CAMERA DEI DEPUTATI
Mercoledì 29 ottobre 2014
324.
XVII LEGISLATURA
BOLLETTINO
DELLE GIUNTE E DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI
Affari esteri e comunitari (III)
ALLEGATO

ALLEGATO

COMUNICAZIONI DEL PRESIDENTE

Sulle problematiche e le prospettive della politica internazionale dal punto di vista dell'Italia.

  Questa relazione ha l'obiettivo di far sì che la Commissione Affari Esteri non risolva sé stessa nel lavoro di ratifica di mini-trattati, su cui in genere si è tutti d'accordo perché non comportano problemi politici rilevanti. Vista, però, la drammaticità della situazione internazionale riteniamo indispensabile che la Commissione Esteri periodicamente sviluppi al suo interno un dibattito, una riflessione sui temi più generali. Abbiamo deciso di svolgere questo dibattito in modo libero, svincolato dal voto di documenti e di mozioni in modo tale che ogni parlamentare possa sviluppare le proprie riflessioni in una condizione di assoluta libertà. Per tutte queste ragioni la mia non è una relazione fondata sulla mediazione a priori e sulla diplomatizzazione a posteriori, ma anzi esprime valutazioni del tutto personali, come tali intrinsecamente funzionali alla provocazione di una discussione autentica.
  Il nostro paese attraversa una fase di crisi organica che si intreccia con una crisi internazionale insieme di tipo geopolitico e di tipo economico-sociale entrambe di straordinaria intensità e acutezza. Il nostro paese sta vivendo insieme una crisi del sistema istituzionale e di quello politico. Questa crisi è stata messa in evidenza anche dal voto del 2013 che ha segnato per molti aspetti la fine della cosiddetta Seconda Repubblica, con il collasso del bipolarismo anomalo affermatosi in Italia dal 1994. La crisi del sistema istituzionale e politico si è intrecciata con una crisi economico-finanziaria che ha provocato una recessione che è così seria e profonda che il Ministro del'Economia Padoan ha affermato trattarsi di una vicenda economica e sociale più grave anche di quella del 1929. Infatti ci troviamo in una situazione nella quale la disoccupazione è al di sopra del 12 per cento, quella giovanile al di là del 40 per cento, la pressione fiscale è intorno al 42-43 per cento e la produzione industriale diminuisce mentre la povertà aumenta. In questi giorni ci sono stati crolli di Borse che mettono in evidenza la condizione difficile di banche importanti, lo squilibrio greco ma essi sono anche i riflessi di una condizione sempre più generalizzata di recessione. Ciò significa che noi stiamo vivendo una doppia crisi, quella della realtà politica, economica e sociale nazionale e quella di tutto il quadro internazionale. Ciò detto concentriamo la nostra attenzione su questo secondo aspetto.

Globalizzazione e crisi dell'economia occidentale.

  A questo proposito per evitare analisi schiacciate sulla contingenza, dobbiamo partire da due elementi che stanno alle nostre spalle, ma che ci condizionano tuttora molto pesantemente: parlo della globalizzazione che ha fatto fare un salto di qualità ad una serie di stati-nazioni-società tradizionalmente marginali. Per quello che riguarda l'Occidente la globalizzazione ha prodotto fenomeni che hanno messo in questione due analisi di opposto segno, quella liberista e quella neo-marxista. Entrambe, una per esaltarlo, l'altra per deprecarlo, avevano fatto la previsione che la globalizzazione si sarebbe tradotta nell'ennesimo trionfo dell'Occidente. Pag. 164Le cose non sono affatto andate così: l'affermazione dei cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina e anche Sud Africa) – a loro volta caratterizzati da profonde contraddizioni – ha provocato e si è intrecciata con una crisi profonda dell'economia americana, di quella giapponese, di quella europea. Queste tre grandi aree, però, hanno risposto in modo assai diverso, perché le prime due, cioè gli USA e il Giappone, hanno in qualche modo prima tamponato alcune delle loro contraddizioni di fondo e poi hanno costruito un nuovo corso economico insieme iniettando liquidità nel sistema e introducendo profonde innovazioni tecnologiche nell'apparato produttivo, in questo modo riconquistando livelli accettabili di crescita. Al contrario l'Europa, a causa di tutte le contraddizioni derivanti da una moneta unica che non ha una banca di ultima istanza simile a quelle che stanno alle spalle del dollaro, dello yen, della sterlina, né essendo dotata di una statualità davvero unificata e fondata sul voto democratico, si è rinchiusa in un rigorismo che sta producendo o bassissima crescita o addirittura recessione. In questa situazione, dal 2008 al 2011, si sono susseguite due crisi finanziarie, una derivante dagli USA, l'altra in Europa a causa delle contraddizioni dell'euro e dello stato dei conti pubblici di alcune nazioni fra cui l'Italia. Tutto ciò ha messo in evidenza la crisi delle due opposte linee di politica economica che erano anche due opposte linee politiche «tout-court» sulle quali si è svolto da molti anni a questa parte lo scontro politico nel mondo occidentale: il compromesso socialdemocratico, che da dopo il 1929, intrecciato con il keynesismo, fino agli anni ’80 ha espresso una linea di mediazione economia sociale, e il liberismo tatcheriano e reganiano che dagli anni ’80 al 2000 ha a sua volta espresso una linea di aggressiva e dinamica iniziativa da parte delle forze imprenditoriali più vivaci e dalle forze politiche ad esse più legate. Ora, per dirla in estrema sintesi, e quindi con un inevitabile schematismo, entrambe queste linee politiche e la loro traduzione sul piano economico-sociale sono entrate in una profonda crisi anche a causa delle novità sconvolgenti provocate dalla globalizzazione. Il compromesso socialdemocratico, fondato sul keynesismo, sul welfare generalizzato, su una sorta di cogestione o di consociativismo fra imprenditori e sindacati da un certo momento in poi è entrato in crisi, ha prodotto debiti pubblici crescenti, ha messo lacci e lacciuoli all'attività economica, ha determinato una dilatazione della burocrazia e talora anche una dilapidazione delle risorse. Ad un certo punto esso è stato «bucato»dal tatcherismo e dal reaganismo che hanno dato espressione agli spiriti animali di un capitalismo imprenditoriale dinamico, aggressivo, innovativo, talora feroce. È stata così forte questa svolta liberista che per vivere politicamente i socialdemocratici Blair e Schroeder hanno fatto proprie larga parte delle impostazioni liberiste, innestandole su un welfare e su un keynesismo rivisitati, ridimensionati, ma non annullati. Senonché, ad un certo punto, come profeticamente affermò tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del ’900 lo studioso marxista Rudolf Hilferding, la finanziarizzazione si è sovrapposta al capitalismo imprenditoriale provocando deviazioni e perversioni. È quello che è avvenuto intorno al 2007-2008 con l'esplosione del sistema bancario americano che ha diffuso titoli tossici per tutto il mondo e che ha provocato una durissima crisi finanziaria ed economica che ha colpito redditi e consumi specie della classe media e che quindi ha determinato profonde diseguaglianze. Prima per fronteggiare e poi per superare quella crisi, il governo americano e la Fed hanno immesso una grande quantità di liquidità nel sistema. Ciò si è tradotto in un enorme debito pubblico con conseguenze paradossali e contraddittorie: per un verso sul piano interno prima la presidenza Clinton poi la presidenza Obama hanno assicurato crescita, occupazione, un parziale recupero del reddito del ceto medio; l'aspetto paradossale è costituito dal fatto che una parte cospicua del debito pubblico americano è in mani straniere, fra cui in modo rilevante la Cina. Alla lunga questo aumento Pag. 165del debito pubblico ha anche condizionato la politica estera e della difesa degli USA.

La fine del bipolarismo (ma non della storia).

  Queste contraddizioni economico-sociali-finanziarie si sono intrecciate con quelle più strettamente culturali e geopolitiche derivate dal crollo del comunismo russo-sovietico e di quello dei paesi dell'est-europeo. Come è noto da quel crollo derivarono alcune riflessioni su un terreno che potremmo definire di «filosofia della storia». Nei primi anni ’90 è stata elaborata la dottrina della «fine della storia» fondata sulla previsione-certezza che da allora in avanti la storia sarebbe stata caratterizzata da una totale vittoria della liberal-democrazia e che di conseguenza ci sarebbe stato un salto di qualità in tutta la dialettica mondiale, omogeneizzata sul terreno dei principi e sul tipo di confronto politico. Questo quadro rappresentato dalle «magnifiche sorti e progressive» dello sviluppo storico poneva anche il problema-obiettivo di «esportare la democrazia». Come è noto sono le teorie contenute in due libri di Fukuyama. Questa teoria ignorava due elementi politici assai significativi: in primo luogo che un comunismo del tutto atipico continuava a essere fortemente in campo e caratterizzava la dimensione statuale, culturale e politica di una nazione come la Cina che è un'autentica «potenza». Certo si tratta di un comunismo atipico perché la Cina è insieme uno stato ferreamente comunista e totalitario – che non a caso ieri ha prodotto Tienanmen e oggi colpisce Hong Kong (e ci auguriamo che questa seconda vicenda abbia un esito del tutto diverso dalla prima) – ma per altro verso ha invece un'economia ultracapitalista, selvaggia e priva di regole, che anzi utilizza l'autoritarismo comunista proprio per tener bassi i salari e per annullare i sindacati. Questo autentico paradosso politico-culturale ed economico-sociale che è la Cina per parte sua porta avanti un disegno geopolitico assai ambizioso, che alcuni hanno denominato come la «grande via della seta» e che, nella molteplicità delle sue ipotesi di sviluppo, contempla due possibilità politiche, quella dell'incontro e di una sorta di spartizione dell'egemonia a livello mondiale con gli USA e quella, invece, di una contrapposizione ad essi su una linea alternativa fondata su un rapporto assai spregiudicato con due realtà tra loro assai diverse, cioè la Russia e la Germania. Ora siccome finora, come poi vedremo in modo più approfondito, gli USA non hanno ancora fatto sul terreno strategico alcuna scelta di fondo, a sua volta neanche la Cina l'ha fatta, salvo quella di irradiare la sua presenza in tutto il mondo, Africa compresa, e di innescare due grandi reti infrastrutturali che dovrebbero attraversare due percorsi nel mondo che in qualche modo coinvolgerebbero anche l'Italia. A questo proposito lo stesso andamento del vertice dei paesi Asem svoltosi a Milano il 17 ottobre ha messo in evidenza le grandi potenzialità, al netto delle questioni geopolitiche tuttora aperte, nel rapporto Italia-Cina sia dal punto di vista dell'interscambio commerciale, sia dal punto di vista della costruzione di grandi vie infrastrutturali che devono accompagnare il processo di globalizzazione.
  Ciò detto ancora una volta l'assoluta imprevedibilità della storia ha fatto sì che, mentre, al di là della stessa teoria rassicurante di Fukuyama, quasi tutti – con l'eccezione significativa di Samuel P. Huntington e del suo «scontro di civiltà» – ritenevano che comunque, essendo venuti meno la guerra fredda e il pericolo dello scontro nucleare fra gli USA e l'URSS, il mondo si avviasse verso una fase di pace, di progresso economico e sociale, di stabilità, invece hanno fatto irruzione nel mondo due imprevisti elementi di rottura. Da un lato c’è stata la doppia crisi economico-finanziaria – una di matrice statunitense e l'altra di matrice europea –, e dall'altro su un piano diverso, con un mix di religione trapassata in ideologia e di politica tradottasi in azioni militari del tutto asimmetriche, c’è stata l'esplosione di un altro tipo di contraddizione, quella sì Pag. 166fondata sullo scontro di civiltà, ma alla rovescia rispetto a chi l'aveva originariamente teorizzata. Si tratta della contrapposizione frontale portata avanti con il ricorso a tutti i mezzi possibili e immaginabili da una parte dell'Islam contro un'altra parte di esso e contro l'Occidente.

Il fondamentalismo islamico e la sua evoluzione.

  L'irruzione in campo di quel fondamentalismo islamico che arriva fino alla lotta armata e al terrorismo ha avuto varie espressioni ideologico-religiose, culturali e statuali, e poi due fasi e due soggetti politici diversi, Al-Qaeda e l'ISIS. Due fenomeni, quelli di Al-Qaeda e dell'ISIS, che hanno una comune matrice religioso-culturale, quella di un'interpretazione parossistica, violenta, terroristica dell'Islam, ma che però hanno implicazioni politiche operative e geopolitiche di segno diverso. Al-Qaeda, una volta acquisito qualche santuario territoriale, vedi l'Afghanistan, si è concentrata nell'obiettivo di aggredire sul piano terroristico l'Occidente in modo da provocarne il collasso psicologico, politico e finanziario (di qui l'attentato alle torri gemelle nel cuore del sistema americano). Invece, l'ISIS è un'operazione eversivo-terroristica puntata in primo luogo contro i vari stati del mondo arabo in modo da acquisire pezzi cospicui di territorio e quindi in questo modo un'atipica e contrapposta statualità, il califfato appunto. L'ISIS rappresenta un salto di qualità assai pericoloso perché, partendo dall'esercizio sistematico del terrorismo è diventato una forza politica in grado di condurre sia la guerra asimmetrica che quella simmetrica; nel contempo esso propone un pensiero totalitario che ottiene un consenso di massa anche se non maggioritario perché il nuovo soggetto teorizza e poi pratica una guerra di religione ispirata alla tradizione wahabita.
  Di conseguenza l'ISIS si irradia nel cuore del Medio Oriente, dall'Iraq alla Siria facendo leva sulle loro drammatiche contraddizioni e comunque punta a smantellare le organizzazioni statuali messe a suo tempo in piedi dal colonialismo anglo-francese. Nei confronti dell'Occidente c’è una totale contrapposizione mediatica attraverso le sconvolgenti operazioni di decapitazione degli ostaggi trasmesse nella rete e nella televisione allo scopo di lanciare un messaggio, una sfida globale che punta a provocare una sorta di shock anafilattico, ritenendo questa la via per fare del proselitismo anche nel mondo occidentale. Ma l'obiettivo, in parte riuscito, di penetrare nell'Occidente con un proselitismo ideologico-religioso è un modo per affermare proprio nel nucleo centrale di esso (non a caso la maggior parte dei foreign fighters vengono dall'Inghilterra, dalla Francia, dall'Olanda, dal Belgio, dalla Svezia) una forma straordinaria di egemonia ideologica che ha due risvolti. Da un lato il proselitismo nei confronti di giovani arabi di seconda generazione – vedi, in special modo i casi inglesi e francesi – punta a mettere in crisi un multiculturalismo che sembrava profondamente radicato in quelle società, ma dall'altra parte vi è un risvolto estremamente paradossale proprio sul terreno delle ideologie eversive, propedeutiche all'esercizio della violenza fino al terrorismo. Esse negli anni ’70-’80 in Europa (vedi in Italia le BR e Prima Linea da un lato e i NAR e Terza Posizione dall'altro, in Germania la Rote Armee Fraktion), avevano una matrice marxista-leninista o una derivazione nazista-fascista. Invece adesso chi nell'Occidente intende mettersi sul terreno eversivo-terrorista per condurre la lotta all'imperialismo americano o al proprio capitalismo nazionale, è attratto e mobilitato dal fondamentalismo islamico e affascinato, coinvolto, risucchiato nel gorgo della violenza estrema, proprio dalle sue lugubri esibizioni mediatiche di uccisioni e di decapitazioni che in questi soggetti non provocano repulsione ma attrazione. Essenzialmente però oggi l'obiettivo politico-militare fondamentale di un terrorismo che si fà stato è quello di «bucare» la tenuta già di per sé traballante di alcuni stati del Medio Oriente – Siria, Iraq, poi la Libia, il Libano e la stessa Giordania – e di Pag. 167penetrare, oggi con il proselitismo capillare e addirittura individuale, domani con aggregazioni più radicate sia in Arabia Saudita e negli Emirati, sia in Tunisia e in Algeria. Di qui uno sconvolgimento dei ruoli e dei comportamenti politici anche da parte di quei paesi che hanno coltivato il fondamentalismo islamico come ideologia religiosa e prassi statuale o che hanno civettato con le organizzazioni di stampo estremista, vedi Fratellanza Musulmana e Hamas, e addirittura con quelle di stampo totalmente terrorista, puntando a utilizzarle per destabilizzare stati e leader nemici all'interno dello stesso mondo arabo. Questo spregiudicato tatticismo si è tradotto in un pericoloso autolesionismo perché il demone così evocato si sta scatenando anche contro chi pensava di usarlo. Ciò riguarda, da un lato l'Arabia Saudita, il Qatar, dall'altro lo stesso Iran, e mette in questione tutto l'ambizioso disegno di Erdogan e della Turchia che per abbattere Assad ha lasciato passare di tutto attraverso le sue frontiere, anche i fondamentalisti dell'ISIS.
  Ciò detto, questi due soggetti, quello di Al-Qaeda e quello dell'ISIS, hanno colto gli USA e tutto il mondo occidentale per ben due volte di sorpresa. Ciò è avvenuto per quello che riguarda Al-Qaeda nel 2001 (l'attentato alle torri) e più recentemente per quello che riguarda l'ISIS, c’è stato addirittura un imbarazzante scaricabarile fra la presidenza degli USA e la CIA. Tutto ciò si è verificato anche con presidenze statunitensi di opposto segno quali sono state quella di Bush figlio e quella di Obama, l'una caratterizzata da un eccesso di interventismo e l'altra dalla tendenza a sostituire un incerto soft power al tradizionale hard power e poi a tradurre tutto ciò nel ritiro comunque e ad ogni costo da ogni area precedentemente investita da interventi militari.

Luci ed ombre dell'unipolarismo: gli USA e il Medio Oriente.

  Il paradosso che oggi stiamo vivendo è che dopo il crollo dell'URSS e del comunismo reale nell'Est europeo, per ragioni soprattutto economico-strutturali, il ruolo unipolare degli Stati Uniti è entrato obiettivamente in crisi e finora i presidenti americani non sono stati capaci né di recuperarlo nella sua originaria pienezza né di definire una nuova strategia fondata sul mantenimento di una preminenza statunitense però contrattata con altri grandi paesi o almeno con taluni di essi – ci riferiamo almeno alla Cina e alla Germania – e facendo i conti in modo equilibrato con i rapporti di forze esistenti nelle varie aree del mondo. In seguito a questa mancanza di una scelta strategica di fondo da parte degli USA siamo andati incontro a delle pericolose oscillazioni e siamo passati da un eccesso di interventismo come quello messo in atto da Bush figlio a una successione di iniziative politico-militari forzate e di ritirate fatte al buio che stanno caratterizzando gli squilibrati zig zag dell'attuale presidente americano. Ora assai spesso è accaduto che quando si è verificato da parte americana un blocco della iniziativa politica, ciò ha provocato vuoti che vengono spesso riempiti da forze del tutto negative. Per ciò che riguarda il Mediterraneo e il Medio Oriente, bisogna avere anche piena consapevolezza che ci si trova davanti a equilibri assai spesso delicati e fragili. Alcuni stati sono caratterizzati da giustapposizioni quasi artificiali messe in atto negli anni Venti e Trenta dalle potenze coloniali dell'epoca complicate dalle divisioni trasversali dello stesso islamismo fra sunniti e sciiti. D'altra parte finora il Medio Oriente è stato caratterizzato da uno straordinario pluralismo religioso e culturale (i curdi, i drusi, gli yazidi, i copti e cristiani di varie ispirazioni etc.) che ha espresso una grande ricchezza culturale, sociale e antropologica. Tutto ciò oggi rischia di essere violato o distrutto dall'irruzione di queste forze eversive e violente espresse dal fondamentalismo islamico. Contro i cristiani è in atto un'autentica persecuzione ed essi vanno difesi ad ogni costo. Così adesso dobbiamo fare i conti con il fatto che l'Islam è caratterizzato da opzioni di segno opposto che vanno da un conciliante moderatismo ad una concezione del tutto Pag. 168clericale della religione, e poi dello stato, fino alla estremizzazione dell'integralismo nel terrorismo come strumento di annientamento di chi è diverso perfino nell'ambito della sua stessa religione. Ciò diciamo per dissociarci da chi afferma l'identità fra l'Islam e il terrorismo e trae la conseguenza della «guerra di civiltà». Lo facciamo sia perché non crediamo a ciò sul piano storico-culturale, sia perché, sul piano politico, questa teoria favorirebbe proprio il disegno dell'ISIS. In questo quadro sono esplose molteplici vicende contraddittorie, comprese quelle andate sotto il nome di primavere arabe. Prima che esse precipitassero va detto che l'Occidente aveva pensato di poter esercitare il controllo di alcuni degli stati arabi più significativi e influenti appoggiando dittatori che nel corso degli anni non sono riusciti neanche a soddisfare le esigenze minime della popolazione sul terreno dell'occupazione, della sanità, di una gestione equilibrata del potere. Si trattava di autentici «sons of bitch» (l'inglese è sempre più elegante dell'italiano) ma comunque «ours sons of bitch»: l'errore tragico è che si sono così persi alcuni decenni decisivi, quando il ritmo della vita politica di tutto il mondo era molto più lento di quello attuale. In effetti, a mio avviso, a suo tempo, prima che la situazione precipitasse, l'Occidente avrebbe dovuto spingere quei dittatori a introdurre elementi di correttezza e di un uso delle risorse funzionale ai bisogni minimi delle grandi masse popolari e anche a un esercizio non brutale e non violento del potere (non arrivo a parlare di democrazia). Non a caso oggi stati come il Marocco e la Giordania, dove esistono monarchie di indirizzo riformista che non hanno dilapidato risorse per la corruzione, non sono stati investiti né da effimere e mistificate primavere né, almeno fino ai nostri giorni, dall'affermazione di derive estremiste e terroriste, anche se il pericolo è annidato ovunque. Invece le «primavere arabe» in Egitto, in Tunisia, non erano quello che hanno creduto un certo schematismo statunitense e anche l'ottimismo di una parte della sinistra italiana ed europea, e cioè la realizzazione sul campo del sicuro e ineluttabile approdo alla libertà, alla democrazia, alla laicità così come è scritto nei libri di alcuni esperti in geopolitica che teorizzano anche l'esportazione della democrazia che poi nella pratica è stata affidata a diplomatici improvvisati e a generali troppo sicuri di sé. A mio avviso, invece, le primavere arabe sono state la precipitazione della crisi del tradizionale modo di gestire il potere in quegli stati ma erano suscettibili di sbocchi di segno opposto. Esse hanno fatto saltare il tappo di regimi ormai consunti dal loro autoritarismo e dalla loro corruzione ma erano aperte a esiti politici del tutto contrapposti: o di tipo laico-democratico-moderato o di tipo estremista-fondamentalista. La partita era ed è tuttora aperta a soluzioni del tutto contrastanti. È in questo contesto che sono stati commessi, magari a buon fine, alcuni errori. È stato certamente un errore da parte degli USA dare un appoggio politico alla Fratellanza Musulmana in Egitto, che esprimeva una tendenza massimalista estremista presente anche in Libia e in Palestina con Hamas. Le conseguenze sono state molto negative. A risolvere il problema ci ha pensato il governo Morsi con tutti i suoi errori. A quel punto gli egiziani hanno risolto la partita autonomamente perché trenta milioni di essi sono scesi in piazza e l'intervento dell'esercito guidato da al-Sisi prima ha evitato un bagno di sangue, e poi ha ricollocato l'Egitto nella sua fondamentale funzione di equilibrio nel Medio Oriente, a partire dalla mediazione nella guerra israeliano-palestinese su Gaza. Ma il ruolo dell'Egitto non si ferma qui e può essere decisivo nell'aggregazione politica di tutto l'islamismo di stampo moderato, dalla Tunisia, all'Algeria, alla Giordania, agli Emirati, alla stessa Arabia Saudita la quale sta prendendo coscienza che non si può impunemente giocare con il fuoco, e cioè che non si può civettare con l'estremismo fondamentalista per combattere gli sciiti e per colpire l'Iran che è più attrezzato a giocare la partita anche su questo terreno così scivoloso e con il quale è comunque aperto un confronto fra i più complessi e Pag. 169difficili, visto il suo fondamentalismo assai profondo e la sua grande abilità tattica. Sull'Iran mi limito a fotografare quello che è accaduto finora nella realtà, in attesa di eventuali evoluzioni positive tutte da verificare. L'Iran è stato determinante in Siria per impedire la caduta di Assad con l'azione diretta e con l'impiego degli hezbollah; in Iraq non ha affatto impedito agli sciiti irakeni e al loro governo di sviluppare quella politica settaria che ha favorito l'impianto dell'ISIS nell'Ambar e la presa di Mosul. Aggiungiamo a tutto ciò l'influenza negativa esercitata su Hamas e sulla Jihad islamica a Gaza. Finora l'Iran ha svolto un ruolo obiettivamente destabilizzante nel Medio Oriente.
  Tuttavia adesso c’è chi, come Emma Bonino, sostiene la potenzialità positiva dell'Iran: a lei e a coloro che sostengono la stessa tesi c’è l'onere della prova, a partire dal successo della trattativa sul nucleare per arrivare alla definizione di una scelta precisa del suo uso civile. In questo quadro proprio sul terreno dei diritti umani è venuta dall'Iran una risposta terribile, l'impiccagione di Reynaneh Jabbari. È forte l'impressione che Rohani svolga un ruolo di abile copertura del fondamentalismo organico del sistema di potere reale e che invece nella società iraniana emergano posizioni realmente riformiste e anti integraliste, specie fra i giovani, che finora non hanno una rappresentanza politica. Purtroppo nel Medio Oriente, nel corso degli anni, di errori ne sono stati fatti molti altri. Mentre il primo intervento in Iraq, quello di Bush padre, era inevitabile per bloccare la deriva nazionalista-imperialista di Saddam Hussein nel Kuwait (ma esso fu saggiamente bloccato a un certo punto), in quello messo in atto da Bush figlio c’è stata una tale forzatura che ha provocato un'autentica eterogenesi dei fini: la messa fuorilegge del partito Ba'th, lo scioglimento dell'esercito hanno portato addirittura, come abbiamo già visto, a un governo a prevalenza sciita di orientamento politico spesso settario che si è saldato con l'Iran (contraddicendo così anche uno dei capisaldi tradizionali della politica americana). Tutto ciò ha provocato l'impazzimento sunnita che è una delle cause della nascita e dello sviluppo dal lato iracheno dell'ISIS. Ma altri errori sono stati commessi in altri snodi fondamentali. A suo tempo i problemi della Siria e della Libia sono esplosi contemporaneamente anche perché la dittatura di Assad era contestata più fortemente di quella di Gheddafi. All'inizio questa contestazione-rivoluzione era guidata e formata da componenti moderate (i professionisti, i commercianti, gli studenti, i poveri, dei quali recentemente ha parlato in modo sprezzante l'amministrazione Obama). Ora sotto l'impulso delle ambizioni smodate di Sarkozy rispetto alla Libia – tipiche di quell’»imperialismo straccione» a suo tempo dileggiato da Lenin – gli USA e l'Inghilterra scelsero la linea dei due pesi e due misure. Così fu deciso l'intervento armato in Libia. In questo modo, dopo mesi e mesi di operazioni militari, fu schiacciato Gheddafi, che era certamente un iniquo dittatore il quale però, con le buone e con le cattive, gestiva circa 140 tribù ed era una controparte difficile ma reale con la quale si potevano fare i conti per ciò che riguardava l'immigrazione. Invece fu fatto un autentico salto nel buio che ha portato alla guerra civile in corso e alla conseguente esplosione dell'immigrazione diretta in prima battuta verso l'Italia. Mentre si decideva di bombardare la Libia, rispetto alla Siria si preferì girare l'occhio dall'altra parte ignorando una rivoluzione che nella fase iniziale era moderata e relativamente laica: così quella opposizione siriana è stata abbandonata a sé stessa e se ne è via via affermata un'altra radicalizzata al punto estremo, sostenuta dal Qatar ma anche dall'Arabia Saudita e dalla Turchia. In questo modo, così come in Iraq, è stato posto in essere un autentico «capolavoro politico» alla rovescia: tutta un'area della rivolta siriana è diventata l'altro polo della strutturazione dell'ISIS sul territorio, con la conquista di una parte di questo che si è ricongiunto con quello iracheno marcando così la conquista sul campo di battaglia di una zona molto vasta, mentre a sua volta Assad è riuscito a «tenere» Pag. 170senza guardare troppo per il sottile, sostenuto sia dalla Russia, sia dall'Iran e dai suoi hezbollah.
  È in questo contesto generale assai deteriorato che per lunghissimi cinquantacinque giorni si è svolto lo scontro israeliano-palestinese su Gaza. Ora anche in questo caso sarebbero state necessarie idee più chiare di quelle messe in campo anche nei tentativi di mediazione fatti a suo tempo da Kerry. Noi siamo innanzitutto per la difesa e la tutela di Israele anche per un debito che l'umanità ha nei confronti dell'ebraismo e per il fatto che in Israele c’è una democrazia autentica che svolge un ruolo assai importante nel Medio Oriente. L'obiettivo dei due stati, quello israeliano e quello palestinese, è del tutto condivisibile sia perché esso costituisce l'unico modo per superare in modo stabile una guerra sostanziale che dura da tanti anni, sia perché a sua volta la parte migliore del popolo palestinese merita questo risultato. Riteniamo che questo obiettivo deve essere perseguito e raggiunto sulla base di un'intesa fra le parti, fra gli israeliani e i palestinesi, per dare ad essa un fondamento solido e pacifico, e non perseguito attraverso scorciatoie od operazioni tattiche quali sarebbero quelle del riconoscimento formale dello «stato» della Palestina tuttora non aggregatosi sulla base di accordi insieme formali e sostanziali, invece, fatto da questo a quel parlamento o governo. Al contrario queste scorciatoie rischiano, a mio avviso, di innescare nuovi elementi di conflittualità. Nella sostanza politica, che è rappresentata dai rapporti fra le due parti sul territorio, l'obiettivo dei due stati non sarà mai raggiunto e la leadership israeliana, quale che essa sia, non sarà mai convinta a smontare quello che è il suo vero elemento negativo di rigidità, che è costituito dall'ampiezza degli insediamenti, se a sua volta la controparte palestinese in tutte le sue componenti, Hamas compresa, non riconoscerà l'esistenza di Israele e quindi a sua volta smonterà in modo strutturale e definitivo gli strumenti che invece sono coerenti con la tesi della distruzione dello stato di Israele (il lancio dei razzi, la costruzione dei tunnel per imprese terroriste, la ripetizione delle Intifade, l'auspicio di una possibile «soluzione» finale attraverso le auspicate atomiche iraniane). A proposito del ruolo di Hamas non possiamo fare a meno di ricordare due cose. In primo luogo che Hamas è una realtà politico-partitica complessa che vede combinati insieme l'azione politica di base organizzata sul territorio, forme atipiche di welfare, l'organicità del suo modo di essere organizzazione politica e l'altrettanto organica gestione politica dell'azione terrorista che costituisce uno degli elementi fondamentali di tale modo di essere e che è andata dalla messa in campo dei kamikaze, al lancio continuativo di centinaia di razzi su obbiettivi israeliani, allo spietato uso degli stessi cittadini palestinesi a fini politici e mediatici come scudi umani, a un sistematico esercizio della violenza arrivato al punto di investire anche l'alleato-avversario interno costituito da Abu Mazen e da Al Fatah. A loro volta Al Fatah e l'Autorità nazionale palestinese purtroppo non riescono ad acquisire quell'autonomia politica auspicata da molti, per far sì che sia in campo una forza politica palestinese capace di gestire la pace e non solo di condurre la guerra o la guerriglia perché solo così si può arrivare alla formazione dei due stati che sono l'unico sbocco positivo di questa drammatica vicenda.
  In questa situazione così difficile nel Medio Oriente salutiamo un fatto molto positivo, e cioè la realizzazione e i risultati delle elezioni in Tunisia.

Le nuove responsabilità della comunità internazionale: risposta politica e risposta militare.

  Sui nodi riguardanti il terrorismo nel Medio Oriente abbiamo una visione comune a quella che è stata espressa nel recente seminario sul Mediterraneo e il Medio Oriente organizzato dall'onorevole Andrea Manciulli, vice presidente di questa Commissione e presidente dei parlamentari italiani nella assemblea della NATO. Allora sulla base di questa analisi Pag. 171va detto che all'ISIS va data una risposta dura e organica su due piani: una risposta politica articolata su vari livelli, una risposta militare partendo da una coalizione assai ampia fra stati occidentali, paesi arabi moderati e anche non storicamente moderati, che tenga ferma la scelta che non si tratta di uno scontro fra l'Occidente e l'Islam. Così nel quadro della risposta politica è positivo che in Iraq sia stato costituito un governo di coalizione fra partiti sciiti e sunniti che rovesci la formula stessa su cui era basato quello precedente, oltre alla sua faziosità nella gestione della politica concreta. Tutto ciò per essere efficace richiede, però, che al punto in cui sono arrivate le cose la risposta militare sia al livello sollecitato dalla situazione. Allo stato non è così. C’è un risvolto di ipocrisia e di opportunismo nella divisione dei compiti fra una comunità internazionale che per parte sua interviene con l'aviazione, con tutti i limiti che questo tipo di interventi prevede, e il fatto che almeno finora siano solo i peshmerga e i cittadini curdi, donne e uomini, a condurre la battaglia sul campo. È fondamentale che l'intervento militare di terra sia condotto anche da altre forze, in primo luogo da un esercito irakeno riorganizzato e costituito sia da sunniti che da sciiti. Ma anche ciò non è sufficiente né è condivisibile l'ipotesi che si tratti di uno scontro di lunghissimo periodo, da oggi fino ai prossimi trentasei mesi. Per questo con il presidente Casini abbiamo inviato una lettera al Corriere della Sera nella quale auspichiamo l'intervento militare dell'ONU. Sullo stesso giornale Angelo Panebianco ha affermato che senza una presa di coscienza degli USA sulla gravità della situazione non si va da nessuna parte e che c’è il rischio reale che l'ISIS «sfondi» fino ad affacciarsi sul Mediterraneo. Voglio aggiungere che le organizzazioni della Comunità internazionale, sia l'ONU sia la NATO, sia l'Unione Europea, sia il nostro paese, hanno il dovere di sostenere i curdi in tutti i modi, nell'immediato fornendoli di armi a livello dello scontro in atto, aprendo un corridoio sia militare che umanitario fra la Siria e la Turchia. Non posso sottacere che la linea della Turchia ha posto interrogativi assai forti. Per un verso, pur di abbattere Assad, la Turchia ha dato via libera al passaggio dal suo confine con la Siria a tutti gli estremisti che scendevano in campo. Fortunatamente proprio qualche giorno fa c’è stata una correzione di linea e il ministro degli Esteri turco ha annunciato che sarà consentito ai militanti curdi di passare il confine per dare sostegno militare alla città di Kobane, assediata da ISIS. Ci auguriamo che questa decisione sia il segno di una presa di coscienza che il pericolo ISIS è tale da richiedere un intervento attivo e positivo da parte turca.
  Visto che ci troviamo di fronte ad una crisi della leadership internazionale degli USA provocata da molte ragioni, sia dai margini più ristretti per le azioni politiche e militari derivanti da cause economiche e finanziarie sia da un dibattito tuttora non arrivato ad alcuna conclusione sul piano geopolitico, è comunque auspicabile che esistano rapporti positivi fra gli USA, la Cina, l'India, la Russia e la Germania. Ora non possiamo nasconderci a questo proposito che esistono questioni di varia natura tuttora aperte che complicano il quadro. Per quello che riguarda la Germania la situazione è insieme per certi aspetti la più semplice e per altri versi assai complessa. Più semplice per ciò che riguarda la trasparenza e la qualità dei rapporti politici perché non è ammissibile fra paesi tradizionalmente alleati e amici il tipo di spionaggio che gli USA hanno messo in atto nei confronti del governo tedesco e della stessa presidente Merkel. Più complessa è invece la situazione sul terreno economico-sociale in quanto la linea rigorista in politica economica seguita dalla Germania, ha creato dei seri problemi anche all'economia americana ed ha aperto un contenzioso di fondo fra due linee assai diverse di politica economica perché essendo il mondo interdipendente l'eccesso di austerità della politica economica europea in una certa fase ha avuto ricadute non di poco conto anche sull'economia americana. Chiaramente il governo americano nel passato non ha affatto Pag. 172condiviso alcuni aspetti della politica economica europea. Tutto ciò richiede un chiarimento nell'impostazione di fondo della politica economica dei paesi dell'Occidente che può essere visto con favore anche da molti stati europei.

Il difficile rapporto con la Russia.

  Molto più complesso e difficile è il rapporto degli USA sia con la Russia sia con la Cina. Per ciò che riguarda la Russia, nessuno, tantomeno l'Italia e la Germania, ha voluto rilanciare la guerra fredda e venir meno all'incontro di Pratica di Mare come qualcuno ha polemicamente affermato. Infatti questa polemica non ha tenuto conto del fatto che è stata la Russia e non altri a perdere la partita in Ucraina proprio sul terreno del consenso popolare avendo puntato le sue carte su una sorta di «quisling» qual era Yanukovic e avendo frainteso lo spirito profondo di Piazza Maidan: altro che nazisti, lì sono scesi in campo le giovani forze democratiche e liberali dell'Ucraina che si riconoscono nei valori dell'Europa. Il risultato delle elezioni per la parte proporzionale conferma questa analisi. Con il presidente Poroshenko hanno prevalso le forze moderate ed europeiste e l'estrema destra è risultata marginale. È stata invece la Russia di Putin a porre in essere un intervento militare che è arrivato al punto di realizzare un'operazione inusitata quale l'acquisizione della Crimea fatta con una fortissima pressione politica e militare e poi la successiva azione militare «ibrida» su un'altra parte dell'Ucraina, da Donetsk a Odessa. Per tutte queste ragioni condivido le sanzioni. Le sanzioni sono state il modo per dare a Mosca un segnale relativamente pesante, ma volto ad evitare una deriva militare pericolosissima innescata proprio dagli interventi militari diretti e indiretti messi in atto da parte della Russia, il cui presidente è arrivato addirittura a evocare la potenza nucleare di cui è dotato il suo paese. Ora nessuna motivazione di stampo economicista sul terreno di legittimi interessi di imprese o categorie può indurre gli USA e i paesi dell'UE ad arretrare sul terreno di una battaglia in difesa dei diritti di libertà di una nazione, quella Ucraina, il cui popolo, a grande maggioranza, vuole affermare la sua autonomia proprio attraverso il suo rapporto con l'Europa. Aggiungo anche che eventuali ritirate su questo terreno non mettono affatto al riparo da altre e successive aggressioni. Ce lo dice l'esperienza storica, ma anche l'analisi di ciò che è oggi la Russia di Putin. Dopo il fallimento nel 1991 del tentativo di colpo di stato vetero-comunista, sventato non da Gorbaciov ma da Eltsin, fu quest'ultimo ad assicurare alla Russia alcuni anni di evoluzione politica di stampo liberal-liberista. Si trattò però di una fase del tutto transitoria. Poi la forza del passato, opportunamente aggiornato, ha risucchiato quasi tutto: c’è stata un'abile ristrutturazione della parte più forte del sistema comunista. A suo tempo nella crisi dell'URSS e del PCUS, il KGB si è rivelato l'unica forza duttile, lucida, aggiornata su ciò che accadeva nel mondo occidentale, e quindi capace di agire dall'interno del post-comunismo ristrutturando stato e parte della società in questo modo conquistando di fatto il potere reale e collocando i quadri migliori sia al vertice del sistema politico sia alla guida di imprese privatizzate in modo assai paradossale. Siccome ogni operazione volta a conquistare l'egemonia deve legare la sua leadership ad un progetto, ad una missione, ecco che quello di Putin e dell'attuale gruppo dirigente russo è ispirato al sogno della «grande Russia» nel quale possono ritrovarsi sia i tradizionalisti nostalgici della storia russa più antica, quella degli zar, sia i post-comunisti che ritengono che il crollo del PCUS e dell'URSS sia stato un vulnus che va sanato per cui la nazione può «ritrovarsi» e superare le sue umiliazioni solo attraverso la riproposizione aggiornata e rivisitata di questa suggestione che ha mille implicazioni, compresa quella di puntare a rappresentare tutte le etnie russe esistenti nei paesi collocati nell'area propinqua alla federazione russa. Ora chi sostiene disegni di stampo nazionalistico così ambiziosi e li traduce in una serie di azioni politico-Pag. 173militari assai dure (vedi appunto quello che è successo prima in Georgia poi in Ucraina) costituisce per la comunità internazionale e per la pace un problema che va affrontato senza alcuna subalternità. Tutto l'andamento della conferenza Asem a Milano ha messo in evidenza che Putin ha teso a sottolineare sia sul piano politico che su quello mediatico di essere «altra cosa» rispetto all'Europa mentre ha riesumato toni da guerra fredda nei confronti degli USA. Tutto ciò, a mio avviso, deve avere due conseguenze solo apparentemente contraddittorie. In primo piano che l'Europa e in essa l'Italia devono attrezzarsi per non dipendere dalla Russia sul piano energetico. Ciò vale a maggior ragione per l'Italia che deve dare all'Eni la direttiva di cambiare linea rispetto alla sua precedente gestione caratterizzata da una strutturale subalternità nei confronti di Gazprom. Da questo punto di vista l'operazione South Stream suscita forti perplessità perché tutto quello che è avvenuto sia sul piano politico che su quello economico mette in evidenza che l'Italia non può dipendere da nessuno sul terreno dell'approvvigionamento energetico e che invece occorre promuovere il ricorso ad una pluralità di fonti. In secondo luogo va detto che le sanzioni sono funzionali a contrastare il cambiamento di linea di Putin rispetto all'appeasement con l'Occidente, Stati Uniti compresi, di cui fu espressione l'incontro di Pratica di Mare, e a contrattare in modo serrato con la Russia che, come ha detto il ministro Mogherini qualche tempo fa, non è un partner ma una controparte. Quindi con la Russia non deve esserci né subalternità, né la ricerca di uno scontro frontale, ma una linea politica consapevole delle ambizioni insite nella strategia di Putin e delle conseguenti difficoltà di una trattativa che va condotta con un interlocutore assai difficile. Per altro verso è evidente l'esigenza di disinnescare gli aspetti militari della vertenza Russia-Ucraina che finora ha determinato molte vittime, la sofferenza delle popolazioni coinvolte, l'abbattimento dell'aereo olandese.
  Veniamo alla Cina, della quale peraltro abbiamo già parlato. Il paradosso cinese è quello di essere un autentico ircocervo, quello di un'economia ultracapitalista e di uno stato ultracomunista. Da questo ircocervo può derivare sia un capolavoro, sia un mostro. Ciò detto non possiamo fare a meno di esprimere agli studenti e ai cittadini di Hong Kong la nostra solidarietà e rilevare anche il silenzio assordante sia della sinistra che della destra europee.

Il salto di qualità dell'immigrazione nel Mediterraneo.

  Tutte le catastrofi politiche, militari, economico-sociali che si sono verificate nel Nord Africa e nel Medio Oriente, dal Mali alla Siria, all'Iraq, alla Libia, si sono a loro volta tradotte in quella autentica catastrofe sociale che è l'immigrazione, la quale è precipitata con la massima intensità proprio nel tratto del Mediterraneo che dalla Libia coinvolge l'Italia. Solo la faziosità di chi sta facendo su questo dramma un'operazione elettorale può rimuovere il fatto che il salto di qualità, avvenuto fra il 2013 e il 2014 sul terreno dell'immigrazione, di cui sono stati un tragico segnale i 300 morti a Lampedusa, è provocato dai drammi politici in corso in molti paesi dell'Africa e del Medio Oriente. Le conseguenze di questi drammi ci hanno costretto a porre in essere l'operazione Mare Nostrum. Questa immigrazione si è rivolta in molteplici direzioni (in primis nei confronti della Giordania, della Turchia, del Libano e poi verso l'Italia). Le cifre complessive sono di dimensioni incredibili e sono l'espressione di un'autentica tragedia sociale, politica e individuale di migliaia di persone. Di fronte a tutto ciò è stata aperta una vertenza fra l'Italia e l'Europa dal governo italiano che ha posto il problema costituito dal fatto che il Mediterraneo è un confine dell'Europa e non dell'Italia. Ci auguriamo che l'ultima decisione europea sul tema, quella che va sotto il nome di Triton rappresenti un salto di qualità rispetto alla situazione attuale. Essa comunque mette in evidenza che il governo italiano ha aperto in sede di Pag. 174Unione Europea un forte contenzioso che ha prodotto un primo effetto significativo. D'altra parte quale potrebbe essere l'alternativa a tutto ciò ? Forse i respingimenti ? Essi si tradurrebbero in altri drammi con la morte di centinaia di persone di cui l'Italia si dovrebbe assumere la responsabilità. Non credo che una linea del genere reggerebbe più di due o tre giorni.
  C’è poi un'altra questione che poniamo come ulteriore elemento di dibattito ed è il problema politico, diplomatico e anche militare costituito dalla Libia. Come è noto dopo la dissennata iniziativa di qualche anno fa e la conseguente destabilizzazione di quel paese, si è recentemente riusciti a tracciare un percorso positivo arrivando ad elezioni che hanno dato un risultato che anche nella sostanza non è stato affatto negativo e che comunque non può essere disconosciuto e annullato. Ora le forze fondamentaliste che hanno perso le elezioni e che fanno parte della Fratellanza Musulmana che si dirama dall'Egitto, alla Palestina, alla Tunisia, alla Giordania fino alla Libia, non sono state al gioco, hanno scatenato una lotta amata che è al limite della guerra civile, hanno addirittura riesumato il precedente parlamento che si contrappone al nuovo che è costretto a riunirsi a Tobruch perché a Tripoli è saltata anche la disponibilità dell'aeroporto. Saluto molto positivamente il viaggio che una delegazione dell'ONU ha fatto in Libia e il discorso politico fatto in quella sede dal ministro Mogherini. Mi auguro che l'iniziativa abbia successo. In ogni caso la situazione va monitorata con grande attenzione perché essa è sottoposta a due alternative radicali: o migliora nettamente o peggiora al punto da portare ad una guerra civile totale con l'innesto in essa di ISIS.

Una sfida per l'Europa: «la mossa dello judoka».

  Ecco, questa relazione sottopone alla vostra attenzione e alla vostra riflessione molti argomenti di dibattito trattati in modo non ordinato e organico. Concludo ricordando alcuni temi riguardanti l'Europa. L'occasione offerta dai dati riguardanti l'economia degli USA va colta per ciò che essa offre al dibattito politico in Europa. Non è che nel 2007-2008, e almeno fino al 2010, gli USA fossero in ottime condizioni economiche e non abbiano dovuto fare i conti con una gravissima crisi economica e finanziaria. Ne sono usciti però con una linea di politica economica di segno opposto a quello finora portata avanti dall'Europa. Come ha ricordato l'ex ministro dell'economia francese Montebourg»nel 2008, quando è fallita Lehman Brothers, c'era lo stesso tasso di disoccupazione negli USA e in Europa, eravamo entrambi al 10 per cento. Oggi l'America è al 6 per cento. Noi sfioriamo il 12 per cento. Negli ultimi 6 anni gli americani hanno creato dieci punti di PIL in più rispetto all'Europa. Le politiche europee non ci hanno tirato fuori dalla crisi. E hanno aggravato la situazione». A sua volta proprio uno dei leader storici della Germania, a lungo presidente del Consiglio, Helmut Schmidt ha fatto un'osservazione molto significativa: «Chi crede che l'Europa possa essere risanata solo grazie ai tagli alla spesa dovrebbe studiare le nefaste conseguenze della politica deflazionistica perseguita da Brüning nel 1930-32 che provocò depressione e una insostenibile disoccupazione».
  Quindi non ci troviamo solo di fronte alle «prediche inutili» di alcuni economisti, da Stiglitz a Krugman, a Fitoussi, a Delors a Attali, a Bini Smaghi fino a quella star mediatica che è diventato Piketty che ha redatto addirittura un nuovo «capitale». Noi adesso ci troviamo davanti alla politica economica di un governo come quello degli USA e agli effetti positivi che essa ha avuto in quel paese. Allora è giusto prendere in parola il presidente Renzi e il suo giusto spirito innovativo che lo spinge a «rivoltare l'Italia come un calzino» visto che il tran tran dello status quo ci porterebbe alla rovina. Orbene a mio avviso il presidente Renzi deve condurre non solo la serrata trattativa che si è svolta nei giorni scorsi (e non possiamo fare a meno di rilevare che nel passato non c'erano Pag. 175trattative ma solo diktat) ma prima o poi deve essere sviluppato un confronto sulla impostazione di fondo della politica economica, che probabilmente richiede una revisione del trattato di Maastricht, una revisione per salvare la prospettiva europeista. Questa iniziativa è resa ancor più necessaria dal fatto che tutta una parte dell'Europa è strangolata dalla recessione e che non la Grecia, ma la Francia ha posto dei problemi di fondo e che la stessa industria tedesca oggi è in recessione. Gli stessi scricchiolii negli spread e i negativi andamenti di Borsa dipendono sia dalla condizione di alcune banche, sia dalla situazione assai seria della Grecia, sia dalla generale recessione. Ora su questo nodo, però, la riflessione critica che mi permetto di fare è assai diversa da quella di alcune forze della sinistra politica e sindacale. A mio avviso proprio per avere la massima forza politica nei confronti dell'Unione Europea il presidente Renzi deve far leva su una serie di riforme da realizzare nel nostro paese: adesso sono all'ordine del giorno una nuova legislazione sul mercato del lavoro, articolo 18 compreso e le proposte assai incisive di tagli alla spesa pubblica in funzione di una netta riduzione della pressione fiscale sulle imprese. Queste operazioni servono per rafforzare nell'Unione Europea la nostra rivendicazione per una nuova politica economica europea funzionale alla crescita. Una riflessione conclusiva riguarda il ruolo del ministro degli esteri europeo. Credo che la carica di ministro degli Esteri europeo è una grande occasione e che il nostro ministro ha tutte le qualità per coglierla. Nel contempo conosciamo, e in primo luogo li conosce proprio Federica Mogherini, i limiti «storici» del suo dicastero europeo derivanti da una cosa assai seria ossia dal fatto che finora una politica estera dell'Unione europea come tale non c’è stata. Allora l'invito che mi permetto di rivolgere è quello di far leva paradossalmente proprio su due elementi negativi, cioè l'assenza per quanto riguarda il passato di una autentica politica estera europea e l'esistenza di una situazione internazionale gravissima, per fare quella che Vittorio Foa a suo tempo chiamava «la mossa dello judoka», cioè di ribaltare una tendenza negativa in una possibilità positiva. Ciò vuol dire di non limitarsi ad un lavoro di raccordo e di coordinamento ma di sviluppare su alcune precise questioni di grande rilievo altrettante iniziative politiche da parte del ministro degli Esteri europeo. Un esempio in questo senso lo ha dato proprio Federica Mogherini andando qualche giorno fa in Libia con la delegazione dell'ONU. Per fare un altro esempio è auspicabile adesso giungere alla piena consapevolezza che la lotta contro l'ISIS richiede un salto di qualità da tutti i punti di vista. Questa lotta pone oggi all'Europa una questione immediata assai rilevante: i curdi non possono essere abbandonati a sé stessi. Su questo nodo drammatico l'Europa deve svolgere un'iniziativa politica. Affrontando alcune questioni dirimenti possiamo tradurre quella che è stata una significativa vittoria del governo italiano sul terreno degli organigrammi dell'Unione Europea in una vittoria politica sostanziale. In conclusione un avvertimento che non è per nulla polemico. Attenzione: i giorni passano e i quattro mesi concessi al sottufficiale Latorre di qui a gennaio finiranno. Prima che questo tempo si compia dobbiamo trovare con gli amici indiani una soluzione positiva, perché altrimenti ci verremo a trovare in una situazione assai difficile. Lo dico con la massima sobrietà perché ritengo che essendo in ballo la vita di due persone, sono del tutto inutili gli esibizionismi ai quali abbiamo assistito in questo periodo. Detto tutto ciò aggiungo due riflessioni riguardanti la politica della Difesa ed Ebola.

DIFESA.

  A mio avviso questo quadro internazionale ha rilevanti implicazioni anche per ciò che riguarda la politica della difesa e quindi di esso bisogna tener conto nella redazione del libro bianco. Infatti questo quadro internazionale non richiede certo una linea aggressiva nella politica della difesa perché esiste piena Pag. 176consapevolezza che non solo per ragioni etiche e sul piano dei valori ma anche sul terreno del realismo, l'iniziativa politica è mille volte preferibile e più efficace di quella militare. Fatta questa premessa, considerando anche tutto ciò che sta accadendo, in primo luogo nel Mediterraneo, è indispensabile che l'aviazione, la marina, l'esercito italiani, specie nei loro reparti più specializzati, siano in condizioni di agire e di intervenire e che questo nodo sia affrontato sulla base di analisi realistiche della situazione, senza pregiudiziali ideologiche di alcun tipo. È con questo approccio che va affrontato anche il dibattito sugli F35. Ora in questo quadro internazionale così grave segnato proprio nel Mediterraneo da un attacco terroristico che si fa esercito e si fa stato, l'Italia non può dare segnali sbagliati e essere o apparire «il ventre molle» dell'Europa, specialmente nel momento nel quale chiediamo la solidarietà internazionale su due questioni: l'immigrazione e il ritorno in patria dei nostri due fucilieri di marina. Di conseguenza con senso della misura e con rigore è indispensabile che le nostre forze armate siano dotate della capacità di interdizione e di intervento perché la realtà che ci circonda e con la quale dobbiamo fare i conti presenta una tale gravità che una grande nazione la deve affrontare avendo a disposizione tutti gli strumenti necessari, anche perché la pace nella situazione attuale è garantita solo se gli stati democratici non sono inermi né psicologicamente, né culturalmente, né materialmente. In questo quadro condividiamo l'invio di 280 fra consiglieri e istruttori per addestrare i curdi. Reputo anche che mentre va realizzato il nostro ritiro dall'Afghanistan, va aperta un'attenta riflessione sulla possibilità di un intervento italiano a protezione della frontiera giordana, un'ipotesi evidentemente da discutere innanzitutto con la Lega Araba e il re Abdullah.

EBOLA.

  A conclusione di questa riflessione sulla politica estera, o meglio sulla dimensione internazionale della politica, non possiamo fare a meno di parlare di una tragedia che apparentemente sfugge a questa dimensione perché è innanzitutto di carattere sanitario. Ma, per dirla in modo volutamente paradossale, per certi aspetti Ebola è come l'ISIS: entrambe queste tragedie sono state affrontate dalla comunità internazionale con grave ritardo, inizialmente in modo superficiale e con incredibili sottovalutazioni. Così per quello che riguarda Ebola si è ritenuto per mesi che essa fosse una epidemia circoscritta ad alcuni stati, fondamentalmente solo la Guinea, la Liberia, la Sierra Leone, nella folle convinzione che essa si sarebbe esaurita in quei lontani paesi abbandonati da Dio e dagli uomini quasi che la globalizzazione non coinvolga ormai tutto e tutti, non solo i mercati, i capitali, ma anche gli esseri umani e che essi possono trasferire in qualunque parte del mondo tutto ciò che di bene e di male si portano dentro.
  I primi casi sospetti si sono verificati nel febbraio del 2014, l'epidemia è stata identificata nel marzo del 2014 in Guinea, in Liberia e in Sierra leone, poi è arrivata in forma finora contenuta in Nigeria e in Senegal. Con il passare dei mesi, com'era inevitabile, casi del tutto sporadici si sono anche manifestati negli Stati Uniti, in Spagna e in Germania. Solo allora è suonato davvero l'allarme. Un ritardo imperdonabile. Non appena Ebola si è manifestato Medici Senza Frontiere (MSF) ha più volte richiesto un'azione assai forte della comunità internazionale per bloccare l'epidemia con interventi nei paesi d'origine anche per evitare il collasso di già fragili sistemi sanitari e la crisi dei sistemi economici. Anche l'OMS, per non parlare del resto, ha reagito in ritardo. Così solo a settembre-ottobre si sono messi in moto prima l'ONU, poi gli USA e il resto del mondo occidentale. Non si è capito subito che il sistema sanitario è globale e che se non si interviene con grande forza proprio là dove l'epidemia nasce e si Pag. 177sviluppa il rischio è duplice: che essa si propaghi in forma esponenziale nei paesi d'origine e di lì anche nel resto del mondo. Ora nella storia degli uomini e delle nazioni esistono tanti tragici errori, episodi di superficialità, di viltà, di opportunismo, ma fortunatamente anche grandi esempi di abnegazione, di generosità, di intelligenza. Ci auguriamo che di fronte a ISIS e a Ebola siano questi a prevalere.