CAMERA DEI DEPUTATI
Mercoledì 20 dicembre 2017
935.
XVII LEGISLATURA
BOLLETTINO
DELLE GIUNTE E DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI
Affari esteri e comunitari (III)
ALLEGATO

ALLEGATO

Sulle problematiche e le prospettive della politica internazionale dal punto di vista dell'Italia.

RELAZIONE DEL PRESIDENTE CICCHITTO

  Nella notte che segnò il passaggio dal 31 dicembre del 1999 al gennaio del 2000 ci fu nel cuore di New York, a Times Square, un'esplosione di gioia, di entusiasmo, di speranza per un radioso futuro. Il secolo che iniziava, per molti aspetti mitico come l’»anno Mille», era carico di aspettative. L'economia tirava, si profilavano straordinarie novità tecnologiche, l'AIDS – la nuova peste del secolo che finiva – era stata contenuta e ridotta, il comunismo in Russia e nei Paesi dell'Europa Orientale era caduto per implosione e non per una guerra perduta a testimonianza che il «Dio era fallito» per la sua ottusità culturale, per i suoi fallimenti economici, per la negazione dei diritti di libertà. Le conseguenze di tutto ciò vennero tratte da Francis Fukuyama che, teorizzando la «fine della storia» affermò che la conclusione della guerra fredda segnava «il punto di arrivo della evoluzione ideologica dell'umanità e l'universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma conclusiva di governo umano». Secondo questa visione la nozione di democrazia era strettamente connessa a quella di liberismo e a quella di libero mercato: il capitalismo ispirato ai principi neoliberisti dominava un mondo sempre più globalizzato. A parte le contestazioni polemiche che si tradussero nell'attacco del filosofo inglese John Gray che definì Fukuyama «un filosofo di corte del capitalismo globale», questa visione del presente e del futuro fu invece messa in discussione da parte di un filone culturale di stampo conservatore che la accusò di non essere realista e di sottovalutare le minacce esterne. L'esponente più significativo di questa corrente fu Samuel Huntington che contestò alla radice questa visione rassicurante e apologetica teorizzando invece lo «scontro di civiltà»: nuovi soggetti caratterizzati da forti identità basate su differenti religioni e culture sarebbero emersi con forza, provocando nuovi conflitti globali.
  Fu inferto un colpo durissimo alla teoria e alla prassi della «fine della storia» circa un anno dopo le celebrazioni del 2000, l'11 settembre del 2001 con l'attacco alle torri gemelle: gli USA vennero colpiti al cuore con un'operazione che sembrava da fantascienza prodotta dalla «geometrica potenza» di un terrorismo islamico che era sfuggito ai radar degli analisti e degli informatori: i servizi devono avere un retroterra culturale fondato su una visione geopolitica che invece era venuta meno. Quel vuoto fu definito in modo lucido da Condoleezza Rice: «ci facevano la guerra e non ce ne siamo accorti».
  Al Qaeda sorse e si sviluppò nel cuore dell'Arabia Saudita, come una deviazione del wahabismo. Come erano andate realmente le cose fu raccontato anche da Hillary Clinton. In tempi di guerra fredda da un lato il KGB e dall'altro la CIA si muovevano con estrema spregiudicatezza: durante l'intervento sovietico in Afghanistan i mujaheddin furono largamente sovvenzionati e armati dalla CIA, ma dietro i mujaheddin c'era un'ideologia fondamentalista che, come la vecchia talpa di Marx, scavava così nel profondo che quel soggetto insieme ideologico-religioso e politico-militare cambiò rapidamente spalla al suo fucile, e così Bin Laden, che ne fu la Pag. 37personificazione, tirò il colpo apocalittico alle torri gemelle attaccando quello che era l'altro nemico mortale dopo il comunismo, cioè il capitalismo opulento e miscredente.
  Al Qaeda, diversamente da quella che poi fu Isis, è stato terrorismo allo stato puro, con i suoi santuari segreti. Così gli USA andarono incontro ad una sconfitta dopo la loro massima vittoria, cioè il crollo del comunismo. Essa derivò dalla imprevista discesa in campo di un soggetto del tutto nuovo, il terrorismo islamico. Ora non è affatto vero quello che afferma una parte della destra europea e italiana che gli islamici sono potenzialmente tutti terroristi, ma è certo che all'interno dell'islamismo, fra i sunniti e gli sciiti, sono emerse alcune tendenze terroristiche: il paradosso è che esse hanno fatto più vittime fra gli stessi musulmani che fra gli occidentali a dimostrazione di quanto complesso e contraddittorio è il mondo nel quale viviamo.
  Nella caccia a chi aveva tirato quel colpo micidiale, il presidente americano Bush jr identificò gli stati canaglia nell'Afghanistan e nell'Iraq di Saddam Hussein. Egli si mosse con l'intenzione di rispondere con tutta la forza possibile mettendo in atto interventi militari che furono autentiche guerre. Torneremo sulle conseguenze di tutto ciò specie per quello che riguarda l'Iraq di Saddam Hussein. Ma la storia non può essere fatta a compartimenti stagni. La politica estera è un'altra faccia della medaglia della politica interna ed entrambe sono condizionate dalla politica economica.
  La fine degli anni ’90 fu caratterizzata da una crescita economica certamente piena di contraddizioni ma comunque fondata sulle aspettative delle «magnifiche sorti e progressive» della globalizzazione. Intorno ad essa, anche se con opposti giudizi di valore, i teorici liberisti e i teorici neomarxisti costruirono interpretazioni, analisi e attese basate su una convinzione di fondo: la globalizzazione si sarebbe tradotta nell'ennesimo «trionfo» dell'Occidente. Le cose non sono affatto andate così. La globalizzazione è stata segnata, sia pure con forti intermittenze e differenziazioni, dal trionfo di alcuni dei cosiddetti Brics, dallo sviluppo dell'industria manifatturiera, dall'arricchimento del ceto medio e dalla fuoriuscita dalla povertà di una vasta area del terzo mondo, in primo luogo della Cina e, invece, dalla crisi di una parte dell'industria manifatturiera negli USA, in Inghilterra, in Europa, da un'accentuazione delle disuguaglianze nell'Occidente, dall'impoverimento di larghi settori del ceto medio, dall'esclusione dalle attività produttive di una parte del mondo giovanile con una recessione negli USA e in Europa che è risultata più lunga di quella del ’29 e che ancora deve trovare il suo Steinbeck. A complicare molto le cose c’è stata alla fine del ’900 una selvaggia finanziarizzazione dell'economia accompagnata dalla deregulation. Ora circa un secolo prima, alla fine dell'800, il grande economista marxista Rudolf Hilferding aveva previsto che il capitale finanziario, sovrapponendosi a quello imprenditoriale-industriale, lo avrebbe soffocato e avrebbe così provocato grandissime contraddizioni.
  Quando una serie di bolle speculative sono esplose esse hanno fatto morti e feriti negli USA e in Europa. Il fatto che negli USA la deregulation sul piano politico sia stata fatta dai democratici di Clinton ha avuto come conseguenza sul piano politico-elettorale l'affermazione di tendenze di destra, Trump, e di sinistra, Sanders, che da opposti lati hanno fortemente contestato l’establishment finanziario e politico. L'accentuazione delle disuguaglianze produce inevitabilmente forti radicalizzazioni sociali, politiche e culturali. Insomma una parte almeno dell'Occidente è passato dal paradiso dell'avvento del 2000 all'inferno della crisi dei titoli tossici del 2008 negli USA e dell'esplosione degli spread nel 2010-2011 in Europa. Inoltre i più aggressivi dei Brics, in primo luogo la Cina, fondata su un autentico ircocervo per ciò che riguarda la sua formula ideologico-statuale – uno stato ultracomunista e un'economia selvaggiamente capitalista – non stanno rispettando le regole del mercato anche dopo essere entrati nel WTO. Pag. 38Anzi, senza sindacati, con bassissimi salari e senza controlli dell'ambiente, la Cina porta avanti una politica imperiale di tipo politico nel Mar della Cina, una politica imperialistica di stampo economico-finanziario in Africa e in altre aree, una concorrenza sleale sul terreno dell'industria manifatturiera in USA e in Europa. E però, aggirando le regole, la Cina si sta muovendo sul terreno della globalizzazione come un pesce nell'acqua.
  Queste profonde contraddizioni economico-sociali, intrecciate con la carenza di analisi geopolitica che abbiamo ricordato, sono stati gli elementi che hanno costituito lo sfondo delle più tragiche vicende riguardanti il dramma del Medio Oriente e che hanno portato a quella «terza guerra mondiale a pezzettini» di cui ha parlato papa Francesco. Semplificando al massimo rileviamo che per un verso il Medio Oriente e il mondo musulmano sono da tempo attraversati da una sorta di guerra civile fra sunniti e sciiti, con l'intervento di alcuni Stati chiave dell'area (da un lato l'Arabia Saudita, l'Egitto, gli Emirati, a suo modo la Turchia, dall'altro l'Iran e gli hezbollah) e anche delle grandi potenze. Questa dialettica, già di per sé destabilizzante, in alcuni casi è stata accentuata (vedi l'Iraq) proprio dagli errori di opposto segno (da un lato un eccesso di interventismo, dall'altro la scelta ideologica e politica della «ritirata») commessi da Bush jr e da Obama che però hanno continuato a muoversi seguendo una logica sistemica e avendo obiettivi di equilibrio multilaterali. Sinora, purtroppo, gli errori di queste due presidenze americane non sono stati superati ma piuttosto vengono dislocati su un piano diverso dall'attuale presidenza Trump: finora non è chiaro se essa è caratterizzata da un elevato livello di erraticità e di estemporaneità o, come parrebbe dal recentissimo documento strategico, da un disegno caratterizzato dall'unilateralismo, dall'isolazionismo e dal nazionalismo (insomma un’America first globale), come dimostrano le contestazioni delle intese mondiali sull'ambiente, sui migranti, il discorso sulle quote NATO, la contestazione dell'Unione europea e, in essa, della Germania. A complicare ulteriormente il quadro c’è un rapporto tutt'altro che chiaro con la Russia di Putin. È stato evidente, indipendentemente dalle vicende del Russia gate tuttora in corso, che la Russia di Putin ha considerato Hillary Clinton come il principale nemico e Trump come il male minore o un possibile partner subalterno e si è comportata di conseguenza. Finora Trump non ha fatto molto per smentire queste impressioni e molte informazioni ad esse connesse. Invece indubbiamente il documento di sicurezza strategica uscito l'altro ieri coglie con lucidità le due diverse strategie imperiali condotte dalla Cina e dalla Russia. La risposta, però, allo stato delle cose, non sembra essere quella della grande alleanza democratica insita nella stessa dottrina del Patto Atlantico e della NATO, ma si colloca sul piano di una versione geopolitica globale di America first. Ma gli USA senza alleati, anche se aumentano a dismisura le spese militari, rischiano di essere comunque più deboli ed esposti rispetto alle gestioni politiche dei due progetti imperialisti avversari, quello russo e quello cinese, che, ognuno a suo modo, sono caratterizzati dalla spregiudicata e lucida costruzione di sistemi di alleanze, che poi è, in ultima analisi, la quintessenza della sapienza diplomatica di una grande potenza. A questo punto per non lasciare campo ad equivoci diciamo esplicitamente che facciamo queste valutazioni critiche proprio perché riteniamo che l'Occidente – gli USA, la Gran Bretagna, l'Unione europea, la NATO –, malgrado tutte le contraddizioni e le stesse perversioni del capitalismo finanziario, rimane portatore di valori di libertà, di democrazia, di garantismo, di solidarietà sociale, di stato di diritto, che costituiscono quanto di meglio ha espresso la società moderna per regolare la convivenza fra i cittadini e i rapporti fra essi e lo Stato. Di conseguenza da un lato la NATO e l'Unione europea e dall'altro il multilateralismo costituiscono delle scelte positive oggi contestate dai radicalismi, dagli autoritarismi, dai razzismi purtroppo emergenti ai confini dell'Europa, in qualche Pag. 39nazione dell'Europa (Polonia, Ungheria) e nel Medio Oriente. A proposito del Medio Oriente ricordiamo come a suo tempo il presidente Bush senior affrontò l'aggressione di Saddam Hussein al Kuwait: lo fece con una risposta militare assai dura ma calibrata, provocando una crisi di nervi a taluno dei generali vittoriosi sul campo che fu fermato alle porte di Baghdad: Bush senior fece questa scelta perché aveva piena consapevolezza che avrebbe messo le mani in un nido di vipere qualora avesse «disintegrato» il regime sunnita, relativamente laico, di Saddam Hussein. Invece Bush jr, con l'intervento del 2003, rovesciò in modo totale la linea americana sull'Iraq, la cui leadership sunnita fu sempre sostenuta come antemurale rispetto all'Iran sciita specie dopo che esso, in seguito alla vittoria della rivoluzione khomeinista, era diventato la quintessenza di una delle molteplici versioni del fondamentalismo islamico e sosteneva, anzi talora suscitava, terrorismi di vario tipo. Invece nella guerra del 2003 Bush jr non solo attaccò Saddam Hussein fino alla sua esecuzione, ma sciolse sia il partito baath sia l'esercito iracheno e consegnò così il potere ad un governo sciita che subito si saldò con la leadership iraniana. Ciò ha provocato due conseguenze di straordinario rilievo: ha consentito agli sciiti di dilagare dall'Iran all'Iraq proprio mentre era in atto il confronto con gli USA sul nucleare, in secondo luogo ha provocato una sorta di «impazzimento» dei sunniti iracheni, che prima hanno dato vita ad un terrorismo molecolare, poi ad Isis, cioè ad un terrorismo atipico fondato su un esercito e su un controllo territoriale che, a ben vedere, è una sorta di rovesciamento della nozione tradizionale del terrorismo che per definizione si fonda su «santuari» segreti. Quel salto di qualità costituito dall'Isis fu determinato dal fatto che al di sotto della leadership costituita dagli imam predicatori di una visione terrorista dell'Islam c'era una seconda linea costituita da ufficiali dell'esercito di Saddam Hussein che a loro volta mettevano in campo un esercito atipico che conquistava il territorio prendendo d'infilata uno Stato iracheno allora debolissimo anche perché faziosamente sciita. A questo tragico errore di Bush jr, fondato su un eccesso di interventismo basato su una visione geopolitica del tutto sbagliata che non faceva i conti con la fragilità e con la complessità di società e di Stati che invece venivano affrontati con una mano militare assai rozza anche nella gestione dei territori occupati (l'unica eccezione fu quella offerta per breve tempo dal generale Petraeus), seguì poi l'eccesso di segno opposto rappresentato da Obama che contrappose all'ideologia e alla prassi dell'interventismo una teoria e una prassi di segno contrario, quella della ritirata ad ogni costo da questi impegni militari, contraddetta però nel 2011 dall'intervento in Libia contro Gheddafi realizzato dagli USA andando a rimorchio dell'avventurismo di Sarkozy. Tuttora paghiamo le conseguenze di quell'operazione in Libia fatta alla cieca, senza alcuna nozione di cosa sarebbe successo dopo, e che è stata caratterizzata in Italia da molte contraddizioni perché certamente Berlusconi fu contrario a quell'intervento, ma allora egli era politicamente così debole che se lo lasciò imporre a marzo sia pure in una chiave attenuata, per poi, su impulso di Obama, passare ad aprile all'esercizio di un'azione militare assai dura. Peraltro allora una parte della sinistra cavalcò quasi con entusiasmo quell'intervento militare considerandolo una sorta di punizione biblica nei confronti degli stretti rapporti fra Berlusconi e Gheddafi, peraltro esibiti in un indimenticabile baciamano.
  A fronte di quell'intervento in Libia, però, Obama effettuò delle ritirate non ben calcolate e calibrate in Iraq e in Afghanistan che poi dovettero essere frettolosamente corrette perché stavano provocando il collasso dei governi e degli Stati in quei Paesi. Altrettanto rilevanti, a nostro avviso, sono stati gli errori commessi da Obama in Siria. In Siria nel 2011 scoppiò una rivoluzione che aveva mille buone ragioni contro il regime sanguinario di Assad, una rivoluzione che fu al suo decollo laica, portata avanti da vari ceti Pag. 40sociali (ceto medio e poveri) e da una parte dell'esercito. In una prima fase quella rivoluzione si rivolse all'Occidente, che rimase sordo e muto. Quel silenzio diede spazio all'ingresso e al graduale rafforzamento dello jihadismo nelle versioni di Isis e di Al Qaeda, favorito anche dalla gestione turca delle frontiere. In un libro bellissimo (Passaggio in Siria) la scrittrice Samar Yazbek così sintetizza quello che accadde: «Tutto ciò che sta avvenendo in questo momento ha lo scopo di trasformare la rivoluzione democratica in una guerra religiosa mi disse un ventunenne che lavorava per un giornale» (pag. 187). Nel 2013, di fronte all'uso di bombe chimiche da parte del regime di Assad, Obama ebbe l'occasione per l'intervento militare, già minacciato di fronte a quell'eventualità. Infatti può piacere o non piacere, ma la Siria è una di quelle nazioni martoriate dalla guerra e dal terrorismo nella quale, per contare, una grande potenza deve combinare insieme l'azione diplomatica con quella militare, come non a caso hanno fatto la Russia e l'Iran. In quella vicenda Obama fu letteralmente giocato da Putin che prima evitò l'intervento militare americano assicurando il suo intervento presso Assad per disinnescare le bombe chimiche e poi, una volta neutralizzato il governo americano, accentuò in modo assai pesante la sua azione militare con l'aviazione e con le truppe speciali, costruendo nel contempo una forte coalizione con l'Iran, che a sua volta mise in campo le milizie sciite e gli hezbollah. Il risultato di tutto ciò è stato triplice: da un lato gli sciiti iraniani sono dilagati tanto in Iraq quanto in Siria, dall'altro lato Putin ha largamente soppiantato gli USA nel Medio Oriente, in terzo luogo tutto ciò è accaduto mentre gli USA stavano facendo con l'Iran una cosa sensata e ragionevole, cioè la trattativa per gli impieghi civili e non militari del nucleare, ma essa si è sviluppata in un contesto politico generale così squilibrato che si è tradotta in uno straordinario rafforzamento politico dell'Iran e degli sciiti a detrimento degli Stati sunniti. Di conseguenza non si può far finta di non sapere che la presidenza Trump è decollata dovendo fare i conti con una situazione già deteriorata, ma allo stato essa presenta tutti i problemi che prima abbiamo elencato. Di conseguenza confermiamo la nostra valutazione di fondo: una autentica ideologia, quella dell'isolazionismo, del nazionalismo, dell'unilateralismo rischia di convertirsi, magari inconsapevolmente, proprio in un ridimensionamento del ruolo degli USA nel mondo che, indipendentemente dal colore politico dei vari presidenti, è sempre stato quello di protagonista dell'equilibrio mondiale all'insegna del multilateralismo, del multiculturalismo, della mediazione, della costruzione di un vasto sistema di alleanze. Proprio questa mancanza di senso della mediazione e dell'equilibrio è a nostro avviso testimoniata anche dalla scelta fatta in modo del tutto estemporaneo e improvvisato da Trump dello spostamento dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Il sottoscritto, che è un amico di Israele, che non dimentica la storia dell'ebraismo né il fatto che Israele è l'unica autentica democrazia nel Medio Oriente, reputa che ad essa con quell'improvvida iniziativa è stato fatto un pessimo servizio, come tutto quello che sta avvenendo in questi giorni purtroppo dimostra. Gli stessi rapporti fra Israele e alcuni Stati sunniti sono stati resi più difficili. Inoltre con queste iniziative estemporanee gli USA rischiano di perdere il ruolo di mediatori per la pace fra Israele e i palestinesi perché hanno contribuito ad incendiare la regione fornendo benzina agli estremisti di tutti i tipi. Ciò detto va condannata in modo netto la violenza delle manifestazioni organizzate da Hamas che ha colto l'occasione per giocare al tanto peggio tanto meglio.
  Nel quadro dell'esistenza di posizioni destabilizzanti rispetto agli equilibri mondiali non possiamo fare a meno di richiamare tre realtà molto diverse fra loro per qualità politica e per dimensione geopolitica. La Turchia è stata a lungo in bilico fra una scelta per l'Europa e la democrazia liberale o per il fondamentalismo islamico e l'autoritarismo. L'errore fatto a suo Pag. 41tempo da una parte dell'Europa di respingere la Turchia, è stato gravissimo. Adesso però prevale in quel grande paese una tendenza autoritaria che è negativa da tutti i punti di vista, da quello degli equilibri nel Medio Oriente, da quello della NATO e da quello dei valori della libertà e della democrazia nel mondo. In secondo luogo l'Italia non può non avere un forte rapporto politico con l'Egitto, stato sunnita, di grande importanza strategica nel Medio Oriente. Nel contempo il nostro paese sta facendo di tutto perché emerga la verità sul caso Regeni. È difficile riuscire a combinare le due cose ma il Governo italiano è impegnato in entrambe e va sostenuto. Purtroppo le tendenze involutive di tipo estremista e autoritario sono molto forti anche in altre parti del mondo. Ci limitiamo a citare due situazioni limite: quella della Nord Corea e quella del Venezuela. Nella Nord Corea si combinano insieme un totalitarismo affiancato addirittura ad un uso irresponsabile del nucleare. Il Venezuela è dominato da una dittatura di estrema sinistra che ha tuttora forti rapporti con Cuba e con la Russia.
  Tutto ciò vuol dire che l'ordine mondiale descritto da Henry Kissinger è saltato. A fronte di questa crisi della leadership americana c’è una crescita della politica di potenza della Russia di Putin e dell'imperialismo di tipo economico della Cina che adesso sta lanciando l'ambiziosa «via della seta». A nostro avviso Putin non esprime una strategia impegnata a realizzare un nuovo equilibrio mondiale, ma si sta affermando come un geniale giocatore di scacchi sul terreno di una unilaterale e molto aggressiva politica di potenza. Sul piano interno la sua gestione del potere è organicamente autoritaria, in continuità con l'approccio zarista e con quello comunista. Ma l'imperialismo geopolitico di Putin si fonda sul continuismo storico rispetto alla gran madre Russia, con la tematica della «terza Roma», dell'Eurasia, con la riesumazione di materiali culturali e politici sia dello zarismo, sia del comunismo, per cui il rinnovato culto di Stalin si intreccia con il recupero storiografico sia di Pietro il Grande che di Ivan il Terribile. Sul terreno dell'azione politica tutto ciò si traduce nella combinazione della diplomazia con l'intervento militare e con l'uso spregiudicato delle nuove tecnologie attraverso le quali viene sviluppata un'azione multiforme in chiave destabilizzante nei confronti dell'Europa del Nord, del Medio Oriente, degli stessi USA, di molte vicende europee, da Brexit alla Catalogna, alla Francia, alla stessa Italia dove è molto forte il rapporto politico con alcune forze del centrodestra e dell'opposizione populista.
  Rispetto a tutto ciò riteniamo che all'Europa, un'Europa politicamente diversa dell'attuale, si offrirebbe un'occasione storica se essa avesse la capacità di coglierla, cosa che non è affatto scontata. A questo proposito facciamo nostra la tematica sviluppata da Adolfo Battaglia nel suo libro «L'età postatlantica» nel quale egli afferma: «Gli USA sono ripiegati su sé stessi, la Russia putiniana è più aggressiva, la Cina è in espansione, il mondo emergente è colmo di esigenze da soddisfare: e l'Europa ? Deve restare ferma, senza neppure uno scatto d'orgoglio ? I buoni propositi saranno sopraffatti dalla schiera della burocrazia europea, dagli interessi economici, della parte meno avvertita della diplomazia ? Ci sembra evidente che nel quadro mondiale si è determinato un vuoto sul terreno della tutela dei valori della solidarietà (vedi il nodo delle migrazioni di massa), della mediazione, dell'equilibrio dinamico, di una crescita economica equilibrata, del multiculturalismo». Questo ruolo oggi potrebbe essere esercitato dall'Europa dove la Merkel ha subito colto i nuovi problemi posti dall’»unilateralismo isolazionista di Trump». Ovviamente l'Europa potrebbe svolgere questo ruolo se la sua classe dirigente e i suoi popoli fossero capaci di superare nazionalismo, protezionismo, barriere, muri e razzismi e, dando uno sbocco complessivo alla linea seguita sul terreno monetario da Draghi alla BCE, di modificare in modo profondo la linea dell’austerity seguita negli anni 2010-2012 che ha prodotto sia danni economici che disastri politici: il Pag. 42populismo e il sovranismo sono per molti aspetti provocati e incentivati sia da una recessione che è stata curata con una medicina sbagliata, cioè con il rigorismo, sia dal fenomeno migratorio affrontato con opposti unilateralismi, da un lato da un'accoglienza non ben filtrata e ripartita, e dall'altro dalle chiusure di stampo razzista. Adolfo Battaglia riprende una suggestione avanzata da Giscard d'Estaing che ha suggerito di «lasciare immutata l'UE a 27 Stati, se del caso snellendo i suoi compiti, e di costruire a latere un nucleo di pochi Stati politicamente convergenti e risoluti a risolvere alcuni grandi problemi che altre nazioni non sono in grado di affrontare.» Il suo invito è cioè a costituire una struttura politica ad hoc, differenziata e autonoma rispetto all'UE, che non la frantumerebbe creandovi nazioni di serie A e di serie B. Per il nuovo organismo (già da lui denominato «Europa») Giscard d'Estaing accenna infatti ai 6 Paesi fondatori della prima Comunità, cui aggiungere la Spagna e il Portogallo. Si tratterrebbe comunque di un nucleo aperto, in grado di affrontare i due problemi che più hanno nutrito la crisi attuale: la questione migratoria e il nodo sicurezza-antiterrorismo-difesa (A. Battaglia, L'età postatlantica pag. 55, Castelvecchi). Nello stesso senso si è mosso Sergio Fabbrini nel suo libro «Sdoppiamento» nel quale, partendo da un atteggiamento revisionistico nei confronti dei trattati europei, ha tracciato i due passaggi decisivi: un patto politico tra un numero ristretto di Paesi omogenei e un patto economico tra questi ultimi e gli altri Paesi che compongono il mercato unico. L'idea di fondo, in conclusione, è quella di Giscard d'Estaing: una macchina europea che cammini per l'impulso di due differenti motori. L'uno concentrato sull'economia, il commercio, le questioni sociali, la concorrenza: l'UE ritoccata e sgravata di compiti impropri, più compatta e meno dominata dalle burocrazie. L'altro, da costruire, formato da un nucleo ristretto di Stati più omogenei: un vero «nucleo forte» politico, concentrato sui temi comunemente sentiti della sicurezza, della lotta al terrorismo, dello storico fenomeno migratorio e inevitabilmente della politica estera e della presenza civile della tradizione europea». Così Battaglia. Siccome condivido questa proposta di rilancio dell'Europa realizzata attraverso un revisionismo spinto dei trattati la sottopongo alla riflessione con l'obiettivo di coprire il vuoto che si è determinato attraverso un nuovo protagonismo europeo che ha fra i suoi scopi anche quello di ricostruire un positivo rapporto con gli Stati Uniti che rimane decisivo per gli equilibri mondiali. In questo contesto, a nostro avviso, il ruolo dell'Italia deve riguardare due direzioni, la costruzione di un'Europa rinnovata e l'accentuazione della sua vocazione mediterranea verso il Medio Oriente e anche verso l'Africa nel suo complesso.
  Nell'immediato è del tutto aperto, però, il confronto su questioni come quelle riguardanti gli indirizzi della politica economica e dell'immigrazione dove è indispensabile superare il trattato di Dublino. È evidente che se non si sciolgono questi nodi ogni obiettivo più ambizioso è impossibile.
  L'altro grande tema è costituito dalla crisi della democrazia in atto nel cuore dell'Occidente. È una questione decisiva che richiederebbe, però, un'altra relazione. Allora concludiamo questa riflessione già troppo lunga rinviando ad alcuni libri che riteniamo fondamentali proprio per l'analisi di questo problema: il primo, ancora non tradotto in italiano, dall'ellittico titolo di «WTF» di Tim ÒReilly, fa i conti con gli effetti di opposto segno della globalizzazione in Occidente e in Cina, il secondo di Edward Luce è intitolato «Il tramonto del liberalismo occidentale», il terzo di Mattia Ferraresi, corrispondente dagli USA del Foglio, dal titolo «Il secolo greve. Alle origini del nuovo disordine mondiale», il quarto è di Branko Milanovic, «Ingiustizia globale», il quinto è quello di Raffaele Alberto Ventura, dal titolo «Teoria della classe disagiata».
  Si tratta di riferimenti fatti per sottolineare che il retroterra culturale, economico-finanziario e politico dell'attuale stato di crisi del mondo è molto profondo Pag. 43e che la geopolitica deve fare i conti con una tematica che va anche al di là di essa e dei suoi schemi tradizionali.
  A conclusione della mia esperienza di Presidente della Commissione affari esteri e comunitari della Camera, svolta tentando, con l'aiuto di molti colleghi, sia di maggioranza che di opposizione, di andar oltre la routine costituita dalla ratifica dei trattati internazionali, voglio cogliere questa occasione per sottolineare che l'Italia non è caratterizzata solo da una deprimente sequenza di aspetti negativi, come invece appare da ciò che viene comunicato da giornali e televisioni. Voglio sottolineare che l'Italia ha fortunatamente una diplomazia di alto livello, un'isola di meritocrazia nel quadro non esaltante della nostra pubblica amministrazione, che ci fa fare una bella figura nel mondo, che tutela gli interessi economici delle imprese, che interviene tempestivamente quando è giusto a difendere i diritti di libertà dei nostri compatrioti all'estero. Questa élite nella pubblica amministrazione viene alimentata attraverso concorsi assai rigorosi. Così viene assicurato un graduale ricambio che finora ha consentito di mantenere di generazione in generazione un alto livello di professionalità, di cultura e di intelligenza la cui esistenza vogliamo rivendicare.