XVII Legislatura

Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale

Resoconto stenografico



Seduta n. 14 di Giovedì 3 aprile 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 3 

Audizione del professor Franco Gallo su attuazione e prospettive del federalismo fiscale (ai sensi dell'articolo 5, comma 5, del regolamento della Commissione):
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 3 
Gallo Franco  ... 3 
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 11 
Guerra Maria Cecilia  ... 11 
Collina Stefano  ... 11 
Fornaro Federico  ... 11 
Marantelli Daniele (PD)  ... 12 
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 12 
Gallo Franco  ... 12 
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 14 

ALLEGATO: Documentazione consegnata dal professor Franco Gallo ... 15 

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3  

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANCARLO GIORGETTI

  La seduta comincia alle 8.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE . Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione del professor Franco Gallo su attuazione e prospettive del federalismo fiscale.

  PRESIDENTE . L'ordine del giorno reca l'audizione del professor Franco Gallo su attuazione e prospettive del federalismo fiscale.
  Abbiamo chiesto di chiarirci gli aspetti relativi al federalismo fiscale nell'ordinamento nazionale e i rapporti tra i diversi livelli di Governo. Abbiamo anche previsto un successivo approfondimento del tema relativo ai rapporti con l'Unione europea e all'obbligo costituzionale del pareggio di bilancio, temi sui quali ogni tanto compare la menzione in qualche dichiarazione, ma che forse la politica non sta considerando nei suoi profondi significati.
  Do la parola al professor Gallo per lo svolgimento della relazione.

  FRANCO GALLO . Vi ringrazio dell'invito, non ho avuto molto tempo per prepararmi. È molto interessante il secondo argomento, ma quando mi è stato proposto dagli Uffici della Commissione ho subito detto di no, perché quello del fiscal compact e del pareggio di bilancio è uno degli argomenti più complessi e articolati.
  Credo infatti che pochi abbiano idee chiare su quello che si potrebbe fare o sulla situazione attuale, specie con riguardo alla finanza delle regioni e degli enti locali, cioè il rapporto fra le modifiche costituzionali apportate agli articoli 97, 81 e 119, e della legge rafforzata che ha attuato queste norme costituzionali, e l'assetto della finanza regionale e locale.
  Solo per citarvi un esempio, voi sapete che le eccezioni e le deroghe derivanti dalla cattiva congiuntura, previste per quanto riguarda la finanza statale, non si applicano per quanto riguarda invece e gli enti regionali e locali.
  Non ho capito bene in tutto questo come giochi l'ultimo comma dell'articolo 119 della Costituzione, il quale dice che «possono ricorrere all'indebitamento» naturalmente i Comuni, le Province, le Città Metropolitane «solo per finanziare spese di investimento». Non capisco come questo comma si innesti in via interpretativa nella nuova normativa degli articoli 81 e 97, e quindi nel pareggio di bilancio, perché sembrerebbe una norma molto «lassista» da un certo punto di vista.
  Questi sono i temi su cui dovremmo confrontarci, e voi in Parlamento dovreste confrontarvi, perché credo che il problema debba essere affrontato. Vi consiglierei di fare un'indagine sulle riforme di questo tipo realizzate in Francia, in Spagna e in Germania, perché questi tre Paesi hanno attuato in modo diverso – a volte più severo e rigoroso, altre più aperto – il principio del pareggio di bilancio, con conseguenze diverse. Anche a me incuriosirebbe, per questo avevo chiesto tempo per studiare questi problemi.Pag. 4 
  Se invece veniamo al problema del federalismo e delle prospettive del federalismo, questo nostro incontro capita nel giorno successivo alla presentazione da parte del Governo del disegno di legge sulla riforma del Titolo V. Ho letto il testo soltanto l'altro ieri e quindi posso dirvi le mie impressioni senza avere anche qui riflettuto abbastanza, perché siamo di fronte a un testo che non è completamente in linea con i testi proposti né dai saggi del Presidente della Repubblica, né dai saggi del Ministro Quagliarello, ma è un testo che sta un po’ a metà.
  Dicevo prima al Presidente Giorgetti che mi sarebbe piaciuto partire dal discorso più generale, cioè la sussidiarietà, perché credo che quando si parla di federalismo non si debba considerare solo l'articolo 5 della Costituzione, articolo che riguarda le autonomie locali, ma anche due articoli fondamentali del Titolo V, quelli che non dovrebbero essere riformati, ma che sono collegati con il principio di solidarietà (articolo 2) e con l'articolo 5 stesso, cioè gli articoli 118, primo e ultimo comma, e 114.
  Nel momento in cui, facendo la riforma del Titolo V, si è riscritto l'articolo 114, abbattendo la piramide gerarchica dei rapporti fra fonti normative, nel senso di mettere sullo stesso piano lo Stato all'interno della Repubblica, i Comuni, le Province, le Città Metropolitane, e dando a ciascuno una propria competenza in funzione delle loro attribuzioni, quindi ponendoli sullo stesso piano, si è fatto un grosso passo avanti rispetto all'organizzazione ottocentesca del nostro Paese.
  Prima, infatti, tutti così leggevamo l'articolo 23 sul principio di legalità: prima viene la Costituzione (poi con l'ordinamento comunitario prima vengono le norme comunitarie), poi le leggi ordinarie, le leggi regionali e così via.
  L'articolo 114 ci dice che, indipendentemente dal fatto che l'ordinamento della Repubblica sta in capo a tutto in quanto fonte di legittimazione, lo Stato, le Regioni, i Comuni e le Province stanno sullo stesso livello, cosa che non vi sembra una riforma da niente e che è appunto il principio si sussidiarietà, nel senso che si è fatta la scelta di fondo, che va oltre l'autonomia, di partire nell'organizzazione del nostro Paese dal livello inferiore, salvo che poi non si dimostri che, se la gestione di governo sia migliore a livello superiore, si possa salire a livello superiore.
  Questo è scritto espressamente nell'articolo 118, in cui il primo comma, con riferimento alle funzioni amministrative, dice che sono attribuite ai Comuni al livello inferiore, «salvo che, per assicurare l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città Metropolitane e allo Stato».
  Quando è stato scritto il Titolo V, questo si riferiva soltanto ai Comuni, ma la Corte Costituzionale, con la famosa sentenza n. 303 del 2003, scritta da un grande costituzionalista purtroppo scomparso, ha consentito di applicare questo principio non soltanto alle funzioni amministrative, ma anche a quelle legislative, quindi l'articolo 118 ora si legge con riferimento anche all'applicazione della sussidiarietà alla funzione legislativa.
  Questo significa che si può chiamare in sussidiarietà nei casi in cui è opportuno che sia lo Stato o la Regione in funzione dell'organizzazione a gestire la cosa pubblica. Questo mi sembra che sia il punto di partenza.
  Non interessa in questa sede, ma a mio avviso è molto importante, anche l'ultimo comma dell'articolo 118, dove si dice che Stato, Regioni, Città Metropolitane, Province e Comuni «favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati per lo svolgimento di attività di interesse generale sulla base del principio sussidiarietà».
  Questo significa che, così come il comma 1 organizza questo principio nell'ottica dei rapporti tra enti statali e sub-statali, l'ultimo comma l'organizza nei rapporti tra gli enti statali pubblici e il privato, invitando il privato a condividere l'amministrazione, a partecipare, e questo è il punto d'incontro fra il pensiero cattolico e il pensiero laico.
  I cattolici hanno infatti dato sempre molta importanza all'intervento dello Stato a favore delle classi povere; i laici Pag. 5 liberali hanno sempre detto che il privato deve integrare, laddove possibile, l'intervento dello Stato.
  Questo è un principio molto importante, perché in un momento di crisi finanziaria l'apporto del privato alla cosa pubblica può alleviare i problemi di finanza pubblica, salvo che questa che si può chiamare liberalizzazione o privatizzazione non diventi poi un eccesso, per cui i beni comuni diventano beni privati. Questo è un rischio che si corre a livello politico.
  Si tratta quindi di partire dall'articolo 118, ultimo comma, per giustificare un eccesso di privatizzazione oppure partire dall'articolo 118, ultimo comma (per chi ci crede) per andare verso la definitiva privatizzazione. Questo è un discorso politico.
  Tornando al federalismo come attuazione del principio di sussidiarietà, il legislatore del 2001 che ha riscritto il Titolo V ha dato la sua interpretazione del principio di sussidiarietà. Così come viene enunciato è un principio di tipo procedurale, per cui «quello che sta giù prevale rispetto a quello che sta su». L'articolo 117 significa una scelta del legislatore dell'epoca di dare una sua interpretazione della sussidiarietà, e l'ha data attraverso il riparto delle competenze legislative del secondo comma (Competenza esclusiva dello Stato), e il terzo comma (Competenza concorrente).
  Con questa premessa c’è da domandarsi che cosa non abbia funzionato, cosa sia successo, visto che l'articolo 5, il principio di autonomia, e la sussidiarietà sono princìpi fondamentali della nostra Costituzione, quindi non si possono abbandonare.
  Credo quindi che dovremmo prendere atto che la crisi del federalismo così come costruito dall'articolo 117 è una crisi di tipo congiunturale per un verso, e di tipo politico per un altro. Non teniamo conto della frettolosità, dell'approssimazione con cui sono scritti gli articoli 117 e 118, perché tutti conosciamo certi errori di fondo che sono di partenza, ma strada facendo la prima ragione della crisi del federalismo è il ciclo economico fortemente recessivo, perché questo ciclo economico ha imposto politiche di impronta centralistica, ha favorito sempre più progressive, ampie cessioni di sovranità in materia economica verso Bruxelles, quindi ha tolto spazio all'autonomismo.
  Questo non è un fenomeno soltanto italiano, perché sappiamo cosa è successo della crisi del federalismo in Germania e in Gran Bretagna. C’è voluta una riforma del federalismo nel 2006 in Germania e nel 2012 in Gran Bretagna per riaggiustare, ma con effetti gravissimi dal punto di vista delle reazioni delle popolazioni. Abbiamo letto sui giornali cosa è successo in Scozia come reazione alla riforma del 2012 del federalismo inglese. La Germania invece ha assorbito la riforma in senso di ricentralizzazione.
  Queste sono le ragioni di carattere economico di tipo storico, a cui aggiungerei le ragioni tecnico-giuridiche della crisi, che sono soprattutto l'insufficiente riparto delle competenze legislative e – almeno a mio avviso – la carente autonomia finanziaria degli enti sub statali. Quanto al riparto delle competenze sappiamo tutti quanto sia obiettivamente lacunosa l'individuazione delle materie di legislazione esclusiva, tanto che questa lacunosità ha costretto la Corte costituzionale in questi ultimi anni a occuparsi quasi sempre di questo argomento.
  Ha infatti dovuto fornire interpretazioni abbastanza espansive delle competenze statali e quindi a volte ha ampliato anche oltre misura l'area di materie come l'ordinamento civile, la tutela della concorrenza (quando uscì la sentenza della tutela della concorrenza, fu pubblicato un violento articolo del professor Giarda contro la sentenza della Corte, che aveva ecceduto in materia), il coordinamento della finanza pubblica per princìpi fondamentali, tutte materie talmente generiche che si sono prestate a essere considerate «onnivore» dalla Corte costituzionale.
  Definisco materie «onnivore» quelle talmente ampie da offrire spazio per mettervi altre materie di cui si sarebbe invece potuto discutere se spettassero alle Regioni o alla competenza dello Stato. Obiettivamente, Pag. 6 quindi, per ragioni di forza maggiore e di imperfezione della normativa ci sono state inevitabili incursioni statali negli ambiti dell'autonomia e quindi della stessa organizzazione interna delle Regioni. Dobbiamo riconoscerlo, almeno rispetto al testo uscito nel 2001.
  A ciò aggiungete quello che tutti sappiamo, la mancanza di un Senato delle autonomie, che avrebbe dovuto avere il compito di calibrare le regole della sussidiarietà, e questo ha prodotto una forte conflittualità tra Stato e Regioni, l'esplosione del contenzioso costituzionale, una pervasiva paralisi dell'azione amministrativa e politica.
  A livello parlamentare, un po’ per la presenza delle Regioni a statuto speciale e un po’ per ragioni di carattere politico, la situazione si è aggravata, perché la lievitazione dei costi di transazione delle decisioni politiche ha portato voi a scrivere sempre norme che prevedessero dei meccanismi di codeterminazione pattizia tra Stato e Regioni, e quindi in tutti i casi di intreccio di concorrenza in materie statali e regionali ci si è bloccati su questi costi di transazione.
  Individuo l'altra causa rilevante del fallimento del progetto federalista nella contraddittoria attuazione degli articoli 117 e 119 per quanto riguarda l'autonomia finanziaria e in particolare l'autonomia tributaria.
  Diciamo la verità: i riformatori del 2001 non hanno avuto il coraggio che hanno avuto i brasiliani e i tedeschi di costituzionalizzare i tributi regionali e locali, cioè il coraggio di individuare certi tributi che costituzionalmente erano nati o sono tributi da attribuire alla competenza propria delle Regioni o degli enti locali.
  Nella Costituzione tedesca c’è un'elencazione di tributi che appartengono ai Lander, anche se in Germania avviene il contrario: i tributi generali sono riscossi dalle Regioni che li passano allo Stato. Nelle Costituzioni più moderne c’è un'elencazione di tributi, perché è la garanzia dell'autonomia, dato che non si dà una garanzia finanziaria.
  Il nostro sistema, invece, come è scritto nell'articolo 117 sembrava un sistema piuttosto equilibrato, salvo questo difetto di non aver costituzionalizzato i tributi propri, perché nel secondo comma, lettera e), con una norma tautologica si è detto che è dello Stato ciò che già è dello Stato (il sistema erariale appartiene alla competenza statale), per cui tutti i tributi nati come tributi statali rimanevano statali.
  C'era però questo quarto comma, che, considerando come allora la residualità fosse abbastanza importante, consentiva di dire che tutto quello che lo Stato non aveva costruito come contributo statale è nell'autonomia o appartiene alla competenza regionale. Per come era scritto il rapporto tra secondo comma e quarto comma, sembrerebbe che non fosse necessario un intervento di coordinamento, che attribuisse i tributi alle Regioni o agli Enti locali.
  La Corte infatti ha colto questo passaggio con la famosa sentenza della Sardegna, di cui poi si è fatto il rinvio preliminare alla Corte di Lussemburgo, e ha preso atto del fatto che il quarto comma così come era scritto consentiva alle Regioni di istituire tributi che non fossero già istituiti dallo Stato. La Corte disse che la legge regionale sarda che istituiva le imposte di soggiorno per i non residenti, i turisti, poteva benissimo essere istituita, e fu una delle poche cose che la Corte non eliminò di tutte quelle imposte che erano state costruite nel sistema regionale.
  L'articolo 117 interpretato in un certo modo quindi si prestava, e la legge n. 42 del 2009, che è un po’ legge delega, un po’ legge di princìpi, ha colto questi suggerimenti, perché negli articoli 9 e 10 della legge n. 42 è scritto espressamente che i tributi locali possono essere istituiti dagli Enti locali «sia in base al legge statale, sia in base a legge regionale», per cui una via per avere una maggiore autonomia finanziaria da questo punto di vista probabilmente c’è stata.
  Per ragioni di carattere politico che non tocca a me commentare, in questi ultimi anni il Governo e il Parlamento Pag. 7 hanno fatto una scelta diversa, la scelta di potenziare il terzo comma dell'articolo 117, dare quindi importanza all'intervento dello Stato nel fissare i princìpi di coordinamento fondamentali (essendo concorrenti dovevano essere fondamentali); si è data l'interpretazione del fondamentale come l'opposto del dettaglio, non nell'ottica dei sistemi spagnolo e di altri Paesi occidentali in cui fondamentale era ciò che è quasi supremo.
  Si è quindi giustificato l'intervento dello Stato, che nelle leggi successive al 2001 ogni volta che ha dovuto occuparsi della finanza locale, indipendentemente dalla crisi di questi ultimi anni, che è un discorso più complicato in cui non entriamo (l'IMU e il resto), ha sempre dedicato norme statali a regolare, disciplinare, organizzare i tributi locali anche nei casi in cui la Costituzione avrebbe consentito alle singole Regioni volta per volta di applicare tributi senza passare attraverso il sistema statale.
  Non sto parlando di tributi importanti, perché per i tributi importanti c’è il divieto (legge n. 42) di applicarli, in base al famoso criterio secondo cui non è consentito alle Regioni di applicare imposte che abbiano gli stessi presupposti delle imposte statali, il famoso divieto della duplicazione della tassazione riguardo alla stessa ricchezza.
  Il discorso si sarebbe quindi ridotto a dare spazio agli Enti locali, a quelle politiche prettamente locali per creare tributi di scopo, tributi legati a corrispettivi. Se quindi bisogna fare delle opere, chiedo ai cittadini se siano d'accordo a finanziare queste opere e intervengo con tributi che potremmo chiamare anche contributi. Il sistema dell'Unione europea sta spostando i tributi locali verso il corrispettivo, verso le tariffe.
  Questo non è stato fatto e probabilmente quindi si è messo in crisi il sistema della finanza, perché non si è consentito (questo è un discorso molto importante, e da questo punto di vista capisco il movimento della Lega) agli enti locali di fare politiche autonome a livello locale, perché non avevano la possibilità di avere il finanziamento.
  Vorrei che fosse chiaro cosa vuol dire autonomia (autonomia tributaria, autonomia finanziaria), perché non significa dare alle Regioni o gli enti locali uno spazio per scegliere l'aliquota tra un minimo e un massimo: significa fare politiche fiscali e finanziarie strumentali e funzionali all'autonomia politica, cioè a quello che si vuol fare a livello delle proprie attribuzioni.
  Poiché non possono fare politiche libere nei servizi perché non hanno i finanziamenti che lo Stato giustamente gli lesina, l'unica via d'uscita sarebbe stata quella di dargli la possibilità di intervenire nel campo fiscale attraverso l'autonomia tributaria in senso stretto, cioè istituendo tributi propri in senso stretto, che sono ben diversi dai tributi propri in senso lato, il cui gettito va agli enti locali, ma che sono stabiliti, istituiti, determinati dallo Stato.
  Questo è un discorso di fondo che non si è mai risolto nel nostro Paese, definendo cosa sia l'autonomia tributaria. Sin dagli anni ’80, quando il Paese era in condizioni economiche migliori, si è sempre vista l'autonomia come un'occasione perché lo Stato scaricasse a livello periferico certi pesi finanziari, non come accrescimento dell'autonomia politica degli Enti locali (politica nel senso più ristretto), si è sempre cercato di sgravare il bilancio statale spostando certi carichi a livello periferico.
  In queste condizioni e dovendo riscrivere il sistema, credo che dovremmo chiederci che Regioni vogliamo, perché ho l'impressione che si stia lavorando su un testo senza avere le idee chiare su quella che dovrebbe essere la funzione delle Regioni. Non dimentichiamo che le regioni sono nate negli anni ’70, in un'ottica diversa da quello che è stata la Regione degli anni ’90.
  Le Regioni sono sicuramente un significativo centro di spesa, che però è finanziata con molta fatica, ai sensi dell'articolo 119, da quote di tributi erariali, da tributi propri derivati, comunque da tributi pur sempre di fonte statale. Per ironia della Pag. 8 sorte questi tributi locali di fonte statale sono cresciuti più dei tributi erariali, perché gli Enti locali sono stati costretti dalla crisi e dall'insufficienza della disponibilità di fondi pubblici ad aumentare i loro tributi nel range assegnato dallo Stato.
  A fronte di questa penuria delle disponibilità, la spesa invece è cresciuta. All'inizio degli anni ’70 era sotto controllo e rappresentava poco più del 30 per cento del PIL, poi sono arrivate le Regioni e l'impegno assunto era che le Regioni avrebbero dovuto assorbire risorse e personale delle Province e dei Comuni «senza aggravio della spesa pubblica».
  Le cose sono andate diversamente: il federalismo non ha frenato la spesa, le Regioni si sono date regole contabili diverse le une dalle altre, lo Stato non ha vigilato affinché questo non avvenisse, non è riuscito ad arrestare questa corsa tra spese ed entrate, e il risultato è stato ma continua messa in mora dello Stato per ottenere più risorse da parte degli enti sub statali.
  Le incongruenze sono state già ormai evidenziate da varie Commissioni, c’è stato un momento di ubriacatura regionalistica, hanno scritto gli Statuti come se fossero tante Costruzioni territoriali, c’è stato un abuso non tanto del federalismo normativo, ma dell'ottica federalista nel senso retorico. Si è pensato alle Regioni come a piccoli Stati, muniti di ampi poteri di legislazione, e in effetti la norma residuale del quarto comma lo consentiva.
  La realtà ha contraddetto questa visione ultrafederalista. Intanto c’è stata una irrilevanza politica e una sostanziale esiguità della legislazione regionale. Questa esiguità e questa crisi del dettato legislativo sono state rese ancora più evidenti dal recente rafforzamento dei controlli statali sulla spesa decentrata, effettuati nell'ambito di una visione autoritaria del rapporto centro-periferia e giustificati da esigenze di finanza pubblica.
  Ora il problema è scegliere se esautorare completamente il progetto federalista o recuperarlo, come personalmente credo debba essere fatto anche perché la nostra Costituzione ci indica questa via. La Regione a mio avviso dovrebbe essere soprattutto un ente di amministrazione, uno snodo fondamentale per l'attuazione in via amministrativa delle politiche pubbliche, dovrebbe non sovrapporsi alle organizzazioni statali, ma dovrebbe sostituirle.
  Penso quindi alla Regione come a un organo di raccordo tra lo Stato, i Comuni e le altre forme di autonomia, un organo che abbia la funzione di attuare le decisioni statali applicandole alle realtà territoriali e quindi di rappresentare gli interessi propri e degli enti sub-regionali attraverso la imprescindibile mediazione del Senato delle autonomie.
  Darei quindi spazio a un regionalismo che recuperi l'idea della Regione che avevano i nostri Costituenti, scrivendo l'articolo 5, e che avevamo nella mia generazione quando abbiamo scritto le revisioni costituzionali degli anni 1999-2001, cioè «una Regione come punto di sintesi politico-amministrativa nei sistemi locali in sé e nei rapporti con il centro, dove l'azione dello Stato e delle sue agenzie dovrebbe arrestarsi laddove comincia il Governo regionale e locale».
  Questo non significa che la Regione non debba continuare ad essere anche un ente di legislazione, ma significa che lo Stato dovrebbe essere arricchito (mi pare sia quello che è successo con queste proposte governative) di ulteriori competenze legislative esclusive, la maggior parte delle quali è ricompresa in quelle concorrenti, il terzo comma.
  Si dovrebbe riportare gran parte delle concorrenti nell'ambito del secondo comma, e dall'altra parte la potestà legislativa delle Regioni dovrebbe essere esercitata con riguardo solo a materie strettamente riferibili alla Regione (l'organizzazione del personale, dell'amministrazione degli uffici) e a quelle materie che sono puntualmente corrispondenti alle attività che essa è in grado di programmare (ecco che riemerge la sussidiarietà) e quindi di svolgere in modo più efficiente rispetto allo Stato e agli altri Enti.
  Se dovessi costruire il sistema, penserei di dare alle Regioni materie come il governo del territorio, l'urbanistica, l'edilizia, Pag. 9 i lavori pubblici di interesse regionale, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali, i servizi sociali, l'istruzione, la formazione professionale, la promozione e l'organizzazione di attività culturali e di fiere commerciali, l'agricoltura, la caccia, la pesca e le acque interne, che è materia classica delle Regioni.
  Questo non esclude (e torniamo al discorso di autonomia finanziaria) che la Regione possa esercitare anche una potestà normativa tributaria propria, necessaria al finanziamento di queste funzioni. Mi sembra che il sistema chiuda bene da questo punto di vista.
  Sarebbe pur sempre una competenza primaria, ma non esclusiva, perché lo Stato dovrebbe sempre avere il potere di intervenire, però se ricorrono le esigenze, che sono scritte nelle bozze che circolano, di tutela dell'unità giuridica ed economica e – aggiungerei – di realizzazione di riforme economico-sociali di interesse nazionale (pensate al fiscal compact e a quello che proviene dall'Europa).
  Mi pare quindi inevitabile accettare l'impostazione che sta prevalendo in sede politica di ripristinare la supremazia dello Stato per quanto riguarda la competenza legislativa e quindi eliminare la competenza concorrente. Personalmente condivido la linea del Governo da questo punto di vista, anche perché ora quella concorrente è anacronisticamente riconosciuta su materie classiche dell'ordinamento statale.
  Rimane il problema di una possibile concorrenza tra interesse statale e interesse regionale. I livelli essenziali delle prestazioni in materia sanitaria, l'assistenza sociale, la tutela dell'ambiente, l'alimentazione, la tutela della salute, la ricerca scientifica e tecnologica, il sostegno dell'innovazione sono materie in cui obiettivamente c’è un intreccio degli interessi regionali con gli interessi statali. Ritengo che in questi casi bisognerebbe prevedere una competenza statale derogabile, cedevole, che tenga conto del suddetto intreccio di interessi.
  La legge statale dovrebbe disciplinare queste materie indicando espressamente i profili inderogabili e lasciando poi alle Regioni di intervenire laddove ci sia il campo della derogabilità, della cedevolezza, dove c’è maggior spazio per l'integrazione. In questo modo supereremmo il problema di fondo dell'individuazione della linea di discrimine tra princìpi fondamentali riservati allo Stato e norme di dettaglio riservate alle Regioni.
  Il grosso problema che si poneva prima, chiedendoci quando sia principio fondamentale e quando di dettaglio, si risolve quindi attraverso questo sistema. A questo punto, il problema diventa di amministrazione. Il problema è intanto che ruolo dare al Senato delle autonomie, perché diventa fondamentale come rappresentativo degli interessi regionali degli Enti locali. Non entro in questo settore che è troppo vivo politicamente, però lo vedo (credo come tutti) come una mediazione tra Stato e Regioni ed Enti locali, ma in questa sede non è opportuno valutare come si debba costruire.
  Bisognerebbe inoltre ripensare la legge delle autonomie, in quanto, se non si individuano le funzioni amministrative di ogni singolo ente, si torna al punto di partenza, allo scontro tra regionalismo e municipalismo.
  Dobbiamo risolvere questo problema perché, se, anche fini della determinazione dell'entità delle risorse da erogare non si riesce a costruire un sistema in cui si individuino esattamente le funzioni dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali, avremo sempre il solito impasse.
  È molto interessante questa scelta che avete fatto e che sta andando avanti dell'abbandono del riferimento alla capacità fiscale per abitante per quanto riguarda il finanziamento delle funzioni, ed è molto interessante andare al fabbisogno standard, perché significa riequilibrare il sistema, perequare meglio, rispettare il principio di solidarietà e di uguaglianza. Se però questi criteri non si applicano a delle istituzioni ben individuate, non servono a nulla.
  Credo che la bozza del disegno di legge governativo che ho letto sia stata superata dal testo definitivo approvato dal Consiglio Pag. 10 dei Ministri. Io ho letto la bozza e ieri ho letto rapidamente sui giornali anche le modifiche.
  La bozza mi pare che si muova su questo solco, che non si allontani molto da questa impostazione, perché non innova la disciplina dell'articolo 119 (forse non era il momento politico e storico, essendo una fase di crisi finanziaria), interviene sull'articolo 117 perché allarga l'elenco delle competenze legislative esclusive dello Stato, elimina la competenza concorrente, riconduce la materia del coordinamento della finanza pubblica avendo eliminato il terzo comma alla competenza esclusiva dello Stato, per cui non è più coordinamento per princìpi, ma è coordinamento tout court.
  Nel contempo non tralascia di sottolineare e specificare il contenuto essenziale e la ragione della potestà legislativa regionale. Questo era un comma nella bozza, poi è diventato un addendo del comma precedente: si dice che il contenuto specifico della potestà legislativa regionale è l'interesse regionale alla pianificazione e alla dotazione infrastrutturale del territorio regionale e alla mobilità al suo interno, all'organizzazione dei servizi alle imprese, dei servizi sociali e sanitari, dei servizi scolastici, nonché dell'istruzione e della formazione professionale. Questo è un comma aggiunto, una parte nuova, più interessante per lo studioso.
  Questa impostazione in linea di massima mi sembra condivisibile. Come studioso mi porrei alcune domande in prima lettura. Se la competenza legislativa primaria della Regione resta residuale e perciò le materie non ricomprese tra quelle di competenza esclusiva dello Stato restano di sua competenza, come deve interpretarsi la specificazione che vi ho appena letto – fatta originariamente come un comma successivo, poi invece inserita in una frase aggiuntiva – secondo cui la Regione nell'esercizio della sua potestà deve salvaguardare specificamente l'interesse regionale relativo a determinati servizi e valori di rilevanza territoriale ?
  Questa specificazione che vi ho letto costituisce per caso un ulteriore restringimento della competenza primaria regionale, nel senso che anche la stessa potestà legislativa residuale della Regione non è piena e comunque deve riguardare quelle «sue» materie, aventi per oggetto la tutela, la salvaguardia di interessi ritenuti di stretta pertinenza regionale ?
  Giandomenico Falcon, un costituzionalista del Nord-Est, si chiede leggendo questa bozza se, più che di restringimento dalla competenza residuale, non si debba parlare di marginalità della potestà legislativa delle Regioni. Residualità significa tutto quello che non era del potere superiore (sussidiarietà e residualità) ma, se specifico che quella residualità deve attenersi a certi princìpi che attengono strettamente al territorio, mi pare più marginalità che residualità, perché c’è un restringimento, non so se voluto o da intendersi come incidente di percorso.
  Come si coordina il secondo comma dell'articolo 119 – che era rimasto intatto nella bozza, ma mi pare sia stato modificato – con cui si diceva che i tributi sono stabiliti attenendosi ai princìpi fondamentali fissati dallo Stato ? Se i principi di coordinamento fondamentali sono venuti meno, perché non sono più princìpi fondamentali, ma sono soltanto il coordinamento tout court del secondo comma statale, i tributi statali come vengono stabiliti dalle Regioni e dagli Enti locali, avendo un ambito entro il quale operare attenendosi ai principi come era prima, o invece, venendo meno i princìpi, ormai non c’è più l'autonomia degli Enti regionali e locali ?
  A me che sono un federalista tenue, delicato, questo sembra un passo indietro, in quanto torniamo all'articolo 119 antecedente al 2001, cioè torniamo alla gerarchia: lo Stato stabilisce quali sono in via di coordinamento i tributi regionali e locali, e poi le Regioni e gli enti locali li istituiscono, però l'articolo 119 dice ancora «stabiliscono», non dice «istituiscono», quindi voi in Parlamento dovete chiarire questo aspetto, fare qualche integrazione, perché ho l'impressione che qualcosa non funzioni.Pag. 11 
  Credo che tutto questo non infici la costruzione che il Governo ha dato del nuovo federalismo, ma c’è soltanto da intervenire, ragionarci un po’ sopra e fare degli interventi. Questo inconveniente dell'articolo 119, che parla di stabilire i tributi, quando invece l'articolo 117 fa riferimento al coordinamento statale, deve essere risolto. Mi auguro infatti che almeno per certi tributi rimanga l'autonomia tributaria degli enti locali e delle Regioni.
  Mi fermerei qui, anche se anche altri aspetti mi sembrano pesanti, ma magari li affronteremo in seconda battuta. Grazie.

  PRESIDENTE . Grazie. Questa prima relazione del professor Gallo (siamo già prenotati per una seconda) è stata estremamente densa di contenuti.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti e formulare osservazioni.

  MARIA CECILIA GUERRA . Solo alcune impressioni su queste ultime considerazioni, perché la relazione è stata molta ampia e impegnativa.
  Guardando al disegno futuro anche in relazione al quadro tracciato, mi ponevo una domanda circa la necessità di un miglior coordinamento fra gli articoli su cui si è intervenuti e quelli in cui non si è intervenuti per quanto riguarda il finanziamento degli enti decentrati, che riguarda anche il problema dei trasferimenti.
  Nella revisione del 2001 i trasferimenti sono stati eliminati, però – almeno da studiosa di scienza delle finanze – l'idea del trasferimento come fonte di finanziamento nel caso in cui ci siano funzioni di tipo esclusivo dello Stato, che però abbiano un ampio grado di realizzazione a livello decentrato, sarebbe la via preferita, anche con vincoli di destinazione, altro elemento che non è necessitato.
  Già ha posto problemi in fase di attuazione l'eliminazione di trasferimenti, per cui ci si è poi arrampicati sullo specchio di strane gestioni delle compartecipazioni, ma la compartecipazione è più nella logica delle funzioni concorrenti.
  L'altro aspetto su cui pongo una domanda ingenua da inesperta è che da una lettura veloce del nuovo testo mi sembra che il superamento delle materie concorrenti si scontri con un'acrobazia che riconduce nella definizione delle materie esclusive espressioni come «resta in capo allo Stato la definizione delle norme generali» oppure «laddove c’è un interesse nazionale», «dove ci sono funzioni strategiche».
  Rispetto al quadro qui richiamato dell'esigenza di definire cosa significhi materia esclusiva, che non implica una possibilità di intervento di dettaglio, ma possa essere definita con una indicazione che valga sempre in presenza di un'oggettiva concorrenza, mi chiedo se fare riferimento a questi termini, più che diminuire il contenzioso fra Stato e Regioni riportato alla Corte costituzionale, non rischi invece di accentuarlo.

  STEFANO COLLINA . Due osservazioni telegrafiche. La prima è «dove mettiamo la sanità», perché mi sembra una delle materie concorrenti che determina la maggior parte del bilancio, quindi della gestione delle risorse delle Regioni, e oggi è un punto di discussione.
  Il secondo elemento, che lei non ha affrontato ma su cui le chiederei di esprimerci anche solo una sensazione, è la composizione del Senato delle autonomie, che è uno dei punti in discussione, al di là dei paletti posti.
  Mi sembra di capire che, andando verso la composizione sbilanciata sulle Regioni, bisognerebbe dall'altra parte andare a un rafforzamento delle materie di competenza regionale esclusiva. Fare un'operazione in cui ci si bilancia sulla rappresentanza regionale nel Senato delle Regioni e poi invece si riportano allo Stato centrale delle competenze esclusive è un passaggio che può apparire contraddittorio.

  FEDERICO FORNARO . La ringrazio per la relazione. Due note velocissime. Lei ha accennato al tema molto serio del contenzioso tra Stato e Regioni, per cui Pag. 12 vorrei chiederle se alla fine l'eliminazione tout court della competenza concorrente possa agevolare la riduzione del contenzioso o paradossalmente rischiare di aumentarlo.
  Lei ha fatto cenno al tema del Senato delle autonomie, per cui le chiederei se all'interno del disegno da lei tratteggiato la rappresentanza delle Regioni e dei Comuni debba essere su base proporzionale o rispettare un altro principio. Noi abbiamo una forte disomogeneità dimensionale delle Regioni, per cui dobbiamo decidere se occuparcene.

  DANIELE MARANTELLI . Anch'io ringrazio molto il professor Gallo perché ascoltarlo è stato stimolante. Rispetto alla domanda che si poneva, cioè esautorare o recuperare il progetto federalista, anch'io do la sua stessa risposta, così come credo di condividere la valutazione che faceva rispetto ai costi standard che, se non applicati in maniera coerente, non servono a nulla.
  In relazione all'attualità, a quello che dovremo affrontare nei prossimi giorni, alla nuova proposta che interviene sull'articolo 117 giustamente, come sostengo avendo fatto per dieci anni il consigliere regionale in Lombardia e andando, se non a risolvere, almeno ad attenuare questa infinita attribuzione di competenze tra Stato e Regioni foriera di tanti guai, vorrei sapere se temi rilevanti come quelli della sanità possano essere affrontati allo stesso modo nelle Regioni così come sono ora.
  I confini delle Regioni sembrano un tema tabù, che non può essere affrontato, ma provengo da una ex Provincia che con il voto di questa mattina alla Camera verrà eliminata, Varese, che ha più abitanti di alcune Regioni come Basilicata e Molise. Vorrei sapere quindi se questo possa essere oggetto di una valutazione, e se abbia ancora un senso mantenere le Regioni autonome a statuto speciale così come le abbiamo conosciute finora.
  Pur conoscendo perfettamente la differenza tra San Candido, che è sostanzialmente in Austria, e un comune della Sicilia, credo che il tema non debba restare tabù e vorrei avere una sua valutazione al riguardo, perché quanto ci ha detto in relazione alle modifiche intervenute in Germania e in Inghilterra con esiti diversi ci inducono a interrogarci anche su questi temi.

  PRESIDENTE . Do la parola al professor Gallo per la replica.

  FRANCO GALLO . Per brevità risponderò alle domande accorpandole. Sui trasferimenti avevo scritto – ma poi tralasciato di dire – che mi limitavo a sottolineare «l'importanza della proposta contenuta nella relazione finale della Commissione per le riforme costituzionali (quella dei saggi) diretta a ricondurre il sistema italiano a quello adottato da altri Stati federali europei in tema i trasferimenti vincolati dallo Stato alle autonomie.
  Tali trasferimenti attualmente sono ammessi dal quinto comma dell'articolo 119 solo in casi eccezionali per rimuovere specifici squilibri economici e sociali, di cui soffrono alcuni, determinati enti sub-statali. La Commissione giustamente propone di superare questa limitazione attraverso l'introduzione di una norma modificatrice del quinto comma dell'articolo 119, la quale consenta allo Stato di effettuare detti trasferimenti (possibilmente con legge bicamerale) a favore della generalità di tutti gli enti territoriali e non, come avviene adesso, solo ad alcuni di essi.
  Questa proposta non può non essere condivisa. È infatti anacronistico e direi quasi autolesionistico vietare allo Stato, e attraverso di esso all'Unione europea, di effettuare a favore delle autonomie interventi finanziari e sociali di carattere generale per apprezzabili obiettivi di politica economica.
  Il tema attuale comporta che, se l'Unione Europea ci assegna del denaro non per fare l'intervento per quel comune o quella regione, ma per fare un intervento di tipo sociale, trasferendo le risorse ai singoli enti, l'articolo 119 non lo consente, perché c’è il divieto di finanziamento derivato.Pag. 13 
  Questo è un non-senso, perché è vero che prima si esagerava nell'eccesso di trasferimenti derivati, ma addirittura rinunciare a fruire di trasferimenti che intervengono da parte dello Stato o di autorità extranazionali a favore delle autonomie mi sembra privo di senso.
  Il problema della sanità è stato già risolto: la sanità rimarrà nella competenza regionale, però, se ho ben capito leggendo il testo, spetta invece allo Stato determinare i livelli essenziali (i famosi LEA) delle prestazioni in materia sanitaria, la tutela dell'ambiente e della salute. Lo Stato fissa quindi la lettera m) dell'articolo 117, per capirci, e la sanità sarà gestita dalla Regione in via amministrativa, ma obiettivamente quello che sta a monte spetta allo Stato.
  Se mi consentite, non vorrei entrare nell'argomento del Senato delle autonomie, perché è un argomento che io sento molto, ho le mie idee, c’è una grande polemica, quindi non vorrei essere una delle voci assonanti o dissonanti, preferisco non parlarne in questa sede.
  Sui costi standard trovo che una delle cose più interessanti sia proprio quella di utilizzare i costi standard per definire i LEA e i LEP, è un modo per uscire fuori dalla logica disorganica finora seguita, però il problema torna ad essere quello che dicevo prima, cioè un problema di carattere costituzionale. Quando l'articolo 119 parla al terzo comma di perequazione, parla di capacità fiscale per abitante, la legge n. 42 (forse forzando o forse non forzando) applicando l'articolo 3 della Costituzione ha distinto fra servizi essenziali e servizi non essenziali.
  Con la legge n. 42 si è deciso di finanziare i servizi non essenziali applicando il criterio della capacità fiscale per abitante, quindi la potenza fiscale (la Calabria ha una minore capacità fiscale per abitante, quindi si perequa intervenendo per la differenza). L'articolo 119 non parla di fabbisogno, di uguaglianza, però lo presuppone, perché c’è l'articolo 3 che viene prima, quindi questa scelta di distinguere tra servizi essenziali e non essenziali mi sembra un po’ forzata ma corretta.
  La via d'uscita dovrebbe essere di operare per i servizi essenziali (l'85 per cento) con i costi standard secondo il fabbisogno standard, per gli altri in base alla capacità fiscale per abitante. Questa scelta mi pare ormai consolidata, è prevista dalla legge n. 42 e non mi sembra che non sia stata respinta.
  Il problema appunto è poi come determinare i LEP e i LEA applicando questi costi. La società dello Stato, la SOSE, è in grado di fare questa valutazione, ma non si riesce a capire quali funzioni vadano individuate.
  Il problema dell'irragionevolezza del trattamento di favore di cui godono molte Regioni a statuto speciale è delicato. Tolto il Friuli Venezia Giulia, che è speciale, ma di fatto è trattata come una regione ordinaria, altre regioni hanno un trattamento obiettivamente legato a patti intergovernativi (De Gasperi-Gruber e altri), che evidentemente ancora si applicano, con un conseguente vantaggio.
  Uno degli obiettivi che si voleva raggiungere scrivendo la legge n. 42 era di guardare avanti cercando pian piano di riscrivere tutto il sistema del federalismo in un'ottica di parità tra Regioni, salvo casi eccezionali. Questo coinvolge la Sicilia, il Sud quanto il Nord, ma è un problema politico enorme.
  In relazione al problema del contenzioso, quello che appare strano nella creazione del nuovo sistema è che si elimina la competenza concorrente, che era quella in cui venivano mediati gli opposti interessi e lo Stato interveniva attraverso i princìpi fondamentali di coordinamento.
  Abbiamo da una parte una residualità, che abbiamo visto che è marginalità, che è quasi una forma di elencazione di materie da dare alle Regioni, perché quel comma aggiunto ha una identificazione di materie, sembrerebbe una residualità che nasconde una competenza primaria già determinata. La mia impressione è che la residualità di fatto venga meno e si abbiano competenze esclusive dello Stato e competenze esclusive delle Regioni.
  Il problema è scrivere bene la norma sulle materie, perché, se sono materie generiche, Pag. 14 astratte, costringe la Corte a porsi il problema di individuare in sede contenziosa se quella materia comprenda anche certe ipotesi. Torno a dire che è un problema di determinazione delle materie e delle funzioni legislative e amministrative.
  Questo è il vero problema, perché il contenzioso degli ultimi anni si è sempre giocato sul valutare se quanto si discuteva rientrasse nelle materie di cui al secondo comma dell'articolo 117 e la risposta si è data volta per volta, la Corte ha talora esagerato in un senso, a volte in un altro. Il problema del contenzioso potrebbe rimanere, ma la risposta non posso darla io.

  PRESIDENTE . Ringrazio il professor Gallo per il suo intervento e per la documentazione consegnata, della quale autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.20.

Pag. 15 

ALLEGATO

Franco Gallo

L'applicazione del principio di sussidiarietà e la crisi del disegno federalista

1. Premessa

  Tutto il nuovo titolo V, parte II della Costituzione è intriso del principio di sussidiarietà, tanto da giustificare pienamente l'espressione «Repubblica della sussidiarietà» coniata dalla dottrina (1)  per indicare la maggiore caratteristica, in termini di distribuzione dei poteri, della riforma recata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001.
  È su tale principio, infatti, che si fonda uno degli assi portanti di tale riforma, e cioè il pluralismo istituzionale e paritario introdotto con l'articolo 114, il quale ha posto sullo stesso piano, nell'ambito delle rispettive attribuzioni, le diverse componenti della Repubblica (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato) e ha, di conseguenza, definitivamente scardinato l'assetto gerarchico piramidale caratteristico dello Stato ottocentesco. Ed è su tale principio che si è costruita la (ora) tanto discussa disciplina – contenuta negli artt. 117 e 118 Cost. – del decentramento legislativo e amministrativo. Con la rilevante differenza che, mentre nell'articolo 117 è stato lo stesso legislatore costituzionale a dare un contenuto sostanziale alla sussidiarietà costruendo un tassativo sistema di riparto della funzione legislativa fra i diversi enti pubblici territoriali, invece, nell'articolo 118 la sussidiarietà è richiamata solo quale regola procedurale; quale regola, cioè, indicante il percorso da compiere sia per delineare un particolare modello di organizzazione sociale, sia per confermare o modificare una competenza amministrativa ed anche legislativa, almeno secondo l'interpretazione, un po’ acrobatica, che degli artt. 117 e 118 ha dato la Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 303 del 2003 sulla c.d. chiamata in sussidiarietà.(2) 
  Il principio di sussidiarietà è, tuttavia, solo presupposto dagli artt. 114 e 117 ed enunciato dall'articolo 118, ma non è definito da alcuna norma costituzionale. Pag. 16 
  Per ciò che qui interessa, l'articolo 118 lo richiama solo in due diversi contesti: in un primo contesto, insieme ai principi di differenziazione e adeguatezza, quale regola istituzionale di distribuzione verticale di competenze tra enti pubblici territoriali; in un secondo contesto, quale principio orizzontale da applicare nella società civile con riferimento ai rapporti tra l'intero apparato pubblico e l'universo dei soggetti privati. In particolare, alla sussidiarietà verticale o istituzionale si riferisce letteralmente il I comma dell'articolo 118 nel disporre che «le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regione e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza»; alla sussidiarietà orizzontale si riferisce il IV comma dello stesso articolo nel disporre che «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà».

2. Una definizione generale di sussidiarietà

  2.1 Una definizione che compendia ambedue queste statuizioni è, comunque, in qualche modo desumibile dalla normativa non costituzionale previgente, e cioè dall'articolo 5, comma 2 del Trattato della Comunità Europea (rimasto immutato nel nuovo Trattato dell'Unione Europea) (3)  e dall'articolo 4, comma 3 della legge n. 59 del 15 marzo 1997 (4) . Secondo la definizione ricostruita dalla dottrina sulla base di tali due norme (5)  la sussidiarietà è un criterio in forza del quale «si attribuisce un tipo di azione privilegiando il livello di governo inferiore rispetto a quello superiore, a meno che l'intervento del livello di governo superiore non determini un risultato migliore». Pag. 17 
  Questa definizione è storicamente collaudata, perché risponde alle tradizionali matrici ideologiche liberale e cattolica della sussidiarietà. Privilegiando il livello di governo inferiore, essa valorizza, infatti, la sussidiarietà quale strumento di minimizzazione dell'intervento statale nella società civile, che è uno dei capisaldi del pensiero liberale classico (il c.d. aspetto negativo della sussidiarietà), e, nello stesso tempo, quale strumento di autorealizzazione personale, e cioè come regola che impone alla struttura di governo superiore di prestare aiuto alle strutture inferiori incapaci di provvedere autonomamente agli interessi delle collettività governate (la c.d. sussidiarietà positiva del pensiero cattolico).
  In ogni caso, due importanti conseguenze vanno subito tratte con riferimento sia all'ipotesi in cui il principio sia declinato sul versante dell'amministrazione pubblica come presidio a favore del decentramento e delle autonomie locali contro l'accentramento statalistico, sia all'ipotesi in cui esso sia calato nei rapporti tra pubblica amministrazione e iniziativa privata come «baluardo» contro le tendenze favorevoli all'esclusività dell'intervento pubblico e, insieme, come strumento di partecipazione dei cittadini.
  La prima conseguenza sta nel fatto che con la garanzia costituzionale della sussidiarietà il cittadino, singolo o associato, diviene il fulcro rispetto al quale saggiare la legittimità dell'azione delle istituzioni pubbliche. Si deve, infatti, guardare ad esso cittadino e alle sue convenienze e utilità tanto nello stabilire, ai sensi dell'articolo 118, I comma, il miglior riparto, ascendente o discendente, delle funzioni amministrative e legislative, quanto nel porre a carico dei diversi livelli di Governo, ai sensi del IV comma dello stesso articolo, l'obbligo di favorire le iniziative private finalizzate allo sviluppo dello Stato sociale. Almeno in teoria, con il nuovo titolo V il principio di sussidiarietà rappresenta dunque, nell'uno e nell'altro caso, un indispensabile parametro della validità dell'azione dei pubblici poteri. (6) 
  La seconda ancor più importante conseguenza è che l'applicazione di tale principio non solo segna la definitiva perdita del monopolio della potestà legislativa dello Stato (come, in effetti, è avvenuto con l'avvento del nuovo titolo V), ma dovrebbe anche respingere politiche di governo ad un solo livello, premiare la gestione condivisa e imporre di individuare «chi fa che cosa» alle migliori condizioni. Insomma, dovrebbe mettere in moto un circuito virtuoso nel quale si inseriscono sia lo Stato, le Regioni e gli altri enti substatali, sia gli stessi cittadini attivi, singoli e associati, che intendono cooperare per la soddisfazione dell'interesse generale. L'obiettivo è – o meglio dovrebbe essere – quello di riavvicinare alla società le organizzazioni territoriali, culturali, professionali, universitarie, scientifiche e scolastiche.
  Si deve però prendere atto che, almeno allo stato attuale, quest'obiettivo non è stato sempre raggiunto. Le organizzazioni suddette e la società civile si sono sempre inseguite, ma un collegamento reale, una stretta interconnessione e un effettivo dialogo non ci sono mai stati. C’è stata, semmai, più dipendenza necessitata di queste entità dallo Stato-autorità piuttosto che dalla società. Pag. 18 
  2.2 In questa sede mi soffermerò solo sulla sussidiarietà verticale solo per considerare come essa sia stata intesa ed applicata dagli artt. 117 e 119 Cost. ai fini del riparto delle competenze legislative tra i diversi livelli territoriali di governo (e, in particolare, ai fini della costruzione del c.d. federalismo fiscale) e come possa essere ora reinterpretata nell'ottica della preventivata riforma del titolo V.

3. La sussidiarietà verticale: la crisi del disegno federalista del 2001

  Come ho già detto, il legislatore costituzionale nell'articolo 117 Cost. ha fatto scelte di decentramento rispondenti ad una idea di sussidiarietà sintetizzata, un po’ approssimativamente, nel termine «federalismo» e incentrata sulla triplice ripartizione tra competenze esclusive dello Stato nelle materie specificamente indicate nel II comma, competenze concorrenti Stato-Regioni nelle materie indicate nel III comma e competenza residuale delle Regioni nelle altre materie.
  Il quadro normativo che ne è scaturito, pur essendo astrattamente in linea con il principio di autonomia di cui all'articolo 5 Cost., è risultato tuttavia insoddisfacente. Esso è stato oggetto in questi ultimi anni di profonde critiche da parte della dottrina e delle forze politiche, ha avuto una lenta e contestata attuazione e, soprattutto, ha prodotto un notevole contenzioso tra Stato e Regioni. Ne sono, perciò, conseguite iniziative riformatrici governative e parlamentari, su impulso dello stesso Presidente della Repubblica, dirette a formulare proposte di modifica non solo del regime di riparto competenziale, ma anche degli stessi principi posti a base di esso.
  Le ragioni della crisi del disegno federalista del 2001 sono le più diverse, non ultima una certa approssimazione e frettolosità dello stesso legislatore costituzionale e del legislatore ordinario che ha dato attuazione al titolo V, parte II della Costituzione. Le più importanti sono d'ordine storico-ideologico, ma non vanno sottovalutate neanche quelle tecnico-giuridiche, emerse anche in sede di redazione della legge delega n. 42 del 2008 e dei decreti delegati di essa attuativi.
  Riguardo alle prime, indicherei soprattutto il ciclo economico fortemente recessivo, che ha imposto politiche di impronta centralistica, ha favorito progressive e sempre più ampie cessioni di sovranità in materia economica, finanziaria e fiscale a favore dell'UE ed ha, perciò, spostato l'asse delle decisioni politiche verso Bruxelles, togliendo spazio all'autonomismo. Questo fenomeno è stato, del resto, comune ad altri Paesi europei. Basti pensare alla riforma del federalismo tedesco del 2006 e a quella britannica del 2012, che hanno ridotto in maniera significativa il pluralismo istituzionale vigente in quei Paesi e provocato forti reazioni da parte dei movimenti autonomistici ivi presenti.
  Quanto poi alle ragioni tecnico-giuridiche, mi limito qui a ricordare l'insufficiente riparto delle competenze legislative e la carente autonomia finanziaria degli enti substatali.Pag. 19 
  Riguardo al riparto delle competenze, va detto che la lacunosa individuazione delle materie di legislazione esclusiva statale ha costretto la Corte Costituzionale a fornire interpretazioni abbastanza espansive delle competenze statali e ad ampliare – a volte oltre misura – l'area di materie come l'ordinamento civile, la tutela della concorrenza e il coordinamento della finanza pubblica per principi fondamentali (materie «onnivore» le ha chiamate la dottrina), consentendo perciò forti, seppur inevitabili, incursioni statali negli ambiti dell'autonomia e della stessa organizzazione interna delle Regioni.
  Questo incerto quadro delle competenze e, in più, la mancanza di un Senato delle autonomie deputato a calibrare le regole della sussidiarietà verticale, hanno prodotto la forte conflittualità di cui si è detto tra Stato e Regioni, con una conseguente esplosione del contenzioso costituzionale e una pervasiva paralisi dell'azione amministrativa e politica. La situazione si è ulteriormente aggravata a causa della lievitazione dei costi di transazione delle decisioni politiche, che hanno fatto seguito alla previsione legislativa di meccanismi di codeterminazione pattizia fra Stato e Regioni nei numerosi casi di intreccio o di concorrenza di materie statali e regionali.
  L'altra rilevante causa del parziale fallimento del progetto federalista è individuabile nella contraddittoria attuazione degli artt. 117 e 119 Cost. sul punto dell'autonomia finanziaria e, in particolare, di quella tributaria. Come ho avuto occasione di dire in altre sedi (7) , i riformatori del 2001 non hanno avuto il coraggio di indicare in Costituzione – come è avvenuto invece in altri Paesi – i tributi da considerare propriamente regionali e locali, lasciando questa scelta al legislatore ordinario. A sua volta, la richiamata legge delega n. 42 del 2009, introducendo il principio del divieto della doppia imposizione statale e regionale sullo stesso presupposto e valorizzando al massimo il coordinamento statale per principi fondamentali, si è ben guardata però dal dare – a livello, appunto, di legislazione ordinaria – un assetto definitivo all'autonomia tributaria regionale e, attraverso questa, a quella locale. Attualmente, è lo Stato ancora arbitro, nel tempo e giorno per giorno, dello sviluppo di detta autonomia in quanto titolare dei vigenti tributi ai sensi dell'articolo 117, II comma, lett. b e, comunque, non in grado, ai sensi dell'articolo 119, di apprestare risorse idonee ad assicurare l'integrale copertura delle spese per l'esercizio delle funzioni regionali e locali.
  Il fatto è che, nel sistema delineato dalle suddette norme costituzionali, l'autonomia tributaria dipende dal concorso di due fattori che sono di difficile, se non impossibile, realizzazione: da un lato, dall'emanazione di atti legislativi diretti a depotenziare il sistema tributario statale attraverso la rinuncia, da parte dello Stato, ad alcuni suoi tributi; dall'altro, dal simmetrico potenziamento ad opera della Regione del sistema tributario regionale, conseguente alla parallela istituzione dei tributi rinunciati. Il che significa che, finché la congiuntura non migliorerà e, comunque, finché non si deciderà, a livello politico, di regionalizzare o municipalizzare realmente alcuni tributi statali che si prestano a rendere effettiva l'autonomia tributaria e più premiante il federalismo fiscale, lo spazio riservato all'esercizio della potestà legislativa primaria della Regione in materia resterà minimo, se non inesistente. Esso sarà limitato a quei pochi tributi c.d. Pag. 20 «corrispettivi» e di «scopo», gli unici che, allo stato attuale, la Regione potrebbe teoricamente stabilire di sua iniziativa.
  Gli studi sia teorici che empirici ci dicono, invece, che solo un'effettiva autonomia tributaria – e, quindi, tributi propri dotati di un ampio margine di manovrabilità rispetto ai trasferimenti e alle compartecipazioni – può garantire un altrettanto effettivo collegamento tra la responsabilità della tassazione e quella della spesa, che è il fulcro del federalismo fiscale (8). Solo in tali casi, infatti, gli amministratori – come si dice – «ci mettono la faccia» e i cittadini sono chiamati a misurare direttamente il costo dei fondi pubblici e a confrontarlo con il relativo beneficio. Il che non esclude certo l'intervento finanziario dello Stato, ma lo rende indispensabile solo quando si tratta di assicurare l'uguaglianza tra cittadini a prescindere dai territori di appartenenza.
  La richiamata legge delega sul federalismo fiscale, in verità, insiste – almeno teoricamente – su questi profili di responsabilizzazione finanziaria. Il suo articolo 2, lett. p richiama espressamente il principio della «tendenziale correlazione tra prelievo fiscale e beneficio connesso alle funzioni esercitate sul territorio in modo da favorire la corrispondenza tra responsabilità finanziaria e amministrativa». Tuttavia, questo arricchimento della strumentazione fiscale nel senso della maggiore responsabilità non c’è mai stato in sede di attuazione della delega e sembra, ora, essere definitivamente abbandonato. I pochi strumenti messi a disposizione dal legislatore delegato, come le imposte di scopo, sono stati infatti sistematicamente rifiutati dagli amministratori delle nostre città. Tale atteggiamento è stato del resto favorito, oltre che dalla cattiva congiuntura, anche dalla pericolosa pratica dei governi di questi ultimi anni, tesa a venire in soccorso degli amministratori locali – politicamente omogenei, ma non sempre efficienti – con coperture ex post dei loro deficit di bilancio.
  La conseguenza del prodursi di questa situazione è che le Regioni e gli enti locali continuano ad essere un significativo centro di spesa, finanziata, però, con fatica, ai sensi dell'articolo 119, da quote dei tributi erariali e da tributi propri derivati, e cioè da tributi pur sempre di fonte statale. Tra l'altro, per ironia della sorte, tali tributi sono cresciuti in questi ultimi anni più dei tributi erariali per essere stati detti enti costretti, dalla situazione di crisi e dalla conseguente insufficienza dei fondi pubblici disponibili, ad aumentare le aliquote nel range consentito dalle leggi statali. Nonostante l'avvento del nuovo titolo V, gli enti territoriali decentrati sono sprovvisti, come in passato, di una vera autonomia tributaria nel senso che, a legislazione invariata, non sono e non potranno divenire un adeguato collettore di entrate proprie in senso stretto funzionali allo svolgimento della loro autonomia politica in termini di effettività e al potenziamento della ricordata fondamentale regola dell’accountability.
  La spesa, però, nel frattempo è cresciuta. All'inizio degli anni Settanta era sotto controllo e rappresentava poco più del 30% del PIL; poi, sono state create le Regioni, che avrebbero dovuto assorbire risorse e personale dalle Province e dai Comuni senza aggravio della Pag. 21spesa pubblica. Ma le cose sono andate diversamente. Oggi ci accorgiamo che il federalismo non ha frenato la spesa che le Regioni si sono date regole contabili diverse le une dalle altre, che lo Stato non ha vigilato e, comunque, non è riuscito ad arrestare questa corsa tra spese ed entrate. Il risultato di tutto ciò non poteva che essere quello di una continua messa in mora dello Stato per ottenere più risorse.

4. [segue]: le possibili nuove regole di riparto della potestà legislativa

  4.1 Questa ed altre conseguenze negative dell'applicazione dell'attuale regime delle autonomie sono ormai ben presenti alle forze politiche. Le maggiori incongruenze sono state evidenziate dalla commissione di esperti, insediata dal Governo nel 2013, che ha redatto un apprezzabile documento finale dal quale dovrebbero – o avrebbero dovuto – prendere le mosse i progetti di riforma del titolo V della Costituzione.
  Ciò che, però, non è ancora abbastanza chiaro è su quale tipo di Regione e, conseguentemente, di regionalismo i futuri riformatori del titolo V dovrebbero ricostruire le regole della sussidiarietà verticale. Questo passaggio è importante. Nel più recente passato l'abuso dell'ottica federalista ha, infatti, indotto molti politici a vedere nella Regione addirittura una sorta di piccolo Stato munito di ampi poteri di legislazione e molte Regioni a redigere, di conseguenza, statuti come se fossero piccole Costituzioni.
  La realtà di questi ultimi anni ha, però, contraddetto tale visione ultrafederalista. Ci ha fatto scontrare non solo con il ricordato fallimento del decentramento fiscale in termini di autonomia, ma anche con la irrilevanza politica e la sostanziale esiguità di fatto della legislazione regionale, ambedue rese ancora più evidenti dal rafforzamento dei controlli statali sulla spesa decentrata effettuati nell'ambito di una visione autoritaria del rapporto centro-periferia e, comunque, con lo specifico fine di far rispettare il vincolo costituzionale dell'equilibrio di bilancio di cui al nuovo articolo 81 Cost.
  Credo che i tempi siano ormai maturi non per esautorare, come molti vorrebbero, il disegno federalista, ma per tornare a pensare alla Regione come un ente soprattutto di amministrazione, uno snodo fondamentale per l'attuazione in via amministrativa delle politiche pubbliche, che non si sovrappone alle organizzazioni statali, ma le sostituisce. Un organo, insomma, di raccordo tra lo Stato, i Comuni e le altre forme di autonomia, che ha la funzione di attuare le decisioni statali applicandole nelle realtà territoriali e di rappresentare gli interessi propri e degli enti subregionali, con la imprescindibile mediazione del Senato delle autonomie. Si tratterebbe, in altri termini, di dare spazio a un regionalismo che recuperi quell'idea di Regione che era alla base dell'articolo 5 Cost. e delle revisioni costituzionali del biennio 1999-2001, e cioè di una Regione come punto di sintesi politico-amministrativa dei sistemi locali in sé e nei rapporti con il centro, dove l'azione dello Stato e delle sue agenzie (salvo specifiche eccezioni e salvo un certo gradualismo) dovrebbe arrestarsi in linea di massima laddove comincia il governo regionale e locale.Pag. 22
  Ciò non significa che la Regione non debba continuare a essere anche un ente di legislazione. Significa solo, da un lato, che lo Stato dovrà essere arricchito di ulteriori competenze legislative esclusive (la maggior parte delle quali ora ricomprese nelle competenze concorrenti) e, dall'altro, che la potestà legislativa della Regione dovrebbe essere esercitata con riguardo solo a materie ad essa strettamente riferibili, quali quelle dell'organizzazione, del personale e dell'amministrazione degli uffici e quelle corrispondenti puntualmente alle attività che, in forza del principio di sussidiarietà, essa è in grado di programmare e di svolgere in modo più efficiente rispetto allo Stato. Si tratta, solo per fare degli esempi, di materie come il governo del territorio (principalmente l'urbanistica e l'edilizia), i lavori pubblici di interesse regionale, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali, i servizi sociali, l'istruzione e la formazione professionale (salvo l'autonomia delle istituzioni scolastiche), la promozione e l'organizzazione di attività culturali e di fiere commerciali, l'agricoltura, la caccia e la pesca in acque interne. Il che, ovviamente, non esclude nemmeno che la Regione possa esercitare anche una potestà normativa tributaria propria, necessaria – come ho sopra detto – al finanziamento delle funzioni relative a tali materie.
  La competenza legislativa ad essa attribuita riguardo alle materie sopra indicate sarebbe pur sempre primaria, ferma restando, però, la possibilità – ormai da tutti riconosciuta – per lo Stato di intervenire se ricorrono esigenze di tutela dell'unità giuridica ed economica della Repubblica o di realizzazione di riforme economico-sociali di interesse nazionale. Il che non può che comportare il ripristino della supremazia dello Stato quanto alla competenza legislativa e la totale eliminazione della competenza concorrente delle Regioni (oggi anacronisticamente riconosciuta anche su materie di sicuro interesse nazionale come i porti e aeroporti civili, le grandi reti di trasporti e di navigazione, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell'energia, la programmazione strategica del turismo e ad altre materie ancora).
  Per le materie in cui vi può essere una concorrenza tra interesse statale e interesse regionale – come, ad esempio, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia sanitaria ed assistenza sociale, la tutela dell'ambiente, l'alimentazione, la tutela della salute, la ricerca scientifica e tecnologica e il sostegno all'innovazione per i settori produttivi – una soluzione ragionevole potrebbe essere quella di prevedere una competenza statale derogabile o cedevole che tenga conto del suddetto intreccio di interessi. In questi casi la legge statale potrebbe disciplinare tali materie, indicando espressamente i profili inderogabili e lasciando alle Regioni gli spazi per l'integrazione dei livelli di tutela statale. Si supererebbe così il problema di fondo – posto dal vigente testo dell'articolo 117, III comma per le materie di competenza concorrente (su cui tanto si è affaticata la Corte Costituzionale) – dell'individuazione della linea di discrimine tra principi fondamentali, riservati allo Stato, e norme di dettaglio, riservate invece alle Regioni.
  Un'ultima notazione. Il mutamento che qui si propone delle regole di riparto dovrebbe, in ogni caso, essere accompagnato da una più incisiva definizione dei contenuti delle competenze legislative da Pag. 23affidare ai diversi livelli di governo. Il che può avvenire solo se finalmente si procede a varare la tanto invocata «legge delle autonomie» o, quanto meno, a riprendere la passata abitudine di emanare i decreti di trasferimento delle funzioni (i c.d. decreti Bassanini). Si tratta, in altri termini, di promuovere leggi o provvedimenti che, con riferimento al riparto contenuto nell'articolo 117, contengano un puntuale riassetto e una migliore identificazione delle funzioni pubbliche decentrabili in sede locale senza pregiudizio per l'efficienza e l'economicità dei servizi erogati.
  Ciò eviterebbe le attuali faticose analisi e le difficili interpretazioni sistematiche delle incerte formule ed «etichette» costituzionali descrittive delle materie attualmente contenute nell'articolo 117. Consentirebbe, da una parte, di liberare la Corte Costituzionale dal difficile compito di riempire essa in via interpretativa i contenitori offerti dall'articolo 117 e, dall'altra, di meglio definire l'entità del finanziamento – a costi e fabbisogni standard – della spesa regionale e locale. E ciò sia nel caso in cui il finanziamento delle funzioni avvenga tramite quote di tributi erariali, sia nel caso in cui avvenga attraverso tributi regionali e locali, «derivati» o propri in senso stretto.

  4.2 La bozza del ddl governativo di modifica del titolo V, parte II, diffusa in questi giorni (siamo nel marzo del 2014), lascia intatto il testo vigente dell'articolo 119 e, perciò, non innova la disciplina dell'autonomia tributaria regionale e locale. Interviene, invece, sull'articolo 117 su una linea che, nella sostanza, mi sembra abbastanza vicina a quella che ho appena indicato. In particolare, allarga – come da tutti richiesto – l'elenco delle competenze legislative esclusive dello Stato; elimina la competenza concorrente; riconduce, di conseguenza, la materia del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario alla competenza statale; conferma la residualità della competenza legislativa della Regione. Nel contempo, non tralascia, però, di sottolineare e specificare il contenuto essenziale e la ragione della potestà legislativa regionale, che sarebbe «la salvaguardia dell'interesse regionale alla pianificazione e alla dotazione infrastrutturale del territorio regionale e alla mobilità al suo interno, all'organizzazione dei servizi alle imprese, dei servizi sociali e sanitari e dei servizi scolastici nonché dell'istruzione e la formazione professionale».
  L'impostazione è, come ho detto, in linea di massima condivisibile. C’è solo da domandarsi: se la competenza legislativa primaria della Regione resta residuale e, perciò, le materie non ricomprese tra quelle di competenza esclusiva dello Stato restano di sua competenza, come deve interpretarsi l'ulteriore specificazione qui sopra riportata, fatta in un nuovo comma dell'articolo 117, secondo cui la Regione, nell'esercizio della sua potestà, deve salvaguardare l'interesse regionale relativo a determinati servizi e valori di rilevanza territoriale ? Questa specificazione costituisce forse un ulteriore restringimento della competenza primaria regionale, nel senso che anche la stessa potestà legislativa residuale della Regione non è piena e, comunque, deve riguardare quelle «sue» materie aventi per oggetto la tutela («salvaguardia») di interessi ritenuti di stretta pertinenza regionale ?Pag. 24
  E, ancora, come si coordina il II comma dell'articolo 119, secondo cui i tributi propri sono stabiliti ed applicati dai Comuni, dalle Città metropolitane e dalle Regioni «secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» con il nuovo II comma, lett. e dell'articolo 117, che, invece, attribuisce alla potestà legislativa statale tutto «il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», e non la sola fissazione dei principi di coordinamento ? Se, secondo l'articolo 117, allo Stato spetta il coordinamento del sistema tributario, come si spiega, in particolare, che i tributi propri degli enti substatali – che pure appartengono al sistema tributario – sono invece stabiliti secondo i principi di coordinamento ? Questi enti mantengono la loro attuale (seppur scarsa) autonomia tributaria nel senso che essi possono continuare a stabilire i loro tributi nel solo rispetto dei principi fissati dallo Stato (come consente l'articolo 119) e non, volta per volta, previo il coordinamento di questo (come vuole il nuovo articolo 117, lett. e) ? In particolare, la previsione del mero coordinamento statale del sistema tributario può interpretarsi nel senso che le Regioni avrebbero pur sempre, ai sensi della legge n. 42 del 2009, un margine di autonomia tributaria piena nel senso sopra indicato ?
  Queste contraddizioni non inficiano, comunque, la positività della proposta governativa nel suo complesso. Sarebbe, però, opportuno eliminarle con appropriati, non difficili interventi chiarificatori.

5. Da dove ripartire per il rilancio del federalismo fiscale ?

  Sulla base delle indicate premesse di riforma costituzionale, bisognerebbe ora chiedersi da dove ripartire per rilanciare, in termini concreti, l'attuazione del federalismo fiscale. Si è visto che né la XV né la XVI legislatura sono riuscite a varare la c.d. «Carta delle autonomie». I veti incrociati tra Regioni ed enti locali non hanno, infatti, permesso di definire «chi fa che cosa». Al di là del riparto delle competenze legislative di cui si è detto sopra, andrebbe quindi risolto, nel medio e lungo termine, il nodo del conflitto tra regionalismo e municipalismo. Per ora, ci si deve limitare a prendere atto che, allo stato attuale, si incrociano troppe competenze costituzionali ed è difficile superare tale frammentazione mettendo d'accordo i soggetti coinvolti. Solo per fare un esempio degli effetti economici di questa confusione, oggi in Italia il costo per un chilometro di rete ferroviaria ha raggiunto 50 mln di euro, contro i 13 della Francia e i 15 della Spagna, senza che ciò sia giustificabile con la conformazione orografica del territorio italiano. Lo stesso discorso si può fare per i costi dell'energia e per quelli del trasporto pubblico locale. Il finanziamento di quest'ultimo continua ad avvenire tramite il trasferimento statale alle Regioni in base alla spesa storica, che poi lo girano, sempre seguendo lo stesso criterio, in parte alle Province e in parte ai Comuni, i quali a loro volta lo girano alle aziende di trasporto.
  Il rimedio contro questa inefficienza dovrebbe essere non solo un maggiore coordinamento a livello politico e legislativo, ma la realizzazione di condizioni di maggiore responsabilizzazione delle realtà territoriali sia per le spese che per le entrate in un contesto che non Pag. 25può che ispirarsi al federalismo solidale e quindi ai principi costituzionali di sussidiarietà, uguaglianza e solidarietà.
  Ma i veri punti di forza per il rilancio del federalismo fiscale sono quelli in gran parte rinvenibili nei decreti legislativi n. 68 del 2011 e 216 del 2010 riguardanti, rispettivamente, i costi e i fabbisogni standard. Si tratterebbe di proseguire nella realizzazione degli interventi strutturali previsti da tali decreti diretti ad avviare una dinamica che permetta di passare dal criterio della spesa storica a quello, appunto, dei costi e dei fabbisogni standard. Il presidente della COPAF, Luca Antonini, al riguardo ha spiegato bene le ragioni che dovrebbero portarci a preferire tali criteri rispetto a quello della capacità fiscale, ai fini dell'attuazione del principio di uguaglianza. È evidente, infatti, che il criterio della capacità fiscale penalizza i territori che dispongono di minori risorse ed è tutt'al più applicabile – come ho sostenuto in altro mio scritto – per il finanziamento dei servizi non essenziali, mentre quello dei fabbisogni standard attiva processi di efficienza ed è strumento necessario di perequazione. In ogni caso, il rinvio al 2015 dell'attuazione di quest'ultimo criterio rallenta il decentramento all'insegna della perequazione e, soprattutto, non consente di iniziare fin d'ora il processo di razionalizzazione della spesa pubblica e di evitare i tagli al buio effettuati con le leggi finanziarie di questi ultimi anni.
  Il passaggio al criterio dei costi e fabbisogni standard è, del resto, imposto dalla sentenza n. 193 del 2012 della Corte Costituzionale. Con tale sentenza i tagli di diversi miliardi che le ultime manovre stabilivano come strutturali e definitivi dovranno perdere efficacia a partire dal 2015. La Corte ha, infatti, dichiarato incostituzionale per violazione dell'articolo 119 Cost. la manovra di agosto 2011 nella parte in cui estendeva i tagli anche agli anni successivi al 2014. Essa non si è pronunciata solo con riferimento alle Regioni speciali (nella specie, la Regione interessata era il Friuli-Venezia Giulia), ma ha dichiarato l'illeggittimità consequenziale anche delle restanti parti della manovra che «dispongono ulteriori misure restrittive in riferimento alle Regioni ordinarie... senza indicare un termine finale di operatività delle misure stesse». Tutta la manovra dei tagli agli enti territoriali è stata così riscritta dalla Corte nella parte in cui prevede che gli stessi si applichino a decorrere dagli anni 2012 e 2013.
  Il significato di questa importante decisione è che il legislatore può ristrutturare in termini definitivi la spesa solo con vere e proprie riforme e non con tagli estemporanei, che possono essere solo a tempo determinato. Si capisce, quindi, che in questa ottica l'adozione dei costi e fabbisogni standard costituisce l'unica via d'uscita da situazioni critiche di questo genere. È, infatti, solo adottando tale criterio che sarà possibile quantificare i livelli essenziali delle prestazioni, i c.d. lep, che è come dire definire quanti asili nido e quante residenze per anziani occorrono per un determinato numero di abitanti e, quindi, quante risorse finanziarie sono necessarie per garantire quel servizio in modo efficiente.
  Voglio dire con ciò che, se si è decentrato il 60% della spesa pubblica e se tale decentramento deve passare attraverso un equo sistema di coordinamento statale, nella determinazione dei lep e dei lea, ciò non può che avvenire – sulla spinta della ricordata decisione Pag. 26della Corte – ricorrendo al criterio dei costi e fabbisogni standard. La mancata definizione dei lep e dei lea è, anzi, la spia dell'assenza di un reale coordinamento da parte dello Stato.
  Tutto ciò è stato ancora ben percepito dalla stessa Corte Costituzionale, la quale nella sentenza n. 273 del 2013 è intervenuta rilevando che «non è stato ancora emanato il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri cui l'articolo 13, comma IV, del decreto legislativo n. 68 del 2011 cui demanda la ricognizione dei livelli essenziali delle prestazioni nelle materie dell'assistenza, dell'istruzione e del trasporto pubblico locale...». I richiamati procedimenti, allo stato attuale ben lungi dal concludersi, costituiscono condizione necessaria ai fini della compiuta attuazione del sistema di finanziamento delle funzioni degli enti territoriali previsto dall'articolo 119 Cost. Ciò determina la perdurante inattuazione di quanto previsto in materia dalla legge n. 42 del 2009, che non può non riflettersi sull'attuazione dell'articolo 119, la quale, quanto meno sotto questo profilo, può dirsi ancora incompiuta».
  Ricordo che un altro importante intervento, rimasto inattuato su tale fronte è quello relativo alla perequazione, la quale, come stabilisce la legge n. 42, dovrebbe essere basata anch'essa sui costi-fabbisogni standard per le funzioni e servizi essenziali che si ricollegano ai lea e ai lep e sulla capacità fiscale per le altre funzioni e servizi non essenziali (circa il 15-20%). In verità, la legge di stabilità del 2014 ha fatto riferimento ai fabbisogni standard come criterio di perequazione, ma lo ha fatto solo in via transitoria. Allo stato attuale si può dire, insomma, che la finanza decentrata continua ad essere sconvolta da continui e contraddittori cambiamenti frutto di accordi contingenti conclusi senza un reale ed effettivo controllo politico e in modo disorganico. Questo stato di crisi potrebbe essere superato, nella prospettiva di una riforma più generale, facendo ricorso, da una parte, alla «conferenza per il coordinamento della finanza pubblica» e, dall'altra, appunto alla definizione dei lea e dei lep.
  Il discorso potrebbe proseguire allargandosi ad altri importanti temi di rilievo costituzionale, quali: le competenze del c.d. Senato delle autonomie riguardo alla definizione degli elementi fondamentali del sistema di finanziamento delle autonomie territoriali; le condizioni di esercizio della clausola di supremazia da parte dello Stato; la riduzione di quei privilegi finanziari di alcune autonomie speciali che hanno ormai raggiunto dimensioni poco compatibili con i principi fondamentali della Costituzione (artt. 2 e 3 Cost.).
  Mi limito, in questa sede, a sottolineare l'importanza della proposta, contenuta nella relazione finale della Commissione per le riforme costituzionali, diretta a ricondurre il sistema italiano a quello adottato da altri Stati federali europei in tema di trasferimenti vincolati dallo Stato alle autonomie. Tali trasferimenti attualmente sono ammessi dal V comma dell'articolo 119 solo eccezionalmente per rimuovere, in sede di interventi speciali, specifici squilibri economici e sociali. La Commissione giustamente propone di superare questa limitazione introducendo una norma modificativa di detto V comma che riconosca che detti trasferimenti possono essere effettuati, possibilmente con legge bicamerale, anche nei confronti della generalità degli enti territoriali e non – come nella versione vigente – solo a Pag. 27favore di determinati enti. Questa proposta è pienamente condivisibile, è infatti veramente anacronistico e direi quasi autolesionistico vietare allo Stato e, attraverso di esso, anche all'UE di effettuare interventi finanziari di carattere generale, economico e sociale a favore delle autonomie per raggiungere apprezzabili obiettivi di politica economica, nazionali o comunitarie, interessanti le Regioni e gli enti locali destinatari e tutta la comunità nazionale.


NOTE:

(1) F. Bassanini, La Repubblica della sussidiarietà. Riflessioni sugli artt. 114 e 118 della Costituzione, relazione a 52o convegno di studi amministrativi di Varenna (settembre 2006).

(2) Ricordo che con tale sentenza la Corte, spiazzando la dottrina dominante che aveva confinato l'applicazione del principio di sussidiarietà ascendente all'esercizio delle sole funzioni amministrative, ha argomentato il raccordo possibile con le funzioni legislative, dando vita a una competenza normativa eccezionale dello Stato, funzionale alla protezione dell'interesse nazionale e derogatoria degli elenchi di materie di cui all'articolo 117 Cost.

(3) «Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario».

(4) «3. I conferimenti di funzioni di cui ai co. 1 e 2 avvengono nell'osservanza dei seguenti principi fondamentali:
  a) il principio di sussidiarietà, con l'attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai comuni, alle province e alle comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l'esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche, anche al fine di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati (...)».
  Il principio richiamato e definito in questa disposizione riguarda i conferimenti di funzioni e compiti amministrativi dalle Regioni agli enti locali.
  Il comma 2 dell'articolo 1 e la lett. b) del comma 1 dell'articolo 3 della stessa legge richiamano espressamente il principio di sussidiarietà di cui sopra e ne estendono l'osservanza anche ai rapporti tra Stato e Regioni e tra Stato ed enti locali per quanto riguarda la distribuzione delle funzioni e compiti amministrativi.

(5) G.U. Rescigno, Principio di sussidiarietà orizzontale e diritti sociali, in Diritto pubblico, 1/2002, pp. 14-22.

(6) G. Tiberi, La dimensione costituzionale del Terzo settore, in Dove lo Stato non arriva. Pubblica amministrazione e Terzo settore, a cura di C. Cittadino, Firenze, Passigli, 2008, pp. 7 e 23, 24 e 25.

(7) Soprattutto, in I principi del federalismo fiscale, in Dir Prat Trib 2012/1, pp. 16-22.

(8) Winer S.L., Kenney L.W., Hettich W. 2010, Regimi politici, Istituzioni e natura dei sistemi fiscali, in Padovano F., Petretto A., Public choice and political economy, Milano, pp. 25-63.