moretti, ma una cultura diversa.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il senatore Pellegrino per questa doppia occasione di approfondimento.
  Io credo che uno degli elementi salienti dei tanti spunti che il presidente Pellegrino ci ha fornito sia un asse sul quale dobbiamo porre l'accento, sia nell'acquisire documenti sia nelle prossime audizioni: il sequestro e il rapimento di Moro incrocia nelle attività investigative degli inquirenti del tempo e di tutti coloro che se ne sono occupati una trattativa che ha portato al Pag. 19risultato di far saltare le BR, ma che è costata anche qualche prezzo.
  Io credo che sia estremamente utile per capire la vicenda del rapimento e della morte di Aldo Moro, che è stata lambita o attraversata da questa vicenda, cercare di comprendere il ruolo del nucleo delle BR di Firenze e il rapporto con Senzani e altri, di capire come l'indagine della procura di Roma di allora si sia conclusa, nonché di comprendere il ruolo di Hyperion, che più volte torna.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.05.