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Resoconto dell'Assemblea

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XVII LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 574 di lunedì 22 febbraio 2016

Pag. 1

PRESIDENZA DELLA VICEPRESIDENTE MARINA SERENI

  La seduta comincia alle 15.

  PRESIDENTE. La seduta è aperta.
  Invito la deputata segretaria a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

  ANNA MARGHERITA MIOTTO, Segretaria, legge il processo verbale della seduta del 15 febbraio 2016.

  PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.
  (È approvato).

Missioni.

  PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Amendola, Amici, Bellanova, Bernardo, Dorina Bianchi, Bindi, Biondelli, Bobba, Bocci, Bonifazi, Michele Bordo, Borletti Dell'Acqua, Boschi, Brambilla, Bratti, Bressa, Brunetta, Bueno, Caparini, Casero, Castiglione, Cicchitto, Cirielli, Costa, Crippa, D'Alia, Dambruoso, De Micheli, Del Basso De Caro, Dellai, Di Gioia, Luigi Di Maio, Fava, Fedriga, Ferranti, Fico, Fioroni, Gregorio Fontana, Fontanelli, Fraccaro, Franceschini, Garofani, Giacomelli, Giancarlo Giorgetti, Gozi, La Russa, Locatelli, Lorenzin, Losacco, Lotti, Lupi, Madia, Manciulli, Marazziti, Merlo, Migliore, Orlando, Pes, Piccoli Nardelli, Gianluca Pini, Pisicchio, Portas, Rampelli, Ravetto, Realacci, Rosato, Domenico Rossi, Rughetti, Sanga, Sani, Sarti, Scalfarotto, Scotto, Tabacci, Valeria Valente, Velo, Vignali e Zanetti sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
  I deputati in missione sono complessivamente ottantatré, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell’allegato A al resoconto della seduta odierna (Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell’allegato A al resoconto della seduta odierna).

Discussione del testo unificato delle proposte di legge: Coscia ed altri; Pannarale ed altri: Istituzione del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione e deleghe al Governo per la ridefinizione della disciplina del sostegno pubblico per il settore dell'editoria, della disciplina di profili pensionistici dei giornalisti e della composizione e delle competenze del Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti (A.C. 3317-3345-A) (ore 15,07).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del testo unificato delle proposte di legge nn. 3317-3345-A d'iniziativa dei deputati Coscia ed altri; Pannarale ed altri: Istituzione del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione e deleghe al Governo per la ridefinizione della disciplina del sostegno pubblico per il settore dell'editoria, della disciplina di profili pensionistici dei giornalisti e della composizione e delle competenze del Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti.Pag. 2
  Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al resoconto stenografico della seduta del 18 febbraio.

(Discussione sulle linee generali – A.C. 3317-3345-A)

  PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
  Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari MoVimento 5 Stelle e Partito Democratico ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
  Avverto, altresì, che la VII Commissione (Cultura) si intende autorizzata a riferire oralmente.
  Ha facoltà di intervenire il relatore per la maggioranza, deputato Rampi.

  ROBERTO RAMPI, Relatore per la maggioranza. Buon pomeriggio, Presidente e colleghi. Arriva oggi in Aula, finalmente io dico, un provvedimento a cui abbiamo lavorato molto come Commissione cultura e con tutti i gruppi parlamentari negli ultimi mesi. Un provvedimento che appartiene a quei provvedimenti a cui chi fa politica ambisce magari per una vita a mettere mano e che fanno tremare i polsi perché il tema è niente poco di meno che il pluralismo dell'informazione, cioè un tema cruciale, fondante; è un tema alla base di una democrazia. Infatti, se non c’è informazione, se non c’è conoscenza, se non c’è diritto alla conoscenza, se non c’è pluralismo, la democrazia non esiste. La politica è fatta anche di questo, è fatta di affrontare delle grandi tematiche e provare a farle cadere nella concretezza di provvedimenti che sono sempre limitati, legati al tempo, alla contingenza, allo spazio, alle disponibilità delle risorse. Però si prova a dare finalmente una risposta e una risposta che viene da un lungo percorso.
  Infatti, questo tema il Parlamento italiano lo affronta per la prima volta negli anni Ottanta; poi negli anni Duemila ci sono processi di revisione significativi e nel 2010 un passaggio cruciale vede un ripensamento del sistema di contribuzione all'editoria, che poi, per dirla chiara, significa ai piccoli giornali soprattutto. E poi, successivamente al 2010, il Parlamento prova a fare esattamente quello che tentiamo di fare noi oggi, cioè un provvedimento di legge complessivo di delega e di riordino che dia uniformità al settore. Però, questo provvedimento non arriva a compimento. Ecco, noi come primo obiettivo ci poniamo oggi quello di non ripetere quell'esperienza e, quindi, ci siamo dati un tempo importante di ascolto del mondo là fuori innanzitutto, di tutti gli operatori di questo settore, con audizioni in Commissione significative e di ascolto delle diverse forze politiche qua dentro. Poi, però, a un certo punto c’è il tempo della decisione, della scelta e dell'assunzione di responsabilità, perché, appunto, il provvedimento deve arrivare a conclusione e perché noi sappiamo che questo settore è un settore che oggi rischia, ogni giorno che passa, di vedere una testata che muore. Parliamo di piccole testate locali; parliamo dell'ossatura della democrazia del Paese; parliamo di chi compie ogni giorno atti d'inchiesta e di indagine e magari svela qualche cosa di drammatico che riguarda il sistema della criminalità, il sistema della violenza sull'ambiente. Quindi, sono temi fondamentali.
  Che cosa prevede il nostro provvedimento ? Il nostro provvedimento prevede innanzitutto una ridefinizione della platea che può accedere a questi contributi secondo due linee di fondo: una maggior trasparenza sicuramente e una maggiore definizione, appunto, della piccola editoria, utilizzando in particolare il tema del no profit e delle cooperative di giornalisti, quindi di editori che sono giornalisti essi stessi come soggetto chiave di questo riferimento. Si pensa, quindi, appunto, alla piccola editoria, escludendo in maniera molto secca e molto chiara, sia i fogli di partito, sia le società quotate in Borsa. Quindi, insomma, si interviene anche rispetto a quelli che sono stati degli scandali del passato che hanno fatto male a questo Pag. 3settore. Qualcuno dice che a volte in questo settore c’è una mitologia. Ecco, la mitologia in realtà è una cosa positiva. Nella storia dell'uomo la mitologia ha dato degli elementi per indicare la rotta, per dire dove andare. Più che una mitologia c’è una superstizione, cioè si continua a parlare di cose che non ci sono più e si pensa che bisogna intervenire in questo campo. Queste cose sono state combattute, ma oggi portare a sistema un progetto come questo è fondamentale per garantire appunto la chiarezza e la trasparenza e, quindi, per aiutare questo settore.
  Dall'altro lato, si lavora per garantire che al contributo pubblico corrisponda una capacità economica, una capacità imprenditoriale, una reale esistenza e, quindi, si misurano le copie vendute, si misura la capacità di raccogliere fondi diretti da parte di queste realtà e si accompagna tutto questo settore, che in parte ha già intrapreso ovviamente questo cammino, verso l'era del digitale; si tratta di un'era che non è iniziata oggi, che è ampiamente iniziata da tempo e che, però, in questo settore comporta una trasformazione che è cruciale. Infatti, è chiaro che oggi se noi guardiamo alla realtà dell'informazione, dei giornali, eccetera, vediamo che ormai gran parte dell'informazione vive anche o solamente in rete, nell’online, che c’è un grande tema di che cos’è l'informazione online e di come aiutare l'informazione online ad essere forte, ad essere fondata, ad avere riferimento alle fonti. Quindi, l'idea di portare tutte queste testate, in maniera vincolante, per poter accedere al contributo pubblico, ad essere anche testate online, ad essere anche digitali e accompagnarle nei costi di ripensamento che questo comporta, è uno dei settori cruciali.
  Tutto ciò pensando e guardando al tema del mercato, che non è la panacea di tutti i mali, ma nemmeno il grande nemico da combattere. Pertanto, ci sono nella vita del mercato delle storture e degli elementi di manchevolezza su cui è utile che il pubblico intervenga. In particolare, questa legge nasce proprio pensando a questo, cioè che se esistono realtà del Paese – e ne esistono – dove da sola una cooperativa di giornalisti, una realtà imprenditoriale, una realtà no profit, non ce la fa e, quindi, c’è il rischio che in quella realtà del Paese non esista più nessuna voce o ne esista una sola, allora ha senso un intervento secondo criteri molto ben definiti da parte del pubblico per tenere accesa quella voce.
  L'intervento poi si sposta, ovviamente e giustamente, a tutto il resto della filiera di questo settore e, quindi, riguarda anche la rete di distribuzione: i distributori, le edicole, i punti vendita. Infatti, se noi lavoriamo per tenere vive delle testate, per fare in modo che esistano, se noi lavoriamo perché ci siano dei giornalisti – magari dei giovani giornalisti, in particolare dei giovani giornalisti – che scrivano dei pezzi, noi, però, dobbiamo poi fare in modo che quello che loro scrivono effettivamente qualcuno lo vada a stampare, qualcuno lo vada a raccogliere, qualcuno lo porti in un'edicola e qualcuno lo venda. Quindi, c’è un processo complicato di intervento in questo settore, su cui noi pensiamo di avere avuto, forse per la prima volta, le orecchie attente pensando a degli interventi.
  C’è poi un intervento importante che riguarda il settore dei giornalisti in maniera più complessiva. In particolare, si tratta di una revisione dell'ordine dei giornalisti, del suo consiglio nazionale secondo un principio di razionalizzazione delle competenze e anche dei numeri, ma non per una battaglia ideale verso i grandi numeri e piccoli numeri e anche relativamente ai fattori di costo che comportano, che pur non sono irrilevanti, ma perché noi pensiamo che si possa far crescere l'autorevolezza di quel luogo. Altri propongono progetti diversi, noi pensiamo che questo sia un elemento cruciale, anche in questo caso in una logica di accompagnamento del cambiamento, di guida del cambiamento, nel senso di avere la capacità di affrontare i tempi in cui viviamo con strumenti che siano adeguati a quei tempi.
  Si interviene anche sul tema dei prepensionamenti di questo settore con un criterio di razionalità, che dice che laddove c’è bisogno di un intervento pubblico Pag. 4e, quindi, di contributi, di risorse che sono di tutti, ci deve essere poi, però, un rigore, ci deve essere un accompagnamento verso una condizione più simile a quella di tutti i lavoratori, ci deve essere la certezza che se qualcuno, purtroppo, è stato accompagnato fuori dal mondo del lavoro ed è andato in prepensionamento non ritorni poi, qualche giorno dopo, a lavorare nello stesso settore dello stesso giornale perché questo sarebbe sbagliato.
  Noi abbiamo cercato di lavorare in Commissione. Mi permetta, Presidente, come relatore, di raccontare, di relazionare all'Aula di un clima molto positivo, che ha sentito tutte le forze politiche, ovviamente ognuna partendo da impostazioni anche molto differenti. Però, mi sembra di poter dire – credo che sia utile dirlo all'Aula – che da più parti abbiamo raccolto, comunque, un sentire comune, e sarebbe strano che così non fosse nei confronti del pluralismo, che è un tema fondamentale. Ognuno poi pensa giustamente di intervenire in maniera differente.
  C’è ed è forte il tema della delega. Allora, noi abbiamo affrontato questo tema di petto. Naturalmente noi riteniamo che in questo settore le deleghe al Governo siano fondamentali, per un motivo molto semplice: perché si tratta di dare alla norma quel valore universale e, però, permetterle di misurarsi con la concretezza delle situazioni che, via via, si trasformano. Pertanto, se noi possiamo definire molto bene i principi a cui vogliamo arrivare, via via che questi principi ricadono nella realtà e nella quotidianità, ci sono anche delle trasformazioni nel settore che devono permettere, con i decreti attuativi, che possono cambiare e che, ogni volta che cambiano, però, ritornano alle Commissioni parlamentari per il loro parere, di introdurre anche dei correttivi, proprio per fare il contrario di quello che a volte si pensa rispetto alla delega. Infatti, il Parlamento dà un indirizzo; il decreto attuativo prova a concretizzare quell'indirizzo; se il risultato, se l'esito di questa concretizzazione non corrisponde all'indirizzo, c’è lo spazio e c’è la possibilità di intervenire e di correggere. Allora, se noi guardiamo a questo in maniera non ideologica, ma con rigore, vediamo che in questo caso questa è la logica di queste deleghe, ma, proprio perché questa è la logica, si è cercato, anche nel lavoro di Commissione – moltissimo nel lavoro di Commissione – di rafforzare il dettaglio, l'indirizzo, fino, in alcuni casi, a un livello di rigore e di determinazione molto forte delle deleghe stesse.
  Vado a concludere su un ultimo tema che, secondo me, è importante ed è cruciale. Abbiamo raccolto in queste settimane, in particolare dagli altri gruppi, diverse indicazioni che riguardano il fondo che viene costituito con questo provvedimento e che riguardano, in particolare, l'attenzione verso i lavoratori di questo settore e il fatto che chiunque voglia accedere a un contributo pubblico debba, in maniera rigorosa e chiara, non solo formalmente, ma sostanzialmente rispondere a tutti gli obblighi contrattuali che ha nei confronti dei propri lavoratori, rispetto al tema della trasparenza, rafforzando le norme in questo senso. Adesso inizia un lavoro d'Aula. L'approccio che avremo verso l'Aula sarà un approccio di ulteriore apertura. Questa è una proposta di legge che non è partita per nulla blindata; sono stati accorpati due testi; si è fatto un lavoro forte di unione dei due testi; in Commissione sono stati recepiti moltissimi emendamenti; oggi ne sono stati presentati altri; anche a questi emendamenti guarderemo con attenzione al merito e vedremo di recepirne il numero maggiore possibile. Questo perché siamo convinti che dobbiamo consegnare all'altro ramo del Parlamento, al Senato della Repubblica, in tempi brevi – perché ormai ci siamo –, un risultato molto rigoroso. Poi, anche il Senato della Repubblica, ovviamente e naturalmente, farà il suo lavoro.
  In conclusione, io penso che noi abbiamo ancora diversa strada da fare in questo lavoro d'Aula. Credo che siamo arrivati a un punto importante. Credo che abbiamo provato davvero a tenere aperto l'ascolto di tutte le voci. Io vorrei che anche la discussione di oggi e quella dei prossimi giorni si tenesse, però, su un Pag. 5criterio di fondo: ci sono questioni che non condividiamo, non raccontiamoci cose che, invece, non esistono. Noi non abbiamo nessun grande quotidiano sostenuto da questo provvedimento e non abbiamo amici o nemici da sostenere. Noi dobbiamo solo intervenire su un settore cruciale per il Paese e farlo con il rigore massimo possibile, perché, quando si parla di contribuzione pubblica e quando si parla di risorse di tutti, bisogna essere davvero rigorosi.
  Ma dobbiamo rispondere a una domanda che ci siamo fatti in tutti questi mesi e con tutti: il settore dell'informazione è davvero solo ed esclusivamente un settore in cui si parla di un prodotto, per cui, laddove c’è mercato, bene, siamo a posto così e, laddove non c’è mercato, fa nulla, ci sarà un prodotto in meno da vendere ? Ecco, noi pensiamo che questo non sia vero. Questo è un settore che è insieme prodotto e servizio. È un servizio essenziale, cruciale e primario. Il diritto alla conoscenza è un diritto primario dell'uomo, è un diritto fondamentale che distingue una democrazia dall'altra. Qualcuno mi ha chiesto: voi pensate, con questa legge, di migliorare la condizione della democrazia in Italia, come viene rilevata dalle statistiche ? Noi abbiamo anche questa ambizione. Magari la miglioreremo solo di poco, però noi abbiamo l'ambizione di procedere passo dopo passo e di procedere, però, passo dopo passo nella giusta direzione.

  PRESIDENTE. Ha facoltà di intervenire il relatore di minoranza, deputato Giuseppe Brescia. Prego, onorevole.

  GIUSEPPE BRESCIA, Relatore di minoranza. Grazie, Presidente. Noi crediamo, invece, che sia molto difficile che con un provvedimento di questo tipo si dia un contributo al miglioramento della condizione generale dell'informazione nel nostro Paese. Siamo dell'idea esattamente opposta ed è per questo che io mi ritrovo a fare il relatore di minoranza. Ovviamente siamo radicalmente contrari a questa misura, a questo provvedimento, che, dal nostro punto di vista, rappresenta un ennesimo spreco di denaro pubblico. Potremmo dire che con questi soldi, ancora una volta, il Governo tenta di mettere le mani sull'informazione. Infatti, il comma 2 dell'articolo 1 recita chiaramente che questi soldi saranno gestiti direttamente dalla Presidenza del Consiglio, che, secondo criteri che stabilirà essa stessa attraverso delle deleghe che sono più o meno vincolanti, elargirà questi fondi.
  Noi abbiamo presentato anche una proposta di legge, che è stata già discussa e bocciata in questo ramo del Parlamento, che andava proprio nella direzione opposta, ossia quella di abolire i finanziamenti pubblici all'editoria. Infatti, a nostro avviso, questo filo diretto che c’è tra il Governo e gli editori va proprio esattamente dalla parte opposta rispetto a quello che, almeno a parole, è l'obiettivo principale di questo provvedimento, ossia quello di favorire un pluralismo dell'informazione. Faccio un esempio per far capire anche a chi ascolta da casa qual è la realtà che ci si potrà palesare davanti nel momento in cui questo provvedimento entrerà in vigore. Ci potrà essere un piccolo giornale che sarà finanziato per il 50 per cento dallo Stato e, ad esempio, per un altro 50 per cento da un gruppo imprenditoriale. Io penso che un giornale di questo tipo non sia assolutamente autonomo ed indipendente, io penso che un giornale di questo tipo risponda a due soggetti, a due forze, che sono appunto il Governo centrale, per il quale non potrà mai avere delle parole troppo gravi, e appunto questo gruppo imprenditoriale che a seconda dell'attività che svolge si vedrà più o meno attaccato sui temi che lo riguardano. Noi crediamo che soprattutto in un momento storico come questo – è stato ricordato anche dal relatore di maggioranza – il cambiamento che ha subito il mondo dell'informazione da un po’ di anni a questa parte è veramente radicale. Internet ha stravolto completamente i paradigmi che erano di una decina di anni fa e secondo me questa è l'ennesima occasione persa per ragionare più che altro su questo enorme cambiamento, perché Pag. 6non basta prevedere delle misure soltanto per accompagnare le testate cartacee online, bisogna ragionare proprio sul pianeta immenso, l'universo dell’online, del digitale, per capire come innalzare la qualità dell'informazione che gira sul digitale e sull’online e magari premiare quella, se proprio avete questa necessità di elargire finanziamenti pubblici. Avreste potuto utilizzarli per premiare la qualità su un prodotto che è destinato anche a resistere nel tempo, ma ostinarsi a spendere denari pubblici per qualcosa che – lo dicono i dati – tendenzialmente sta andando a morire, perché ormai lettori di giornali cartacei ce ne sono sempre meno – direte voi purtroppo, dico io è ovvio che sia così – e quindi ostinarsi a sprecare denaro pubblico per questa finalità, mettendo magari anche un pochino il ricatto occupazionale davanti, ci sembra qualcosa di veramente assurdo. Le coperture appunto, i soldi dove da dove andate a prenderli per finanziare gli editori ? Li andate a prendere tra le altre voci, anche da una in particolare che è quella delle eccedenze dei pagamenti del canone Rai sulla quale noi solleviamo una preoccupazione, per lo meno. Noi sappiamo che questi soldi dovranno essere utilizzati per dare la possibilità a coloro che non arrivano a 8 mila euro all'anno di reddito di non pagare il canone Rai e questa misura a noi sembra sacrosanta e ci sembra una priorità assoluta. Mettere questa stessa copertura per finanziare gli editori ci sembra un grave rischio, perché già riteniamo che voi siate troppo ottimisti rispetto a questa misura del pagamento del canone RAI in bolletta e pensate di ricavare chissà quanti miliardi da questa genialata che vi siete inventati, dopodiché con questi soldi appunto volete finanziare i giornali quando avevate detto in legge di stabilità, quindi qualche mese fa, che avreste evitato il pagamento del canone Rai stesso a coloro che non arrivano a 8 mila euro. Speriamo davvero che non stiate mettendo a rischio quella misura e che i cittadini italiani che sono in difficoltà non siano costretti a pagare il canone.
  Poi, come è stato detto, questa in pratica è una legge delega perché dopo l'istituzione di questo Fondo c’è tutto l'articolo 2 che è un insieme di deleghe, deleghe su deleghe, e questo secondo noi è un segno di grande debolezza da parte del Parlamento perché se si è fatto un disegno di legge come questo qui, si sarebbe dovuto semplicemente prevedere degli articoli che fossero legge dello Stato e poi il Governo si sarebbe dovuto attenere a queste leggi. Per quale motivo si deve cedere – ancora una volta, direi – il potere legislativo al Governo, dando delle indicazioni che a volte sono precise e puntuali, altre volte sono molto larghe ? Si dà ampio margine di azione al Governo stesso. Non lo riteniamo assolutamente opportuno come atteggiamento in generale, perché già sappiamo che quest'Aula è completamente esautorata dei suoi poteri, ormai non si muove nulla che non sia autorizzato almeno da un sottosegretario e quindi anche in questa occasione si conferma questa tendenza che secondo noi è assolutamente spiacevole e inopportuna.
  Poi ci sono delle questioni abbastanza spinose che si cerca di trattare più o meno bene, sempre con questo provvedimento, che non attengono precisamente alla finalità principale della misura stessa, che sono ad esempio la questione dei prepensionamenti dei giornalisti e la questione dell'ordine dei giornalisti, assieme anche a tutto il sistema delle vendite e quindi della distribuzione, delle edicole, dei venditori esclusivi e non esclusivi. Tutti questi argomenti a nostro avviso avrebbero meritato uno spazio diverso rispetto ai piccoli commi buttati qui e lì nelle deleghe di questo stesso provvedimento, perché sono articoli molto importanti. Ad esempio, per quanto riguarda i prepensionamenti, vogliamo ricordare a tutti i cittadini italiani che dal 1981; con riferimento ai giornalisti, anzi, alcuni di loro, perché altri ormai sono nella condizione di essere semplicemente degli schiavi moderni che lavorano a 2 euro al pezzo e forse con questo provvedimento andiamo a tutelare qualcuno di loro, c’è una vera e propria casta che continua ad andare in pensione a Pag. 7cinquantotto anni mentre tutto il resto d'Italia arriva ai 66-67 anni, quindi con uno scarto di circa otto anni di vantaggio ovviamente per i giornalisti. Questo è un sistema che va avanti da troppo tempo, speriamo davvero che, con questo provvedimento, si ponga fine a questa ingiustizia sociale vera e propria, perché, se proprio ci sono dei lavori che devono essere tutelati diversamente, sono i lavori usuranti e non credo proprio che il lavoro del giornalista faccia parte di questi lavori usuranti. Poi c’è la questione dell'ordine, un istituto che noi riteniamo assolutamente superato; infatti io stesso ho presentato una proposta di legge in questa Camera per l'abolizione dell'ordine e coerentemente con la proposta di legge ho presentato anche un emendamento che vuole abolire l'ordine mentre in questo provvedimento c’è una delega al Governo per ridurre il numero del consiglio nazionale dell'ordine a 36 elementi. Si sa già che, con la seconda lettura, si potrebbe arrivare ai 60 e noi temiamo che alla fine dell'iter si torni al punto di partenza, ossia non si faccia nulla di concreto per rendere quell'istituto un po’ più dignitoso, anche se, ripetiamo, a nostro avviso sarebbe stato da abolire. Un'ultima cosa che riteniamo assolutamente da respingere tra tutte quelle che ho detto è la questione delle agevolazioni fiscali per coloro che decideranno di farsi pubblicità sui giornali. Questa è una misura oscena a nostro avviso perché darà la possibilità a grandi gruppi editoriali anche di farsi pubblicità sui grandi giornali e ricevere addirittura delle agevolazioni fiscali per questa pubblicità. Questo è davvero inaccettabile e chiederemo con tutta la forza che abbiamo di cancellare questa parte dal provvedimento.

  PRESIDENTE. Ha facoltà di intervenire il rappresentante del Governo.

  LUCA LOTTI, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Signora Presidente, mi riservo di intervenire nel prosieguo.

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Bonaccorsi. Ne ha facoltà.

  LORENZA BONACCORSI. Signora Presidente, onorevoli colleghi, la questione italiana dei finanziamenti pubblici all'editoria torna ciclicamente nel nostro dibattito e torna quando si parla poi di crisi di giornali, dell'avvento del digitale, dell'innovazione tecnologica, della crisi della piccola e media editoria. Con questa proposta di legge che, ci tengo a ribadire come ha già ben fatto il relatore Rampi, esce dal comitato ristretto della Commissione cultura con un accordo raggiunto sull'unificazione di due testi dopo un dibattito serio, approfondito e, se mi permettete, molto molto proficuo a mio giudizio e si intende riformare e innovare la nostra editoria e la nostra informazione, quindi riformare e innovare. La si vuole riformare e innovare partendo da quell'articolo 21 della Costituzione, che non ci dimentichiamo e che abbiamo ben scolpito, che sancisce la libertà di manifestazione del pensiero, principio fondante della tutela del pluralismo informativo che già abbiamo ricordato nelle nostre discussioni in Commissione e quest'opera riformatrice non può non avere consapevolezza però anche della lunga crisi – almeno sette-otto anni – che questo settore ha attraversato e che ha profondamente segnato il mercato, così come anche però delle profonde trasformazioni che l'avvento dell'innovazione tecnologica e del mondo digitale stanno continuamente portando in ogni momento.
  Signora Presidente, in questi anni, il dibattito su questi temi, a cominciare dall'innovazione tecnologica, purtroppo è stato troppo spesso contraddistinto da contrapposte tifoserie; quelle della carta stampata, da una parte, contro quelle del web, dall'altra, con poca lungimiranza, così come vi è l'altro dibattito in cui ci siamo invischiati, sempre in questi anni, quello più complesso, ma altrettanto a mio parere sbagliato, di un web cattivo, contro un web buono. Non esiste un web cattivo, né un web buono; esiste un web con tutto quello che questo sta portando in termini di progresso tecnologico, di disintermediazione, in termini di maggiore accesso alle informazioni, in termini di cambiamento Pag. 8dell'apprendimento, così come del linguaggio e delle relazioni sociali ed economiche. Ma mi fermo qui perché questo argomento, per quanto mi riguarda di assoluto fascino, ci porterebbe troppo lontano.
  Noi però oggi dobbiamo affrontare la sfida di questi cambiamenti ed essere bravi a leggere i dati, a cogliere i segnali di cambiamento e non averne paura. I dati della lettura, per esempio, parlano di un calo degli acquisti, di libri e di giornali – sono fonti AIE, ma di quest'anno – ma non di perdita di lettori; si consumano più informazioni oggi e in questo il digitale rappresenta però una grande occasione che, come dicevo, dobbiamo cogliere. Tenere tutto questo a cornice, come orizzonte verso cui muoversi, credo sia molto importante e credo che, leggendo la proposta di legge oggi in esame, troviamo un punto iniziale da cui partire, che rappresenta un po'questo punto iniziale, che è quello dell'articolo 1, dell'istituzione del Fondo per il pluralismo e l'innovazione, un Fondo finalizzato ad assicurare la piena attuazione dei princìpi proprio di quell'articolo 21, di cui parlavo prima, della Costituzione, in materia di diritti di libertà, di indipendenza e di pluralismo dell'informazione, un Fondo con risorse certe, finanziato annualmente.
   La proposta – lo ricordo – inizialmente non era così, l'abbiamo modificata, abbiamo ritenuto più congruo farla uscire e finanziarla annualmente. Nel Fondo confluiscono le risorse, come ricordava Rampi, ordinarie oggi stanziate per l'editoria e per le emittenze radiotelevisive e una quota, fino a 100 milioni di euro, dei maggiori ricavi stimati, che deriva dal canone tv nella bolletta elettrica.
   Ricordo però ai colleghi del MoVimento 5 Stelle che la genialità che ci siamo inventati, così come è stato poco fa detto è quella di diminuire il canone, da 113 a 100 euro annui, ed è anche quella di intervenire sull'evasione, che oggi è al 26-27-28 per cento. Quindi, questa è la genialata, di intervenire sull'evasione del canone del servizio pubblico. Per quanto riguarda i proventi, poi, ricordo che sempre nel Fondo confluiscono i proventi delle sanzioni amministrative comminate dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, per la violazione degli obblighi in materia di programmazione, pubblicità e contenuti radiotelevisivi e le somme derivanti dal gettito di un contributo di solidarietà, pari allo 0,1 per cento; anche questo è un tema che abbiamo affrontato nel comitato ristretto e che abbiamo ritenuto importante inserire in questa proposta di legge, dopo una discussione, ripeto molto proficua che abbiamo fatto. Il Fondo viene ripartito tra editoria e settore radiotelevisivo. Con lo stesso decreto, infatti, si provvede inoltre alla ripartizione delle risorse per l'editoria, tra le diverse misure di sostegno finanziabili, cioè il contributo diretto, il sostegno all'innovazione delle imprese editrici e delle reti di vendita, incentivi alle start-up e sostegno ai processi di ristrutturazione e riorganizzazione delle imprese.
   Il progetto di legge, poi – come diceva Rampi – prevede una serie di deleghe al Governo. Sulla materia della scelta delle deleghe non ci torno su; credo che il ragionamento spiegato dal collega Rampi sia quello più importante, la logica che ci sta dietro. Le deleghe le abbiamo previste infatti per riordinare la disciplina del contributo diretto ai giornali e poi per accompagnare – altro tema di cui abbiamo discusso molto – il processo di informatizzazione e di liberalizzazione della rete di distribuzione e vendita dei giornali, sostenendo in particolar modo, gli edicolanti e le edicole, nella possibilità di gestire in modo più equilibrato e paritario il rapporto con i distributori e di ampliare la loro capacità reddituale attraverso l'offerta di altri beni e servizi.
   Per quanto concerne poi la revisione della disciplina dei contributi, resta sostanzialmente confermato l'impianto iniziale, che vede come destinatari dei contributi le imprese editrici, costituite come cooperative giornalistiche, e gli enti no profit, che esercitano un'attività informativa autonoma e indipendente di carattere generale.
  Quindi, ci tengo a sottolinearlo: dopo anni di confusione, credo che qui ci sia Pag. 9una grande chiarezza per quanto riguarda i soggetti che possono accedere ai contributi, criteri chiari, semplici e trasparenti, ben lontani da quelle discussioni appunto in cui si parla di «amici degli amici»; qui c’è una scelta netta, di chiarezza, di semplicità e di trasparenza e, con riferimento anche poi ai requisiti per accedere ai contributi, anche qui, si è fatta una scelta di chiarezza e di trasparenza.
   La delega, infatti, per accedere ai contributi, prevede l'obbligo di avere l'edizione digitale, la riduzione a due anni dell'attuale limite temporale di anzianità di cinque anni di costituzione dell'impresa e di edizione della testata e, nel nuovo testo, viene indicato tra i requisiti anche l'adempimento degli obblighi derivanti dall'applicazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro, altro tema su cui abbiamo discusso molto.
  Per quanto riguarda i criteri del calcolo del contributo, la delega prevede il superamento dell'attuale distinzione tra testata nazionale e testata locale, e una graduazione del contributo in funzione del numero di copie annue vendute, con una valorizzazione delle voci di costo, legata alla trasformazione digitale dell'offerta e del modello imprenditoriale, anche mediante la previsione di un aumento delle relative quote di rimborso e, fermo restando – riteniamo – che il contributo non potrà superare il 50 per cento dei ricavi dell'impresa, proprio appunto per intervenire in maniera chiara, semplice e trasparente.
   Per finire, sempre nell'ottica di andare a guardare in avanti e per quanto concerne gli investimenti in innovazione digitale, la delega prevede che il Governo introduca specifici incentivi per gli investimenti in piattaforme digitali avanzate, comuni a più imprese editoriali autonome e indipendenti. Con i decreti delegati sarà inoltre disciplinata la concessione di finanziamenti da assegnare mediante bandi annuali a progetti innovativi presentati da imprese editoriali di nuova costituzione, cioè le cosiddette start-up.
  Altro capitolo importante – ci ritorno su anche se l'ho citato prima – è quello delle edicole. Il principio su cui ci si è mossi è quello dell'accompagnamento, del processo di progressiva liberalizzazione della vendita dei prodotti editoriali, tenendo però a mente i cambiamenti di cui parlavo all'inizio del mio intervento. Si dovrà favorire l'adeguamento della rete alle mutate condizioni, alle mutate abitudini dei lettori, mitigando però gli effetti negativi di breve termine, tenendo però la prospettiva verso cui si va. Si dovrà promuovere, di concerto con le regioni, un regime di piena liberalizzazione degli orari di apertura dei punti vendita e la rimozione degli ostacoli che attualmente limitano la possibilità di ampliare l'assortimento dei punti vendita all'intermediazione di altri beni e servizi.
   Ecco, tutto questo credo che sia un intervento ormai necessario per dare tutti gli strumenti giusti per affrontare il mercato del futuro, perché questo dobbiamo essere in grado di fare, come classe dirigente: progettare la società del futuro e, in nessun altro settore, più di questo – credo – ci possiamo permettere di farlo (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Luigi Gallo. Ne ha facoltà.

  LUIGI GALLO. Grazie, Presidente. Il nostro Paese, nel 2014, grazie anche al Governo Renzi, è sceso nella classifica mondiale della libertà di stampa, realizzata come ogni anno da Reporter senza frontiere. Siamo tra Moldavia e Nicaragua, perdendo ben 24 posizioni dall'anno precedente. La ragione, secondo il rapporto di RSF, sono le sempre più frequenti intimidazioni che i giornalisti subiscono da parte di organizzazioni criminali: si contano 43 casi in quest'anno, nei quali i giornalisti sono stati intimiditi anche con incendi della loro auto, dalla criminalità organizzata.
   Allora, noi ci potremmo aspettare di intervenire su un tema del genere in quest'Aula, quindi di intensificare la protezione di questi giornalisti, che rischiano la loro vita per fare il loro lavoro, ma Pag. 10invece su questo aspetto lo Stato latita, non fa un intervento celere e veloce su questo tema, ma preferisce occuparsi di finanziare sostanzialmente gli editori, perché il PD in questi anni non ha dimostrato di riuscire a difendere i giornalisti, anche dal punto di vista economico, perché è stata fatta una sola legge – è anche corresponsabilità del PD – che parlava di equo compenso, ma era semplicemente una truffa semantica, come tante altre, perché l'equo compenso non l'ha visto nessun giornalista.
   Insomma, i ricercatori di questa indagine sulla libertà di stampa, fatta da Reporter Senza Frontiere, citano la mafia italiana tra gli agenti non statali che soffocano l'informazione, insieme all'Isis, Boko Haram e i cartelli della droga latinoamericani.
  Il PD e anche altri cadono nel tranello che vuole il finanziamento ai giornali con i soldi dei cittadini come uno strumento di libertà di stampa. Se è vero che la Finlandia è il Paese che spende di più in contributi pubblici all'editoria ed è anche il primo della classifica della libertà di stampa di Reporter Senza Frontiere, noi dobbiamo leggere questa classifica per intero e scopriamo così che gli Stati Uniti e la Germania, che spendono pochissimo in finanziamento ai giornali, presentano tassi elevati di lettori e gli USA sono quarantanovesimi in questa classifica della libertà di stampa, ben 30 posizioni avanti all'Italia.
  Questo che cosa significa ? Se noi non ci vogliamo dividere su temi dove ognuno può avere chiara la proprio opinione ma vogliamo affrontare il tema in maniera scientifica, come fanno i ricercatori, in pratica significa che il finanziamento pubblico all'editoria non è correlato alla libertà di stampa e questo in pratica dimostra che giustificare questo provvedimento con l'articolo 21 della Costituzione, con l'aumento della libertà di stampa, è semplicemente uno specchietto per le allodole, perché in realtà si vuole mettere un ennesimo controllo, cioè questo Governo vuole mettere l'ennesimo controllo sull'informazione. L'ha fatto con la RAI, mettendo un amministratore delegato che decide tutti i dirigenti, e adesso lo fa con l'informazione, che non vive, naturalmente, in buono stato, ma che adesso dovrà tirare nuovamente le giacchette agli uomini della Presidenza del Consiglio per fare in modo che i criteri di questo provvedimento siano cuciti addosso alle realtà e ai soggetti che devono avere il finanziamento.
  L'articolo 21 non ha mai parlato di finanziamento pubblico ai giornali. L'articolo 21 parla di «manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Ma che cosa succede ? Non si affronta questo nell'epoca dell'informazione digitale dando la cittadinanza digitale a tutti, l'accesso alla rete in maniera libera a tutti. No ! Si droga il mercato con i finanziamenti pubblici e con altri tipi di strumenti e i partiti, in sostanza, continuano a difendere non i giornalisti ma gli editori. Un giornalista oggi è pagato 4.920 euro lordi all'anno, ma non è uno schiavo secondo il Presidente del Consiglio, lui che in un giorno di vacanza spende questa cifra di legge: poveri cittadini in stato di povertà. Il vero interesse del segretario del Partito Democratico è l'accordo con gli editori, per il controllo dell'informazione. Allora, quando con i temi reali sei perdente con i cittadini, quando sei perdente con le manovre reali, allora ti servi della propaganda. Semplicemente nulla di nuovo sotto il sole, ma quello che fanno tutti i Governi pericolosi per la democrazia.
  Io voglio riportare non un'opinione del MoVimento 5 Stelle ma un'opinione di una giurista attiva, Vitalba Azzollini, che lavora presso la divisione «Corporate Governance» della Consob, che è esperta del pluralismo, della concorrenza e della libertà di stampa. In sostanza, afferma che i finanziamenti erano stati forse concepiti per garantire la libertà di informazione costituzionalmente prevista, cioè per favorire la circolazione di idee e la formazione Pag. 11di opinioni consapevoli nei lettori e agevolare l'accesso al mercato, ma nei fatti non hanno realizzato tale scopo.
  Grazie alle leggi e all'assenza di controlli efficaci sull'uso e sulla destinazione dei fondi, nel tempo si sono affastellati nuovi beneficiari dei sussidi privi dei requisiti di qualità e di un vero bacino di lettori. Ecco, soffermiamoci su queste parole: si parla, sostanzialmente, di frodi del sistema e in questo provvedimento, se andate a leggere tutti gli articoli, non esistono ancora sanzioni per chi froda con certificazioni false, froda con bilanci, froda con i criteri. Non è stata definita ancora alcuna sanzione e questo, dunque, è il punto relativo al vero problema di un finanziamento che è stato cucito addosso agli amici.
  Poi, solleva il secondo tema, che è rilevante anche per il MoVimento 5 Stelle: quello del bacino di lettori. Anche in questo provvedimento non è definito un parametro fisso su quante copie vendute deve avere il giornale per ricevere i finanziamenti. Potrebbe anche venderne una su 10 mila e poter ricevere i finanziamenti. Naturalmente, questo non è stato specificato. Si mette in mano al Governo, perché magari il Governo va a verificare quali sono le testate che vuole aiutare e quali tipi di vendite hanno quelle testate. Naturalmente, c’è un processo al contrario.
  Quindi, Vitalba Azzollini continua affermando che questa è una grave distorsione che ha prodotto forme di cronico assistenzialismo del settore della stampa. Non è libertà di stampa, ma assistenzialismo del settore della stampa. Le sovvenzioni statali all'editoria si sono così risolte nell'impoverimento del panorama giornalistico, perché sostanzialmente si sostengono delle idee e delle posizioni forti che, in realtà, non sono sostenute dalla popolazione, non vengono raccontate dai cittadini, non sono percepite dai cittadini, ma diventa un martellare mediatico che deve convincere il cittadino che quell'idea è giusta e sacrosanta, quindi penalizzando, da un lato, gli operatori, che creavano un buon prodotto ma erano privi di finanziamenti, e favorendo, dall'altro, soggetti che, non dovendo misurarsi sul piano della concorrenza, non erano stimolati a esprimere contenuti di qualità e a suscitare un effettivo interesse della collettività. Questo è un problema che il MoVimento 5 Stelle pone da sempre, perché pensa che invece a premiare un giornale devono essere i loro lettori, tant’è che facciamo anche una proposta, che è quella di defiscalizzare gli abbonamenti dei lettori, una misura che va a vantaggio dei lettori, non dei giornalisti, però premia, naturalmente, quei giornali che fanno della qualità una loro bandiera. Non si può affermare con certezza – continua – che i giornali che ricevono maggiore ammontare di sussidi statali siano quelli più letti dal pubblico.
  Riguardo ai contributi indiretti, l'Agcom osserva che le tariffe agevolate postali non hanno rappresentato una misura efficace per lo sviluppo delle vendite in abbonamento, tuttora molto ridotte in Italia, e la pubblicità istituzionale degli enti locali, anziché essere rivista e modernizzata, è stata mantenuta inalterata per le spese rilevanti che comporta; cioè, ancora oggi le pubbliche amministrazioni, ma anche le aziende che vincono degli appalti con la pubblica amministrazione, sono costrette a finanziare indirettamente i giornali, perché devono pubblicare, a loro spese, dei bandi sui giornali a massima diffusione nazionale – quindi, si finanziano i grandi giornali – e a massima diffusione locale. Questo significa che noi facciamo pagare il peso dell'informazione – che, come abbiamo detto, non è sicuro che sia di qualità, non è sicuro che rappresenti le vere istanze del Paese e dei cittadini – e facciamo finanziare questo tipo di settore, che è il giornalismo, da altri settori: aziende edili che vincono appalti e aziende di tutti i tipi che vincono appalti con la pubblica amministrazione devono finanziare indirettamente i giornali.
  Non vi è una correlazione tra l'ammontare di sovvenzioni statali e penetrazione della stampa. Abbiamo, in sostanza, conteggiato 421 minacce ai giornalisti, con un aumento del 10 per cento rispetto al 2013 – era il 2014 – e le minacce sono recapitate Pag. 12sotto forma di lettere o simboli come croci dipinte sulle automobili dei cronisti o proiettili inviati via posta.
  Questo dovrebbe essere il vero tema che oggi dovrebbe affrontare quest'Aula, invece affrontiamo nuovamente il finanziamento pubblico ai giornali. Lo abbiamo detto nell'altra seduta, quando abbiamo portato la proposta di legge sull'abrogazione del finanziamento pubblico ai giornali, che è stata bocciata dal Parlamento e dai partiti di Forza Italia, dal Partito Democratico e da tutte le forze politiche che fanno una bandiera dei finanziamenti pubblici, e abbiamo detto che, in sostanza, non si sono accorti di un cambiamento oramai avvenuto nel Paese, dove non si può più parlare di produttore e consumatore di informazione, e da tempo è stato coniato il termine di prosumer, perché ognuno ha la capacità di produrre e consumare informazione allo stesso tempo. Bisognerebbe incentivare questo tipo di nuovo assetto dell'informazione, che naturalmente si fonda sul digitale, ma in realtà voi volete semplicemente costruire la copia del giornale cartaceo in forma digitale, affinché anche il mondo digitale sia inondato purtroppo da alcune misure di informazione che non hanno una capacità informativa reale e che non vengono premiate per la loro qualità dalla vendita dei giornali.
  Concludo dicendo che quando il PD era al Governo ha sventolato la classifica della libertà di stampa contro il Governo di centrodestra e Berlusconi per denunciare il controllo dell'informazione, poi arriva Renzi al Governo, arriva il Partito Democratico e fa perdere al Paese 24 posizioni nella classifica della libertà di stampa. Oggi, noi in quest'Aula e i cittadini che ci ascoltano dovremmo credere alla favoletta raccontata dai deputati del PD che questa legge serve al pluralismo dell'informazione. Al pluralismo dell'informazione serve dare 100 milioni dei nostri soldi in mano al Governo che deciderà arbitrariamente i criteri per finanziare i giornali: è come chiedere al lupo di fare il baby sitter a Cappuccetto Rosso !
  Il PD anche in questo il campo alla prova dei fatti si mostra, diciamo, peggio del PdL, lo abbiamo sempre detto, ma abbiamo anche detto che sostanzialmente avete due tipi di investimenti differenziati: Berlusconi difende il suo impero televisivo a danno dei cittadini; il centrosinistra difende l'impero di De Benedetti a danno dei cittadini. Noi difendiamo i cittadini dai vostri danni.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Scotto. Ne ha facoltà.

  ARTURO SCOTTO. Grazie Signora Presidente. Noi diamo un giudizio positivo del lavoro fatto dalla Commissione. Ci troviamo di fronte ad un risultato per certi aspetti inaspettato, se pensiamo soltanto che quattro mesi fa l'Aula si era misurata con la proposta di reiezione di un testo avanzato dal Movimento 5 Stelle, che dietro l'obiettivo giusto di modernizzare il sistema di distribuzione e vendita della stampa prevedeva l'abolizione pressoché totale dei finanziamenti pubblici all'editoria e che quelle risorse conseguentemente disponibili fossero destinate ad incentivare imprese editoriali di nuova costituzione, l'innovazione tecnologica, l'ingresso di giovani professionisti nel settore dell'informazione.
  Il provvedimento approdato in Aula è invece frutto di un iter svoltosi in un clima collaborativo e costruttivo tra il relatore ed i gruppi, che ha portato a quello che ormai può essere considerato un testo unificato tra la proposta del Partito Democratico, prima firmataria l'onorevole Coscia, e quella di Sinistra Italiana, prima firmataria l'onorevole Pannarale.
  Il testo contiene quasi tutte le nostre istanze, una parte delle quali introdotte in sede di adozione del testo base e l'altra parte introdotta grazie all'approvazione di otto su trenta emendamenti presentati dal nostro gruppo in Commissione. A parte il numero sproporzionato di deleghe, che noi critichiamo, contenute nel provvedimento, e la scelta di rinviare a decreti legislativi l'attuazione della relativa disciplina, il testo in primis, grazie all'approvazione di un Pag. 13nostro specifico emendamento, contiene un riferimento chiaro all'articolo 21 della Costituzione, riconoscendo l'informazione come diritto alla conoscenza, presidio costituzionale contro futuri attacchi alla libertà ed al pluralismo dell'informazione, materia scivolosa, se vuole Presidente, oggi tanto per il PD tanto per il Movimento 5 Stelle.
  Da segnalare, anche grazie all'approvazione di un altro nostro emendamento, il riferimento esplicito al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio quale organo preposto all'adozione del decreto legislativo che stabilirà il riparto delle risorse pubbliche. Ci sembrava, infatti, oltre che ultroneo anche eccessivo e, forse, anche un eccesso di zelo nei confronti del sottosegretario Luca Lotti, seduto qui alla Presidenza, che in qualche modo, con l'articolo 10, stabilisce che i sottosegretari coadiuvano il ministro ed esercitano i compiti ad essi delegati con decreto ministeriale, ma non prevede che gli stessi per legge possano sostituirlo nell'emanazione di un decreto legislativo. Questo vorrei che lo ricordassimo anche nel passaggio dei prossimi giorni.
  Altro risultato, anche esso effetto dell'approvazione di un nostro emendamento, è l'introduzione di un contributo di solidarietà a carico dei concessionari della raccolta pubblicitaria, balzato nei giorni scorsi agli onori di numerose testate giornalistiche ed al quale hanno attribuito discutibili rilievi di incostituzionalità, perché incapace di determinare elementi di svantaggio per l'attività pubblicitaria sulla stampa e sulle emittenti radio televisive nazionali. Riteniamo ingiustificata questa argomentazione, alla quale replichiamo che è già in essere tale distorsione, anche con riferimento ad altre attività, come ad esempio quella dell’e-commerce, superabile con l'istituzione di una web tax. Vorremmo da questo punto di vista un maggiore coraggio da parte anche del Governo, che com’è noto non ha mai insistito rispetto a questa scelta, che invece andrebbe introdotta con grande coraggio; così come è stata introdotta, sempre grazie ad un nostro emendamento, la previsione dell'esclusione dal finanziamento pubblico per quelle imprese editrici di quotidiani e periodici facenti capo a gruppi editoriali quotati o partecipati da società quotate in borsa. Da questo punto di vista è facile rassicurare il collega del Movimento 5 Stelle, l'onorevole Gallo, che, quando fa riferimenti precisi a un campo politico, il centrosinistra, ucciso dal Presidente Matteo Renzi, riferendosi a un determinato imprenditore, a una determinata casa editrice, evidentemente grazie anche alla nostra iniziativa questo non sarà possibile.
  Anche la previsione del regolare adempimento degli obblighi derivanti dal rispetto e dall'applicazione del contratto collettivo di lavoro nazionale o territoriale, stipulato tra le organizzazioni e le associazioni sindacali dei lavoratori dell'informazione e delle telecomunicazioni e le associazioni di relativi datori di lavoro, quale requisito per accedere al finanziamento, è frutto dell'approvazione di un nostro emendamento.
  Questo è un dato importante rispetto al ruolo e alla funzione che le associazioni sindacali potranno avere in tempi in cui il sindacato è considerato un intralcio, se non addirittura un nemico e un avversario. Importante anche il superamento del limite temporale quinquennale del Fondo per il sostegno all'editoria come previsto nel testo originario del provvedimento ed in grado adesso di garantire un costante flusso di risorse certe.
  Infine, c’è una criticità contenuta ancora nel testo che, ovviamente, noi pensiamo vada modificata nel corso della discussione. Mi appello ai colleghi: spero ci sia uno spazio per poterci lavorare. Si tratta della volontà di liberalizzare il settore della distribuzione e della vendita di prodotti editoriali. Nessuno è contrario alla liberalizzazione, ma non vorremmo uccidere quella ricchezza, che attraversa questo nostro Paese, di punti vendita, di professionalità, che verrebbe in qualche modo danneggiata dall'irruzione totale e definitiva della grande distribuzione in questo settore. Le liberalizzazioni selvagge – lo abbiamo visto alla prova – non sempre sono moltiplicatori di posti di Pag. 14lavoro e di opportunità, ma talvolta sono la definitiva pietra rispetto a un sistema economico che è fatto anche da tanti lavoratori e tante lavoratrici che riescono in qualche modo a garantire un accesso più diffuso rispetto ai prodotti editoriali, ai giornali, alla stampa e che sono anche una miniera di saperi, di conoscenze e di esperienze. Questo è il lavoro che abbiamo fatto; mi sembra un buon lavoro e ci auguriamo che, nel corso della discussione ci possa essere qualche margine ulteriore di miglioramento e qualche margine inferiore di delega al Governo. Pertanto, diamo un giudizio sostanzialmente positivo.

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Ascani. Ne ha facoltà.

  ANNA ASCANI. Grazie Presidente. Molte cose sul lavoro che abbiamo fatto in VII Commissione sono state in realtà già dette, però ci tengo a sottolineare la positività del clima che si è creato grazie al relatore, ma anche grazie alle firmatarie delle due diverse proposte di legge su cui abbiamo lavorato. E devo dire che tutti i gruppi politici – poi, lo sappiamo bene, in Aula la discussione diventa sempre un po’ diversa – in fase di discussione, prima in Comitato ristretto e poi in Commissione, hanno dato un importante contributo a far sì che il testo uscisse per quello che è. Ed io credo che il testo con cui arriviamo in Aula sia un ottimo testo dal punto di vista delle necessità che c'erano in questo settore. La discussione in Commissione si è concentrata su alcune cose in particolare. Intanto, mi sembra molto importante che il testo che esce dalla Commissione contenga un riferimento al contratto collettivo nazionale che non era contenuto in un primo momento nel testo Coscia e che, invece, è stato integrato. Infatti, io credo che questo aspetto sia particolarmente importante e sia un valore aggiunto rispetto a quella che era la proposta iniziale anche del Partito Democratico. E, poi, le altre due cose fondamentali. Innanzitutto, l'attenzione ai giovani, perché spesso, quando si parla di editoria, ci si dimentica anche la necessità di questa transizione generazionale che, invece, dobbiamo provare a promuovere, sia dal punto di vista delle start-up, cioè di quelle nuove imprese che tentano di fare informazione, sia, dall'altro lato, per l'assunzione dei giovani perché noi prevediamo che l'assunzione di under 35 sia uno dei criteri che sono collegabili agli incentivi. Quindi, diciamo che qui c’è stata una riflessione particolare e questo denota di nuovo un buon clima nella discussione in Commissione.
  Infine, il digitale. Come hanno detto tutti i gruppi intervenendo e anche il relatore di minoranza, il digitale è sicuramente qualche cosa di cui ci si deve occupare quando si parla di editoria e di informazione. Oggi, perché i dati ce lo restituiscono, l'Italia è ancora un po’ più indietro rispetto al resto d'Europa, cioè sono in media circa il 30 per cento gli italiani che si informano attraverso il web. Ma sono comunque tanti se ci pensiamo. E quel tipo di informazione va assolutamente presa in considerazione. Il fatto che in una legge che è volta a riordinare il contributo pubblico all'editoria si parli di incentivi all'innovazione digitale, a spostarsi sul digitale, è particolarmente significativo.
  Infatti, finalmente si riconosce il valore di quel genere di informazione che, come è ovvio, più del quotidiano cartaceo è in grado di restituire l'immediato di quello che accade fuori. Quindi, è particolarmente prezioso.
  Un'altra cosa di questa legge che probabilmente è stata detta, ma non abbastanza sottolineata, è l'esclusione di alcuni soggetti dal finanziamento pubblico. Noi, come Partito Democratico, siamo stati spesso accusati di voler finanziare i giornali legati al nostro partito. Se vi andate a leggere questa legge – ed è bene che i cittadini lo sappiano –, tra i soggetti esclusi ci sono i giornali legati ai movimenti ed ai partiti perché noi crediamo che questa legge abbia un'altra funzione, abbia, cioè, la funzione di promuovere la libertà di informazione ed il pluralismo. Quindi, mettiamo da parte le polemiche strumentali che purtroppo si sono fatte Pag. 15anche nel dibattito attorno a questa legge. Noi abbiamo voluto metterle da parte mettendo nero su bianco l'esclusione di quei soggetti in modo che gli argomenti fossero finalmente altri.
  Si è fatto riferimento qui al quadro europeo dei finanziamenti pubblici all'editoria. Ho sentito l'onorevole Gallo citare alcuni dati probabilmente presi da pagine web e da contributi trovati online. Tra i contributi online suggerirei di leggersi, però, gli studi della London School of Economics o della Reuters che, invece, dicono cose diverse. Ad esempio, restando in Europa, la Germania ha in tutto un contributo pubblico molto più alto di quello italiano semplicemente affidato ai Länder, cioè alle autorità locali. Ovvero, i finanziamenti ci sono, ma per la natura della Germania come Stato a impronta federale più che centrale, evidentemente quei fondi vengono da un'altra parte. Però in questo l'Italia è tutt'altro che un'eccezione, anzi l'andamento in discesa dei fondi destinati all'editoria è piuttosto in controtendenza rispetto a quello che è accaduto in altri Stati e, quindi, evidentemente alcune delle informazioni che sono state date in quest'Aula non sono del tutto corrette.
  Qual è, però, il punto che a me preoccupa di più nello svolgersi di questo dibattito ? Che c’è una certa parte di questo Parlamento che tende a dipingere l'informazione tutta come uno dei volti della casta, cioè quello che non è popolo, quello che è contrario all'interesse del popolo. Noi, invece, abbiamo l'idea che avere un atteggiamento critico e consapevole nei confronti dell'informazione sia più che giusto, tant’è vero che nella buona scuola, nella riforma della scuola, abbiamo scritto che una delle finalità deve essere quella di educare i ragazzi all'utilizzo critico e consapevole di media e social media e, quindi, a utilizzare al meglio le informazioni, a dubitare perché il dubbio è positivo. Ma di qui a sostenere che il mondo dell'informazione sia una casta da abolire in qualche modo, da tenere lontano, ecco, diciamo che in mezzo ci passa un bel po’ di spazio. E quello spazio è lo spazio della libertà di informazione. La libertà di informazione è qualche cosa che fa parte strutturalmente del sistema democratico di un Paese. Quando non c’è libertà di informazione, quando non c’è pluralismo, allora anche la democrazia è messa in discussione ed in crisi. A questo proposito, è chiaro che i grandi giornali possono mantenersi e debbono mantenersi con la pubblicità, fermo restando che anche gli introiti derivanti dalla pubblicità sono in netta diminuzione, ossia circa del 20 per cento in media. Ma cosa succede ai piccoli ? Cosa succede alle tante voci del territorio ? Io vengo da una regione, l'Umbria, che ha visto qualche mese fa la chiusura di un importante giornale, che la prima volta era stato fondato a inizio Ottocento. Per noi la chiusura di quel giornale ha significato il venir meno di una voce, che faceva parte di un coro che restituiva l'immagine di una realtà locale. Ora quell'immagine è più povera perché quel giornale non c’è più. Evidentemente, noi questo non lo possiamo consentire, a prescindere da quello che in quel giornale c’è scritto, ma dobbiamo far sì che quei giornali vivano perché quando il coro è più ampio, quando ci sono più opinioni, è più facile per il cittadino avere un'informazione obiettiva e corretta. Allora, se noi cancelliamo il finanziamento pubblico all'editoria, stiamo dicendo che vogliamo cancellare quelle voci. E quelle voci sono spesso quelle che poi vengono riportate dalle grandi testate che raccolgono magari casi di mal governo locale. Allora, forse non sarà che non vogliamo fare emergere quei casi, che quei casi ci fanno paura ? Io non voglio arrivare a pensare questo, però mi viene da pensare che chi vuole spegnere quelle piccole voci, forse non vuole che quei casi emergano ed arrivino alla ribalta nazionale. Questo è accaduto molte volte e questo è giusto che accada in un Paese democratico che tale è solo se l'informazione è plurale. Infatti, la legge di Darwin applicata all'informazione ha come unico prodotto l'egemonia culturale ed è esattamente quello che il Partito Democratico non vuole.Pag. 16
  Non ci può essere la legge della sopravvivenza applicata alle piccole voci del territorio, perché quelle voci non sono in grado di sopravvivere in questo modo. È chiaro: dobbiamo aiutarle ad autosostenersi. Questa legge è fatta così: le aiutiamo a raccogliere il più possibile finanziamenti che le rendano in grado di sostenersi, ma non possiamo abbandonarle a se stesse; questo significa volerle spegnere, in un modo più ipocrita, probabilmente, ma volerle spegnere. Non è la nostra idea. Certo, mi viene da pensare – lo dicevo prima – che qualcuno abbia questo interesse e lo nasconda parlando di autoritarismi di altri. Del resto, diceva Napoleone, fanno più paura tre giornali ostili che mille baionette e queste parole non sono molto distanti da quelle di un leader politico che ha definito i giornali carta igienica. Noi non pensiamo che i giornali siano carta igienica, che il sistema dell'informazione possa essere definito in questo modo, né temiamo i giornali più delle baionette. Noi con questa legge dimostriamo che la libertà di informazione è preziosa e che il pluralismo è qualche cosa che il Partito Democratico ha profondamente a cuore. Chiaramente chi li addita, invece, come casta ha un interesse evidentemente opposto.
  Pertanto, io spero che nel dibattito che si farà in quest'Aula, pur con tutti i margini di miglioramento, che sicuramente ci sono e tuttora persistono – spero che lo svolgersi di questo dibattito ci porti a rendere questa legge di iniziativa parlamentare ancora migliore nel dare la delega al Governo a riordinare qualche cosa su cui, evidentemente, non è la prima volta che si mette mano, ma su cui si è messo mano in modo un po’ confuso, creando anche sovrapposizioni e complicazioni –, si resti al merito e non si voglia, invece, fare, come purtroppo ho già sentito, propaganda strumentale sulla pelle di chi sul territorio cerca, spesso per pochi spiccioli, di fare bene il proprio lavoro. Da quel lavoro fatto bene dipende anche la qualità della nostra democrazia (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Lainati. Ne ha facoltà.

  GIORGIO LAINATI. Grazie, signora Presidente. Onorevoli rappresentanti del Governo, colleghe e colleghi, pochi mesi fa, in quest'Aula, abbiamo respinto, io dico giustamente, una proposta del MoVimento 5 Stelle per abolire tout court il finanziamento pubblico all'editoria. Oggi ci troviamo di nuovo a parlare del sostegno a un settore così importante, come è accaduto già pochi mesi fa, quando molti, qui in quest'Aula e fuori, hanno riconosciuto la necessità di prevedere il riordino e la revisione delle norme che disciplinano il finanziamento pubblico al mondo dell'informazione.
  Questo settore, onorevoli colleghi, è stato oggetto di numerosi interventi legislativi di modifica negli ultimi anni. Ricordo i tagli, che rendevano l'onorevole Bonaiuti disperato quand'era sottosegretario all'editoria, esercitati dal Ministro dell'economia Tremonti. Ebbene, questo è accaduto in linea con una generale politica di contenimento della spesa pubblica e con una conseguente contrazione della platea dei beneficiari dei contributi stessi. Infatti, come hanno ricordato i miei colleghi, le grandi testate non sono più destinatarie di finanziamenti diretti e quelle che ricevono una qualsiasi forma di sostegno rappresentano una realtà ristretta rispetto al totale: parliamo di 215 testate su 7 mila. Come tutti sanno, questo è un settore che sta affrontando da anni una grave crisi, nonostante che i lettori di quotidiani e di periodici rimangano una fetta consistente della popolazione – parliamo di circa 20 milioni di italiani –, ma sta cambiando, per tutti noi, il modo con il quale si accede alle informazioni, così come il modo in cui le informazioni vengono diffuse.
  Della necessità di una forma di sostegno all'editoria noi, dunque, non dubitiamo e personalmente voglio dire grazie al relatore collega Rampi per la sua disponibilità, che ha manifestato nelle lunghe settimane di dibattito in Commissione. Certamente è stato molto disponibile a cercare di venire incontro alle esigenze di Pag. 17tutti e soprattutto alle esigenze che gli sono state manifestate dalle forze di opposizione.
  L'informazione, dunque, rappresenta un terreno delicato di intervento. La tutela del pluralismo dell'informazione stessa e la tutela del diritto della libertà di essere informati, così come di informare, rientrano tra i principi fondanti del nostro ordinamento. Garantire una concreta, vera libertà di stampa significa permettere a tutte le voci di occupare uno spazio, di poter essere scelte, insomma, di ritagliarsi una fetta del mercato, per quanto può essere ridotta, e prevedere la possibilità di accesso alle informazioni, di comunicare e diffondere notizie. La libertà di stampa attiene strettamente alla libertà di espressione in generale. Tutto questo ha a che fare con il grado di civiltà e democrazia di un Paese.
  Il mercato editoriale spinge in direzione della concentrazione in poche mani degli spazi presenti sul mercato. In questo senso è necessario prevedere alcuni correttivi al sistema, che permettano soprattutto alle nuove impresse ampia possibilità di accesso, contenendo, quindi, gli automatismi economici che spingono fuori dal mercato le imprese di dimensioni più ridotte, quelle che si collocano al margine, quelle piccole, le voci settoriali, per esempio. Si pensi alla possibilità di imprese costituite da giovani che intendono intraprendere la carriera giornalistica.
  Non possiamo lasciare che in un settore così specifico, quale quello della libertà di espressione delle idee, sia solo il mercato ad agire, ma è necessario che il legislatore garantisca e riconosca concretamente il diritto dei cittadini di poter accedere alla pluralità di fonti, anche piccole, e che contemporaneamente intervenga al fine di trovare un punto di mediazione tra libertà di impresa e la libertà di iniziativa economica. A sostegno di questa tesi ricordiamo, come ha detto giustamente la collega Ascani, che l'Unione europea non considera le provvidenze pubbliche all'editoria quali aiuti di Stato e che anche in altri Paesi europei sono previste forme di sostegno indirette che, nel complesso, raggiungono livelli decisamente maggiori rispetto a quelli previsti nel nostro Paese.
  Il mondo dell'informazione e della comunicazione ha affrontato e affronta un difficile periodo di crisi, determinata certamente dalla situazione economica generale. Ma credo si possa sostenere senza alcun dubbio che è anche un settore che è stato fortemente attraversato da grandi cambiamenti e profonde trasformazioni. Il digitale, le innovazioni tecnologiche, la trasmissione informazioni e la comunicazione diffusa che avviene tramite social network, i blog tematici, oltre alle versioni digitali delle grande testate giornalistiche obbligano tutti noi ad immaginare un panorama più ampio, certamente diverso, dei possibili destinatari della disciplina del settore. Ribadisco, quindi, che un riordino era ed è necessario.
  Per venire ad esaminare rapidamente, onorevoli colleghi, la proposta in questione, io vorrei ricordare che questo testo prevede l'istituzione di un fondo per il pluralismo e l'innovazione presso la Presidenza del Consiglio. A questo fondo dovrebbero affluire, tra le altre introdotte con questo testo, tutte le risorse statali destinate al sostegno all'editoria quotidiana e periodica, anche digitale, comprese quelle destinate all'emittenza radiofonica e televisiva in ambito locale. Onorevoli colleghi, questo per noi rappresenta un punto di criticità. Infatti, la legge di stabilità del 2016, la cui approvazione ovviamente è molto recente, ha istituito un fondo presso il Ministero dello sviluppo economico destinato proprio a questo settore specifico dei media, il cui ammontare era pari a circa 50 milioni di euro. Questo fondo viene abrogato dal testo oggi in esame e si fanno confluire le risorse nel nuovo fondo che si vuole istituire, senza che sia previsto un vincolo di destinazione a favore delle emittenti radiofoniche e televisive in ambito locale. Noi crediamo, invece, che ci debba essere una sorta di linea di demarcazione, un confine. L'universo delle microrealtà legate al territorio dà voce all'informazione locale, sono legate alla comunità, riescono a dare risalto a specifiche e delimitate situazioni che probabilmente Pag. 18non troverebbero spazio e risalto nel palcoscenico dell'informazione nazionale.
  Un altro punto che vorrei segnalare è quello introdotto durante l'esame in Commissione che prevede un contributo dello 0,1 per cento a carico dei soggetti che operano nel settore della raccolta e dell'intermediazione pubblicitaria sulla stampa, sulle radio e sulle televisioni anche digitali, cosa che potrebbe incidere sul sistema della concorrenza a sfavore delle aziende italiane per una mancata chiarezza in merito alla possibilità che questo contributo sia applicabile anche ai soggetti esteri, oltre al fatto che questo contributo rappresenta comunque un onere per le aziende e noi su questo, onorevoli colleghi, presentiamo un emendamento soppressivo. Sempre per esaminare rapidissimamente il testo, vorrei ricordare che introduce – ne avete parlato tutti – le nuove deleghe al Governo per il riordino del settore, per la riorganizzazione della disciplina dei prepensionamenti dei giornalisti e per l'accesso agli ammortizzatori sociali nonché per la riorganizzazione del consiglio dell'ordine dei giornalisti. Noi, diversamente da quello che diceva il collega Brescia, pensiamo che favorire i prepensionamenti possa rappresentare una scelta corretta se assunta nell'ottica di favorire l'accesso a questa professione ai giovani, determinando dunque le condizioni per facilitarne l'assunzione. Credo invece, onorevoli rappresentanti del Governo, come iscritto all'ordine dei giornalisti a 26 anni, mi permetterete di dirlo, che per quanto riguarda proprio il nostro consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti sarebbe per noi importante prevedere un tempo maggiore di riflessione conseguente a un maggiore intervallo per l'emanazione dei decreti legislativi relativi, in considerazione del fatto che le regole e i conseguenti adempimenti sui quali si intende intervenire sono molteplici e richiedono un approfondito esame. Vorrei dunque ricordare come le norme in materia elettorale e di composizione numerica del consiglio nazionale dell'ordine giornalisti che questo testo propone rischia di non garantire la rappresentanza di tutte le regioni oltre a rendere di fatto impossibile da parte del consiglio nazionale stesso di adempiere agli impegni derivanti dalla normativa vigente che ci riguarda. Io mi auguro che su queste tematiche che ho sottolineato l'Aula voglia accogliere le proposte di correzione del provvedimento stesso, approvando le nostre proposte emendative.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Palese. Ne ha facoltà.

  ROCCO PALESE. Signora Presidente, riapproda – perché è stata oggetto anche di altra seduta della dell'Aula questa proposta di legge – oggi in Aula la proposta di legge sull'istituzione del Fondo unico per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione e delega al Governo per la definizione del sostegno pubblico all'editoria. È un provvedimento, signora Presidente, importante e contestualmente delicato, come molti colleghi hanno espresso sotto vari profili nei loro interventi in discussione generale, importante per l'informazione per i cittadini, delicato perché deve contemplare e attuare uno dei punti cardine della democrazia, cioè quella di assicurare il pluralismo. Infatti è giusto che le risorse pubbliche all'editoria debbono essere impiegate assicurando il pluralismo pieno, nell'assoluta trasparenza, cioè con criteri oggettivi, inoppugnabili, ma mi sembra che da questo punto di vista non ci sia la piena chiarezza da parte di molti colleghi in Aula. Io ritengo invece che sia doveroso per uno Stato democratico assicurare le risorse pubbliche perché l'informazione e la trasparenza sono essenziali nella pubblica amministrazione, nel contesto della gestione delle istituzioni e soprattutto della gestione della cosa pubblica. Non possiamo determinare che per tutto è un dogma la trasparenza e poi non sostenere nei fatti, soprattutto attraverso l'informazione, con risorse pubbliche, che ci sia una completezza in tutti i sensi dal punto di vista dell'informazione, arricchito questo senso da un pluralismo pieno.
  La proposta di legge così come licenziata dalla Commissione – nella quale c’è Pag. 19stato un grande lavoro, io non ne faccio parte, signora Presidente, ma tutti i componenti della Commissione riferiscono che c’è stato un nuovo grande lavoro in Commissione, un ottimo lavoro e soprattutto questo emerge anche dagli atti e dall'esame degli emendamenti – rivede le fonti di finanziamento e la platea dei beneficiari escludendo i giornali di partito ed includendo le emittenti locali. Attenzione, questo è un punto dirimente di novità: l'esclusione di quanti hanno nel frattempo usufruito rispetto a partiti o movimenti di risorse pubbliche. Questa è una decisione abbastanza importante anche rispetto alla situazione delle emittenti locali, non solo per la necessità su questo punto di un vincolo di destinazione su cui intervengano i rappresentanti del Governo... (dico «rappresentanti» perché ci sono sia quello per l'editoria che quello per l'emittenza, il sottosegretario Giacomelli), perché occorre che ci sia un raccordo rispetto alla situazione del nuovo sistema di finanziamento delle tv, con il canone Rai; in quel contesto è chiaro che deve esserci un raccordo generale su cui ci si raccomanda al Governo. Il testo inoltre delega il Governo a ridefinire la disciplina del sostegno pubblico all'editoria oltre a quella sui prepensionamenti dei giornalisti e al consiglio dell'ordine dei giornalisti e a innovare il sistema distributivo nell'ottica di una maggiore liberalizzazione. Anche questo è un punto cardine, c’è proprio un cambio di passo che non può essere così mascherato dalle solite polemiche se c’è questo, se c’è quello o meno. Sono di rilievo la norma che impedisce ai giornalisti in prepensionamento di collaborare con la loro testata e la norma riguardante le deleghe al Governo per garantire una maggiore tutela dei lavoratori nonché la norma che prevede appositi meccanismi per sostenere la trasformazione della distribuzione. Al momento l'ammontare del Fondo è stimato, per quello che risulta dai dati emersi – il provvedimento è stato semplicemente incardinato, siamo in attesa della Relazione tecnica dalla Commissione bilancio, di cui faccio parte – in 80 milioni di euro e sono in corso le verifiche sull'effettiva copertura da parte della Commissione bilancio e da parte della Ragioneria generale dello Stato, su cui già lo studio preliminare dà una contezza positiva. Ad alimentare il Fondo saranno non solo le risorse statali destinate al sostegno dell'editoria quotidiana e periodica ma anche quelle per le emittenti locali, come è stato ricordato. In più ci sarà una quota delle eventuali maggiori entrate derivanti dal canone Rai e le somme derivanti dalle multe per le violazioni in materia di programmazione e pubblicità. È stato introdotto anche un contributo di solidarietà ai concessionari di pubblicità su tv e stampa, che dovranno versare lo 0,1 del reddito complessivo annuo. Il Fondo è ripartito annualmente tra la Presidenza del Consiglio e il Ministero dello sviluppo economico; potranno accedere al Fondo le cooperative giornalistiche, gli enti senza fini di lucro. Sono invece esclusi gli organi di partito, movimenti politici o sindacati come prima ricordato. Ulteriori requisiti riguardano il regolare adempimento degli obblighi derivanti dai contratti di lavoro, che è una piaga oggi soprattutto in periferia, e l'edizione della testata in formato digitale eventualmente anche in parallelo con l'edizione in formato cartaceo. Su questo punto c’è una delega al Governo a ridefinire la disciplina dei contributi diretti a incentivare gli investimenti. Tra i criteri direttivi, c’è un tetto massimo al contributo per ciascuna impresa, la graduazione in base al numero di copie annue vendute e utenti unici raggiunti oltre che premi per l'assunzione a tempo indeterminato degli under 35. Sul problema degli investimenti particolarmente attenzione a mio avviso dovrebbe prestare il Governo, signora Presidente, in riferimento alle notevoli risorse comunitarie che ci sono sul problema degli investimenti, digitalizzazione, banda larga e quant'altro, perché potrebbero essere anche utilizzati – e spero che siano utilizzati – dalle aziende che riguardano l'informazione. Il testo delega il Governo alla razionalizzazione del consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti relativamente alle competenze in materia di formazione, procedimento disciplinare, riduzione Pag. 20del numero dei componenti fino a un massimo di 36, direzione di un progressivo allineamento con la disciplina generale dei requisiti di anzianità per il ricorso agli ammortizzatori sociali e prepensionamenti per i giornalisti e la revisione della procedura per riconoscimento degli stati di crisi delle imprese editoriali ai fini dell'accesso ai prepensionamenti. Gli stanziamenti anche questi entrano nel Fondo.
   Mi avvio alla conclusione: senza dubbio è auspicabile che ulteriori miglioramenti, così come sono stati apportati dalla Commissione, siano effettuati qui in Aula. In un contesto di deleghe, molte cose sono ulteriormente meglio da precisare, sulla situazione del digitale, in riferimento alla possibilità di utilizzazione anche dei fondi europei, e forse a un maggior coordinamento rispetto alla situazione delle leggi già esistenti a livello regionale, perché è vero che in Germania – come è stato riferito poco fa dai colleghi – esistono anche dei finanziamenti pubblici da parte delle regioni, a livello territoriale, ma qui sono previsti in maniera disordinata. Ci sono alcune regioni che vi hanno provveduto anche di recente – mi sembra proprio la regione Toscana di recente aveva fatto degli interventi a favore dell'editoria locale – però sarebbe opportuno che in questo contesto ci fosse anche forse una completezza e un maggior raccordo per meglio razionalizzare le risorse e fare un intervento coordinato in un contesto di grande apertura, ma soprattutto in un contesto di grande visione e di riordino dell'intero settore.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Marco Fedi. Ne ha facoltà.

  MARCO FEDI. Grazie, signora Presidente. La discussione generale sul pluralismo dell'informazione e sulle deleghe al Governo per il sostegno pubblico all'editoria consente una riflessione più generale sulle comunità italiane nel mondo e desidero ringraziare, a questo proposito, il relatore Rampi e la VII Commissione per aver prestato attenzione, in un provvedimento così complesso che riguarda il tema generale del pluralismo dell'informazione e della libertà di stampa e ovviamente dei contributi e degli incentivi all'innovazione, a tutto il settore dell'editoria e di aver trovato uno spazio adeguato per una discussione anche sull'emendamento presentato dai deputati eletti all'estero. Una riflessione – dicevo – che lega il tema dell'innovazione e della pluralità dell'informazione alla storia dell'emigrazione, alla presenza italiana nel mondo, ai processi di integrazione e alla partecipazione sociale e civile che possono essere favoriti con la presenza di altre lingue e culture anche nei media. Una discussione, questa, rilevante anche nell'Italia di oggi e per l'Italia di oggi, che sicuramente ha riguardato gli italiani nel mondo.
   L'emendamento presentato dagli eletti all'estero del PD prova quindi a legare stampa quotidiana e periodici nel mondo, in una sfida sempre più globale verso l'innovazione. L'editoria di lingua italiana nel mondo è stata per lunghi anni l'unico strumento di informazione, comunicazione, formazione e diffusione di lingua e cultura, su cui tanti nostri connazionali hanno costruito la loro dimensione di vita.
   Oggi proponiamo che questa storia, insieme a quella delle nuove migrazioni, entri ad esempio nelle scuole e contribuisca a formare le nuove generazioni – è oggetto di una nostra proposta di legge –, proponiamo ad esempio di raccontare questa storia nel nuovo Museo dell'emigrazione, che sta nascendo all'interno del Museo del mare a Genova, iniziativa del Governo che sosteniamo e che vorremmo vedere ampliata con il tema dell'immigrazione in Italia e soprattutto con una rete di collegamento tra le realtà museali dell'emigrazione in Italia e nel mondo. Oggi chiediamo, in sostanza, in questo provvedimento, che la stampa italiana all'estero, che è stata per molti anni il veicolo con il quale raccontare l'Italia e anche capire le nostre comunità nel mondo, mantenga il suo ruolo nella dimensione nazionale del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione.Pag. 21
   Le testate storiche dell'emigrazione hanno attraversato la storia, rispecchiando la stessa evoluzione della società italiana, nonché la formazione e le trasformazioni che lo Stato nazionale ha subito nel corso del tempo. Questo ruolo, del resto, è stato riconosciuto da tempo con l'attribuzione di contributi regolati da leggi, decreti e regolamenti, sia per quanto riguarda i quotidiani italiani, editi e diffusi all'estero, che per la stampa periodica italiana.
   Il settore della stampa italiana all'estero non è residuale, ma è un settore in piena transizione. Non a caso, il periodo nel quale le testate italiane all'estero nascono e si diffondono è quello risorgimentale, ad opera soprattutto della diaspora di liberali, mazziniani e garibaldini che furono costretti a lasciare il Paese per evitare le repressioni poliziesche.
  Una più forte presenza, una presenza più capillare di questa esperienza è poi nel passaggio dai temi patriottici e risorgimentali a quelli prevalentemente di natura sociale che si sono avuti con l'emigrazione di massa. La funzione assolta da questa miriade di pubblicazioni fu molto importante sotto due profili: quello di aprire spazi di riconoscimento e di affermazione delle nostre comunità nelle realtà di insediamento, nelle quali spesso dovevano fronteggiare spirito di avversione e atteggiamenti xenofobi di alcune componenti locali, e quello di favorire la progressiva italianizzazione dei nostri immigrati, che erano partiti con un bagaglio culturale localistico povero, se non alieno da una formazione nazionale.
   La diffusione e la funzione dei periodici italiani nel secondo dopoguerra sono cambiate in relazione ai mutamenti che hanno interessato i nuovi flussi di emigrazione italiana; il loro numero si è asciugato, soprattutto nelle aree come quelle transoceaniche di tradizionale immigrazione e il loro ruolo si è adattato ai tempi e ai nuovi contesti. Negli USA e nei Paesi sudamericani, ad esempio, essi hanno avuto e hanno soprattutto la funzione di tenere aperto il dialogo con le nuove generazioni, di conservare la lingua italiana, di tenere aperti i ponti con l'Italia, favorendone l'internazionalizzazione, di dare le informazioni utili all'esercizio politico della cittadinanza.
   Nelle nuove realtà di immigrazione, sia transoceaniche, come Canada e Australia, che europee, essi hanno tutelato le nostre nascenti comunità, dando loro voce, e ne hanno alimentato l'identità, anche al fine di evitare l'assimilazione e di favorire positivi confronti interculturali. Sono indiscutibili quindi i vantaggi che al nostro Paese derivano dalla presenza di alcuni strumenti informativi e di opinione all'estero. Su alcuni piani molto importanti, quello della formazione e della promozione della lingua e della cultura italiana, quello del sostegno all'internazionalizzazione, quello del miglioramento dell'immagine dell'Italia nel mondo, quello della trasmissione di informazioni necessarie per l'esercizio dei diritti civili e di cittadinanza di una comunità che assomma 5 milioni di persone, quello delle relazioni interculturali, quello della promozione del turismo di ritorno.
   Un'altra pagina ad aprire è quella che riguarda l'irruzione del web nella comunicazione e delle potenzialità da sfruttare per una forte articolazione e per una estesa capillarizzazione dell'attività informativa, nonché per uno sviluppo delle interattività. La nuova legge contiene queste aperture, promettenti in questo senso, che dovrebbero tradursi in modo coerente nella ripartizione delle risorse e nella finalizzazione degli incentivi.
   Una considerazione non meno attenta merita infine il fenomeno delle nuove mobilità, verso le quali la comunicazione digitale può essere di grande aiuto, per fare in modo che l'Italia non perda i contatti con le persone che ne sono partecipi e, sia pure da lontano, possa cogliere le potenzialità derivanti dalla loro più alta formazione e professionalità, evitando una perdita secca di energie dannosa per lo sviluppo del Paese.
   Quotidiani come America oggi, il Corriere canadese, La Voce d'Italia, in Venezuela, Gente d'Italia, in Uruguay, La Voce del popolo a Fiume, bisettimanali come Il Globo e La Fiamma in Australia, settimanali Pag. 22come Cittadino canadese, Il Corriere di Tunisi, Tribuna italiana e La Voce in Argentina, Il Corriere d'Italia, in Germania, Il Corriere degli italiani e La Pagina, in Svizzera, mensili come Il Nuovo Paese e Il Progresso Italo-Australiano, in Australia, Comunità in Brasile e i tanti periodici editi in Italia e all'estero, con le centinaia di emittenti radiofoniche e televisive, ogni giorno, nel mondo, raccontano l'Italia, l'Europa, le proprie comunità e società locali in lingua italiana ed oggi anche nelle lingue di quei Paesi, parlando di cultura, sport, made in Italy, politica.
   In sede di audizione con la FUSIE, Federazione unitaria della stampa italiana all'estero, la principale realtà rappresentativa delle numerose testate in lingua italiana edita all'estero e per l'estero, in sede di Comitato per gli italiani nel mondo e per l'internazionalizzazione della Commissione Affari esteri della Camera, ci è stato fornito un quadro della presenza nel mondo.
   Nei cinque continenti, gli associati, tra quotidiani, settimanali e periodici vari, offrono una diffusione annua di milioni di copie e si rivolgono a 5 milioni di cittadini italiani residenti all'estero, oltre che ai circa 70 milioni di oriundi e discendenti di italiani.
   L'adesione alla FUSIE è stata estesa alle emittenti radiofoniche e televisive e ai giornali telematici on-line. In conclusione, Presidente, la proposta di legge delega su riordino e ridefinizione del sostegno all'editoria istituisce un Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione, e l'emendamento che è stato approvato consentirà ai media editi e diffusi all'estero, o editi in Italia e diffusi prevalentemente all'estero, di accedere al Fondo.
  I decreti legislativi attuativi della delega avranno il compito di definire, in maniera precisa, i soggetti che potranno accedere al fondo, le modalità per accedervi, i criteri di base e la dotazione di bilancio del Fondo stesso per ciascuna delle categorie.
  La presenza italiana nel mondo è stata caratterizzata da una forte ed articolata presenza dell'editoria in lingua italiana, una presenza storica che oggi, anche nel contesto delle sfide globali, deve poter trovare nuovi spazi di presenza culturale e linguistica e nuovi modi di diffusione. La sfida dell'innovazione, quindi, è rivolta a tutti noi ma soprattutto agli editori, che potranno sviluppare un piano per la ridefinizione delle strutture, dei processi e dei modelli imprenditoriali che producono, diffondendo l'informazione e arricchendo il panorama dell'informazione pluralista e indipendente.
  Nei prossimi mesi dovremo impegnarci per seguire l'evoluzione della discussione sui decreti legislativi, per garantire che al settore dell'editoria di lingua italiana nel mondo venga assegnata un'adeguata dotazione di risorse, per garantire che i criteri di valutazione rispondano alla specificità dell'informazione oltre confine e per assicurare che anche per l'editoria edita all'estero vi sia certezza delle risorse per un piano pluriennale, tempestività nell'erogazione dei contributi e massima trasparenza sui criteri per accedervi, oltre alla necessaria trasparenza e ai criteri per assicurarla.
  Presidente, le battaglie per l'integrazione nei Paesi di residenza, la lotta per la sopravvivenza del settore dell'editoria, le nuove forme di comunicazione e le sfide presentate dall'era digitale hanno semmai rafforzato la necessità di una interpretazione della realtà con una lettura plurale ed originale dei fatti, della storia e della vita. Si tratta di quel mondo «glocal», come lo definiamo noi, globale e locale, che vive le contraddizioni della nostra epoca da comunità di italiani nel mondo.

  PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche dei relatori e del Governo – A.C. 3317-3345-A)

  PRESIDENTE. Prendo atto che il relatore di minoranza, Brescia, rinunzia alla replica.
  Prendo atto che il relatore per la maggioranza rinunzia alla replica.Pag. 23
  Prendo atto, infine, che il rappresentante del Governo rinunzia alla replica.
  Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione delle mozioni Lupi ed altri n. 1-01124 e Sberna ed altri n. 1-01146 concernenti politiche a sostegno della famiglia (ore 16,45).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Lupi ed altri n. 1-01124 e Sberna ed altri n. 1-01146 concernenti politiche a sostegno della famiglia (Vedi l'allegato A – Mozioni).
  Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione delle mozioni è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).
  Avverto che sono state altresì presentate le mozioni Nicchi ed altri n. 1-01170, Palese e Pisicchio n. 1-01171, Vezzali ed altri n. 1-01172, Occhiuto e Crimi n. 1-01173, Sbrollini ed altri n. 1-01174 (Vedi l'allegato A – Mozioni), che vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno verranno svolte congiuntamente.
  I relativi testi sono in distribuzione.

(Discussione sulle linee generali)

  PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
  È iscritta a parlare la deputata Paola Binetti, che illustrerà anche la mozione Lupi ed altri n. 1-01124, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.

  PAOLA BINETTI. Presidente, la famiglia è, prima di tutto, un soggetto sociale tale da condizionare la vita delle persone, ma è anche un soggetto economico peculiare. La sua formazione risente di fattori sia culturali sia economici, affettivi e morali. Nei Paesi mediterranei i forti legami di solidarietà familiare sono un carattere dalle radici profonde, resistente ai cambiamenti economici politici e sociali; nello stesso tempo, il ruolo di supplenza estesa che la famiglia svolge in questi Paesi, in Italia in particolare, sia per quanto riguarda il sostegno al reddito, in particolare per chi si affaccia alla vita adulta, sia per quanto concerne i bisogni di cura dei bambini e delle persone non autosufficienti, dipende dalle condizioni economiche e dal minor sviluppo delle politiche sociali.
  Questa funzione di supplenza, a prescindere da quale sia il nesso di causalità, è tanto maggiore quanto minore è l'offerta dei servizi sul mercato o l'intervento pubblico nella redistribuzione delle risorse. L'Italia riflette pienamente queste caratteristiche: i legami familiari sono forti, si estendono oltre i confini del nucleo familiare in senso stretto e si manifestano spesso in un sostegno economico diretto ma forse, anche più diffusamente, nelle attività di cura della persona.
  Nel 2013 circa il 19 per cento delle famiglie italiane ha ricevuto un aiuto informale da parte della rete familiare.
  Questa quota sale al 38 per cento nel caso delle famiglie con figli piccoli, in cui la madre lavora e dove tipicamente la rete di supporto è costituita dai nonni impegnati nella cura dei nipoti. Questo ruolo storico di protezione sociale della famiglia italiana si è intensificato durante gli anni recenti di crisi economica, dalla deriva demografica alla perdita di capacità produttiva dell'Europa.
  L'aspetto centrale della mozione sulla famiglia, quella che abbiamo presentato insieme ai colleghi di Area Popolare, ha evidenziato quell'indispensabile chiarezza necessaria se si vogliono prendere decisioni efficaci e il grave ritardo di una politica economica che appare, a conti fatti, realmente schizofrenica: da un lato, fa ricorso continuamente alla parola «crescita», nell'illusione che i Governi possano creare crescita economica con la loro finanza creativa; dall'altro, invece, c’è l'incapacità di mettere in atto poche ma concrete misure di contrasto ad una deriva demografica gravissima. Sono di pochi giorni fa i numeri dati dall'Istat che confermano Pag. 24che l'Italia è l'ultimo Paese in Europa rispetto alla natalità e confermano che è sceso l'indice di natalità a 1,34 per cento, il che significa che ci vogliono quattro famiglie per avere cinque figli.
  Senza crescita demografica non potrà che esserci un'enorme perdita di capacità produttiva dell'intero continente europeo soprattutto in Italia, proprio perché il Paese è meno capace di mettere a fuoco questo tema. Una prima imprescindibile precisazione riguarda la causa del calo demografico, che non dipende solo da fattori economici ma anche da motivi più profondi, culturali e sapienziali, a cui nella mozione si allude. È il segnale di una malattia dello spirito che ha colpito le società occidentali, soprattutto quelle europee, da quando la filosofia della libertà si è ridotta a un libertarismo incapace di vedere oltre la percezione dei bisogni immediati e per questa via a partire dagli anni Sessanta si è assimilata ad una variante della ben più pervasiva e profonda attitudine consumistica.
  La ricerca delle cause del crollo demografico – perché più che di calo occorre parlare di un crollo vero e proprio – va fatta a 360 gradi e su queste cause occorre fare un lavoro di profondità e di complessità interdisciplinare. La consapevolezza di questa situazione deve accompagnarsi anche alla volontà di porre argini ben precisi ad una deriva che rischia di diventare disastrosa, soprattutto in epoca di crisi. Le questioni di carattere economico fanno apparire ancora più drammatiche le difficoltà materiali, sempre presenti nella realizzazione di un progetto di famiglia. Un'azione economica a favore della famiglia, come è quella che noi abbiamo proposto anche con il Family Act, il provvedimento che quest'estate abbiamo presentato insieme a tutti i colleghi di Area Popolare, ha lo scopo di far sentire le famiglie esistenti e quelle potenziali meno sole, meno indifferenti ad uno Stato che sembra occuparsi a tutto campo di nuovi diritti ma incredibilmente dimentica proprio chi nel suo fare famiglia, pur tra mille criticità, garantisce la continuità del sistema Paese senza mai vedere riconosciuti pienamente i suoi diritti a livello personale e a livello di struttura familiare.
  Uno Stato amico delle famiglie deve avere l'intelligenza di comprendere che non si tratta della battaglia culturale identitaria di una parte ma solo il segno, laico e razionale, della capacità di saper osservare attentamente ciò che accade nella società e di saperne garantire il futuro. La visione cosiddetta «multiculti», secondo la quale al problema del calo demografico porranno rimedio potenti ondate migratorie, è parziale e soprattutto miope, perché non tiene conto dell'immediato calo delle nascite a cui vanno incontro le nuove famiglie di immigrati già dopo pochissimi anni di vita in Italia. Né, d'altra parte, è ipotizzabile – e men che mai desiderabile – una migrazione di dimensioni tali da determinare un effetto sostitutivo, con conseguenze incalcolabili sul piano della continuità dello sviluppo storico delle tradizioni, dei valori e degli ideali propri di un Paese.
  Nella misura in cui le migrazioni mantengono un ritmo che consente un'assimilazione «dolce», quello che si osserva, invece, è una pronta assimilazione da parte dei nuovi venuti, compresa anche la scarsa tendenza a fare i figli e a costruire nuclei familiari. Cioè, noi assistiamo, in realtà, a questo tipo di comportamento: che le famiglie di immigrati non appena arrivano portano con sé una cultura del far famiglia che si identifica anche nella capacità di accogliere come dono tutti i figli che arrivano.
  Sono quindi a tutti gli effetti famiglie numerose, ma per effetto di prossimità, a contatto con le famiglie italiane, già dopo pochi anni il numero dei figli si riduce potentemente. Non sto qui a dire quanto possano incidere evidentemente la mancanza di servizi che c’è nel nostro Paese a favore dell'infanzia, la difficoltà sul piano del lavoro professionale, le condizioni economiche molto modeste, la crisi che ci circonda un po'a trecentosessanta gradi; ma c’è un fatto culturale ancora più sottile che penetra proprio l'idea che ogni figlio debba poter avere a disposizione una serie Pag. 25di beni, che non ce n’è mai abbastanza per quel figlio e, quindi, diventa pressoché impossibile poter avere un secondo e un terzo figlio. Non voglio dire che queste parole possano servire a comprendere quello che possiamo chiamare un vero e proprio crollo demografico, ma è un fatto che non è possibile ricondurre esclusivamente alla nozione di difficoltà economica. La difficoltà economica è condizione necessaria, ma non sufficiente, per spiegare e per comprendere questo fenomeno.
  Uno Stato laicamente consapevole dei fenomeni sociali in atto e motivato a favorire la crescita economica dalla famiglia, deve mettere al primo posto un insieme organico di misure di sostegno alla famiglia, e la proposta di legge, quella che noi abbiamo chiamato il Family Act, offre un primo organico modello, ma soprattutto deve utilizzare queste misure per lanciare una vera e propria campagna di amicizia nei confronti delle famiglie e delle giovani coppie. Io vorrei semplicemente citare come, per quello che vale, io stessa dal 15 marzo 2013, che per chi lo ricorda era praticamente l'inizio di questa legislatura – perché le elezioni furono verso il 24 o 25 febbraio, quindi corrispondenti circa la prossima settimana – presentai una serie di disegni di legge, su cui avevo già lavorato negli anni precedenti, sono tutti riconducibili per la stragrande maggioranza al 15 marzo. Uno titolava così: «Istituzione dell'Autorità garante dei diritti della famiglia». Mai avuto la possibilità di calendarizzarlo, lo dico al Governo, meno ancora quindi la possibilità di discuterlo. Un altro: «Agevolazioni fiscali e altre norme a sostegno dell'accesso all'abitazione per le giovani famiglie», mai avuto la possibilità di calendarizzarlo, mai avuto la possibilità di discuterlo. «Agevolazioni fiscali e altre disposizioni per sostenere l'accesso dei giovani ad abitazioni principali», mai calendarizzata e mai discussa. «Modifica al testo unico, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, in materia di rafforzamento dell'istituto del congedo parentale, a sostegno dei genitori di bambini nati prematuri o gravemente immaturi, ovvero portatori di gravi handicap», mai avuto la possibilità di calendarizzarlo e quindi di discuterlo. «Norme per il sostegno e l'incremento alla natalità» forse cominceremo a discuterlo dalla prossima settimana. «Norme per la promozione del parto fisiologico e la salvaguardia della salute della partoriente e del neonato» forse lo discuteremo la prossima settimana. Tutte queste sono norme che avrebbero potuto costituire un importante punto di riferimento anche per approfondire quel piano per la fertilità che il Ministro Lorenzin ha presentato ormai diversi mesi fa, che avrebbe potuto costituire una risposta positiva che anticipasse questa disastrosa e disastrata denuncia che l'Istat ci ha fatto solo pochi giorni fa.
  Secondo i calcoli effettuati dall'ufficio studi delle piccole e medie imprese, se adottassimo il quoziente familiare alla francese le famiglie italiane con redditi medio-bassi subirebbero un vero e proprio choc fiscale positivo.
  Darò qualche numero, tenendo conto anche degli 80 euro che riceve una parte dei lavoratori dipendenti. In Italia, a parità di reddito e di numero di familiari a carico, la tassazione penalizza le famiglie monoreddito. Non solo le penalizza perché è un solo stipendio, ma le penalizza anche perché, come ben sappiamo, dopo il primo figlio è molto difficile il reinserimento professionale delle donne, soprattutto se non hanno, come dire, avuto la fortuna, cito il famoso film tanto di moda in questo momento, del «posto fisso»; chi non ha un posto fisso è gravemente esposto a un'opera di moral suasion, affinché in qualche modo stia a casa e si occupi del suo bambino, d'altra parte la mancanza dei servizi contribuisce potentemente ad andare in questa direzione. In questa analisi non possiamo dimenticare il peso fiscale che grava infatti sui redditi medio bassi di alcune tipologie familiari, ma rispetto ai principali Paesi europei, oltre ad avere un carico fiscale pesantissimo, le famiglie italiane sono oggetto di ulteriori costi a causa della inefficienza del nostro sistema pubblico.Pag. 26
  Se per fare una visita specialistica presso l'ASL devo attendere almeno sei mesi, sono costretta a rivolgermi ad una struttura privata. Se la tratta casa-lavoro non è adeguatamente servita dai mezzi pubblici sono obbligato ad utilizzare l'auto. Se gli asili nido pubblici sono insufficienti, il bambino lo devo portare in una struttura privata o devo pagare una babysitter. Insomma, paghiamo molto ma in termini di servizi riceviamo molto poco e tutto ciò, francamente non è più ammissibile !
  In termini economici, per essere concreta su quello che sto dicendo, una famiglia monoreddito di quattro persone con un imponibile IRPEF di 24.000 euro, pari ad una ridistribuzione mensile netta di 1.758 euro, se ci fosse il quoziente familiare risparmierebbe oltre 1.900 euro l'anno. Un nucleo monoreddito di quattro persone con un imponibile IRPEF di 35.000 euro, che corrisponde ad uno stipendio mensile netto di 2.178 euro si troverebbe con 6.277 euro in più all'anno, mentre un nucleo bi-reddito beneficerebbe di una riduzione di imposta pari a 1.866 euro. Potrei andare avanti citando il reddito imponibile di 48.000 euro, in cui se si tratta di un monoreddito la retribuzione mensile netta dovrebbe oscillare sui 2.500 euro e si vedrebbe alleggerire il carico fiscale di circa 10.686 euro all'anno, mentre se si trattasse di una famiglia bi-reddito pagherebbe 4.680 euro in meno di tasse.
  Sono notizie pesanti che in realtà ci danno uno spaccato del quotidiano della vita delle famiglie italiane, perché quando poi parliamo del rapporto tra lavoro e vita di famiglia, quando parliamo dell'urgenza di politiche di armonizzazione di questi impegni ci rendiamo conto che sbattiamo veramente la testa contro macigni. Un macigno è quello dell'organizzazione aziendale, l'altro macigno è quello della carenza assoluta di servizi sul territorio. Tra queste due componenti è ben difficile navigare per le giovani famiglie, sembra quasi che sia una navigazione tra Scilla e Cariddi. Anche prima del dispiegarsi degli effetti della recessione, la debole dinamica del reddito si era riflessa anche in una minore capacità di risparmio delle famiglie. Nel decennio appena trascorso la propensione al risparmio delle famiglie italiane è calata, era intorno al 16 per cento del reddito disponibile all'inizio del 2008, come sappiamo l'inizio della crisi, è diminuita poi velocemente verso il 12 per cento nel 2011, per essere attualmente quasi totalmente prosciugata. I dati dell'indagine sui bilanci delle famiglie condotti dalla Banca d'Italia, evidenziano che la caduta del tasso di risparmio successiva alla crisi è stata molto forte per le famiglie con un capofamiglia con meno di 35 anni, quindi non solo non c’è stata propensione al risparmio, ma c’è stato il rischio dell'indebitamento. Quasi sempre l'indebitamento, quando ci sono state le condizioni fortunate, ha avuto come interlocutori privilegiati i familiari, perché quando gli interlocutori invece sono state le banche e altre realtà il costo che gli oneri passivi hanno avuto per quella famiglia ne ha veramente fatto precipitare la qualità di vita a un livello al di sotto di una soglia accettabile.
  Sappiamo che in Italia, come in molti Paesi, la distribuzione della ricchezza non è omogenea, la ricchezza è più concentrata del reddito, anche se non in misura superiore agli altri principali Paesi avanzati.
  Nel 2010 quasi la metà della ricchezza netta era detenuta dalle famiglie del decimo più ricco, per contro la metà più povera delle famiglie possedeva poco più di un decimo della ricchezza totale. I nuclei con capofamiglia di età inferiore ai 35 anni ne possedevano solo il 5 per cento, pur rappresentando più del 10 per cento delle famiglie. Il grado di concentrazione della ricchezza presso le famiglie più agiate, dopo essere aumentato nel corso degli anni Novanta, è rimasto sostanzialmente invariato per buona parte dell'ultimo decennio, salvo probabilmente poi aumentare di circa due punti negli ultimi due anni, ma quello che vogliamo segnalare è che mentre nelle famiglie ad alto reddito il reddito è rimasto sostanzialmente invariato, perché per molte di Pag. 27queste famiglie non c'era stato un aumento dell'accumulo del risparmio, viceversa c’è stato una precipitazione totale nelle famiglie con un reddito più basso. Abbiamo veramente famiglie in cui basta una multa o un frigorifero che si rompe a far saltare un equilibrio. A far saltare un equilibrio basta una malattia che comporti la necessità di non poter utilizzare tutto il sistema sanitario nazionale per una serie di ragioni che obbligano ad accedere a visite specialistiche di un certo tipo oppure ad accelerare determinati esami in un determinato tempo. Basta tutto questo per scompensare le famiglie. E questo bisogna tenerlo veramente in conto quando ci si chiede perché poi il crollo demografico è veramente la Cenerentola in questo momento della nostra capacità di intendere la vita sociale. Le dinamiche recenti hanno confermato tendenze già presenti nel nostro passato. Questo un po’ per parlare della famiglia come modello di welfare. Nel 2010 viveva ancora con i genitori il 42 per cento dei giovani di età compresa tra i 25 e i 34 anni, età nella quale il percorso di studio è in gran parte dei casi già completato. Quindici anni prima questa quota era pari al 36 per cento. Secondo l'indagine dell'Eurobarometro della Commissione europea, nel 2007 la metà dei giovani italiani tra i 15 e i 30 anni di età individuava nella mancanza di sufficienti risorse economiche il principale ostacolo all'uscita dalla casa dei genitori. Fattore importante per l'indipendenza dalla famiglia è la stabilità dell'occupazione. Qui non si tratta di fare dei lavoretti per mantenersi o comunque per fare fronte a quelle attività di contorno che rendono la vita più vivibile per i giovani. Qui si tratta di avere la garanzia e la sicurezza di poter fare degli investimenti e di potersi assumere delle responsabilità concrete sul piano affettivo, ma poi anche sul piano operativo. I dati dimostrano una propensione degli italiani a vivere in famiglie nelle quali almeno un componente ha una fonte di reddito certo. A volte questa componente è il nonno. Nonostante un tasso di occupazione storicamente più basso, la quota di popolazione che vive in famiglie nelle quali nessun membro lavora in Italia non è molto diversa da quella che si osserva nei principali Paesi europei, né è variata in modo significativo in questi ultimi anni. Certamente, però, ha contribuito la minore incidenza di famiglie monogenitore con figlio minore e la tipologia maggiormente a rischio è quella che si trova ad essere senza lavoro.
  In conclusione, dobbiamo dire che la crisi ha gravemente inciso sui redditi delle famiglie italiane riducendo la capacità di risparmio. La ricchezza accumulata, finanziaria e reale, è stata in parte utilizzata per far fronte alle difficoltà economiche. Si sono ampliati i divari, considerando anche la ricchezza, e il numero di famiglie in condizioni di povertà è aumentato in modo esponenziale. Nello stesso tempo, le famiglie italiane hanno svolto un'importante funzione di ammortizzatore sociale che continuerà anche nel corrente anno. Le prospettive per il 2016 segnalano, infatti, che ancora una volta le famiglie italiane saranno chiamate a sostenere i componenti meno tutelati. Faccio presente che il famoso concetto, quella sorta di carota che si utilizza per far muovere l'asino, ossia la ripresina, è un concetto che è buono sulla stampa, che è buono nel momento in cui si presenta un quadro roseo della situazione, ma non è mai stato percepito come tale dalle famiglie. Le famiglie italiane ancora non sanno cos’è la ripresina. Le famiglie italiane, che hanno dei figli disoccupati o inoccupati o sottoccupati, continuano ad avere dei figli disoccupati, sottoccupati o inoccupati. Quella stabilizzazione di cui il Jobs Act si è fatto in qualche modo testimone è stata in grandissima parte la trasformazione di contratti che erano a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato e ben venga questo perché comunque a quelle persone ha offerto un importante elemento di stabilizzazione, ma non ha risolto in nessun modo nessun problema delle altre famiglie. Questa è una cosa che dobbiamo dire e dobbiamo Pag. 28dire con chiarezza perché risponde alla struttura sociale italiana ed è uno di quei fattori di gravità proprio sotto il profilo della coesione sociale perché crea quel disagio, crea in qualche modo quella sensazione di abbandono che poi, per esempio, noi registriamo tranquillamente sul piano politico attraverso quella totale e radicale insofferenza per la politica che sembra essere considerata totalmente incapace di dare una risposta operativa. L'assenteismo dei giovani nelle elezioni è il segno, non tanto di una indifferenza rispetto alla politica, quanto piuttosto di una critica alla politica perché questa politica non risponde alle loro esigenze. Che poi sia solo problema della politica, evidentemente non è così; che sia anche un problema di un sistema produttivo, che sia anche un problema che riguarda gli imprenditori, che sia anche un problema che viene da lontano e che ha visto molte imprese nel momento della crisi prendere e delocalizzare e portare fuori la produzione che è là dove si creano i veri e propri posti di lavoro, è un fatto. Ma non occorre solo riuscire a ottenere il rientro dei cervelli.
  Oggi il Premier si è intrattenuto con molta intensità con i giovani ricercatori incoraggiandoli a investire su di sé. Ma se un giovane ricercatore può investire su di sé, una persona che svolge un lavoro a carattere, chiamiamolo così, più manifatturiero, ha bisogno che sia l'impresa a investire sui posti di lavoro, l'impresa a investire sulla produttività. La struttura familiare italiana, caratterizzata da una marcata propensione dei giovani a costituire un nuovo nucleo familiare solo se occupati, ha limitato l'impatto della recessione sul benessere degli individui. Sappiamo tutti che negli ultimi anni ci sono stati molti meno matrimoni, si sono formate molte meno famiglie. È vero che sono aumentate le convivenze, ma al concetto stesso di convivenza si accompagna più facilmente il concetto di precarietà. Al concetto di matrimonio si accompagna molto più strettamente il concetto di stabilità. La mancanza di un lavoro, la mancanza della possibilità di accedere a una casa, la mancanza di una serie di garanzie, evidentemente non è il fattore ideale per convincere i giovani ad assumersi responsabilità chiare, forti, precise e puntuali nei confronti del loro stesso nucleo familiare e nei confronti della società. Per converso, sono proprio le famiglie dei giovani che hanno intrapreso un percorso autonomo quelle che hanno pagato il prezzo più elevato della crisi e che oggi fronteggiano i livelli di incertezza più elevati, nel senso che si è totalmente prosciugato il fondo di risparmio dei genitori di questi giovani. I problemi di fondo, solo acuiti dalla crisi recente, sono noti, sono all'attenzione dell'attività di Governo e investono l'equità e la sostenibilità del nostro modello sociale. Il ruolo di supplenza svolto dalle famiglie implica che la rete di protezione su cui gli individui possono contare differisca a seconda delle risorse familiari. Per i giovani l'instabilità del lavoro, associata a bassi salari, condiziona fortemente l'accesso al mercato immobiliare e al processo di accumulazione delle risorse necessarie per costruire con serenità il proprio futuro. La ricchezza dei genitori, che ha svolto un ruolo importante nel sostenere anche i figli, non solo sta iniziando a ridursi, ma in molti casi si è del tutto ridotta. I giovani risparmiano poco, meno dei loro genitori. Dovrebbero, invece, accumulare di più visto che il livello della loro pensione sarà presumibilmente più contenuto. Ma è anche proprio del giovane avere una visione magica del futuro, una visione quasi di onnipotenza del loro futuro e non rendersi conto ora di quello che preoccupa tutti noi, che è quanto si prenderà di pensione. Adesso la domanda chiave, non dico dei giovani, ma del giovane cinquantenne è: quanto prenderò quando andrò in pensione, come è costruita la mia pensione ? Ma certamente a una certa età non hai più la possibilità di costruirti la cosiddetta pensione parallela, l'assicurazione. Di questo i giovani non hanno voglia di parlare ed è parte, diciamo, della loro sfiducia nei confronti Pag. 29del sistema che non gli permette di guardare così lontano, così lontano, così lontano, quando usciranno dal mondo del lavoro, loro che stentano in questo momento ancora a entrarci.
  Finisco, un secondo soltanto. La crisi ha reso ancora più forte la dipendenza dei membri più deboli dalla famiglia d'origine riducendo ulteriormente la propensione dei giovani a intraprendere percorsi autonomi, a passare dalla condizione di figlio a quella di genitore, a partecipare attivamente, non solo alla vita economica, ma anche a quella sociale. È essenziale affrontare questi nodi perché il futuro del Paese dipende in modo cruciale dal sostegno che la nostra società è e sarà in grado di dare ai progetti di vita delle giovani famiglie. Le riforme del mercato del lavoro mirano a ridurre il grado di segmentazione e a estendere il livello di protezione sociale a una più ampia platea di lavoratori.
  Sono riforme necessarie e noi ci auguriamo che il Governo guarderà alla nostra mozione con grande attenzione anche per le proposte concrete e per gli impegni che suggerisce perché sono veramente volti a garantire coesione sociale e futuro ai giovani.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Scotto, che illustrerà anche la mozione Nicchi ed altri n. 1-01170, di cui è cofirmatario.

  ARTURO SCOTTO. Grazie signora Presidente. Io avverto una certa stanchezza rispetto a una discussione che ci trasciniamo da molto tempo, da molti anni e che precipita, mi consenta, senza nessuna volontà polemica, all'indomani di un dibattito molto forte, molto acuto, che ha visto anche manifestazioni contrapposte e che ancora oggi al Senato vede una partita molto delicata che si sta giocando rispetto a quelle che la legge, il cosiddetto ddl Cirinnà, definisce formazioni specifiche.
  Si tratta di manifestazioni che hanno visto gli attivisti per i diritti civili protagonisti, ma che hanno visto, per reazione, anche una grande manifestazione, a cui ovviamente noi abbiamo sempre guardato con rispetto, denominata Family Day. Ora, mi lasci dire una cosa: quella manifestazione nasceva per reazione rispetto a un disegno di legge che finalmente consentirà alle unioni omosessuali di avere una gamma di diritti come in tutti i Paesi europei. Mi fa un po’ specie che si convochino tante persone in piazza non per porre al centro il tema della condizione familiare, quello che, ad esempio, ho ascoltato e in parte mi trova d'accordo, nelle parole dell'onorevole Binetti, ma esclusivamente il tema che qualcun altro non deve avere la possibilità di farsi una famiglia.
  Invece, siamo un Paese in cui, paradossalmente, da anni tutti i partiti inseriscono dentro i propri programmi elettorali il tema della centralità della famiglia, ma poi – i dati sono impietosi – vediamo che quelle politiche non hanno alcuno sbocco. Siamo dentro una lunga scia di misure di austerità che hanno piegato l'economia del nostro Paese e hanno ridimensionato – e di molto – i livelli di assistenza e i livelli di welfare. Dentro questo quadro di ripiegamento, inevitabilmente anche le famiglie sono state colpite, hanno subìto colpi pesantissimi, non sono le famiglie che già ci sono, ma anche quelle che si dovrebbero costruire.
  Lo Svimez ogni anno ci consegna un quadro abbastanza impietoso di cosa è il Mezzogiorno d'Italia, ma un dato che è passato troppo poco, sotto traccia e che, invece, per certi aspetti, è una sorta di cambio di epoca è quello secondo cui nel 2014, per la prima volta nella storia dall'Unità d'Italia in poi, ci sono meno figli che nascono rispetto a quante persone muoiono: una sorta di turning point, d'inversione demografica. Questo è legato a molteplici fattori. Io non so se ha ragione la collega Binetti quando parla di malattia dello spirito, tendo a vederla in maniera completamente diversa, ma io credo che le ragioni fondamentali siano dentro la crisi economica, dentro la crescita del livello di disuguaglianze, dentro una precarietà che diventa sempre più tendenza inevitabile, diventa una sorta di Pag. 30precarietà della vita e che riguarda tutti e attraversa quasi tutti i ceti sociali. Ci troviamo di fronte a un'emigrazione di massa, che dal sud va verso i vari nord del Paese e dell'Europa, e ci sono tanti ragazzi che non tornano più: anche questo contribuisce all'emergere di un calo demografico. Purtroppo, ci troviamo di fronte a misure che tendenzialmente sono non soltanto insufficienti, ma non all'altezza della crisi, che cambia tutto e produce sempre di più un allargamento sistematico delle diseguaglianze tra una quota sempre più ristretta di persone che hanno tutto e una massa molto ampia di donne e di uomini che, da una condizione di ceto medio, scivolano sempre di più dentro una dimensione di povertà. Ce lo dicono i dati del Censis e dell'ISTAT e ce lo dice la fotografia dell'Italia che incontriamo tutti i giorni nelle strade di questo Paese.
  Ecco io penso che occorrerebbe una svolta; questa svolta non c’è. Penso che, se dovessimo portare alle estreme conseguenze il ragionamento che abbiamo iniziato oggi pomeriggio e che terminerà con il voto sulle mozioni, dovremmo dire che questo Governo è nella scia dei Governi precedenti. Lo dico in termini molto chiari anche all'onorevole Binetti. Lei pensa giustamente che non ci sono investimenti sufficienti rispetto alle esigenze che emergono nella lotta alla povertà e nei piani per lo sviluppo dei servizi socioeducativi. Nella legge finanziaria dello scorso anno ci sono quattro spiccioli. Matteo Renzi era arrivato a Palazzo Chigi dicendo: «Farò mille asili nido in mille giorni». Siamo non lontani, di più rispetto a questo appuntamento. Eppure, sappiamo che la Strategia di Lisbona ci consegnava, entro il 2010, l'impegno, l'obbligo di andare verso la costruzione di 1.700 asili nido e, anche in quel caso, sappiamo quale sia il livello di diseguaglianza tra il nord del Paese e il sud del Paese: in Lombardia arriviamo a cifre europee; in una regione come la Campania soltanto al 2 per cento. Insomma, ci troviamo di fronte a una carenza strutturale.
  Noi proponiamo alcune misure, alcune, secondo, noi sono facilmente sostenibili da tutta l'Aula e da tutte le forze politiche. Primo: emanare opportuni interventi legislativi volti a prevedere per il padre lavoratore dipendente la possibilità e l'obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo pari a venti giorni lavorativi, anche continuativi, entro i trenta giorni successivi alla nascita del figlio, dietro la corresponsione di un'indennità pari al 100 per cento della retribuzione, al fine di sostenere la genitorialità, promuovendo una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all'interno di una coppia. Questa sarebbe una misura utile, giusta ed equa, che andrebbe in qualche modo incentivata maggiormente.
  Secondo: estendere, in via sperimentale, le disposizioni del decreto legislativo n. 80 del 2015 in materia di permessi e di congedi anche ai dipendenti del settore pubblico, per attuare un'universalizzazione totale delle tutele per la genitorialità. Ancora: Sostenere politiche attive ed efficaci per il tempo di lavoro e di cura delle relazioni; favorire, in un Paese dove la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è la più bassa d'Europa, una partecipazione maggiore, misure specifiche, soprattutto per chi ha redditi bassi e discontinui.
  Inoltre: politiche sociali di sostegno a maternità e paternità, anche attraverso lo stanziamento di risorse finanziarie per la messa in sicurezza e l'incremento di quelle strutture socioeducative per l'infanzia che latitano nel nostro Paese. Ancora: incrementare il Fondo per l'infanzia e per l'adolescenza e il Fondo per le politiche sociali; scegliere la strada di una misura universale sul reddito, che non è prevista neanche nei «decreti delegati Poletti», perché anche quelle misure sulla povertà, come sappiamo, sono largamente insufficienti. Non vorrei che dietro questa operazione ci fosse quella che il presidente Damiano ha denunciato riguardo alle pensioni di reversibilità. Mi auguro che questo Parlamento metta mano a un errore clamoroso che il Governo ha fatto prendendosi la delega.Pag. 31
  Infine: misure vere sull'edilizia residenziale pubblica e programmi di recupero e manutenzione di immobili di edilizia residenziale; interventi, come dicevo prima, che mettono al centro il welfare e lo Stato sociale.
  Queste sono le cose che noi proponiamo, sono le misure che potrebbero dare a questo Paese una dimensione di uguaglianza maggiore e di svolta. Mi lasci terminare con un riferimento – ho iniziato così – rispetto al dibattito che sta attraversando il Paese in questi giorni e anche il Parlamento. Io ho molto rispetto delle posizioni che stanno venendo avanti, ho molto rispetto delle posizioni di chi, come il Nuovo Centrodestra o aree anche del Partito Democratico, sono ferocemente contrarie a un provvedimento di legge sulle unioni civili all'altezza dell'Europa – all'altezza, non come l'Europa, perché l'Europa va in un'altra direzione – ma il progetto di legge Cirinnà rappresentava un accordo, un compromesso avanzato, quello più avanzato possibile in questo Parlamento e in questa legislatura. Io penso che non bisogna muoversi di lì: lo stralcio previsto sulla stepchild adoption rappresenterebbe una mutilazione di un progetto di legge che va visto nella sua interezza e sarebbe anche un cedimento. Si dice che i numeri non ci sono. Vede, signora Presidente, io non ho mai apprezzato l'atteggiamento tenuto dal Presidente del Consiglio e da questo Esecutivo nei confronti del Parlamento in passaggi molto difficili: vorrei ricordare che abbiamo affrontato una misura come il Jobs Act con il contingentamento dei tempi e con gli emendamenti segnalati; vorrei ricordare che abbiamo cambiato un terzo della Costituzione con la «seduta fiume» e con forzature su forzature sui Regolamenti; vorrei ricordare che abbiamo cambiato la legge elettorale attraverso il ricorso alla fiducia e senza mediazioni con le opposizioni. Ecco, per quanto io pensi che il «renzismo» è incompatibile con il parlamentarismo, penso anche che il fatto che al Presidente del Consiglio tremi la mano quando si parla dei diritti delle persone, ma non gli tremi la mano quando si tratta di toglierli – per esempio l'articolo 18 – è un fatto molto grave. Mi auguro che non ci sia lo stralcio, mi auguro che si vada a parlamentarizzare la discussione, si affronti anche l'ostruzionismo fatto dalla destra e da parti del Partito Democratico e si provi a portare la legge a casa. Non si può, lo dico al MoVimento 5 Stelle, fare partite a poker sulla testa delle persone e non si possono prediligere accordi di Governo al ribasso rispetto a un testo avanzato che è l'unico testo possibile in questo Parlamento. Questo è l'appello che faccio, perché quando parliamo di famiglia e di politiche per la famiglia parliamo anche di questo.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Palese, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-01171. Ne ha facoltà.

  ROCCO PALESE. Signora Presidente, penso che questo dibattito sia estremamente opportuno e utile, anche a seguito delle tante discussioni che vedono impegnato l'altro ramo del Parlamento su norme che sostanzialmente riguardano e impattano su quelli che sono o dovrebbero essere gli indicatori di base su cui costruire delle norme e delle decisioni che riguardano l'intera società, l'intero Paese e che non riguardano solo l'aspetto dei diritti, ma riguardano anche la situazione che si è venuta a creare e su cui c’è il sacrosanto dovere intervenire.
  Questo perché gli indicatori demografici, le quattordici pagine che l'ISTAT ha reso note come report sulle stime per l'anno 2015, sono estremamente allarmanti e sono quantomeno importanti quanto se non più delle norme che sono già in discussione nell'altra Camera e che la vedono impegnata con le legittime aspirazioni e le legittime posizione di ognuno, sebbene i temi di fondo non vengano affrontati. Infatti, signora Presidente, il 19 febbraio 2016 l'ISTAT ha reso noto il report degli indicatori demografici relativi alle stime per l'anno 2015. Lo studio purtroppo ha confermato Pag. 32la tendenza del nostro Paese al decremento demografico. Dai dati pubblicati emerge una forte diminuzione del tasso di natalità, che è il vero problema, drammatico problema, purtroppo, non del solo nostro Paese ma dell'Europa. Nel 2015 le nascite sono state stimate in 488 mila unità, ben 15 mila in meno rispetto all'anno precedente. Si tocca pertanto un nuovo record di minimo storico dall'Unità d'Italia, dopo quello del 2014 che era di 503 mila. Poiché i morti sono stati 653 mila, ne deriva una dinamica naturale della popolazione negativa per 165 mila unità. Il ricambio generazionale, peraltro, non solo non viene più garantito da nove anni ma continua a peggiorare: da meno 7 mila unità nel 2007 a meno 25 mila nel 2010, fino a 96 mila nel 2014. Al di là delle ragioni di fondo che stanno ostacolando dopo il 2010 una significativa ripresa della natalità nel Paese, è opportuno ricordare che il recente calo delle nascite è in parte riconducibile alla trasformazione strutturale della popolazione femminile in età feconda (15-49 anni): le donne in questa fascia di età sono oggi meno numerose e mediamente più anziane. Il tasso di natalità scende dall'8,3 per mille nel 2014 all'8 per mille nel 2015, a fronte di una riduzione uniformemente distribuita sul territorio nazionale. Non si riscontrano incrementi di natalità in alcune regioni del Paese, soltanto Molise, Campania e Calabria mantengono il tasso medio medesimo del 2014. In assoluto, con un tasso pari al 9,7 per mille, il Trentino-Alto Adige si conferma l'area a più intensa natalità del Paese, davanti alla Campania con l'8,7 per mille. Le regioni a più bassa natalità sono la Liguria, con 6,5, e la Sardegna. Oltre alla più bassa natalità, alla Liguria compete anche il più alto tasso di mortalità, 14,4, e quindi anche il tasso di incremento naturale più sfavorevole, meno 7,9 per mille, a fronte di una media nazionale pari a meno 2,7 per mille. La provincia di Bolzano, invece, rappresenta l'unica realtà del territorio nazionale nella quale la natalità si mantiene ancora superiore alla mortalità. Nel contesto di un'immigrazione sempre crescente nel nostro Paese, risulta sempre più complicato discernere i comportamenti demografici dei cittadini di origine straniera da quelli degli italiani, in particolar modo per quel che riguarda la natalità. Le cifre sulla composizione delle nascite per cittadinanza della madre italiana o straniera mostrano che si va riducendo anche il contributo delle cittadine straniere alla natalità. I nati da madre straniera infatti scendono a 93 mila, ossia oltre 5 mila in meno rispetto al 2014. Quelli da madre italiana scendono a 394 mila, riducendosi di oltre 9 mila. Per il quinto anno consecutivo nel 2015 si registra una riduzione del numero medio di figli per donna, sceso a 1,35. Alla bassa propensione di fecondità continua ad accompagnarsi la scelta di rinviare sempre più in là il momento di avere figli. L'età media delle madri al parto infatti sale ulteriormente, portandosi a 31,6 contro i 31,5 anni del 2014. In particolare, si evidenzia che negli ultimi cinque anni il protrarsi degli effetti sociali della crisi economica ha innescato una diminuzione della fecondità di periodo, poiché le difficoltà soprattutto lavorative ed abitative oggi incontrate dalle giovani coppie rallentano la progettualità genitoriale. Tale difficoltà, a cui si accompagna un generale senso di precarietà in molti strati della società, stanno agendo verso un'accentuazione della posticipazione delle nascite e quando ciò avviene il numero medio dei figli per donna tende ad abbassarsi. Da anni si assiste ad analisi e proposte tra le più disparate riguardanti la crisi economica e sociale del nostro Paese sottovalutando il tema demografico, ahimè, tema sottovalutato anche a livello europeo. È acclarato che l'invecchiamento della popolazione rappresenta un freno alla crescita, sia dal lato del calo della produttività che da quello dell'aumento della spesa pubblica, che diventa sempre più incomprimibile. La crescita percentuale di anziani e pensionati, infatti, è destinata a pesare come un macigno sul bilancio pubblico e noi, invece di affrontare serenamente la Pag. 33questione, magari unitamente anche a tutti i vari temi che sono in discussione nell'altro ramo del Parlamento, di tutto ciò non discutiamo, cioè non ci poniamo neanche il problema, come se non esistesse il problema del calo demografico, come se non esistesse sostanzialmente un grave problema che compromette già il presente e, ahimè, ancora di più il futuro.
   Alla luce di questi trend sociali, appare sempre più sconcertante la disinformazione e il ritardo culturale nel sottovalutare l'importanza dei temi valoriali legati alla famiglia e alla natalità. Rispetto a questi fenomeni profondi e di lunga durata è di primaria importanza il ruolo del Governo. In quest'ultimo periodo sono stati adottati pochi e modesti provvedimenti che vanno nella giusta direzione. Fa ancora fatica a prendere corpo un'azione politica e legislativa ad ampio raggio per l'aggiornamento dell'intero welfare verso la famiglia, per una incisiva iniziativa per la trasformazione dell'organizzazione del lavoro in direzione della conciliazione tra lavoro e famiglia. È indispensabile adottare nel breve periodo un insieme di misure di sostegno economico alla famiglia ed alla natalità. Il rifinanziamento per il 2016 del «bonus bebé», le disposizioni riguardanti il riconoscimento del congedo parentale anche ai neopapà, l'istituzione della «carta della famiglia» sono importanti, ma del tutto insufficienti ad affrontare la gravissima difficoltà economica di una larga parte della popolazione, che di fatto non consente alle famiglie e alle coppie di avere figli. Le famiglie e i giovani che sono nell'età di dare vita a una nuova famiglia attendono un segnale, una risposta credibile del Governo alle sempre crescenti difficoltà economica e non solo, risposte che sono attese da chi intraprende la strada della formazione di una famiglia e della genitorialità. Pertanto, per questo motivo noi riteniamo che il Governo debba veramente, signora Presidente, fare uno scatto, una mossa seria per valutare l'opportunità, compatibilmente anche con gli obiettivi di finanza pubblica – si fanno tante spese e tanti sprechi e, per carità, si sono visti anche ultimamente i dati della Ministra Madia, in ordine alle consulenze esterne della pubblica amministrazione che continuano ad essere in aumento incredibile, con grandi costi che sono veramente una vergogna – di adottare misure in cui la parte del reddito necessaria a mantenere i figli non deve essere tassata, riconoscendo una no tax area che copre il reddito di sussistenza della famiglia; a valutare l'opportunità, compatibilmente con il raggiungimento sempre degli obiettivi di finanza pubblica, di una deduzione, ai fini dell'IRPEF, per le spese sostenute per le rette degli asili nido; a valutare l'opportunità, compatibilmente sempre con il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, di misure agevolative per la casa e per l'affitto a favore delle giovani coppie; a valutare l'opportunità, sempre compatibilmente con il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, di adottare misure agevolative di sostegno per le mamme lavoratrici e a valutare l'opportunità, sempre compatibilmente con gli obiettivi di finanza pubblica, di prevedere un contributo economico in favore della prima infanzia, dal settimo mese di gravidanza fino al compimento del terzo anno di età, per le famiglie che versano in particolare disagio economico.
   Non mi addentro rispetto alla copertura finanziaria di questi provvedimenti e di queste misure che ho elencato e che sono queste, sebbene ve ne possano essere altre che riguardano l'asilo nido e tante altre cose, libri scolastici, vacanze e tutto quello che può essere legato all'implementazione di una crescita forte, di propensione verso la natività e verso un indice positivo di demografia rispetto alla copertura finanziaria. Tuttavia basterebbe prendere una a caso delle proposte che ha fatto Cottarelli; prendetene una a caso. Il Governo, signora Presidente, ne prenda una a caso e troverà sicuramente capienza per poter coprire finanziariamente quanto noi sollecitiamo con questa nostra mozione.

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  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Roberto Occhiuto, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-01173. Ne ha facoltà.

  ROBERTO OCCHIUTO. Grazie, signora Presidente. Intanto, una premessa stimolatami dall'intervento del collega Scotto: io credo vada salutato con favore il fatto che quest'Aula, oggi, e anche nei prossimi giorni, quando sarà chiamata a esprimersi attraverso il voto, discuta dei documenti che hanno ad oggetto le questioni che rilevano per la famiglia, le politiche familiari – in sostanza, i diritti delle famiglie – mentre sui giornali nazionali, sulle televisioni, nell'altro ramo del Parlamento si discute – e giustamente – dei diritti di quanti insomma stipulano delle unioni civili.
  Qui non si tratta di esprimere dei giudizi di valore sulla discussione che nell'altro ramo del Parlamento si sta svolgendo, e anche con toni accesi e con grande passione, qui si tratta però di discutere, dando cittadinanza all'altra piazza, a quella che si è riunita qualche settimana fa per affermare i diritti delle famiglie, che non sono in contrapposizione con altri tipi di diritti, ma che non possono essere considerati alla stessa stregua o dimenticati.
   Il rischio che non dobbiamo correre è quello di concentrare tutta la nostra attenzione, l'attenzione della politica, l'attenzione degli osservatori, l'attenzione dei giornalisti, sulla sacrosanta necessità di rendere il nostro Paese più civile, riconoscendo diritti a quanti i diritti non hanno, ma dimenticandosi poi che ci sono diritti stabiliti dalla Costituzione che spesso nei fatti, nella pratica politica quotidiana, non vengono in alcun modo valorizzati.
  Il rischio che non dobbiamo correre è che, mentre si parla – e giustamente – dei diritti civili, si spengano i riflettori sulla famiglia. Allora, se il Parlamento si propone oggi, attraverso la Camera dei deputati, di accendere i riflettori sulla famiglia, sulle politiche per la famiglia, su quello che occorrerebbe fare per dare maggior sostegno a questo che è il pilastro della società, io credo che quest'occasione vada salutata con grande favore, perché è evidente che la famiglia rappresenta un grande capitale sociale, anzi la cellula sulla quale si fonda la società, che in tempo di crisi costituisce l'unico sostegno in un mondo che ormai è senza reti. Proprio per questo, la famiglia deve essere tutelata, proprio per questo, la nostra Costituzione, all'articolo 29, individua la famiglia come società naturale e all'articolo 31 stabilisce che la Repubblica agevola, con misure economiche e altre provvidenze, la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. È un dettato della nostra Costituzione, che però nella pratica politica e nella pratica dei Governi degli ultimi anni è rimasto assolutamente inascoltato. E negli ultimi vent'anni, non solo evidentemente per responsabilità dei Governi, ma perché si è profondamente mutato il nostro assetto sociale, c’è stato un progressivo indebolimento della famiglia e della funzione che la famiglia svolge, una funzione preziosa perché spesso la famiglia è in termini sussidiari un importante luogo dove si erogano prestazioni sociali che lo Stato altrimenti non riuscirebbe ad erogare.
   Molti, prima di me, hanno citato i dati dell'Istat, che fotografano il quadro di difficoltà nel quale vivono le nostre famiglie e gli studi che hanno confermato la tendenza del nostro Paese al decremento demografico, non solo quelli del 2015, ma anche quelli di qualche giorno fa, più recenti: quelli del 2015 fanno emergere una forte flessione del tasso di natalità, l'anagrafe infatti ha registrato quasi 12.000 nuovi nati in meno nel 2014 rispetto al 2013 e all'incirca 74.000 nati in meno nel 2014 rispetto al 2008. Ma questa tendenza è confermata, purtroppo, anche nei report più recenti: il 19 febbraio l'ISTAT ha evidenziato – altri colleghi prima di me lo ricordavano – che l'Italia ha la percentuale più bassa di natalità in Europa. Si tratta di un saldo Pag. 35negativo tra nati e deceduti di circa 165 mila unità. In Italia le nascite sono state 488 mila, quindi 15 mila in meno rispetto al 2014 (questo nel 2015).
  Gli effetti di un così basso tasso di natalità sono economicamente e socialmente preoccupanti. Lo sanno bene quanti studiano le dinamiche dell'economia. Paesi che nella prospettiva futura possono guardare con maggiore serenità a quello che sarà sono quelli che non hanno problemi così gravi di decremento demografico. Ma gli effetti sono evidenti anche in ordine a ciò che una situazione del genere determina sul piano della spesa, per esempio in welfare e in sanità derivanti da andamenti demografici che conducono ad un invecchiamento della popolazione. Quindi, sono aspetti che sono assai strategici e che meriterebbero maggiore attenzione da parte della politica.
  Altri prima di me hanno evidenziato che a causa della scarsa attenzione per le famiglie e per le donne c’è anche nel nostro Paese una tendenza a maternità che si sviluppano più avanti negli anni. Le mamme ultraquarantenni sono infatti aumentate del 100 per cento; l'età media alla nascita del primo figlio, che spesso rimane l'unico, oggi è di 30,8 anni, quasi 31 anni, mentre sono diminuite del 18 per cento quelle minorenni. Solo l'11 per cento dei nati ha una madre con un'età inferiore ai 25 anni, mentre oltre il 24 per cento ha una madre di 35 anni e più. È un quadro che dovrebbe preoccuparci e che dovrebbe indurre a chiedere da tutte le parti – io mi auguro che ci sia grande convergenza su queste mozioni e grande sensibilità da parte del Governo – più investimenti in un Paese, come l'Italia, dove la spesa pubblica per i servizi alla famiglia, comprensiva dei trasferimenti in denaro, della spesa per forniture di servizi e di agevolazioni fiscali, è l'1,3 per cento del PIL (soltanto l'1,3 per cento del PIL per le famiglie !). In Francia è di circa il 3 per cento del PIL; nell'Unione europea solo Spagna e Grecia spendono meno dell'Italia.
  Analizzando le componenti di questa spesa, l'Italia si occupa di destinare solo lo 0,15 per cento del PIL a interventi diretti alla primissima infanzia. Di conseguenza, solo il 12,7 per cento dei bambini da zero a tre anni frequenta un asilo nido, con un'estrema diversità nella distribuzione degli asili nido nel nostro Paese, perché le differenze tra regioni sono estremamente ampie: si passa dal 24 per cento dell'Emilia-Romagna a valori che si avvicinano soltanto al 2 per cento in Campania oppure in Calabria.
  In Italia, dunque, la spesa per la famiglia è la voce del welfare meno generosa, sia se confrontata con la spesa delle altre componenti del welfare, sia rispetto al resto d'Europa. In Europa, però, ci sono degli esempi virtuosi, come quello della Francia, che in pochi anni è riuscita a invertire il trend demografico avverso, dando vita ad un sistema organico nel quale le famiglie con più di un figlio ricevono sostanziosi contributi e quelle con reddito più basso possono beneficiare di altre forme di sostegno, come contributi per l'alloggio, per i libri scolastici e addirittura per le vacanze.
  Nel corso dell'esame parlamentare della legge di stabilità noi abbiamo proposto, abbiamo provato a proporre delle iniziative che andassero nella direzione di aumentare la spesa e gli investimenti per le famiglie, perché le risorse destinate alle famiglie dovrebbero essere considerate come investimenti per la società. Eppure, c’è stata da parte del Governo una chiusura quasi totale: pochissime sono state le risorse investite in legge di stabilità sulla famiglia. Noi, per esempio, avevamo proposto che si introducesse, pure parzialmente, il quoziente familiare. Mi rendo conto che non è semplice, perché coprire il quoziente familiare è difficile, in quanto necessiterebbe di 15 miliardi circa all'anno. Però, si può cominciare a farlo e credo che, al di là degli interventi spot che spesso si fanno semplicemente per dimostrare, magari attraverso le pagine dei giornali, che c’è un recupero di coscienza sulla necessità di investire sulla famiglia, il tema del quoziente Pag. 36familiare sia il vero tema da approfondire per dimostrare realmente che si vuole investire sulla famiglia.
  Nella nostra mozione noi chiediamo di prevedere misure rivolte in modo specifico alle giovani coppie, per sostenere le necessità legate all'acquisto e all'affitto della casa, stabilendo interventi in materia di servizi socio-educativi per l'infanzia; chiediamo che si intraprendano opportune iniziative al fine di prevedere specifiche agevolazioni fiscali per le famiglie che siano da impulso per la formazione di nuovi nuclei familiari e per la genitorialità rivedendo, al contempo, al rialzo l'importo degli assegni familiari per i nuclei più numerosi; ma in ultimo, e non da ultimo, chiediamo al Governo di dirci se intenda, come intenda e quando intenda muoversi nella direzione dell'introduzione del quoziente familiare, che considera appunto il nucleo familiare e non il singolo contribuente come soggetto passivo dell'IRPEF, con conseguenti ed evidenti benefici per le famiglie più numerose.
  Noi vorremmo che l'occasione di questa discussione potesse servire per dimostrare non solo che non si vogliono spegnere i riflettori sulla famiglia, mentre si discute nell'altro ramo del Parlamento, legittimamente e opportunamente, delle unioni civili, ma vorremmo che questa discussione potesse essere, una volta tanto, una discussione vera e non la solita discussione che si fa su mozioni dove spesso si chiedono degli interventi di massima sui quali poi il Governo esprime, anche in maniera magnanima, la sua condivisione e poi non ci sono, però, atti conseguenti. Noi vorremmo che quando il Governo darà i pareri su queste mozioni e quando l'Aula sarà chiamata a votarle ci potesse essere, da parte del Governo, anche una parola di chiarezza in ordine alle risorse che vuole impegnare per investire sulla famiglia e soprattutto in ordine alla sua volontà, se questa volontà c’è, di considerare il quoziente familiare come la strada maestra per rendere questo investimento un investimento concreto e reale.

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Margherita Miotto, che illustrerà la mozione Sbrollini ed altri n. 1-01174, di cui è cofirmataria.

  ANNA MARGHERITA MIOTTO. Grazie, Presidente. La discussione avviata oggi prende le mosse da una mozione che ha messo al centro dell'attenzione il tema della denatalità. È questo il focus della nostra discussione; quindi, evitiamo di perdere questa occasione magari per parlare di ciò di cui si sta occupando l'altro ramo del Parlamento, che sono questioni assolutamente importanti che nessuno vuole sottovalutare, ma non creiamo un'operazione di distrazione (di distrazione !).
  Gli indicatori demografici prodotti dall'ISTAT qualche giorno fa ci consegnano una nuova preoccupazione che non sopporta sottovalutazioni o l'individuazione di facili scorciatoie: la popolazione residente si riduce di 139 mila unità. Come afferma l'ISTAT, si tratta di un cambiamento rilevante nel contesto storico di un paese che, dal 1952 in avanti, aveva sempre visto aumentare la popolazione. Si tratta di una diminuzione uniforme sul territorio, salvo Lombardia e Trentino Alto Adige. Nel 2015 i morti sono stati 653.000, le nascite 488.000, 15 mila in meno del 2014. Si tocca un nuovo record negativo, è il minimo storico, come altri colleghi hanno ricordato, dall'Unità d'Italia; è dal 2010 che si registra un costante e continuo calo della natalità, che si accompagna ad una trasformazione strutturale della popolazione femminile in età feconda. Come ci ricorda l'Istat, le donne nella fascia d'età 15-49 anni sono meno numerose del passato, mediamente più anziane, perché stanno diminuendo le donne nate negli anni Sessanta-Settanta, rimpiazzate da generazioni più ridotte nate negli anni Ottanta-Novanta. L'andamento anche qui è uniforme sul territorio, in nessuna regione si riscontrano incrementi di natalità.
  Se nel recente passato il saldo demografico negativo in parte era compensato Pag. 37dagli immigrati che presentavano tassi di natalità più elevati di quelli italiani, ora non è più così, le cifre nella composizione delle nascite ci dicono che si va riducendo il contributo delle cittadine straniere alla natalità. Infatti, come Istat ci dice, scendono a 93.000, ossia 5.000 in meno rispetto al 2014; per le madri italiane si riduce di 9.000 unità. Il fenomeno perciò va seriamente indagato; è il quinto anno consecutivo in cui si registra una riduzione del numero medio dei figli per donna, che scende a 1,35, un dato lontanissimo dal 2,4 necessario per garantire il ricambio generazionale, accompagnato anche alla scelta di rinviare il momento di avere figli, salita dagli anni 31,3 del 2010 a 31,6 del 2015. Del resto, fra gli effetti sociali della crisi va annoverata la difficoltà a progettare il futuro per i giovani e ciò comporta il posticipo delle nascite e, quando avviene, il numero medio dei figli tende ad abbassarsi. Anche per questo dato ci troviamo di fronte a un Paese che manifesta comportamenti riproduttivi omogenei.
  Allora il crollo delle nascite ci interpella, se a metà degli anni Sessanta nasceva un milione di bambini ed ora non superiamo la metà, significa che stiamo viaggiando con il freno a mano tirato, rischiamo che questa tendenza si consolidi, provocando grandi incertezze per il futuro non solo dei sistemi di welfare, ma anche per la spinta all'innovazione e alla competitività per un Paese fra i più vecchi dell'eurozona. Nella descrizione del problema, tuttavia, è contenuta anche una parte della risoluzione dello stesso, che può intervenire se davvero riusciamo a cambiare rotta, perché se nascono meno figli non significa che non siano desiderati, al contrario tutte le indagini ci dicono che le giovani coppie idealmente pensano a due o più figli, il che significa che non sono incoraggiate in queste scelte dal contesto economico e sociale in cui vivono, ed è per questo che viene chiamata in causa un'opzione forte per la politica, chiamata ad incidere sulle scelte di governo in modo più efficace di quanto finora sia avvenuto.
  Ricordo come siano trascorsi quasi dieci anni dalla Conferenza nazionale della famiglia, che nel 2007 pose le basi politiche per adeguare l'agenda politica e di governo, non solo alle necessità di ammodernare il sistema di welfare per corrispondere ai cambiamenti in atto, ma anche per affrontare i mutamenti culturali, l'emergere della pluralizzazione delle forme familiari, le sfide educative fino alla grande questione dell'effettiva parità da conquistare per il lavoro e nel lavoro. Su tutto ciò dobbiamo interrogarci per cambiare verso alle politiche per la famiglia. Le risultanze di quell'assise avviarono il più grande piano nidi, con valenza triennale, che abbiamo conosciuto; venne avviato un piano nazionale per la famiglia, ma come sappiamo l'avvento della grande crisi nel 2008 ha cambiato profondamente le politiche europee nazionali ed erroneamente, secondo me, sono state sacrificate le politiche di welfare nella illusione di poter recuperare competitività ai vari sistemi Paese.
  Le politiche di austerity non hanno invece ottenuto i risultati sperati e anzi hanno prodotto impoverimento diffuso e non hanno avuto l'effetto anticiclico tanto auspicato. Più recentemente, in modo contraddittorio con il Governo Monti, ma in modo più deciso col Governo Letta e soprattutto con il Governo Renzi, è stata invertita la rotta. Sono stati ripristinati e talora aumentati i fondi che intervengono nell'area socio assistenziale, perché riteniamo che questi non siano costi, ma siano investimenti, ma ora è arrivato il tempo anche sul versante degli interventi assistenziali di varare i LEPS o i LIVEAS, come meglio preferiamo, e abbiamo iniziato in queste settimane con gli obiettivi di servizio per il «Dopo di noi» rivolto alle persone con disabilità gravi. Fissare un LEPS per gli asili nido, ad esempio, costituirebbe veramente una necessaria innovazione, anche attraverso gli obiettivi di servizio, perché dobbiamo necessariamente fare i conti con gli equilibri di finanza pubblica da osservare con rigore, ma il contrasto alle cause della crisi demografica chiaramente va ricondotto, Pag. 38non solo ad interventi di welfare, occorre affrontare il tema del creare famiglia cioè consentire ai giovani maggiore autonomia dalla famiglia di origine, trovare un lavoro con continuità di reddito e poter conciliare il lavoro con il progetto di avere uno, due o più figli. Numero di figli e partecipazione delle donne al lavoro non possono più entrare in conflitto, come bene si comprende aiutano il Paese ad uscire dalla crisi anche demografica.
  Ecco il nodo centrale: il lavoro. I mutamenti del mercato del lavoro ci fanno capire come sia necessario innovare nelle politiche di conciliazione lavoro-famiglia, un'opportunità anche per le aziende e per il miglioramento delle performances aziendali; aziende che non possono privarsi delle capacità che solo le donne possono esprimere.
  Sgravi fiscali, congedi parentali da rivedere, nuovi ammortizzatori sociali, sono alcune delle misure che andrebbero prese in considerazione e che abbiamo proposto con la mozione che il Partito Democratico ha depositato. Siamo convinte che non siano sufficienti i trasferimenti monetari, evitiamo di percorrere strade inefficaci, avviamoci invece con coraggio ad esplorare strade nuove. L'invecchiamento della popolazione e la condizione della famiglia più esile del passato, pone problemi inediti per l'assistenza agli anziani e alla non autosufficienza, addossata spesso alla donna, costretta ad abbandonare il lavoro e a rinunciare ad avere figli. Sarebbe indispensabile perciò riconoscere il lavoro di cura, compresa la crescita dei figli, riprendendo una proposta che non solo il PD ha fatto, ma anche studiosi valentissimi, ne cito una per tutti, la professoressa Del Boca, che la avanzò ormai parecchi anni fa, tesa a riconoscere un credito di imposta alla donna che lavora e che svolge il lavoro di cura, un credito di imposta per le spese sostenute nel lavoro di cura. È una misura che farebbe emergere il sommerso e incentiverebbe il lavoro femminile. So bene l'obiezione, bisogna innanzitutto creare lavoro e questo non si produce per decreto, ma sappiamo che questo è l'obiettivo principale del Governo, l'impegno totalizzante della maggioranza che lo sostiene e perciò, con fiducia, guardiamo ai segnali di crescita che appaiono all'orizzonte, convinti che si possa lasciare alle spalle la tremenda crisi esplosa nel 2008.
  Gli studiosi che commentano gli andamenti demografici ci dicono che questi sono fortemente influenzati dalla crisi, ma non solo. La crisi economica, certo, ha avuto un ruolo prevalente nella caduta della natalità, ma la crisi ha prodotto la caduta della fiducia nelle persone e ha frenato la realizzazione dei progetti di vita, altrimenti non si spiegherebbe la circostanza che negli anni Sessanta, con 10 milioni in meno di residenti, nascevano più del doppio dei bimbi che nascono ora. E allora si impone un'inversione di marcia, anche con rinnovate politiche fiscali, per far comprendere che un figlio non è un costo da evitare, ma una risorsa indispensabile di cui il Paese ha bisogno per restituire alla società l'innovazione, la creatività e la produttività, elementi essenziali per alimentare crescita e sviluppo.
  Con un'attenzione: non tutte le misure vanno nella stessa direzione. Mi riferisco, per esempio, a quest'ultimo accenno che è stato fatto al quoziente familiare. Se ci riferiamo al quoziente familiare come classicamente in genere ci si riferisce, all'esigenza di cumulare i redditi e dividerli per il numero dei componenti familiari, attenzione che si ottiene esattamente il risultato opposto, cioè un incentivo a far rientrare le donne in casa, ad abbandonare il lavoro, per adempiere semplicemente al lavoro di cura dei propri figli. Come abbiamo visto, è una strada già percorsa e va nella direzione opposta a quella che auspichiamo. Più lavoro per le donne consentirà di aumentare la natalità, non il contrario (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

  PRESIDENTE. Avverto che è stata testé presentata la mozione Rondini ed altri n. 1-01175, che, vertendo su materia analoga Pag. 39a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno, verrà svolta congiuntamente (vedi l'allegato A- Mozioni). Il relativo testo è in distribuzione.
  È iscritto a parlare il deputato Rondini, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-01175. Ne ha facoltà.

  MARCO RONDINI. Grazie Presidente. Un Paese dove nascono sempre meno bambini, dove la popolazione inesorabilmente invecchia, mentre molti connazionali se possono abbandonano la propria terra, è un Paese destinato al declino. E, purtroppo, la recente immagine fotografata dall'ISTAT conforta questa triste previsione. Nel 2015 sono nati 488 mila bambini, ossia 15 mila in meno rispetto al 2014 che aveva visto 503 mila nascite. Al saldo negativo va poi aggiunto un altro fenomeno registrato dall'ISTAT, ossia quello che riguarda oltre 100 mila italiani che hanno deciso di emigrare all'estero stanchi dell'Italia e della mancanza di prospettive. Difficile non riconoscere valore, alla luce di questi dati, alle parole di chi ci dice che la statistica batte un tempo inesorabile. Siamo sempre più vecchi e facciamo meno figli. È come se avessimo stretto un patto con l'estinzione. Non vogliamo rassegnarci come soluzione a quella indicata, a quella prospettata dai cantori dell'idilliaca società multietnica, che auspicano, e governando agevolano, un'invasione di popolamento che impone la sostituzione delle popolazioni autoctone con gli immigrati per risolvere il calo demografico. Soluzione utopica, che rischia di consegnare la nostra esperienza storica ad un tramonto traumatico.
  Fra le cause del calo demografico possiamo sicuramente annoverare le teorie neomalthusiane, ossia quelle teorie che indicavano nella crescita demografica il peggiore dei mali e che hanno condizionato pesantemente le istituzioni internazionali e politiche dei Governi occidentali, con risultati che sono all'origine della crisi economica e che si sono rivelati devastanti per l'economia e per lo sviluppo di questi Paesi, quelli che l'hanno adottate. Con il verificarsi del crollo delle nascite, il PIL mondiale è cominciato a decrescere, i costi fissi ad aumentare. La mancanza di giovani e la crescita percentuale di anziani e pensionati hanno fatto lievitare le spese sanitarie e quelle dei sistemi pensionistici. Per sopperire alla mancata crescita demografica le economie avanzate hanno aumentato le tasse e incrementato i costi, praticando politiche di credito facile a basso interesse e indebitando le famiglie in maniera vertiginosa. La riduzione del risparmio e la crescita del debito delle famiglie sono più o meno simili in tutti i Paesi avanzati che hanno adottato quelle politiche di decrescita demografica. Il progresso della società moderna è stato viziato dalla rinuncia, secondo noi, a quei riferimenti valoriali che rappresentavano le fondamenta di una comunità capace di comprendere l'importanza della tutela dei propri figli quale bene primario, seminando il dubbio del significato stesso della verità e del bene e, in ultima analisi, della bontà della vita. È necessario, secondo noi, affrontare in maniera sistematica la prima e più importante esigenza che è quella della famiglia, quella di esistere. L'obiettivo principale deve essere quello di incentivare la natalità attraverso una serie di strumenti che intervengano nella fascia di età più delicata del bambino; delicata in termini educativi e di richieste di attenzioni e di cure, nonché per la maggiore difficoltà nella conciliazione delle esigenze familiari con quelle lavorative.
  In Italia, la Costituzione ha operato una scelta assai chiara tra la famiglia fondata sul matrimonio, espressamente riconosciuta dagli articoli 29 e seguenti della Costituzione stessa, e altre forme di rapporto fra le persone. Tuttavia, nel nostro Paese il numero dei matrimoni risulta essere in forte diminuzione. Ci si sposa meno, ma anche più tardi. I giovani rimangono ormai per un tempo sempre maggiore a casa dei genitori e le cause sono molteplici e, infatti, non sempre si tratta di una scelta. È il fenomeno della cosiddetta posticipazione. Tutto il ciclo di vita individuale si è infatti progressivamente Pag. 40spostato in avanti, con la conseguenza di aver determinato un inevitabile allungamento dei tempi che cadenzano gli eventi decisivi della vita del singolo: si lascia più tardi la famiglia di origine, ci si sposa più tardi, si hanno figli più tardi. L'età media di chi mette al mondo il primo figlio è aumentata di circa tre anni in un ventennio e si attesta ormai sui 30 anni nelle ultime generazioni. Il nobile desiderio di voler contribuire al bene comune in piena autonomia ed indipendenza, sposandosi e mettendo al mondo dei figli, si infrange dinanzi a problematiche di difficilissima soluzione. Si deve prendere esempio dalle politiche messe in atto in questi anni in altri Paesi europei, tra tutti la Francia, che in pochi anni è riuscita a invertire il trend demografico negativo grazie a interventi mirati a considerare la famiglia parte integrante dello Stato e al centro di una politica di sicurezza sociale. È doveroso garantire il diritto di ogni persona a formare una famiglia o a essere inserita in una comunità familiare; sostenere il diritto delle famiglie al libero svolgimento delle loro funzioni sociali; riconoscere l'altissima rilevanza sociale e personale della maternità e della paternità; sostenere in modo più adeguato la corresponsabilità dei genitori negli impegni di cura e di educazione dei figli; promuovere e valorizzare la famiglia come struttura sociale primaria di fondamentale interesse pubblico.
  Gli italiani, se interrogati sul numero ideale dei figli, la pensano come i francesi, gli svedesi e i tedeschi, ma quando poi si passa dai desideri alla realtà la condizione italiana precipita rispetto a quella di gran parte dell'Europa. I motivi sono noti e di facile individuazione: la situazione economica, l'esistenza o meno di adeguati servizi sociali, i tempi della vita familiare e di quella professionale, la qualità del sistema educativo e la disponibilità di alloggi adeguati ai livelli di reddito delle giovani generazioni. Investire nelle politiche familiari significa, pertanto, investire sulla qualità della struttura sociale e, di conseguenza, sul futuro stesso della nostra società. È necessario conferire piena attuazione all'articolo 31 della Costituzione, il quale sancisce che la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze economiche la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi. Ma non possiamo non sottolineare il carattere negativo di alcune iniziative adottate anche da questo Governo quando si affronta il problema di misure di sostegno economico alle famiglie con interventi mirati. Si è agito in modo assistenzialistico e non con una politica programmata di contrasto alla denatalità. Ad esempio, la misura per il sostegno economico per le famiglie, introdotta nella legge di stabilità del 2015, nella sua struttura e formulazione, è viziata da un approccio errato al problema, estendendo la misura, oltre che a tutti i cittadini italiani e comunitari, anche a tutti i cittadini extracomunitari. In tal modo, la misura introdotta si depotenzia rispetto ai suoi reali obiettivi e si trasforma in una disposizione di natura meramente assistenzialista. Una misura finalizzata alla crescita demografica deve essere limitata ai cittadini italiani e comunitari e agli stranieri extracomunitari che abbiano, però, perlomeno dimostrato di voler, attraverso un processo di integrazione, progettare come scelta di vita la permanenza nel territorio del nostro Paese. Ogni efficace politica di sostegno alla famiglia non può tuttavia prescindere da strumenti fiscali mirati e graduali. In Italia, il sistema fiscale sembra ancora ritenere che la capacità contributiva delle famiglie non sia influenzata dalla presenza di figli e dall'eventuale scelta di uno dei due coniugi di dedicare parte del proprio tempo a curare, crescere ed educare i figli, mentre di norma in Europa, a parità di reddito, la differenza tra chi ha e chi non ha figli a carico è consistente. Basti pensare che la differenza d'imposta diretta su un reddito nominale di 30 mila euro per una famiglia con due figli e una coppia senza figlia è di circa 3.500 euro in Francia, di circa 6 mila euro in Germania e di appena 1.300 euro Pag. 41nel nostro Paese. Considerata l'esigenza di una maggiore equità orizzontale, appare a noi evidente che l'introduzione di un nuovo sistema fiscale che indichi nella famiglia e non più nell'individuo l'unità impositiva dell'imposta sul reddito delle persone fisiche segnerebbe una sostanziale inversione di rotta per il sistema fiscale italiano. Le formule, da questo punto di vista, possono essere diverse. L'imposizione a livello familiare può essere realizzata con diverse metodologie. Il metodo che si deciderà di adottare poco conta se la volontà sarà quella di sostenere economicamente la famiglia, dando finalmente piena attuazione al disposto costituzionale.
  Promuovere politiche a favore della famiglia sicuramente vuol dire anche affrontare la questione degli asili nido in maniera sistematica, cioè ancor di più il problema della carenza su tutto il territorio nazionale dei servizi socioeducativi. Oggi l'offerta pubblica è di gran lunga inferiore alla domanda e in alcune città il rapporto è di un posto disponibile ogni dieci richieste. È una realtà complessa e disomogenea, ancora molto lontana dal centrare gli obiettivi europei. Gli asili nido comunali rientrano nella gamma dei servizi a domanda individuale resi dal comune a seguito di specifica domanda dell'utente. Nel caso degli asili nido, il livello minimo di copertura richiesta all'utente è del 50 per cento, ma le rette variano sensibilmente da comune a comune, poiché la misura percentuale di copertura dei costi di tutti i servizi a domanda individuale da parte dell'utenza viene definita al momento dall'approvazione del bilancio di previsione comunale. Le rette sono determinate, nel 75 per cento dei casi, in base all'ISEE, nel 20 per cento dei casi, in base al reddito familiare e, nel restante 5 per cento, la retta è unica.
  Si ritiene, dunque, necessario un intervento che, nel breve periodo, possa offrire una risposta rapida alle richieste di posti nelle strutture socioeducative. Per far questo è importante agire con formule nuove, cercando di coniugare l'iniziativa pubblica e quella privata, applicando sistemi di collegamento rapido tra le istituzioni, nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale e orizzontale.
  Presso la Camera dei deputati è stata presentata una nostra proposta di legge che mira a introdurre nuove norme in materia di gratuità dei servizi socioeducativi per l'infanzia. L'ambizioso obiettivo che si vuole realizzare punta a introdurre un sistema territoriale gratuito di servizi socioeducativi per la prima infanzia. Tutto ciò è realizzabile concependo l'idea di un sistema articolato dei servizi socioeducativi per la prima infanzia. Al sistema dovrebbero concorrere sia il pubblico che il privato, il privato sociale e i datori di lavoro, con l'obiettivo di creare sul territorio un'offerta flessibile e differenziata di qualità. Un particolare rilievo deve assumere, per noi, la centralità della famiglia anche attraverso le sue formazioni associative, poiché sempre più ampio devono essere il suo protagonismo, la capacità di espressione della sua libertà di scelte educative e le forme di partecipazione che può mettere in atto anche nelle scelte gestionali e nella verifica della qualità dei servizi. Per la gestione dei servizi del sistema educativo integrato, la regione e gli enti locali devono riconoscere e valorizzare, fra l'altro, il ruolo delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale, richiedendo loro una collaborazione alla programmazione e alla gestione dei servizi socioeducativi nel relativo ambito territoriale.
  Si ricorda, inoltre, che il gruppo parlamentare della Lega Nord ha presentato un'altra proposta di legge, sempre finalizzata a potenziare il sistema territoriale dei servizi socioeducativi. Questa proposta, a differenza della prima, non va a delineare il quadro entro il quale far sì che il nostro Paese si doti di nuovi strumenti finalizzati a ridisegnare l'offerta dei nidi, ma intende realizzare in tempi rapidi mille nuovi asili nido, senza una spesa eccessiva per l'Erario pubblico. Questa per noi rimane una priorità: sviluppare la formazione di un sistema integrato di servizi che riesca e che possa Pag. 42offrire sostegno al lavoro di cura dei genitori, in modo da favorirne la conciliazione tra gli impegni familiari e lavorativi, facilitando e sostenendo l'accesso delle donne nel mercato del lavoro, in un quadro di pari opportunità e condivisione dei compiti.
  Nelle premesse fin qui citate si ritrovano anche, poi, quelli che sono gli impegni concreti che si rinvengono in calce alla nostra mozione. Però noi, infine, riteniamo che vi sia un'altra questione che oggi si sarebbe dovuta affrontare anche attraverso queste mozioni. Immaginare politiche di sostegno alla famiglia vuol dire anche pensare ad un'urgente e non più procrastinabile riforma dei consultori familiari, che dimostri nei fatti una particolare attenzione e sensibilità ai diritti dei minori e della famiglia, fortemente impegnata nella tutela sociale della genitorialità e del concepito.
  Di qui l'intendimento di garantire il ruolo partecipativo delle famiglie e delle organizzazioni di volontariato a difesa della vita per l'espletamento delle attività consultoriali. Bisogna tornare a ciò che già era ben esplicitato nelle intenzioni del legislatore che nel 1975 aveva approvato la legge n. 405, ovvero l'assistenza alla famiglia, l'educazione alla maternità e alla paternità responsabile, l'educazione per l'armonico sviluppo fisico e psichico dei figli e per la realizzazione della vita familiare. Ciò, nei fatti, è stato residualmente attuato, complice anche la talora mera funzione burocratica dei consultori, ridotti, per noi troppo spesso, a pura assistenza sanitaria, carenti di quelle necessarie sensibilità e competenza su problematiche sociali per le quali furono istituiti.
  Nei consultori familiari non sempre viene pienamente attuato il diritto della donna di ricevere valide alternative all'aborto, poiché c’è chi sostiene che sarebbe un'ingerenza nella scelta personale. Eppure, proprio secondo quanto stabilito dagli articoli 2 e 5 della legge n. 194 del 1978, l'assistenza da dare alla donna in gravidanza deve essere attuata con l'informazione sui diritti spettanti alla gestante, sui servizi sociali, sanitari e assistenziali a lei riservati, sulla protezione che il mondo del lavoro deve assicurare a tutela della gestante.
  Purtroppo si è promossa, nei fatti, una legislazione che considera l'aborto un diritto della donna e non eventualmente una triste necessità da valutare caso per caso. Negli anni l'attuazione della legge sull'interruzione volontaria di gravidanza ha rappresentato l'esempio lampante della illusione basata sulla proporzione «maggiore è il diritto di scelta, maggiore è la libertà». Ma una donna – ci chiediamo noi, anzi siamo consapevoli – non è veramente libera di scegliere se le istituzioni non operano per promuovere quelle condizioni che vincolano la sua scelta. Allora, politiche a sostegno della famiglia devono sostenere e garantire la procreazione e rimuovere quei vincoli sociali ed economici che spesso hanno inciso sulla scelta drammatica di interrompere la gravidanza.
  Una società che non investe sulla maternità, sulla genitorialità è senza futuro. Forse oggi, anche alla luce dei dati ISTAT sulla denatalità, anticamera del crollo demografico, varrebbe la pena di rivedere l'applicazione della legge n. 194, cercando di promuovere quella cultura la vita che è il presupposto dal quale non può prescindere una reale politica a favore della famiglia e della natalità. Io questa volontà la ritrovo, ad esempio, senza retorica e senza avere neanche la presunzione di insegnare niente a nessuno nel citarla, nelle parole di Oriana Fallaci. Ci diceva: «L'amo con passione la vita. Mi spiego: sono troppo convinta che la vita sia bella anche quando è brutta, che nascere sia il miracolo dei miracoli, vivere il regalo dei regali, anche se si tratta di un regalo molto complicato, molto faticoso, a volte doloroso».

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Tiziana Ciprini. Ne ha facoltà.

  TIZIANA CIPRINI. Grazie, Presidente. In Italia una donna su cinque non fa più figli. In Italia la bassa soglia di sostituzione Pag. 43nella popolazione non consente di fornire un ricambio generazionale. Il valore di 1,37 figli per donna colloca il nostro Paese tra gli Stati europei con i più bassi livelli. Questo determina un progressivo invecchiamento della popolazione. Nel 2050 la popolazione inattiva sarà in misura pari all'84 per cento di quella attiva vista. L'ISTAT ha stimato circa 74 mila bambini nati in meno rispetto al 2008. Le previsioni demografiche che si ricavano da tali andamenti stimano, nel 2050, una quota di ultrasessantenni pari al 22 per cento della popolazione mondiale, circa due miliardi di persone, e pari al 37 per cento della popolazione europea.
  La dinamica della denatalità, che caratterizza il nostro Paese, mostra un andamento ancora più pronunciato nelle ultime generazioni, per le quali si assiste a una progressiva contrazione delle nascite e a uno spostamento della riproduzione in età sempre più tardiva. I giovani non mettono su famiglia perché non hanno un lavoro che garantisca loro una stabilità, sia economica che emotiva, oppure perché condannati, grazie anche al Jobs Act, a un precariato a vita.
  Il ritardo nell'entrare nel mondo del lavoro ha una conseguenza diretta anche in relazione allo spostare in avanti alcuni passaggi determinanti, quali il matrimonio e avere figli. Giovani sempre più rassegnati, condannati a consumare senza produrre, con un tasso di disoccupazione giovanile del 37,9 per cento. Anche l'età media del parto è giunta ormai a 32 anni. Particolarmente elevato è stato l'aumento delle over 40 al primo figlio, passate dall'1,5 per cento al 4 per cento, mentre le madri fino a 24 anni sono diminuite dal 13 all'11 per cento. L'analisi non può prescindere dal mettere in relazione la tematica dell'istruzione con il ritardo nei tempi della maternità e paternità. La crescita del livello di istruzione ha avuto come effetto sia il ritardo nella formazione dei nuclei familiari, sia un vero e proprio minore investimento psicologico nel rapporto di coppia per il raggiungimento dell'indipendenza economica e sociale. Occorre poi evidenziare che il sistema universitario italiano è connotato da un'eccessiva durata del percorso. Cosa fare dunque di fronte a una società che ha scortato le donne fuori di casa, aprendo loro le porte del mondo del lavoro, sospingendole però verso ruoli maschili che hanno comportato anche un allontanamento dal desiderio stesso di maternità ? La collettività, le istituzioni e il competitivo mondo del lavoro apprezzano infatti le competenze femminili ma pretendono comportamenti maschili. La trasformazione e l'emancipazione del ruolo della donna nella società non ha sostituito l'approccio tradizionale, piuttosto sembra sia andato a sovrapporsi con il risultato di far sussistere modelli contraddittori che impongono delle scelte. Le donne però si trovano all'angolo, in quello che viene definito in psicologia «doppio legame»; si tratta di una condizione entro la quale qualunque scelta fatta è una scelta sbagliata, la scelta della non maternità appare però quasi da giustificare con la precarietà del lavoro, la mancanza dei servizi per l'infanzia, la crisi economica, ma qualsiasi scelta fatta avrà come conseguenza un senso di incompiuto. La famiglia è quindi una cosa per ricchi, dove c’è famiglia c’è danaro, ma è innegabile che il capitalismo sfrenato stia distruggendo la famiglia. Il depotenziamento della famiglia va letto nella logica di sviluppo del capitale, il capitale aspira oggi più che mai a neutralizzare ogni comunità solidale ancora esistente, estranea al nesso mercantile, sostituendola con atomi di consumo isolati. La famiglia è per sua natura solidarietà sociale, legame gratuito di naturale welfare State, le pensioni dei nonni sono infatti il vero ammortizzatore sociale. Solo la famiglia attutisce la precarietà e i suoi effetti, assicurando garanzie, tutele e stabilità all'individuo lavorativamente precario e insieme ponendosi come luogo comunitario e solidale estraneo all'egoismo concorrenziale. Se la famiglia comporta per sua natura la stabilità affettiva e sentimentale, biologica e lavorativa, la sua distruzione risulta pienamente coerente con il processo oggi Pag. 44in atto di precarizzazione delle esistenze affinché l'individuo sradicato resti completamente solo e in balia delle leggi della competitività, mero consumatore sradicato senza identità, senza storia, senza radici e senza progetti. La distruzione neoliberista del welfare State si accompagna infatti all'aggressione ai danni della famiglia, che è la cellula fondante di ogni società. Nel mirino anche le pensioni di reversibilità, adesso infatti il vostro Governo parla di universalismo selettivo per contrastare la povertà, un ossimoro per togliere ai poveri, per dare ai più poveri e livellare tutta la popolazione nel gradino più basso. Agganciare le pensioni di reversibilità all'ISEE significa non basarsi sul reddito ma colpire gli immobili e i risparmi delle famiglie, possedere in famiglia case, terreni o qualche risparmio sarà considerato da voi una sfortuna, destra e sinistra però, equamente colpevoli nella distruzione della famiglia, infatti la politica sopraffatta dall'economia e dalla finanza è una favola costruita, un tacito accordo. In realtà è stata soprattutto la politica, attraverso le leggi che ha emanato nei Parlamenti europei, nel Congresso degli Stati Uniti, grazie a normative concepite dalle organizzazioni internazionali le cui azioni sono di fatto ispirate dai maggiori gruppi di pressione economica, a spalancare le porte del dominio delle corporation industriali e finanziarie, ovvero al capitalismo sfrenato.
  Quindi fa abbastanza ridere che la destra liberista intenda ora difendere gli antichi valori borghesi della famiglia con una mozioncina, perché fa finta di non capire che i valori della famiglia tradizionale sono ormai incompatibili con gli assetti economici del moderno capitalismo globalizzato, di cui la destra è paladina, che si concretano in privatizzazioni selvagge, competitività, distruzione del bene comune. La sinistra liberal chic e progressista invece vuole decostruire quei valori borghesi ma così facendo si pone come pienamente funzionale al capitale, diventando anzi il volto moderno, gradevole, democratico e politicamente corretto del capitalismo. La sinistra del costume contrappone alla famiglia come comunità il bisogno individuale, talvolta meramente egoistico, che assurge a diritto individualistico da perseguire a tutti i costi anche quando va a ledere profondamente il bene comune. Per la sinistra radical chic, ad esempio, chi si ostini a pensare l'ovvio, ovvero che vi siano naturalmente uomini e donne, che il genere umano esista nella sua unità tramite tale differenza e ancora che i figli abbiano secondo natura un padre e una madre, è immediatamente bollato con l'accusa di omofobia. Ecco così che il neoliberismo oggi dominante è un'aquila a doppia apertura alare: la destra del danaro detta le leggi strutturali e la sinistra del costume fornisce le sovrastrutture che la giustificano sul piano culturale. È una disgregazione, quella della famiglia, venuta da lontano e iniziata con l'evaporazione del padre. Un certo tipo di femminismo, quello egualitario anglo-americano, è stato l'utile idiota in questa evoluzione del capitalismo. Il femminismo egualitario sostiene che sarà possibile raggiungere una vera parità tra uomini e donne solo quando nulla sarà più in grado di distinguerli tra loro. Così un movimento che una volta promuoveva la solidarietà sociale ora celebra le donne imprenditrici, una prospettiva che una volta valorizzava la cura e l'interdipendenza ora incoraggia il successo individuale. Il femminismo che criticava il capitalismo organizzato di Stato è diventato ancella del nuovo capitalismo disorganizzato, globalista e neoliberista. La critica al paternalismo dello stato sociale è coincisa con l'abbandono da parte degli Stati di politiche redistributive orientate a combattere la povertà. Il nemico giurato di questo femminismo è il modello patriarcale della società, considerato discriminatorio e oppressivo, che indurrebbe gli stereotipi di genere mentre si assume invece come concetto puramente teorico che maschi e femmine avrebbero gusti, inclinazioni, passioni e predisposizioni identiche che solo la cultura patriarcale sessista non farebbe emergere: sono i gender studies. Far credere che comportamenti di uomini e donne sono differenti Pag. 45come risultato di un condizionamento patriarcale significa che essi possono cambiare con una differente educazione. Questa ipotesi mette sotto accusa un modello educativo che pone le bambole sulle braccia delle ragazzine e che incoraggia la competizione tra maschi sin dalla tenera età. Per indurre un cambiamento di questo modello era necessario pensare a una contro-educazione che li sottraesse sin dalla tenera età a così evidenti condizionamenti improntati a valori patriarcali. Da qui la differenza tra sesso e genere: il sesso – ovvero quello fisico – maschile e femminile e il genere, ovvero la dimensione culturale. Questa convinzione, che nega al sostrato biologico gli elementi innati, è una palese falsità scientifica e arriva a disconoscere l'evoluzione umana. Tale concezione è nata e si è sviluppata in particolare negli Stati Uniti ed è stata fatta propria dall'ONU, dall'UE e dalle relative ONG che la propagandano in ogni documento; legami con le grandi fondazioni statunitensi e con le multinazionali sono evidenti e documentati. Quindi condivido la tesi di Alessandra Nucci secondo la quale questo tipo di femminismo è stato elaborato a tavolino da un’élite intellettuale e non si propone affatto di favorire la volontà femminile, bensì di incanalarla per scopi non sempre corrispondenti all'interesse delle donne e qualche volta addirittura contrari, il tutto congruo con gli scopi dei poteri forti, economici, finanziari e politici, che puntano alla costruzione di individualità deboli e malleabili, senza più radici, utili all'instaurazione del nuovo ordine mondiale. Questa grande narrazione femminista ovvero del padre oppressore è l'unica ammessa, basta partecipare ai cocktail party della Boldrini per rendersi conto che quasi tutto è ridotto a mettere l'articolo determinativo femminile in tutte le cose, «la» ovunque, e a indignarsi solo per le battute sessiste dei colleghi maschi.
  Certo, il linguaggio è una struttura di potere – dice la Presidente Boldrini – infatti, è vero; sarà per questo che sono sparite dal linguaggio comune parole come «maternità» e «paternità», sostituite da quella di «genitorialità». La parola «genitore» significa colui che genera, ma nella nuova concezione genitore è colui che esercita una funzione, o colui che, desiderando un figlio, lo produce ricorrendo a un accordo commerciale, a una procedura di produzione tecnologica, come l'utero in affitto, ad esempio. Anche i corsi di preparazione al parto hanno cambiato denominazione, adesso si chiamano corsi di accompagnamento alla nascita e alla genitorialità; questa trasformazione semantica rimanda a una trasformazione dei ruoli all'interno della coppia e lungo tutto il percorso del ciclo di vita familiare. Ebbene, viviamo già in un'epoca post patriarcale ed emerge qualche consapevolezza, che la fine del patriarcato non significa, di per sé, una società migliore, anzi l'assenza di un ordine simbolico del padre, con l'educazione al limite individuale, porta all'indifferenziazione, tipica del rapporto simbiotico madre-bambino, orientato all'onnipotenza e alla soddisfazione illimitata del bisogno. Senza il padre, la donna è reggente e il bambino è re e il bisogno individuale, quindi egocentrico ed egoistico, in una società senza padri e senza patria, assurge spesso a rango di diritto. Così, la rivoluzione sessantottina e femminista sono diventate funzionali alla logica deemancipativa del capitale e si assiste oggi all'estensione dei mercati del pensiero orientati a valori del mercato negli aspetti della vita tradizionalmente governati da norme non di mercato. Le leggi del consumo, gli scambi contrattuali dietro corresponsione di danaro, oggi sostituiscono le relazioni che avvenivano con gratuità all'interno della famiglia (si pensi ai lavori di cura per i bambini e gli anziani, oggi svolti a pagamento da babysitter e badanti). Tutto, oggi, è mercificato, anche la vita: pensiamo all'esternalizzazione della gravidanza a madri surrogate, sia nei Paesi in via di sviluppo, ma anche nella super democratica America. È la mercificazione di ogni cosa, che sta aumentando le disuguaglianze. Il risultato è che, senza rendercene conto e senza aver mai deciso di farlo, siamo Pag. 46passati dall'avere un'economia di mercato all'essere una società di mercato. Ecco allora che il capitale mira ad eliminare la famiglia, così come altra comunità ancora esistente, sostituendola con atomi che si relazionano tra di loro secondo le leggi del consumo. E si tende a eliminare la visibilità del processo di produzione della merce: il consumatore resta totalmente indifferente al modo in cui si produce, pur di appropriarsi dell'oggetto desiderato. Non importa se l’iphone viene prodotto sfruttando i bambini; non importa se il bambino viene concepito sfruttando e depredando gli ovuli delle giovani ragazze; qualcuno, evidentemente economicamente benestante, adesso vuol farci credere che è normale comprarsi il figlio con l'utero in affitto pur di soddisfare il proprio egoistico desiderio, per poi portarlo qui, in Italia, aggirando il divieto, e la pratica viene nei fatti depenalizzata dalle sentenze, come sta accadendo in Francia.
  Ebbene, i sogni son desideri, ma non diritti: non esiste alcun diritto ad avere figli, ma esiste invece il diritto del figlio di conoscere le proprie origini biologiche. La sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, infatti, a proposito della questione del bilanciamento tra il diritto dell'adottato a conoscere le proprie origini e il diritto della madre che lo ha abbandonato a rimanere anonima, ha stabilito il principio per cui il bisogno di conoscenza delle proprie origini rappresenta uno degli aspetti della personalità che possono condizionare l'intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale. Paradossalmente, in questo mondo mercificato, dove il capitale la fa da padrone, la fecondazione assistita, che era nata come risposta terapeutica a condizioni di patologia specifiche e molto selezionate, sta assumendo il significato di un'alternativa fisiologica. Non bisogna tuttavia dimenticare che i costi economici e i motivi della fecondazione assistita sono elevati e gli effetti sulla salute sono sconosciuti. I soldi si sono presi anche la vita di coloro che devono ancora nascere, mercificandola ed il business dell'industria della fecondazione assistita, nella sola America, frutta 6 miliardi e mezzo di dollari l'anno.
  Così, negli iperdemocratici States, giovani donne sono state reclutate nei campus dei college con volantini pubblicitari, con scritto: «Sei alta ? Sei magra ? Sei attraente ? Hai il desiderio di aiutare qualcuno ? Dona i tuoi ovuli» ! Spot filantropici, che scimmiottano un falso altruismo, dietro pagamento di lauto compenso, che spesso serve alle ragazze per completare gli studi. È il business della stimolazione ovarica, senza informare dei rischi e dei gravissimi danni alla salute, come tumore, sterilità e morti.
   Ebbene, per chi vuole un figlio a tutti i costi, sbandierando un diritto che non esiste, la domanda è: «Lo fareste a rischio della vita di un'altra donna» ? Questa è la presunta eticità della gestazione per altri, inganno della semantica per nascondere pratiche abominevoli.
   Concludo, con una domanda che poneva Tiziano Terzani all'umanità e che adesso voglio rivolgere sia alla destra che alla sinistra: È possibile rimanere fuori da un sistema che cerca di fare di tutto il mondo un mercato, di tutti gli uomini dei consumatori, a cui vendere prima gli stessi desideri e poi gli stessi prodotti ? Fermiamoci perché questa direzione è folle.

  PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.
  Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire successivamente.
  Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Modifica nella composizione di gruppi parlamentari.

  PRESIDENTE. Comunico che, con lettera pervenuta in data odierna, la deputata Giovanna Martelli, già iscritta al gruppo parlamentare Misto, ha chiesto di aderire al gruppo parlamentare Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà.Pag. 47
   La presidenza di tale gruppo, con lettera pervenuta in pari data, ha comunicato di aver accolto la richiesta.

Per la risposta a strumenti del sindacato ispettivo (ore 18,38).

  FEDERICO D'INCÀ. Chiedo di parlare.

  PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

  FEDERICO D'INCÀ. Grazie, Presidente. Il mio intervento è solo per fare una richiesta di sollecito alle mie interrogazioni a risposta in Commissione, la 5-00522, la 5-00580, la 5-01517, la 5-03234, la 5-05260, la 5-05531.
   Poi, Presidente, come secondo sollecito, ho otto pagine di interrogazioni, alle quali gli uffici preposti non hanno mai dato risposta. Non credo di essere l'unico parlamentare che ha questo problema e quindi le chiedo se si può far carico di una richiesta, sia in sede di Ufficio di Presidenza, che nei luoghi adatti, per poter avere delle risposte, perché altrimenti diventa inutile lavorare sulle interrogazioni se poi a queste non viene data risposta in tempi umani, se così possiamo chiamarli, perché definirli «celeri» sarebbe forse chiedere troppo.

  PRESIDENTE. Grazie, onorevole D'Incà. Ho visto l'elenco delle interrogazioni che lei aveva in mano; lo consegni agli uffici, perché è molto lungo.

Ordine del giorno della seduta di domani.

  PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.

  Martedì 23 febbraio 2016, alle 10,30:

  1. – Svolgimento di interrogazioni.

  (ore 13)

  2. – Esame e votazione delle questioni pregiudiziali riferite al disegno di legge:
   Conversione in legge del decreto-legge 14 febbraio 2016, n. 18, recante misure urgenti concernenti la riforma delle banche di credito cooperativo, la garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze, il regime fiscale relativo alle procedure di crisi e la gestione collettiva del risparmio (C. 3606).

  3. – Seguito della discussione del testo unificato delle proposte di legge:
   BRESSA; FRACCARO ed altri; CIVATI ed altri; TINAGLI ed altri; DADONE ed altri; RIZZETTO ed altri; SCOTTO ed altri; RUBINATO e CASELLATO: Disposizioni in materia di conflitti di interessi (C. 275-1059-1832-1969-2339-2634-2652-3426-A/R).
  — Relatori: Francesco Sanna, per la maggioranza; Toninelli, Sisto e Costantino, di minoranza.

  4. – Seguito della discussione del testo unificato delle proposte di legge:
   COSCIA ed altri; PANNARALE ed altri: Istituzione del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione e deleghe al Governo per la ridefinizione della disciplina del sostegno pubblico per il settore dell'editoria, della disciplina di profili pensionistici dei giornalisti e della composizione e delle competenze del Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti (C. 3317-3345-A).
  — Relatori: Rampi, per la maggioranza; Brescia, di minoranza.

  5. – Seguito della discussione delle mozioni Lupi ed altri n. 1-01124, Sberna ed altri n. 1-01146, Nicchi ed altri n. 1-01170, Palese e Pisicchio n. 1-01171, Vezzali ed altri n. 1-01172, Occhiuto e Crimi n. 1-01173, Sbrollini ed altri n. 1-01174 e Rondini ed altri n. 1-01175 concernenti politiche a sostegno della famiglia.

  La seduta termina alle 18,40.