CAMERA DEI DEPUTATI
Martedì 17 marzo 2015
407.
XVII LEGISLATURA
BOLLETTINO
DELLE GIUNTE E DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI
Lavoro pubblico e privato (XI)
ALLEGATO

ALLEGATO

Indagine conoscitiva sull'impatto in termini di genere della normativa previdenziale e sulle disparità esistenti in materia di trattamenti pensionistici tra uomini e donne.

PROGRAMMA DELL'INDAGINE

  L'esame dei dati statistici relativi ai trattamenti pensionistici erogati nel nostro Paese testimonia in modo evidente la presenza di squilibri a sfavore delle donne.
  In particolare, dai dati pubblicati dall'ISTAT il 5 dicembre 2014, relativi ai trattamenti pensionistici e ai loro beneficiari al 31 dicembre 2013, risulta che le donne rappresentano il 52,9 per cento dei beneficiari (8.668.073), ma il 55,8 per cento della spesa complessiva, pari a 152 miliardi di euro è destinato a pensioni percepite da uomini. Tali dati si spiegano in considerazione del fatto che l'importo medio delle pensioni è più basso per le donne: il reddito pensionistico medio per le donne è, infatti, pari a 13.921 euro, a fronte dei 19.686 euro percepiti in media dagli uomini. Il divario tra le pensioni medie erogate alle donne e agli uomini è ancora più pronunciato: il cumulo di trattamenti pensionistici da parte delle donne compensa, infatti, solo parzialmente il più basso importo medio dei singoli trattamenti. Oltre la metà delle donne (50,5 per cento) percepisce redditi pensionistici inferiori a 1.000 euro al mese, mentre gli uomini che si collocano al di sotto di tale soglia rappresentano circa il 31 per cento.
  Lo stesso istituto nazionale di statistica, il 30 luglio 2014, ha pubblicato un documento recante un'analisi di genere dei trattamenti pensionistici e dei loro beneficiari sviluppata a partire dai dati aggiornati all'anno 2012. La spesa per pensioni erogate a uomini è pari al 9,60 per cento del PIL e supera di 2,1 punti percentuali quella per i trattamenti erogati alle donne (7,54 per cento). Per quanto riguarda l'andamento della spesa nel tempo, anche la crescita dell'incidenza della spesa è stata più accentuata per le pensioni maschili, che è passata dall'8,06 per cento del 2002 al 9,60 per cento del 2012, mentre per le donne nel medesimo periodo si è passati dal 6,48 per cento al 7,54 per cento del PIL. L'analisi dell'ISTAT indica, inoltre, come tra il 2002 e il 2008, la forbice reddituale tra pensionati e pensionate sia aumentata di 2,1 punti percentuali, che aumentano a 4,4 punti percentuali se si assumono come riferimento gli importi medi delle singole prestazioni. A partire dal 2008, si è, tuttavia, rilevata un'inversione di tendenza, in quanto la sperequazione relativa ai redditi pensionistici è calata di un punto percentuale, mentre quella degli importi medi si è ridotta di 1,3 punti; i livelli di disuguaglianza registrati nel 2012 sono comunque superiori a quelli del 2002. Gli uomini percepiscono importi più elevati delle donne su tutto il territorio nazionale, ma nelle regioni, in particolare nel centronord, si registrano diseguaglianze più marcate, sia con riferimento agli importi medi delle singole prestazioni sia in relazione al reddito pensionistico dei beneficiari.
  Le differenze registrate dall'ISTAT a sfavore delle donne sono la ovvia conseguenza delle condizioni di lavoro delle donne, perché la pensione è il riassunto della vita lavorativa ed è condizionata dalle retribuzioni percepite, dall'incidenza di periodi di astensione dal lavoro, dalla frequente necessità di ricorrere a forme di lavoro a tempo parziale, in molti casi non in conseguenza di una libera scelta, ma a Pag. 145causa dell'assenza di efficienti servizi di assistenza all'infanzia e alla persona. Una parte rilevante delle disparità osservate dall'analisi statistica è frutto degli analoghi squilibri che si registrano nell'ambito del mercato del lavoro, nel quale si creano le differenze di genere che sono poi perpetuate nei trattamenti pensionistici erogati: occorre, in particolare, considerare le maggiori difficoltà incontrate dalle donne per accedere e permanere nel mercato del lavoro, le differenze retributive, anche a parità di mansioni svolte, le discriminazioni orizzontali e verticali, nonché le difficoltà che ancora oggi le donne incontrano nell'accedere alle posizioni di carriera più elevate.
  Al di là di tali effetti, il livello di disuguaglianza, che l'ISTAT rimarca essere superiore a quello registrato nel 2002, è influenzato anche dal disegno dei sistemi previdenziali: gli studi effettuati in materia evidenziano, ad esempio, che i sistemi che prevedono il riconoscimento di prestazioni strettamente collegate ai contributi individuali versati rischiano di penalizzare le lavoratrici, che spesso hanno carriere contributive più discontinue, specialmente in relazione alla presenza di periodi dedicati alle cure parentali o familiari. In questo contesto, appaiono altresì meritevoli di considerazione i dati in materia di conclusione dell'attività lavorativa e transizione verso la pensione contenuti nel report pubblicato dall'ISTAT il 17 dicembre 2013, aggiornati all'anno 2012. Dall'analisi statistica risulta, infatti, che la durata media delle carriere lavorative dei ritirati dal lavoro di 50-69 anni è di 36,2 anni, in lieve aumento rispetto al 2006, quando tale durata era di 35,1 anni. Le carriere continuano a essere mediamente più lunghe per i lavoratori (37,6 anni) rispetto alle lavoratrici (33,9 anni). Parimenti, si allungano le carriere contributive: il numero medio di anni di contributi versati sale dai 34 anni, registrati nel 2006, a 35,4 anni. I periodi di contribuzione sono mediamente inferiori per le donne e per i pensionati del Mezzogiorno. Circa tre quarti dei ritirati dal lavoro di 50-69 anni è andato in pensione in maniera anticipata rispetto all'età prevista per la pensione di vecchiaia. Tale quota è molto elevata per la componente maschile, (oltre il 90 per cento), e nell'area settentrionale. Il 40,7 per cento della popolazione di riferimento, circa 4 milioni e mezzo di individui, riceve almeno un trattamento pensionistico, si tratta di uomini in quasi i due terzi dei casi, e circa l'88 per cento dell'intero gruppo ha almeno 60 anni. Nella grande maggioranza dei casi questi individui beneficiano di una pensione da lavoro (l'87,8 per cento).
  A fronte di tale situazione, devono quindi valutarsi anche gli effetti delle più recenti novità legislative introdotte in materia previdenziale. In particolare, occorre considerare che la riforma pensionistica del 2011 ha previsto una progressiva parificazione dell'età per l'accesso alla pensione di vecchiaia tra uomini e donne eliminando la principale forma di compensazione fino ad allora esistente ai fini del riconoscimento alle donne del loro maggior impegno in famiglia e nei lavori di cura, in un contesto spesso caratterizzato dalla insufficienza dei servizi pubblici garantiti. Non sembra, peraltro, che gli effetti di tale progressiva parificazione possano ritenersi compensati dall'applicazione per uomini e donne di un unico coefficiente di trasformazione, nonostante la maggiore aspettativa di vita delle donne stesse. Correttamente, l'articolo 22-ter, comma 3, del decreto-legge n. 78 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009, e successive modificazioni, aveva affermato il principio secondo il quale le economie derivanti dall'innalzamento dell'età di pensionamento delle lavoratrici pubbliche devono essere destinati a interventi in materia di politiche sociali e familiari con particolare attenzione alla non autosufficienza e all'esigenza di conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare delle lavoratrici. Al di là della sostanziale disapplicazione di tale disposizione di legge, è senza dubbio opportuno recuperarne lo spirito, compensando quanto meno con investimenti nelle politiche sociali il maggior peso imposto alle lavoratrici sul piano previdenziale.Pag. 146
  In questa ottica, l'indagine conoscitiva intende in primo luogo promuovere l'acquisizione di dati aggiornati e disaggregati relativi ai differenziali presenti e futuri in materia di trattamenti previdenziali di uomini e donne, con riferimento anche ai lavoratori autonomi (liberi professionisti, titolari di partite IVA) e parasubordinati nonché ai coltivatori diretti, tenendo conto dei differenziali retributivi esistenti. Dovrebbero, altresì, verificarsi le caratteristiche e gli effetti della disciplina pensionistica nei settori dell'agricoltura e della collaborazione domestica, che presentano un elevato tasso di partecipazione femminile. Si reputa quindi opportuna una valutazione dell'evoluzione della normativa in materia previdenziale, con particolare riferimento alle più recenti riforme, in modo da verificare quale sia stato l'impatto in termini di genere dei provvedimenti adottati, anche al fine di verificare se essi abbiano tenuto in debito conto le peculiarità che contraddistinguono la presenza femminile nel mondo del lavoro, che, come si è detto, si riflettono sulle prestazioni riconoscibili, in relazione tanto alla minore durata dei periodi contributivi quanto all'ammontare dei contributi versati. In tale contesto, appare utile verificare altresì quali siano i lavori con alta partecipazione femminile anche nel pubblico impiego al fine di valutare gli effetti dell'innalzamento dell'età per la pensione di vecchiaia, considerando anche il tasso di incidenza sulle lavoratrici delle malattie professionali, degli infortuni sul lavoro o in itinere e degli infortuni domestici. In particolare, si ritiene utile una valutazione dell'impatto sul lavoro femminile delle disposizioni di cui all'articolo 24 del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, tanto con riferimento alla mancanza di gradualità nell'innalzamento dei requisiti pensionistici per le donne, quanto, a regime, con riferimento alla disciplina dell'accesso alla pensione di vecchiaia, che potrebbe consentire a molte donne, che maturano pensioni di valore più contenuto, di accedere al pensionamento solo a settanta anni di età.
  Dovrebbe, inoltre, verificarsi in che misura anche dopo l'adozione delle norme di salvaguardia in materia previdenziale permangano condizioni di criticità per quelle lavoratrici che hanno accettato il licenziamento, l'esodo o la mobilità contando sulla prossimità del compimento dei sessant'anni di età, che dava titolo all'accesso al pensionamento, ma sono rimaste spiazzate dalla riforma del 2011.
  L'indagine potrebbe altresì valutare l'adeguatezza, anche alla luce dell'evoluzione del quadro normativo, delle disposizioni che consentono il riscatto a fini pensionistici di periodi di assenza facoltativa per gravidanza e puerperio intervenuti al di fuori del rapporto di lavoro e di periodi dedicati all'assistenza o alla cura di familiari disabili, nonché verificare l'utilizzo dei congedi nel settore pubblico e privato e l'eventuale presenza, in relazione al loro utilizzo, di fenomeni di penalizzazione delle lavoratrici interessate in termini di mansioni e progressioni di carriera. In considerazione delle caratteristiche della contribuzione delle lavoratrici, potranno verificarsi, inoltre, gli effetti sulle donne delle disposizioni del decreto-legge n. 78 del 2010, in materia di ricongiunzione onerosa dei periodi contributivi. L'indagine potrà inoltre costituire l'occasione per tracciare, in linea con quanto previsto dall'articolo 1, comma 9, della legge n. 243 del 2004, un primo bilancio della sperimentazione della cosiddetta «opzione donna», al fine di valutare l'opportunità di una proroga agli anni successivi al 2015 della possibilità per le lavoratrici di accedere anticipatamente alla pensione con il calcolo contributivo. Da ultimo, andrebbe valutato se l'applicazione delle disposizioni in materia di riduzione delle dotazioni organiche delle pubbliche amministrazioni abbia avuto effetti pregiudizievoli per le lavoratrici, nella misura in cui le riduzioni abbiano interessato lavoratrici con carriere contributive più brevi.
   L'indagine dovrebbe altresì verificare se le caratteristiche osservate nell'ambito del sistema pensionistico italiano siano riscontrabili anche negli altri sistemi previdenziali Pag. 147europei e in quale misura sussistano meccanismi compensativi che tengano conto della condizione delle lavoratrici.
  A tal fine, l'indagine si articolerà nelle audizioni dei seguenti soggetti:
   rappresentanti del Ministero del lavoro e delle politiche e sociali, del Ministero dell'economia e delle finanze e del Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri;
   rappresentanti dell'INPS;
   rappresentanti dell'INAIL;
   rappresentanti dell'ISTAT;
   la Consigliera nazionale di parità;
   rappresentanti delle parti sociali, degli enti di patronato e delle associazioni di rappresentanza delle persone che svolgono lavori familiari;
   esperti, centri di ricerca, associazioni e istituti in grado di fornire elementi di valutazione e di informazione anche a livello comparato, sulle materie oggetto dell'indagine.

  Il termine per la conclusione dell'indagine conoscitiva è fissato per il mese di luglio 2015.