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Resoconto dell'Assemblea

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XVII LEGISLATURA

Allegato A

Seduta di Lunedì 9 dicembre 2013

COMUNICAZIONI

Missioni valevoli nella seduta del 9 dicembre 2013.

  Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Alfreider, Amici, Baldelli, Balduzzi, Baretta, Berretta, Dorina Bianchi, Bindi, Bocci, Boccia, Borletti Dell'Acqua, Brambilla, Bray, Brunetta, Bruno Bossio, Carrozza, Casero, Cicchitto, Cicu, Costa, D'Alia, D'Uva, De Girolamo, Dell'Aringa, Dellai, Di Battista, Di Gioia, Di Lello, Luigi Di Maio, Epifani, Faraone, Fassina, Fava, Ferranti, Fico, Gregorio Fontana, Fontanelli, Formisano, Franceschini, Galan, Garavini, Giachetti, Alberto Giorgetti, Giancarlo Giorgetti, Kyenge, La Russa, Legnini, Letta, Locatelli, Lombardi, Lorenzin, Lupi, Magorno, Mannino, Mattiello, Giorgia Meloni, Merlo, Meta, Migliore, Moretto, Naccarato, Orlando, Pes, Picierno, Gianluca Pini, Pisicchio, Pistelli, Ravetto, Realacci, Rigoni, Sani, Sarti, Schullian, Scopelliti, Sereni, Speranza, Tabacci, Tofalo, Valeria Valente, Vargiu, Vecchio, Villecco Calipari, Vitelli.

(Alla ripresa pomeridiana della seduta).

  Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Alfreider, Amici, Baldelli, Balduzzi, Baretta, Berretta, Dorina Bianchi, Bindi, Bocci, Boccia, Michele Bordo, Borletti Dell'Acqua, Brambilla, Bray, Brunetta, Bruno Bossio, Capezzone, Carrozza, Casero, Cicchitto, Cicu, Cirielli, Costa, D'Alia, D'Uva, Damiano, De Girolamo, Dell'Aringa, Dellai, Di Battista, Di Gioia, Di Lello, Luigi Di Maio, Epifani, Faraone, Fassina, Fava, Ferranti, Fico, Gregorio Fontana, Fontanelli, Formisano, Franceschini, Galan, Garavini, Giachetti, Alberto Giorgetti, Giancarlo Giorgetti, Gozi, Kyenge, La Russa, Legnini, Leone, Letta, Locatelli, Lombardi, Lorenzin, Lupi, Magorno, Mannino, Mattiello, Giorgia Meloni, Merlo, Meta, Migliore, Moretto, Naccarato, Orlando, Pes, Picierno, Gianluca Pini, Pisicchio, Pistelli, Ravetto, Realacci, Rigoni, Sani, Sarti, Schullian, Scopelliti, Sereni, Sisto, Speranza, Tabacci, Tofalo, Valeria Valente, Vargiu, Vecchio, Vitelli, Vito.

Annunzio di proposte di legge.

  In data 6 dicembre 2013 sono state presentate alla Presidenza le seguenti proposte di legge d'iniziativa dei deputati:
   GNECCHI ed altri: «Modifiche all'articolo 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, in materia di accesso delle lavoratrici alla pensione di vecchiaia, nonché concessione di contributi previdenziali figurativi per il riconoscimento dei lavori di cura familiare» (1881);
   DISTASO: «Disposizioni per la corresponsione di borse di studio ai medici specializzandi ammessi alle scuole di specializzazione negli anni dal 1983 al 1991» (1882).

  Saranno stampate e distribuite.

Assegnazione di progetti di legge a Commissioni in sede referente.

  A norma del comma 1 dell'articolo 72 del Regolamento, i seguenti progetti di legge sono assegnati, in sede referente, alle sottoindicate Commissioni permanenti:

   I Commissione (Affari costituzionali):
  CIVATI ed altri: «Norme in materia di prevenzione dei conflitti di interessi dei parlamentari e dei titolari di cariche di Governo» (1832) Parere delle Commissioni II (ex articolo 73, comma 1-bis, del Regolamento, per le disposizioni in materia di sanzioni), III, IV, V, VI, VIII, X e XI.

   IV Commissione (Difesa):
  SCANU: «Disposizioni perequative in materia di collocamento nella posizione di ausiliaria del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia cessato dal servizio a domanda e collocato in quiescenza nella posizione di riserva tra il 28 settembre 1996 e il 31 dicembre 1997» (1427) Parere delle Commissioni I, V e XI (ex articolo 73, comma 1-bis, del Regolamento, relativamente alle disposizioni in materia previdenziale).

   VI Commissione (Finanze):
   MOSCA: «Istituzione del Fondo dei fondi presso la Cassa depositi e prestiti Spa» (1410) Parere delle Commissioni I, V, X e XIV.

   VII Commissione (Cultura):
  PORTA ed altri: «Modifiche alla legge 22 aprile 1941, n. 633, in materia di riconoscimento del diritto d'autore relativamente alle opere a fumetti» (1192) Parere delle Commissioni I e XIV.

   XI Commissione (Lavoro):
  CAPARINI ed altri: «Modifiche alla legge 11 gennaio 1979, n. 12, recante norme per l'ordinamento della professione di consulente del lavoro» (1388) Parere delle Commissioni I, II, IV, V, VI, XIV e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.

   XII Commissione (Affari sociali):
  PAGANO e CALABRÒ: «Innalzamento dell'età di competenza dell'assistenza territoriale pediatrica fino al compimento del diciottesimo anno» (1074) Parere delle Commissioni I, III, V e della Commissione parlamentare per le questioni regionali;
  PAGANO e ROCCELLA: «Disposizioni per il contenimento della spesa sanitaria mediante la definizione di limiti di spesa relativi all'attività di prescrizione di farmaci ed esami clinici effettuata dai medici di medicina generale» (1075) Parere delle Commissioni I, V e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.

   XIII Commissione (Agricoltura):
  CATANOSO GENOESE: «Misure per il recupero e la salvaguardia dei limoneti caratteristici» (1399) Parere delle Commissioni I, II (ex articolo 73, comma 1-bis, del Regolamento, per le disposizioni in materia di sanzioni), V, VII, VIII, XIV e della Commissione parlamentare per le questioni regionali;
  CATANOSO GENOESE: «Disposizioni in favore delle aziende agricole danneggiate dal virus della tristezza degli agrumi (Citrus tristeza virus)» (1400) Parere delle Commissioni I, V, XI (ex articolo 73, comma 1-bis, del Regolamento, relativamente alle disposizioni in materia previdenziale), XII, XIV e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.

Trasmissioni dalla Corte dei conti.

  La Corte dei conti – Sezione del controllo sugli enti, con lettera in data 5 dicembre 2013, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 7 della legge 21 marzo 1958, n. 259, la determinazione e la relazione riferite al risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria dell'Ente nazionale di previdenza e assistenza veterinari (ENPAV), per gli esercizi 2011 e 2012. Alla determinazione sono allegati i documenti rimessi dall'ente ai sensi dell'articolo 4, primo comma, della citata legge n. 259 del 1958 (Doc. XV, n 89).
  Questi documenti sono trasmessi alla V Commissione (Bilancio) e alla XI Commissione (Lavoro).

  La Corte dei conti – Sezione del controllo sugli enti, con lettera in data 5 dicembre 2013, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 7 della legge 21 marzo 1958, n. 259, la determinazione e la relazione riferite al risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria del Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura (CRA), per l'esercizio 2011. Alla determinazione sono allegati i documenti rimessi dall'ente ai sensi dell'articolo 4, primo comma, della citata legge n. 259 del 1958 (Doc. XV, n 90).
  Questi documenti sono trasmessi alla V Commissione (Bilancio) e alla XIII Commissione (Agricoltura).

Trasmissioni dal Ministro per i rapporti con il Parlamento e il coordinamento dell'attività di Governo.

  Il Ministro per i rapporti con il Parlamento e il coordinamento dell'attività di Governo, con lettera in data 25 novembre 2013, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 59, comma 6, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, la relazione, predisposta dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, concernente l'esito delle verifiche degli effetti sul piano occupazionale degli interventi attuati a carico del Fondo a gestione bilaterale per la riorganizzazione e il risanamento della società Ferrovie dello Stato Spa, riferita all'anno 2012 (Doc. XXVII, n. 6).
  Questa relazione è trasmessa alla IX Commissione (Trasporti) e alla XI Commissione (Lavoro).

  Il Ministro per i rapporti con il Parlamento e il coordinamento dell'attività di Governo, con lettera in data 28 novembre 2013, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 12, comma 1, del decreto legislativo 25 febbraio 1999, n. 66, la relazione d'inchiesta concernente l'incidente occorso a un aeromobile all'aeroporto di Catania-Fontanarossa il 31 luglio 2012.

  Questa relazione è trasmessa alla IX Commissione (Trasporti).

Trasmissione dal Viceministro degli affari esteri.

  Il Viceministro degli affari esteri, con lettere in data 3 dicembre 2013, ha comunicato, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 6 febbraio 1992, n. 180, concernente la partecipazione dell'Italia alle iniziative di pace e umanitarie in sede internazionale, l'intenzione di concedere un contributo:
   all'International Peace Institute per la realizzazione di un evento sull'utilizzo delle nuove tecnologie nelle operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite;
   al Corpo della guardia di finanza – Scuola di polizia tributaria per la realizzazione di un corso di formazione per ufficiali di polizia di Paesi dell'America centrale.

  Queste comunicazioni sono trasmesse alla III Commissione (Affari esteri).

Trasmissioni dal Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri.

  Il Dipartimento per lo politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri, in data 4 e 5 dicembre 2013, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 6, commi 4 e 5, della legge 24 dicembre 2012, n. 234, le seguenti relazioni concernenti progetti di atti dell'Unione europea:
   relazione in merito alla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che adatta agli articoli 290 e 291 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea una serie di atti giuridici che prevedono il ricorso alla procedura di regolamentazione con controllo (COM(2013) 751 final), che è trasmessa alla XIV Commissione (Politiche dell'Unione europea);
   relazione in merito alla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica il regolamento (CE) n. 1166/2008 relativo alle indagini sulla struttura delle aziende agricole e all'indagine sui metodi di produzione agricola per quanto riguarda il quadro finanziario per il periodo 2014-2018 (COM(2013) 757 final), che è trasmessa alla XIII Commissione (Agricoltura) e alla XIV Commissione (Politiche dell'Unione europea);
   relazione in merito alla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica il regolamento (UE) n. 525/2013 per quanto riguarda l'attuazione tecnica del protocollo di Kyoto alla convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COM(2013) 769 final), che è trasmessa alla VIII Commissione (Ambiente) e alla XIV Commissione (Politiche dell'Unione europea).

Trasmissione di delibere dal Comitato interministeriale per la programmazione economica.

  La Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica, in data 3 dicembre 2013, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 6, comma 4, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, la delibera CIPE n. 58/2013 dell'8 agosto 2013, concernente «Attuazione dell'articolo 18, comma 3, del decreto-legge n. 69 del 2013: Asse viario Marche-Umbria e quadrilatero di penetrazione interna – Maxilotto 1».

  Questa delibera è trasmessa alla V Commissione (Bilancio) e alla VIII Commissione (Ambiente).

Annunzio di progetti di atti dell'Unione europea.

  La Commissione europea, in data 6 dicembre 2013, ha trasmesso, in attuazione del Protocollo sul ruolo dei Parlamenti allegato al Trattato sull'Unione europea, i seguenti progetti di atti dell'Unione stessa, nonché atti preordinati alla formulazione degli stessi, che sono assegnati, ai sensi dell'articolo 127 del Regolamento, alle sottoindicate Commissioni, con il parere della XIV Commissione (Politiche dell'Unione europea):
   Relazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo sull'applicazione del regolamento (CE) n. 1393/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla notificazione e alla comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale («notificazione o comunicazione degli atti») (COM(2013) 858 final), che è assegnata in sede primaria alla II Commissione (Giustizia);
   Relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo – Relazione sull'applicazione della direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (Rifusione) (COM(2013) 861 final), che è assegnata in sede primaria alla XI Commissione (Lavoro);
   Proposta di decisione del Consiglio relativa alla conclusione di un protocollo all'accordo di partenariato e di cooperazione tra le Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e la Repubblica dell'Azerbaigian, dall'altra, riguardante un accordo quadro tra l'Unione europea e la Repubblica dell'Azerbaigian sui princìpi generali della partecipazione della Repubblica dell'Azerbaigian ai programmi dell'Unione (COM(2013) 865 final) e relativo allegato (COM(2013) 865 – Annex 1), che sono assegnati in sede primaria alla III Commissione (Affari esteri);
   Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio sull'opportunità di istituire un regime di etichettatura relativo all'agricoltura locale e alla vendita diretta (COM(2013) 866 final) e relativo allegato (COM(2013) 866 – Annex 1), che sono assegnati in sede primaria alla XIII Commissione (Agricoltura);
   Proposta di decisione del Consiglio sull'adesione dell'Unione europea alla convenzione sul commercio internazionale delle specie di flora e di fauna selvatiche minacciate di estinzione (CITES) (COM(2013) 867 final) e relativi allegati (COM(2013) 867 – Annex 1 e COM(2013) 867 – Annex 2), che sono assegnati in sede primaria alla III Commissione (Affari esteri);
   Proposta di decisione del Consiglio relativa alla firma e all'applicazione provvisoria, a nome dell'Unione, di un protocollo all'accordo di partenariato e di cooperazione tra le Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e la Repubblica dell'Azerbaigian, dall'altra, riguardante un accordo quadro tra l'Unione europea e la Repubblica dell'Azerbaigian sui princìpi generali della partecipazione della Repubblica dell'Azerbaigian ai programmi dell'Unione (COM(2013) 868 final) e relativo allegato (COM(2013) 868 – Annex 1), che sono assegnati in sede primaria alla III Commissione (Affari esteri).

Trasmissione dalla Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali.

  La Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 13, comma 1, lettera n), della legge 12 giugno 1990, n. 146, copia delle delibere adottate dalla Commissione nel mese di novembre 2013.

  Questa documentazione è trasmessa alla XI Commissione (Lavoro).

Comunicazioni ai sensi dell'articolo 3, comma 44, della legge 24 dicembre 2007, n. 244.

  L'Azienda unità sanitaria locale Umbria 2, con lettere in data 25 novembre 2013, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 3, comma 44, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, comunicazioni concernenti atti comportanti spese per emolumenti o retribuzioni, con l'indicazione del nominativo dei destinatari e dell'importo dei relativi compensi.

  Queste comunicazioni sono trasmesse alla V Commissione (Bilancio).

Atti di controllo e di indirizzo.

  Gli atti di controllo e di indirizzo presentati sono pubblicati nell’Allegato B al resoconto della seduta odierna.

MOZIONI RONDINI ED ALTRI N. 1-00227, GALLINELLA ED ALTRI N. 1-00274, MONGIELLO ED ALTRI N. 1-00276, FRANCO BORDO ED ALTRI N. 1-00277, ZACCAGNINI E PISICCHIO N. 1-00278, FAENZI ED ALTRI N. 1-00279 E DORINA BIANCHI E BOSCO N. 1-00280 SULL'ETICHETTATURA DEI PRODOTTI AGROALIMENTARI

Mozioni

   La Camera,
   premesso che:
    in un momento di grave crisi in cui il nostro Paese è alla ricerca di azioni e risorse per il rilancio dell'economia e della crescita occupazionale, il made in Italy e, in particolare, quello agroalimentare, è universalmente riconosciuto come straordinaria leva competitiva «ad alto valore aggiunto» per lo sviluppo del Paese;
    l'etichettatura dei prodotti alimentari è un procedimento per cui i produttori dei cibi confezionati sono tenuti a riportare, integralmente, tutti gli ingredienti presenti nei loro preparati alimentari;
    la normativa sull'etichettatura dei prodotti alimentari nasce nel 1978 con la direttiva 79/112/CEE, recepita in Italia mediante il decreto legislativo n. 109 del 1992;
    la legislazione in materia, naturalmente, si è aggiornata nel corso del tempo, in particolare con il decreto legislativo n. 181 del 2003, che recepiva una norma europea che aveva, come obiettivo, quello dell'armonizzazione delle normative a livello europeo;
    la legge 3 febbraio 2011, n. 4, reca disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari e offre l'opportunità di anticipare l'applicazione della normativa comunitaria, introducendo l'obbligo di indicare l'esatta provenienza dell'origine degli alimenti nei settori delle carni suine, del latte e di tutti i prodotti trasformati a garanzia del corretto funzionamento del mercato e dell'adozione di scelte informate da parte dei consumatori;
    alla luce delle citate disposizioni, le finalità dell'etichettatura in sintesi sono quelle di non indurre in errore l'acquirente sulle caratteristiche del prodotto alimentare e precisamente sulla natura, sulla identità, sulla qualità, sulla composizione, sulla quantità, sulla conservazione, sull'origine o sulla provenienza, sul modo di fabbricazione o di ottenimento del prodotto stesso ovvero non attribuire al prodotto alimentare effetti o proprietà che non possiede;
    il 22 novembre 2011 è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell'Unione europea il regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, che introduce alcuni cambiamenti in merito alla fornitura di informazioni sugli alimenti;
    scopo del regolamento è garantire un elevato livello di protezione dei consumatori in materia di informazioni sugli alimenti;
    tra le principali novità previste dalla nuova normativa comunitaria, si può ricordare, tra le tante, che diventa obbligatorio indicare alcune informazioni nutrizionali fondamentali e di impatto sulla salute, quali: il valore energetico e la quantità di grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, zuccheri, proteine e sale. Tali indicazioni dovranno essere indicate sull'imballaggio in una tabella comprensibile, insieme e nel medesimo campo visivo;
    relativamente all'entrata in vigore, i soggetti preposti all'etichettatura dei prodotti alimentari possono usufruire di un periodo transitorio di tre anni per adeguarsi, con eccezione della novità riguardante l'indicazione dell'obbligatorietà della dichiarazione nutrizionale, la cui cogenza è prevista entro un periodo di cinque anni dall'entrata in vigore del regolamento;
    raccogliendo le sollecitazioni che hanno condotto all'approvazione del citato regolamento comunitario è stato da poco adottato nel Regno Unito un tipo di etichettatura per alimenti da supermercato che utilizza i colori del semaforo - verde, giallo e rosso - in una scala in cui il primo colore racconta che il prodotto contiene un ingrediente «sano» e l'ultimo un componente «pericoloso»;
    il sistema, che ora dovrà essere utilizzato ufficialmente da tutte le industrie e non solo in maniera discrezionale dai dettaglianti, è definito «ibrido» perché prevede un'informazione mista, composta da due parti: una tabella con le assunzioni di riferimento (ovvero in quale percentuale cento grammi di prodotto contribuiscono al raggiungimento del fabbisogno giornaliero raccomandato - meglio noto con la sigla gda, guideline daily amounts) e un'indicazione visiva «ad alto impatto» che si serve dei colori del semaforo per segnalare la presenza adeguata (verde) o in eccesso (rossa) di nutrienti critici per la salute, quali grassi, grassi saturi, sale/iodio e zuccheri;
    il colore associato viene scelto in base ai valori di riferimento indicati dalla sintetica tabella guida fornita nel 2007 dalla Food standard agency, l'agenzia responsabile della salubrità del cibo nel Regno Unito;
    il sistema britannico ha suscitato notevoli perplessità che si fondano sul fatto che non ci sono alimenti buoni o cattivi in assoluto, perché molto dipende dalle quantità e dalle combinazioni: in sintesi è il pasto nel suo complesso che classifica una dieta come equilibrata o squilibrata;
    i colori del semaforo prescindono dalle quantità delle porzioni, per cui una persona può paradossalmente consumare una quantità elevata di alimenti «verdi», assumendo calorie e nutrienti in quantità maggiore rispetto a porzioni più contenute di alimenti «gialli» o «rossi». Il sistema potrebbe risultare diseducativo rispetto all'attenzione verso una dieta equilibrata, dove è buona regola fare un bilancio tra energie assunte e consumate;
    il livello di informazione e consapevolezza del consumatore europeo ed italiano, in particolare, consentirà, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, di accogliere questa novità non come un pericolo ma come un'opportunità per il sistema agricolo ed agroalimentare italiano e lombardo, purché, considerato che l'obbligatorietà di questa procedura creerebbe un'eccessiva rigidità del sistema imponendo alle imprese ulteriori adempimenti, il sistema «semaforo» rimanga volontario e facoltativo;
    indubbiamente è importante che il consumatore sia informato del contenuto nutrizionale dei prodotti in vendita, ma questa informazione dovrà essere completata da quella sull'origine dei prodotti;
    il made in Italy agroalimentare si caratterizza per le sue eccellenze in termini di maggior valore aggiunto per ettaro in Europa, livello di sicurezza e sistema dei controlli alimentari, prodotti a denominazione e produzioni biologiche;
    la crescita costante dell’export testimonia l'indiscutibile ruolo dell'agroalimentare del nostro Paese e del valore attribuito al marchio made in Italy;
    l'agroalimentare made in Italy registra un fatturato nazionale superiore ai 266 miliardi di euro e rappresenta oltre il 17 per cento del prodotto interno lordo;
    invece che alla valorizzazione ed alla promozione del vero made in Italy, si assiste ad una vera e propria svendita dell'economia e dei territori italiani, che rischia di danneggiare irrimediabilmente il vero grande patrimonio del Paese;
    occorre prevenire e contrastare l'usurpazione del made in Italy, assicurando la qualità, la salubrità, le caratteristiche e l'origine dei prodotti alimentari, in quanto elementi funzionali a garantire la salute ed il benessere dei consumatori ed il diritto ad un'alimentazione sana, corretta e fondata su scelte di acquisto e di consumo consapevoli;
    le produzioni italiane caratterizzate dall'alta qualità costituiscono da sempre l'eccellenza del mercato agroalimentare e sono unanimemente inserite nei regimi alimentari corretti (dieta mediterranea);
    solo la tutela rigida dell'autenticità dell'indicazione di provenienza potrà consentire una scelta consapevole relativamente alle componenti di un regime alimentare equilibrato;
    pertanto, è fondamentale che il consumatore sia informato al fine di poter compiere scelte alimentari mirate e consapevoli che garantiscano uno stile di vita sano. Questa informazione dovrà essere completa: non solo il contenuto dei vari alimenti in termini di contenuto, ma anche la provenienza di questi alimenti;
    è sempre opportuno tener presente come la garanzia della provenienza dei vari prodotti tuteli la salute dei consumatori quanto, se non più, della consapevolezza sulla composizione degli stessi alimenti: è inutile conoscere il contenuto in grassi di un alimento se lo stesso è adulterato o sofisticato oppure se ne sono state falsificate le origini o le modalità di produzione;
    la commercializzazione di prodotti di imitazione, ovvero che evocano una origine ed una fattura italiana, ma senza possederne le caratteristiche, provocano un danno all'immagine del Paese, come espressione dell'identità culturale dei territori, con grave nocumento alle imprese a causa della concorrenza sleale derivante dalla sottrazione di spazi di mercato e dall'inganno a danno dei consumatori;
    molti controlli operati, soprattutto nel settore delle carni suine, hanno già evidenziato la violazione della disciplina in materia di presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari e condotte poste in essere in maniera ingannevole, fraudolenta e scorretta, allo specifico scopo di far intendere al consumatore che i prodotti acquistati sono di origine e di tradizione italiana;
    l'articolo 26, comma 2, lettera b), del regolamento (UE) n. 1169/2011, oltre che inserire come obbligatoria l'indicazione di alcune informazioni nutrizionali fondamentali, impone come obbligatoria l'indicazione del Paese di origine o del luogo di provenienza per una serie di prodotti, tra cui le carni di animali della specie suina, fresche, refrigerate o congelate, rinviando l'applicazione della norma a successivi atti di esecuzione da adottare entro il 13 dicembre 2013;
    l'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n.1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, nel disciplinare le relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli ed agroalimentari, vieta condotte commerciali sleali al fine di impedire che un contraente con maggiore forza commerciale possa abusarne, imponendo condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per la controparte più debole;
    in Italia, la produzione di carni suine è stimata in 1.299.000 tonnellate l'anno e sono oltre 26.200 gli allevamenti di suini ampiamente diffusi su tutto il territorio nazionale;
    in Italia, rispetto a 73,5 milioni di cosce suine consumate, 57,3 milioni sono di importazione, 24,5 milioni sono di produzione nazionale e 8,3 milioni vengono avviate all'esportazione;
    i dati relativi alle importazioni di cosce fresche riportano percentuali altissime riferite alla provenienza di prodotti da alcuni Stati dell'Unione europea;
    sulla base di dati elaborati dall'Associazione nazionale allevatori di suini (Anas) risulta che l'Italia, nel 2012, ha importato, solo dalla Germania, il 52 per cento di suini vivi e carni suine, per un totale di 535.309 tonnellate;
    da articoli apparsi sulla stampa europea è emerso che l'efficienza dell'industria della carne suina in Germania è basata su prodotti a basso costo, operai sottopagati, falde acquifere inquinate e tecniche di allevamento non sostenibili, con gravi ripercussioni sulla salute dei consumatori legate all'eccessivo impiego di antibiotici,

impegna il Governo:

   a promuovere tutte le iniziative più opportune al fine di prevenire le pratiche fraudolente o ingannevoli ai danni del made in Italy o, comunque, ogni altro tipo di operazione o attività commerciale in grado di indurre in errore i consumatori e, ancora, ad assicurare la più ampia trasparenza delle informazioni relative ai prodotti alimentari ed ai relativi processi produttivi e l'effettiva rintracciabilità degli alimenti;
   ad intervenire nelle sedi opportune affinché il tipo di etichettatura per alimenti da supermercato che utilizza i colori del semaforo utilizzato nel Regno Unito trovi diffusione solo come opzione volontaria e facoltativa e venga necessariamente abbinato agli strumenti per la tutela dell'origine degli alimenti, con particolare riferimento alla tutela del made in Italy;
   a chiedere, in sede europea, il rispetto del termine del 13 dicembre 2013, imposto dal regolamento (UE) n. 1169/2011, per l'attuazione dell'obbligo di indicazione del Paese d'origine o del luogo di provenienza, con particolare riferimento alle carne suine;
   ad emanare, nelle more dell'approvazione a livello comunitario dei suddetti provvedimenti di esecuzione, i decreti attuativi della legge n. 4 del 2011 per introdurre l'obbligo di etichettatura, in particolare delle carni suine, avviando, altresì, opportune campagne di informazione per gli organi di controllo e per i consumatori sulle normative in materia di etichettatura dei prodotti alimentari e di indicazioni di origine;
   a rendere noti e pubblici i riferimenti delle società eventualmente coinvolte in pratiche commerciali ingannevoli, fraudolente o scorrette finalizzate ad immettere sui mercati finti prodotti made in Italy ed i dati dei traffici illeciti accertati;
   a dare attuazione, con specifico riferimento al commercio delle carni suine, all'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, al fine di contrastare pratiche commerciali sleali poste in essere, ai danni degli allevatori, in contrasto con il principio della buona fede e della correttezza;
   ad adottare, anche per le carni suine, un sistema analogo a quello previsto dall'articolo 10 della legge 14 gennaio 2013, n. 9, che reca norme sulla qualità e sulla trasparenza della filiera degli oli di oliva vergini, al fine di rendere accessibili a tutti gli organi di controllo ed alle amministrazioni interessate le informazioni ed i dati sulle importazioni e sui relativi controlli, concernenti l'origine di tutti i prodotti alimentari, nonché ad assicurare l'accesso ai relativi documenti da parte dei consumatori, anche attraverso la creazione di collegamenti a sistemi informativi ed a banche dati elettroniche gestiti da altre autorità pubbliche.
(1-00227)
(Nuova formulazione) «Rondini, Giancarlo Giorgetti, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Grimoldi, Guidesi, Cristian Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera».


   La Camera,
   premesso che:
    il sistema agroalimentare italiano è un'eccellenza riconosciuta a livello mondiale e la tutela dei prodotti agroalimentari è condizione indispensabile non solo alla difesa delle nostre produzioni, ma anche alla conservazione e promozione delle identità dei territori e delle sapienti tecniche di produzione strettamente legate alle aree geografiche di provenienza;
    il contrasto alla contraffazione è uno degli elementi essenziali della strategia di difesa delle produzioni tipiche e passa necessariamente attraverso l'informazione ai consumatori, posto che l'agropirateria è uno degli aspetti maggiormente lesivi della competitività internazionale dei prodotti italiani di qualità e che circa tre prodotti su quattro sono venduti come made in Italy, pur essendo ottenuti da materia prima straniera;
    l'uso ingannevole di nomi, denominazioni, immagini e loghi, allo scopo di falsificare l'identità merceologica degli alimenti, è ormai un'emergenza in continuo aumento unitamente al dilagare di pratiche commerciali sleali nella presentazione degli alimenti, in particolare per quanto concerne la reale origine geografica degli ingredienti utilizzati;
    al fine di contenere tale fenomeno, assume un'importanza vitale la questione dell'etichettatura d'origine dei prodotti alimentari. L'indicazione in etichetta del luogo di origine o di provenienza delle materie prime utilizzate e dell'eventuale impiego di ingredienti in cui vi sia presenza di organismi geneticamente modificati è, infatti, l'unica informazione che garantisca sicurezza e trasparenza ai consumatori;
    la legge 3 febbraio 2011, n. 4, disponendo l'obbligo di riportare in etichetta l'indicazione del luogo di origine o di provenienza dei prodotti alimentari commercializzati, trasformati, parzialmente trasformati o non trasformati e prevedendo adeguate sanzioni in caso di violazione degli obblighi prescritti, è un riferimento normativo essenziale a limitare e contrastare i fenomeni di contraffazione e pirateria commerciale, ancorché la sua effettiva applicazione risulti al momento sospesa in attesa della emanazione dei decreti ministeriali di attuazione;
    sarebbe, inoltre, opportuno che i suddetti decreti disponessero, per talune tipologie di prodotti, modalità di inserimento volontario in etichetta di specifici sistemi di sicurezza realizzati mediante elementi di identificazione elettronica e telematica;
    particolarmente allarmante è, inoltre, il fenomeno della contraffazione on line, posto che la rete offre anonimato, costi bassi e possibilità di una veloce e facile scomparsa dal mercato; dati aggiornati evidenziano che il commercio on line nel settore alimentare risulta quello in maggior crescita, tanto che si stima, per il 2013, un balzo del 18 per cento;
    tale situazione genera ancor più preoccupazione alla luce delle nuove iniziative che potrebbero essere intraprese a breve dalla società americana Icann, ovvero l'autorità che genera il rilascio dei suffissi internet, che ha attivato le procedure per assegnare, dietro pagamento, a soggetti privati, indipendentemente se siano, ad esempio, viticoltori o utilizzatori riconosciuti delle denominazioni, domini di primo livello generico, tra i quali: «wine» e «vin», oltre a «food» e «organic»;
    i titolari dei suddetti domini potrebbero, infatti, attraverso l'abbinamento a domini di secondo livello, registrare indirizzi come «baroloclassico.wine» o anche «prosciuttodiparma.food» e sovrapporli agli indirizzi dei prodotti originali, generando totale confusione nelle piattaforme di commercio elettronico, con danni incalcolabili per il sistema di qualità agroalimentare italiano;
    è indispensabile assicurare che l'assegnazione di nomi generici, accordati in via esclusiva a privati e senza particolari garanzie, quali domini di primo livello, sia improntata al rispetto delle norme dell'Organizzazione mondiale del commercio, posto che il loro utilizzo, peraltro esclusivo, ha implicazioni commerciali, di relazioni tra Paesi e di immagine, con effetti devastanti in ambito commerciale internazionale e in grado di attivare infiniti e costosi contenziosi;
    il 19 giugno 2013 il Dipartimento della salute britannico ha annunciato l'introduzione di un nuovo sistema volontario di etichettatura nutrizionale basato sulla colorazione «semaforica» del packaging dei prodotti alimentari sulla base del contenuto di sale, zucchero, grassi e grassi saturi presente in 100 grammi di prodotto. Lo schema inglese si basa sulla schedatura degli alimenti: verde uguale cibo «buono», rosso uguale cibo «cattivo», mettendo a rischio i prodotti di qualità e non considerando il fatto che non esistono cibi «buoni» o «cattivi», ma solo regimi alimentari corretti o scorretti;
    l'etichettatura agroalimentare è regolamentata a livello europeo dal regolamento (UE) 1169/2011, attraverso il quale la Commissione europea ha razionalizzato e armonizzato la legislazione sulle informazioni al consumatore, al fine di garantire il buon funzionamento del mercato interno. Alla luce di ciò lo schema britannico – per il quale il Governo italiano ha formalmente espresso la propria posizione contraria – appare in palese contrasto con gli obiettivi di armonizzazione del suddetto regolamento dell'Unione europea e rappresenta un pericoloso precedente che potrebbe preludere alla proliferazione di una molteplicità di differenti schemi nazionali,

impegna il Governo:

   ad adottare con la massima urgenza i decreti ministeriali di attuazione dell'articolo 4 della legge 3 febbraio 2011, n. 4, al fine di rendere immediatamente applicabile la normativa sull'etichettatura di origine dei prodotti agroalimentari a tutela dei consumatori e degli operatori della filiera e a prevedere, per talune tipologie di prodotti, modalità di inserimento volontario in etichetta di specifici sistemi di sicurezza realizzati mediante elementi di identificazione elettronica e telematica;
   ad intervenire con determinazione nelle competenti sedi internazionali e prioritariamente in ambito Gac (Government advisory committee), anche in collaborazione con gli altri Stati membri interessati e con la Commissione europea, per bloccare l'introduzione di nomi generici a domini internet e la loro assegnazione a soggetti privati non utilizzatori delle denominazioni, a garanzia di tutela del sistema agroalimentare di qualità italiano;
   a promuovere, a livello di unione europea, un'azione comune a difesa della posizione della «non concedibilità» dei nomi generici e della necessità di rivedere la governance di internet con la definizione di regole condivise a livello internazionale;
   ad assumere tutte le iniziative di competenza affinché la Commissione europea avvii una rapida verifica sulla compatibilità del sistema di etichettatura inglese con la normativa europea relativa alle indicazioni nutrizionali degli alimenti, così come previste dal regolamento UE 1169/2011, nonché sul rispetto da parte del Governo britannico dell'obbligo di previa notifica previsto per l'introduzione di nuove regolamentazioni in materia di etichettatura;
   a tutelare l'immagine e il valore economico dell’export agroalimentare (come il contrasto all’italian sounding) dei prodotti made in Italy, evitando che i sistemi di etichettatura volontaria siano utilizzati a fini discriminatori e distorsivi del mercato nei confronti delle imprese agricole e agroalimentari italiane;
   a diffondere, tramite puntuali campagne informative, l'importanza di una dieta varia ed equilibrata insieme ad una regolare attività fisica, esprimendo contrarietà a qualsiasi sistema di etichettatura alimentare basato su approcci che tendono a confondere i consumatori;
   a sostenere progetti per la promozione del consumo di prodotti agroalimentari italiani nella ristorazione italiana all'estero, attraverso la predisposizione di un documento di reciproci impegni e garanzie tra imprese agroalimentari, Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali e ristoranti interessati.
(1-00274) «Gallinella, L'Abbate, Lupo, Parentela, Gagnarli, Massimiliano Bernini, Benedetti, Villarosa, Brugnerotto, D'Incà, Castelli, Fico».


   La Camera,
   premesso che:
    l'agroalimentare made in Italy rappresenta oltre il 17 per cento del prodotto interno lordo, di cui oltre 53 miliardi di euro provengono dal settore agricolo;
    il successo dell'agroalimentare italiano nel mondo e l'accreditamento attribuito al marchio «Italia» non conoscono arretramenti, come dimostra la crescita costante dell’export, ma anche la diffusione dei fenomeni di imitazione e pirateria commerciale;
    il made in Italy agroalimentare è la leva esclusiva per una competitività «ad alto valore aggiunto» e per lo sviluppo sostenibile del Paese, grazie ai suoi primati in termini di qualità, livello di sicurezza e sistema dei controlli degli alimenti, riconoscimento di denominazioni geografiche protette e produzione biologica;
    il settore agricolo ha una particolare importanza non solo per l'economia nazionale – considerati la percentuale di superficie coltivata, il più elevato valore aggiunto per ettaro in Europa ed il maggior numero di lavoratori occupati nel settore – ma, altresì, come naturale custode del patrimonio paesaggistico, ambientale e sociale;
    in agricoltura sono presenti circa 820 mila imprese, vale a dire il 15 per cento del totale di quelle attive in Italia;
    sulla base dei dati dell'Agenzia europea per la sicurezza alimentare – Efsa – l'Italia risulta prima, nel mondo, in termini di sicurezza alimentare, con oltre 1 milione di controlli l'anno, il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici oltre il limite (0,3 per cento), con un valore inferiore di cinque volte rispetto a quelli della media europea (1,5 per cento di irregolarità) e addirittura di 26 volte rispetto a quelli extracomunitari (7,9 per cento di irregolarità);
    la libera circolazione di alimenti sicuri e sani è un aspetto fondamentale del mercato interno, ma, sempre più spesso, la salute dei consumatori e la corretta e sana alimentazione appaiono compromesse da cibi anonimi, con scarse qualità nutrizionali, o addizionati e di origine per lo più sconosciuta;
    la circolazione di alimenti che evocano un'origine ed una fattura italiana che non possiedono costituisce una vera e propria aggressione al patrimonio agroalimentare nazionale, che, come espressione dell'identità culturale dei territori, rappresenta un bene collettivo da tutelare ed uno strumento di valorizzazione e di sostegno allo sviluppo rurale;
    continuano a crescere le importazioni provenienti da Paesi, tra i quali la stessa Germania, in cui ci si basa su produzioni a basso costo, operai sottopagati, falde acquifere inquinate e tecniche di allevamento, come quello suinicolo, non sostenibili e con gravi ripercussioni sulla salute dei consumatori legate all'eccessivo impiego di antibiotici;
    relativamente al settore zootecnico, si ricorda che gli allevamenti italiani di suini, presenti prevalentemente in Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte, Veneto, Umbria e Sardegna, sono oltre 26.200 e la produzione di carni suine è stimata in 1.299.000 tonnellate l'anno;
    il settore suinicolo rappresenta una voce importante dell'agroalimentare italiano. La suinicoltura italiana, infatti, occupa il 7o posto in Europa per numero di capi mediamente presenti e offre occupazione, lungo l'intera filiera, a circa 105 mila addetti, di cui 50 mila nel solo comparto dell'allevamento: in Italia nel 2012 la consistenza è stata di 9,279 milioni di capi, preceduta da Germania (28,1 milioni), Spagna (25,2 milioni), Francia (13,7 milioni), Danimarca (12,4 milioni), Olanda (12,2 milioni) e Polonia (11,9 milioni di capi);
    secondo analisi ed elaborazioni dell'Associazione nazionale allevatori suini (Anas), riferiti al primo semestre 2013, il valore dell'allevamento riconosciuto nella fase della distribuzione è stato del 17,28 per cento. Sempre secondo la predetta Associazione nazionale allevatori suini, l'Italia, nel 2012, ha importato complessivamente 1.020.425 tonnellate di suini vivi e carni suine, di cui il 52 per cento dalla Germania, pari a 535.309 tonnellate;
    dalle stesse elaborazioni si rileva che il costo medio di produzione del suino pesante (peso medio 160/170 chilogrammi) è di 1,56 euro al chilogrammo;
    i medesimi dati evidenziano che il prezzo medio riconosciuto all'allevatore per il suino pesante (peso medio 160/170 chilogrammi) è stato di 1,4 euro al chilogrammo;
    articoli di stampa europei hanno recentemente messo in luce che l'industria della carne suina tedesca è efficiente ed è basata su prodotti a basso costo, ma che, dietro questo sistema, ci sono operai sottopagati, falde acquifere inquinate e tecniche di allevamento che usano enormi quantità di antibiotici;
    molti controlli operati sul settore delle carni suine hanno evidenziato la violazione della disciplina in materia di presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari e condotte poste in essere in maniera ingannevole, fraudolenta e scorretta, allo specifico scopo di far intendere al consumatore che i prodotti acquistati sono di origine e di tradizione italiana;
    l'attuale situazione del mercato risulta complicata dalla mancanza di trasparenza sull'indicazione di origine delle carni suine, che rischia di creare confusione tra i prodotti di provenienza nazionale – che assicurano, tra l'altro, elevati standard di sicurezza e qualità – ed i prodotti di importazione che invece, spesso, presentano minori garanzie per il consumatore;
    l'articolo 26, comma 2, lettera b), del regolamento CE 25 ottobre 2011, n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, prevede che l'indicazione del Paese d'origine o del luogo di provenienza è obbligatoria per le carni dei codici della nomenclatura combinata elencati all'allegato XI del regolamento medesimo – tra le quali sono contemplate le carni di animali della specie suina, fresche, refrigerate o congelate – rinviando l'applicazione della norma a successivi atti di esecuzione da adottare entro il 13 dicembre 2013;
    molti controlli operati sulle filiere del latte e dei prodotti lattiero-caseari, dei cereali, con particolare riferimento al grano duro, dei pomidoro non destinati a passata e delle carni suine hanno evidenziato la violazione della disciplina in materia di presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari e condotte poste in essere in maniera ingannevole, fraudolenta e scorretta, allo specifico scopo di far intendere al consumatore che i prodotti acquistati sono di origine e di tradizione italiana;
    l'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, nel disciplinare le relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli ed agroalimentari, vieta condotte commerciali sleali, al fine di impedire che un contraente con maggiore forza commerciale possa abusarne, imponendo condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per la controparte più debole;
    l'articolo 10 della legge 14 gennaio 2013, n. 9, «Norme sulla qualità e la trasparenza della filiera degli oli di oliva vergini», introduce un sistema al fine di rendere accessibili a tutti gli organi di controllo ed alle amministrazioni interessate le informazioni ed i dati sulle importazioni e sui relativi controlli, concernenti l'origine degli oli di oliva vergini, anche attraverso la creazione di collegamenti a sistemi informativi ed a banche dati elettroniche gestiti da altre autorità pubbliche;
    l'usurpazione del made in Italy minaccia la solidità e provoca gravi danni alle imprese agricole insediate sul territorio, violando il diritto dei consumatori ad alimenti sicuri, di qualità e di origine certa;
    il codice del consumo, recependo la disciplina comunitaria in materia, attribuisce ai consumatori ed agli utenti: i diritti alla tutela della salute; alla sicurezza ed alla qualità dei prodotti; ad un'adeguata informazione e ad una pubblicità veritiera; all'esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà; all'educazione al consumo; alla trasparenza ed all'equità nei rapporti contrattuali;
    la disciplina a tutela dei prodotti di origine italiani introduce norme specifiche per contrastare la contraffazione ed evitare qualunque fraintendimento nell'indagine di provenienza falsa e fallace;
    di fronte alle numerose problematicità sopra enunciate ed alla luce dei danni provocati all'economia agroalimentare nazione, alla tutela dei consumatori ed alla capacità competitiva del settore rurale nazionale, dai richiamati comportamenti sleali, se non illeciti, che si verificano nel campo commerciale delle produzioni agricole ed alimentari indicate come di origine italiana mentre non lo sono, sarebbe inderogabile attivare un'organica politica di contrasto e di repressione;
    in particolare, andrebbero intraprese misure adeguate per stroncare tali presunti comportamenti contrari alla trasparenza ed alle norme di tutela dei consumatori e delle produzioni agroalimentari aventi un'origine da cui traggono particolare reputazione e rinomanza, qual è l'indicazione made in Italy,

impegna il Governo:

   ad intraprendere tutte le occorrenti iniziative volte a rafforzare la tutela della denominazione made in Italy nel campo delle produzioni agroalimentari, dando particolare priorità all'attivazione di misure dirette a contrastare l'utilizzo della stessa denominazione in maniera falsa o ingannevole relativamente alla provenienza, all'origine, alla natura o alle qualità essenziali dei prodotti agroalimentari di origine italiana;
   per le medesime finalità di cui al capoverso precedente, ad adottare iniziative dirette a:
    a) prevedere l'adozione, anche per il latte ed i suoi derivati, per le carni suine e per tutte le altre produzioni importate, di un sistema analogo a quello previsto per gli oli di oliva vergini, dalla legge n. 9 del 2013 citata, per assicurare l'accessibilità delle informazioni e dei dati sulle importazioni e sui relativi controlli, concernenti l'origine delle carni suine e promuovere, a tale scopo, la creazione di collegamenti a sistemi informativi ed a banche dati elettroniche gestiti da altre autorità pubbliche;
    b) con specifico riferimento al settore del commercio nel settore delle carni suine, consentire la piena attuazione all'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, nella parte in cui vieta pratiche commerciali sleali che possano determinare, in contrasto con il principio della buona fede e della correttezza, il riconoscimento di prezzi agli allevatori palesemente inferiori ai costi di produzione medi da essi sostenuti;
    c) fare in modo di promuovere, in sede di Unione europea, il rispetto del termine del 13 dicembre 2013, imposto dal regolamento 1169/2011/CE, per l'attuazione dell'obbligo di indicazione del Paese d'origine o del luogo di provenienza, con riferimento al latte ed ai prodotti lattiero-caseari, alle carni suine fresche, refrigerate o congelate ed altre produzioni interessate dal suddetto regolamento;
    d) rendere noti e pubblici i riferimenti delle società eventualmente coinvolte in pratiche commerciali ingannevoli, fraudolente o scorrette finalizzate ad immettere sui mercati finti prodotti made in Italy ed i dati dei traffici illeciti accertati;
    e) fornire alle autorità di controllo e, in particolare, al Corpo forestale dello Stato, indicazioni operative finalizzate a fare applicare la definizione precisa dell'effettiva origine degli alimenti, secondo quanto stabilito dall'articolo 4, commi 49 e 49-bis della legge 24 dicembre 2003, n. 350, sulla tutela del made in Italy.
(1-00276) «Mongiello, Oliverio, Realacci, Patriarca, Covello, Di Gioia, Cera, Scanu, Stumpo, Amendola, Folino, Marrocu, Antezza, Tentori, Piccione, Mognato, Ventricelli, Melilli, Mazzoli, Manzi, Moretti, Rubinato, Fauttilli, Palma, Montroni, Del Basso De Caro, Sberna, Iacono, Venittelli, Basso, Parisi, Marzano, Sannicandro, Blazina, Biondelli, Biasotti, Pastorelli, Censore, Manfredi, Taricco, Fitzgerald Nissoli, Grassi, D'Ottavio, Valiante, Nardella, Monaco, Mariano, Pagani, Petitti, Vezzali, Bruno Bossio, Marguerettaz, Bargero, Ghizzoni, Lodolini, Petrini, Terrosi, Ascani, Morani, Pelillo».


   La Camera,
   premesso che:
    il sistema agroalimentare italiano è una delle più importanti risorse da salvaguardare e potenziare perché rappresenta l'eccellenza dei territori italiani nella misura in cui non è solamente un settore destinato alla produzione di alimenti, ma identifica un patrimonio unico di valori e tradizioni di cultura e qualità di notevoli potenzialità;
    il valore della produzione agroalimentare può essere tutelato solo attraverso la promozione della qualità, della tracciabilità degli alimenti e dell'ampliamento delle informazioni ai consumatori, anche al fine di contrastare il dilagare delle pratiche commerciali sleali e di contraffazione dei prodotti agroalimentari;
    analizzando il comparto dell'agroalimentare italiano, sia a livello nazionale che internazionale, emerge il dato che, ad essere maggiormente premiato è il prodotto genuino; infatti, le cifre dicono che il comparto agroalimentare italiano vale più del 15 per cento di prodotto interno lordo e ogni anno arriva a muovere 245 miliardi di euro fra consumi, export, distribuzione ed indotto. La quota del made in Italy destinata all'esportazione, secondo i dati forniti dalla Confederazione italiana agricoltori, Cia, nel 2012 ha raggiunto una percentuale record del 20 per cento. Ad essere maggiormente presenti sul mercato sono i prodotti tipici e di qualità certificata;
    l'Italia vanta il primato, fra i Paesi dell'Unione europea, di una tutela della qualità delle produzioni agroalimentari elevata: si pensi che il Paese ha il maggior numero di prodotti a marchio registrato come la denominazione d'origine protetta, dop, l'indicazione geografica e protetta, igp, e la specialità tradizionale garantita, stg, che sono oggetto di numerosi e sofisticati tentativi di contraffazione;
    il 25 settembre 2013 la Camera dei deputati ha nuovamente istituito, nell'intento di proseguire il lavoro istruttorio svolto nel corso della XVI Legislatura, una Commissione d'inchiesta sui fenomeni della contraffazione, della pirateria in campo commerciale e del commercio abusivo;
    la Commissione agricoltura della Camera dei deputati ha iniziato l'esame di talune proposte sul tema dell'obbligatorietà dell'indicazione di origine della materia agricola nell'etichetta, del coordinamento e del rafforzamento dei controlli per la tutela dei prodotti agricoli di qualità, nonché della promozione di prodotti provenienti da «filiera corta» o a «chilometro zero»;
    in merito all'indicazione in etichetta dell'origine del prodotto, gli interventi del legislatore italiano si sono scontrati nel corso degli anni con l'impostazione, ancora prevalente in sede europea, tendente a ritenere incompatibile con il mercato unico la presunzione di qualità legate alla localizzazione nel territorio nazionale di tutto o di parte del processo produttivo di un prodotto alimentare. A tale principio hanno fatto eccezione solo le regole relative alle denominazioni di origine e alle indicazioni di provenienza;
    per i restanti prodotti alimentari è stato sinora fissato il principio che l'indicazione del luogo d'origine o di provenienza possa essere resa obbligatoria solo nell'ipotesi che l'omissione dell'indicazione stessa possa indurre in errore il consumatore circa l'origine o la provenienza effettiva del prodotto alimentare (articolo 3 della direttiva 2000/13/CE, recepito dall'articolo 3 del decreto legislativo n. 109 del 1992). Il principio è stato confermato anche con il regolamento (CE) n. 1169/2011, che, in sostituzione della precedente direttiva, ha, tuttavia, esteso a talune carni l'obbligo di indicarne l'origine (articolo 26, paragrafo 2);
    il legislatore nazionale ha tradizionalmente attribuito, invece, grande rilievo alla possibilità di definire una legislazione che consentisse di indicare l'origine nazionale della produzione agroalimentare. La produzione nazionale alimentare è considerata una delle eccellenze e, pertanto, il suo legame territoriale è stato ritenuto costantemente elemento di pregio, quindi degno di segnalazione al consumatore anche per le produzioni non «a denominazione protetta»;
    con l'approvazione nel 2004 dell'articolo 1-bis del decreto-legge n. 157 del 2004, venne introdotto per la prima volta l'obbligo generalizzato di indicare il luogo di origine della componente agricola incorporata in qualsiasi «prodotto alimentare», trasformato e non trasformato. Alla luce, tuttavia, della legislazione europea, la circolare del 1o dicembre 2004 del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali rilevò che il decreto legge «conteneva molteplici principi e disposizioni richiedenti una corretta interpretazione»; pertanto, non potevano ritenersi immediatamente operative le disposizioni sull'indicazione obbligatoria in etichetta dell'origine dei prodotti;
    nella XVI legislatura, la Commissione agricoltura della Camera dei deputati, in sede legislativa, ha approvato all'unanimità la legge 3 febbraio 2011, n. 4, in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari. Il testo della legge risulta, pertanto, incentrato sull'esigenza di promuovere il sistema produttivo nazionale nel quale la qualità dei prodotti è frutto del legame con i territori di origine e sulla pari necessità di trasmettere al consumatore le informazioni sull'origine territoriale del prodotto, alla base delle dette qualità. Il fine di assicurare una completa informazione ai consumatori è, infatti, alla base delle norme (articoli 4 e 5) che dispongono l'obbligo, per i prodotti alimentari posti in commercio, di riportare nell'etichetta anche l'indicazione del luogo di origine o di provenienza. Specificatamente, per i prodotti alimentari non trasformati, il luogo di origine o di provenienza è il Paese di produzione dei prodotti; per i prodotti trasformati la provenienza è da intendersi come il luogo in cui è avvenuta l'ultima trasformazione sostanziale, il luogo di coltivazione e allevamento della materia prima agricola prevalente utilizzata nella preparazione o nella produzione. L'etichetta deve, altresì, segnalare l'eventuale utilizzazione di ingredienti in cui vi sia presenza di organismi geneticamente modificati, dal luogo di produzione iniziale fino al consumo finale. Le norme, che demandano sostanzialmente alle regioni l'attività di controllo, sono, peraltro, rafforzate da disposizioni sanzionatorie (così il comma 10 dell'articolo 4), che prevedono l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria compresa fra 1.600 euro e 9.500 euro per i prodotti non etichettati correttamente. Le modalità applicative dell'indicazione obbligatoria d'origine sono state demandate a decreti interministeriali chiamati a definire, all'interno di ciascuna filiera alimentare, quali prodotti alimentari saranno assoggetti all'etichettatura d'origine;
    i decreti attuativi non sono stati a tutt'oggi emanati da parte dei Ministeri delle politiche agricole, alimentari e forestali e dello sviluppo economico, proprio a causa della difficile applicazione della asserita «obbligatorietà» dell'indicazione di provenienza, laddove le norme europee prevedono, allo stato, solo regimi «facoltativi». Le disposizioni nazionali non possono, infatti, che essere coerenti con la normativa approvata dall'Europa che, prima con la direttiva 2000/13/CE, poi con il regolamento (UE) n. 1169/2011, ha disciplinato le modalità e i contenuti informativi da trasmettere ai consumatori. In particolare, l'articolo 26 stabilisce le condizioni e le modalità dell'indicazione del Paese d'origine o luogo di provenienza degli alimenti; l'articolo 45 regola, poi, la procedura con la quale le norme nazionali debbono essere notificate alla Commissione europea e agli altri Stati membri;
    per sollecitare l'attuazione dell'articolo 4 della legge n. 4 del 2011 e, quindi, l'introduzione dell'obbligo di indicazione dell'origine del prodotto nell'etichetta, sul finire della XVI legislatura è stato presentato un disegno di legge, approvato dal Senato e trasmesso alla Camera (atto Camera 5559), nel quale si stabiliva, tra l'altro, che i decreti attuativi dovessero essere adottati entro due mesi dall'entrata in vigore del provvedimento. La fine anticipata della legislatura non ha consentito la conclusione dell’iter parlamentare;
    recentemente l'Unione europea ha apportato, in tema di indicazioni, delle modifiche al regime di etichettatura dei prodotti agroalimentari. In particolare, il regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, ha modificato la precedente normativa, al fine di semplificarla e migliorare il livello d'informazione e di protezione dei consumatori europei. Le nuove disposizioni, che entreranno in vigore dal 13 dicembre 2014 – ad eccezione delle disposizioni relative all'etichettatura nutrizionale che entreranno in vigore a partire dal 13 dicembre 2016 – rispondono alla necessità di aumentare la chiarezza e la leggibilità delle etichette. Il regolamento si applica a tutti gli operatori del settore alimentare in tutte le fasi della catena e a tutti gli alimenti destinati al consumo finale, compresi quelli forniti dalle collettività (ristoranti, mense, catering) e quelli destinati alla fornitura delle collettività. Esso introduce alcune novità di rilievo, quali l'obbligo di indicare la provenienza e l'origine dei prodotti e la leggibilità dell'etichetta, e consente agli Stati membri di adottare «disposizioni ulteriori» (articolo 39 del regolamento) per specifici motivi: protezione della salute pubblica e dei consumatori, prevenzione delle frodi, repressione della concorrenza sleale, protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale e tutela delle indicazioni di provenienza e denominazioni di origine controllata. Lo Stato membro che voglia introdurre un provvedimento nazionale dovrà notificare il progetto alla Commissione europea e attendere tre mesi per approvarlo, salvo parere negativo della stessa;
    l'esigenza di una ricomposizione tra le regole del mercato interno comunitario e la protezione della qualità delle produzioni locali è stata esplicitata nella risposta fornita dal Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali pro tempore ad un'interrogazione presentata sull'argomento al Senato della Repubblica nella seduta del 20 settembre 2012; il Ministro pro tempore ha, in tale occasione, affermato che: «(...) occorre tener presente che la legge n. 4 del 2011 sull'etichettatura dei prodotti agroalimentari si inserisce in un quadro normativo regolato a livello sovrastante dall'Unione europea e che, quindi, la redazione dei decreti attuativi pone problemi di compatibilità con la normativa comunitaria vigente (...)». Il Ministro annunciò, in tale occasione, di aver predisposto il decreto attuativo per il settore lattiero-caseario (sul latte a lunga conservazione, uht, pastorizzato microfiltrato e latte pastorizzato ad elevata temperatura), il più importante segmento di mercato tra quelli nei quali non è già in vigore un obbligo di indicazione dell'origine, e che sarebbe stato di prossima definizione un altro decreto per le carni lavorate. Il processo si è poi interrotto perché la Commissione europea, comunicatole lo schema di decreto per il settore lattiero-caseario, con decisione del 28 agosto 2013 (notificata con il numero C(2013) 5517), ha ritenuto che le giustificazioni fornite dall'Italia, legate all'esigenza di protezione degli interessi dei consumatori e di prevenzione e repressione delle frodi comunitaria, non risultassero sufficientemente dimostrabili;
    la Commissione agricoltura della Camera dei deputati ha ripreso nella XVII legislatura la problematica in esame, inserendo in calendario l'esame di due proposte di legge (atti Camera 1173 e 427), le quali intervengono nuovamente proprio sul problema dei tempi di emanazione dei decreti attuativi della legge n. 4 del 2011, prevedendo, anche in questo caso, che gli stessi siano emanati entro il termine perentorio di due mesi dalla data di entrata in vigore delle medesime proposte di legge;
    numerose associazioni, fondazioni e realtà legate al mondo agricolo hanno già introdotto delle proposte utili a facilitare la lettura in etichetta da parte del consumatore e rendere il prodotto immediatamente visibile;
    inoltre, accanto alle indicazioni previste dalla legge, è da considerare la possibilità di avvalersi della cosiddetta etichetta narrante, che fornisce informazioni precise sui produttori, sulle loro aziende, sulle varietà vegetali o sulle razze animali impiegate, sulle tecniche di coltivazione, allevamento e lavorazione, sul benessere animale, sui territori di provenienza e sul dato di non utilizzare pesticidi in dosi massicce, con limiti e regolamentazioni conformi – anche se non certificate – ai disciplinari dell'agricoltura biologica o biodinamica. Le aziende che non si certificano biologiche, ma adottano tale etichetta sono sottoposte a controlli da parte delle autorità competenti per dimostrare la veridicità delle informazioni in essa riportate;
    il 19 giugno 2013 il Dipartimento della salute britannico ha annunciato l'introduzione di un nuovo sistema volontario di etichettatura nutrizionale basato sulla colorazione semaforica (verde-giallo-rosso) del packaging dei prodotti alimentari sulla base del contenuto di sale, zucchero, grassi e grassi saturi presente in 100 grammi di prodotto, che ha destato molte critiche e disapprovazioni;
    lo schema inglese del «semaforo» si basa sulla schedatura degli alimenti: verde uguale cibo «buono», rosso uguale cibo «cattivo», mettendo a rischio i prodotti di qualità e non considerando il fatto che non esistono cibi «buoni» o «cattivi», ma solo regimi alimentari corretti o scorretti;
    schedare cibi e bevande in questo modo, a parere dei firmatari del presente atto di indirizzo, è pericoloso e fuorviante, perché si offre al consumatore soltanto un'informazione parziale ed erronea, che non tiene più conto della dieta complessiva e, soprattutto, non considera il regime alimentare nel suo insieme e, quindi, il modo in cui gli alimenti vengono integrati fra loro;
    il Governo britannico, peraltro, non ha notificato all'Unione europea l'introduzione del nuovo sistema di etichettatura;
    contro l'introduzione di questo sistema si sono espresse le maggiori sigle dei produttori alimentari italiani e anche associazioni di altri Paesi, in particolare del Sud Europa;
    ovviamente, questo scenario vede penalizzati innanzitutto i prodotti alla base della dieta mediterranea, il cui valore come «patrimonio immateriale dell'umanità» è stato ufficialmente riconosciuto dall'Unesco nel 2010: un vero attacco alla tradizione agroalimentare del Sud;
    al fine di verificare la compatibilità del sistema di etichettatura nutrizionale inglese con la normativa europea e per la tutela dei prodotti agroalimentari italiani, la Commissione affari sociali e la Commissione agricoltura della Camera dei deputati hanno adottato una risoluzione unitaria in data 23 ottobre 2013;
    in data 4 dicembre 2013, la Coldiretti ha promosso al passo del Brennero una forte campagna di protesta e sensibilizzazione nei confronti delle istituzioni governative italiane ed europee per il continuo e spregiudicato attacco da parte di altri Paesi europei al made in Italy nell'agroalimentare. La protesta è consistita con il blocco dei tir provenienti dall'Austria che trasportavano prodotti agroalimentari con l'etichettatura made in Italy, i cui prodotti agroalimentari non sono stati prodotti in Italia. Si pensi, che l'uso improprio del nome made in Italy, conosciuto come italian sounding, costa al nostro sistema di impresa del settore primario oltre 60 miliardi di euro di perdite l'anno,

impegna il Governo:

   a promuovere in sede comunitaria le idonee iniziative al fine di poter consentire al nostro Paese di tutelare il made in Italy con un sistema di etichettatura dei prodotti agroalimentari che consenta di salvaguardare la biodiversità agroalimentare nella sua interezza culturale;
   ad avviare, nelle opportune sedi europee, tutte le trattative politico-istituzionali al fine di veder riconosciuta all'Italia la possibilità di utilizzare le «disposizioni ulteriori» stabilite dall'articolo 39 del regolamento (UE) 1169/2011 per specifici motivi, quali: la protezione della salute pubblica e dei consumatori, la prevenzione delle frodi, la repressione della concorrenza sleale, la protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale, nonché la tutela delle indicazioni di provenienza e denominazioni di origine controllata;
   a procedere speditamente all'emanazione dei decreti attuativi della legge 3 febbraio 2011, n. 4, affinché si possa applicare la «obbligatorietà» dell'indicazione di provenienza, laddove le norme europee prevedono, allo stato, solo regimi «facoltativi»;
   ad assumere le opportune iniziative con la Commissione europea sulla compatibilità del sistema di etichettatura inglese – «etichettatura semaforica» – con la normativa europea relativa alle indicazioni nutrizionali degli alimenti, in particolare con i criteri previsti dall'articolo 35 del regolamento (UE) 1169/2011, e sul rispetto da parte del Governo inglese dell'obbligo di previa notifica previsto per l'introduzione di nuove regolamentazioni in materia di etichettatura;
   a chiedere alle autorità europee la sospensione del sistema di «etichettatura semaforica» della Gran Bretagna, in quanto il sistema si basa su considerazioni che non tengono conto del mix di alimenti che quotidianamente forniscono i nutrienti di cui si ha bisogno, ma si basa su criteri di definizione e indicazione apodittici e privi di qualsivoglia dato empirico, posto che tutto questo distrugge la caratteristica principale dei prodotti agroalimentari italiani che hanno quale «humus organolettico» la biodiversità del territorio nazionale;
   a tutelare in ogni modo l'immagine e il valore culturale ed economico dell’export agroalimentare dei prodotti made in Italy, evitando che i sistemi di etichettatura volontaria vengano utilizzati a fini discriminatori e distorsivi del mercato nei confronti delle imprese agricole e agroalimentari italiane;
   a farsi garante ed essere attore attivo nelle campagne di sensibilizzazione contro le contraffazioni dei prodotti italiani attraverso le sedi estere della televisione pubblica nazionale, promuovendo in modo più incisivo il vero made in Italy;
   a difendere e tutelare giuridicamente il valore indisponibile e immateriale della «dieta mediterranea» quale patrimonio dell'umanità, così come dichiarato nel 2010 dall'Unesco.
(1-00277) «Franco Bordo, Migliore, Palazzotto, Ferrara, Lacquaniti, Zan, Pellegrino, Zaratti».


   La Camera,
   premesso che:
    in seguito alla proposta inglese di «etichettatura semaforica», con il presente atto di indirizzo, oltre che stigmatizzare l'infondatezza scientifica di tale sistema d'informazione al consumatore e di come possa provocare effetti distorsivi sul mercato per prodotti italiani di sicura genuinità e salubrità se assunti in combinazioni dietetiche idonee e tradizionali, si vuole sottolineare la necessità di predisporre un quadro organico nell'ambito del quale definire una puntuale articolazione e un maggiore dettaglio del sistema di etichettatura, da adottare ai sensi dell'articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011, «Informazioni alimentari ai consumatori». Esso consente, infatti, agli Stati membri di adottare disposizioni che richiedono ulteriori indicazioni obbligatorie per tipi o categorie specifici di alimenti per determinate motivazioni;
    l'intenzione è di ribaltare l'approccio inglese meramente quantitativo ed evidenziare, invece, un approccio italiano o semplicemente di «buon senso» (da portare in sede europea e all'Expo 2015 «Nutrire il pianeta»), mostrando come l'informazione al consumatore si debba caratterizzare per esplicitazione di dati scientifici del prodotto e di caratteristiche che possano descriverne i processi produttivi e le qualità finali in modo accertato;
    il sistema agroalimentare italiano è una delle più importanti risorse da salvaguardare e potenziare; rappresenta l'eccellenza dei territori italiani, nella misura in cui non è solo il settore destinato alla produzione di alimenti, ma rappresenta un patrimonio unico di valori e tradizioni di cultura e qualità e di grandi potenzialità;
    a fronte di una globalizzazione alimentare che impone standard di competitività molto alta, il nostro Paese deve far leva sulle peculiarità originali delle sue produzioni agroalimentari, esaltando i tratti della tipicità, della genuinità, del legame inscindibile col territorio. Il valore della produzione può essere tutelato solo attraverso la promozione della qualità, la tracciabilità degli alimenti e l'ampliamento delle informazioni ai consumatori, anche al fine di contrastare il dilagare delle pratiche commerciali sleali nella presentazione degli alimenti, la contraffazione dei prodotti e le varietà transgeniche provenienti da Usa e Cina (in particolare, di queste ultime si ha scarsa conoscenza);
    analizzando il comparto dell'agroalimentare italiano, sia a livello nazionale sia internazionale, emerge il dato che ad essere maggiormente premiato è il prodotto genuino. In cifre, il comparto agroalimentare italiano vale più del 15 per cento di prodotto interno lordo ed ogni anno arriva a muovere 245 miliardi di euro fra consumi, export, distribuzione ed indotto, la quota del made in Italy destinata all'esportazione, secondo i dati forniti dalla Confederazione italiana agricoltori (Cia), nel 2012 ha raggiunto una percentuale record del 20 per cento; ad essere maggiormente presenti sul mercato sono i prodotti tipici. L'Italia può vantare il primato, fra i Paesi dell'Unione europea, come numero di prodotti riconosciuti con la qualifica di denominazione d'origine protetta (dop), indicazione geografica protetta (igp) e specialità tradizionale garantita (stg). La valorizzazione del patrimonio agroalimentare italiano costituisce, al pari di quello artistico-culturale ed ambientale, una grande potenzialità di sviluppo economico dell'intero Paese. Attraverso la tutela delle denominazioni di origine è possibile incoraggiare le produzioni agricole ed i prodotti, proteggendo i nomi dei prodotti, contro imitazioni ed abusi, aiutando contemporaneamente il consumatore a riconoscere e a scegliere consapevolmente le qualità anche in campo agroalimentare;
    in tema di indicazioni del prodotto agroalimentare l'Unione europea ha apportato, di recente, modifiche al regime di etichettatura dei prodotti agroalimentari. In particolare, il regolamento (UE) n. 1169 del 2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, ha modificato la precedente normativa, al fine di semplificarla e migliorare il livello di informazione e di protezione dei consumatori europei. Le nuove disposizioni che entreranno in vigore dal 13 dicembre 2014 – ad eccezione delle disposizioni relative all'etichettatura nutrizionale che entreranno in vigore a partire dal 13 dicembre 2016 – rispondono alla necessità di aumentare la chiarezza e la leggibilità delle etichette;
    il regolamento si applica a tutti gli operatori del settore alimentare in tutte le fasi della catena e a tutti gli alimenti destinati al consumo finale, compresi quelli forniti dalle collettività (ristoranti, mense, catering);
    esso introduce alcune novità di rilievo, quali l'obbligo di indicare la provenienza e l'origine dei prodotti e la leggibilità dell'etichetta, e consente agli Stati membri di adottare disposizioni ulteriori (articolo 39) per specifici motivi: la protezione della salute pubblica e dei consumatori, la prevenzione delle frodi e la repressione della concorrenza sleale, la protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale, la tutela delle indicazioni di provenienza e denominazioni di origine controllata;
    lo Stato membro che voglia introdurre un provvedimento nazionale dovrà notificare il progetto alla Commissione europea e attendere tre mesi per approvarlo, salvo parere negativo della stessa;
    l'Italia, Paese ricco di biodiversità, può in questa fase storica, alla luce anche delle indicazioni date dal mercato che premia il prodotto tipico e ecocompatibile, dare compiuta attuazione al richiamato regolamento sull'etichettatura, avvalendosi della facoltà di cui all'articolo 39, alla luce della necessità di valorizzazione i prodotti made in Italy e i processi ecocompatibili di produzione agroalimentare, al fine di renderli ancora più concorrenziali e appetibili;
    peraltro, atteso che numerose associazioni, fondazioni e realtà legate al mondo agricolo hanno già introdotto delle proposte utili a facilitare la lettura in etichetta da parte del consumatore e rendere il prodotto immediatamente visibile, sarà fondamentale addivenire ad un'armonizzazione a livello europeo;
    inoltre, accanto alle indicazioni previste dalla legge, è da considerare la possibilità di avvalersi della cosiddetta etichetta narrante, che fornisce informazioni precise sui produttori, sulle loro aziende, sulle varietà vegetali o sulle razze animali impiegate, sulle tecniche di coltivazione, allevamento e lavorazione, sul benessere animale, sui territori di provenienza e sul dato di non utilizzare pesticidi in dosi massicce, con limiti e regolamentazioni conformi (anche se non certificate) ai disciplinari dell'agricoltura biologica o biodinamica. Le aziende che non si certificano biologiche, ma adottano tale etichetta, sono sottoposte a controlli da parte delle autorità competenti per dimostrare la veridicità delle informazioni riportate;
    l'etichettatura concernente la presenza di organismi geneticamente modificati negli alimenti a livello europeo è disciplinata da due regolamenti: regolamento (CE) 1829/2003, su alimenti e mangimi, e regolamento (CE) n. 1830/2003 sulla tracciabilità e l'etichettatura degli organismi geneticamente modificati. L'etichetta deve chiaramente riportare la dicitura «geneticamente modificato» o «prodotto da (nome dell'ingrediente) geneticamente modificato». Ciò assume particolare rilevanza per i Paesi che, come l'Italia, tradizionalmente sono ogm free;
    per gli alimenti che contengono organismi geneticamente modificati in una proporzione non superiore allo 0,9 per cento per ciascun ingrediente non è obbligatoria l'etichettatura come organismo geneticamente modificato (nonostante tale percentuale corrisponda a circa 1 grammo di prodotto geneticamente modificato ogni chilo, una quantità molto elevata e non riconducibile ad esclusiva causa accidentale, necessitando, dunque, una chiara informazione al consumatore), purché la presenza di organismi geneticamente modificati sia accidentale o tecnicamente inevitabile;
    la normativa sull'etichettatura di alimenti e mangimi provenienti da organismi geneticamente modificati fa perno, quindi, su una soglia per la presenza accidentale di organismi geneticamente modificati. Tracce minime di organismi geneticamente modificati nei prodotti alimentari sono tollerate se la loro presenza è accidentale o se è da una contaminazione tecnicamente inevitabile nel corso della coltivazione, del raccolto, del trasporto o della lavorazione;
    gli operatori devono essere in grado di dimostrare alle autorità la natura accidentale o tecnicamente inevitabile della presenza di organismi geneticamente modificati in un prodotto alimentare;
    l'apporre un determinato marchio, arricchendo in tal modo le indicazioni in etichetta, significa consentire, pertanto, di valorizzare a pieno quei prodotti che nascono da aziende che hanno scelto di non utilizzare organismi geneticamente modificati in tutte le fasi della filiera agroalimentare, compresa la mangimistica per l'allevamento. Inoltre, significa fornire al consumatore un'informazione più completa, rassicurandolo dell'origine della mangimistica per la produzione di carne, uova, latte e derivati (l'approvvigionamento della mangimistica geneticamente modificata proviene totalmente dall'estero, essendo l'Italia ogm free, di fatto, fino al limitato caso friulano dell'estate 2013);
    nella legislazione europea vi è, pertanto, un vuoto normativo rispetto ai criteri uniformi cui ispirarsi per predisporre un'etichetta che indichi la presenza o meno di organismi geneticamente modificati anche al di sopra o al di sotto della soglia minima ed accidentale attualmente prevista;
    è da sottolineare, altresì, come tale meccanismo possa incentivare la produzione e la vendita del mangime nazionale e/o europeo da sementi tradizionali;
    inoltre, i prodotti con il marchio volontario «ogm zero» potranno favorire sul mercato tutte quelle piccole e medie aziende agricole, che per filosofia di vita non hanno usato organismi geneticamente modificati e che, per ragioni economiche o di altra natura, non possono permettersi il costo della certificazione biologica, la quale, peraltro, non esclude che possano essere etichettati come biologici prodotti contenenti la soglia minima di tracce di organismi geneticamente modificati prevista dalla normativa dell'Unione europea;
    occorre, altresì, considerare l'opportunità, in assenza di una specifica disposizione nel regolamento (CE) n. 1829 del 2003, di prevedere un'etichettatura per i prodotti derivanti dall'allevamento animale per le aziende che utilizzano mangimistica geneticamente modificata come nutrimento per gli animali stessi;
    in questo modo, informando il consumatore sull'intera filiera di produzione del prodotto agroalimentare, lo si avverte di come alcuni prodotti (come il latte o le uova) provengano da allevamenti cui sono somministrati mangimi geneticamente modificati (e implicitamente importati da Paesi che coltivano organismi geneticamente modificati massicciamente e che non rientrano in criteri ecocompatibili e con indirizzi agronomici rivolti alla tutela della biodiversità);
    si viene anche a creare un effetto incentivante per la promozione dei prodotti locali senza organismi geneticamente modificati e si rilancia la coltivazione di soia e altre leguminose in Italia (filiera prioritaria da promuovere in Italia anche attraverso la corretta allocazione dei fondi della politica agricola comune dal 2014 al 2020);
    tutte le aziende, che intendono avvalersi dell'etichetta «ogm zero» e non vogliono sottostare al regime obbligatorio d'etichettatura quali allevamenti con «presenza di organismi geneticamente modificati nel mangime animale», innescherebbero un processo di domanda del prodotto per la mangimistica privo da organismi geneticamente modificati e, conseguentemente, la promozione della filiera della coltivazione di leguminose da foraggio in Italia (filiera presente adeguatamente per il fabbisogno nazionale fino agli anni ’90);
    è prevista anche la possibilità di informare il consumatore della distanza limitata del prodotto, etichetta che permette il riconoscimento di un prodotto locale e del territorio d'appartenenza del consumatore, garantendo così il sostegno e la promozione dell'economia agricola locale e nazionale; tale etichetta «filiera corta» si può applicare volontariamente se il luogo in cui viene effettuata la vendita finale del prodotto e l'azienda di produzione (ricompresa l'attività di imballaggio iniziale, intermedio e finale) siano a una distanza ricompresa in un raggio di massimo 70 chilometri;
    se la distanza è di massimo 10 chilometri può, invece, essere apposta un'etichetta volontaria che recita «chilometro zero». Quest'ultima etichetta renderebbe il consumatore consapevole che ha la possibilità di acquistare un prodotto agroalimentare di un'azienda agricola in prossimità del suo comune d'appartenenza e con il più basso dispendio possibile di anidride carbonica;

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per predisporre un'etichetta volontaria detta «etichetta narrante» esclusivamente per aziende che rispettino i disciplinari del biologico (anche se non certificate) e utilizzino quantitativi di pesticidi conformi all'agricoltura biologica, facendo sì che i controlli del rispetto dei criteri biologici per chi utilizza tale etichetta siano a carico delle autorità competenti in materia di frodi e contraffazione e che questa etichetta integri l'informazione al consumatore mediante l'applicazione sulle confezioni di ulteriori informazioni e approfondimenti sulle varietà e sulle razze protagoniste dei progetti, sulle tecniche di coltivazione, sulla lavorazione dei trasformati e sui territori di provenienza, sul benessere animale e sulle modalità di conservazione e consumo;
   ad assumere iniziative per prevedere un'indicazione in etichetta, ex articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011, che faciliti la comprensione della distanza del luogo di produzione e imballaggio da quello di vendita finale e, in particolare, a predisporre l'etichetta volontaria «filiera corta» se l'azienda di produzione (e anche quella che opera tutte le fasi di imballaggio) si trovi entro un raggio di 70 chilometri, così come ad assumere iniziative per normare l'etichetta volontaria «chilometro zero» se la distanza fra azienda produttrice (fasi d'imballaggio comprese) e luogo di vendita finale è riconducibile a un raggio di 10 chilometri;
   a predisporre e attuare e l'utilizzo di un regime più dettagliato di indicazioni in etichetta per informare i consumatori ai sensi dell'articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011, «Informazioni alimentari ai consumatori», tale da consentire di verificare, anche attraverso puntuali controlli, l'applicazione del regolamento (CE) n. 1829/2003 che indica un'etichetta obbligatoria per la soglia di presenza accidentale di organismi geneticamente modificati con un'indicazione chiara e di facile lettura, che contraddistingua gli alimenti che «contengono organismi geneticamente modificati in misura superiore allo 0,9 per cento», o diciture descriventi i casi specifici di cui al sopra citato regolamento dell'Unione europea;
   ad assumere iniziative per predisporre un'etichetta volontaria «ogm zero» per gli alimenti che non hanno utilizzato organismi geneticamente modificati in nessuna delle fasi della filiera (nemmeno per il mangime animale) e per le aziende che possano dimostrare (se richiesto per controllo con analisi PCR) alle autorità competenti di non avere nessuna presenza accidentale di organismi geneticamente modificati (0,0 per cento);
   ad assumere iniziative per predisporre un'etichetta obbligatoria «presenza di organismi geneticamente modificati nei valori della soglia di tolleranza» o «presenza di organismi geneticamente modificati 0,9 per cento» per gli alimenti e prodotti che contengono organismi geneticamente modificati in misura minore dello 0,9 per cento (semplice criterio di analisi quantitativa PCR test presenza/assenza), ovvero con percentuali ricomprese nella soglia di tolleranza, per dare piena informazione ai consumatori e possibilità di acquisto consapevole e informato;
   ad assumere iniziative per predisporre un'etichetta obbligatoria, estendendo il contenuto del regolamento (CE) n. 1829/2003, con la dicitura «prodotto con presenza di organismi geneticamente modificati nel mangime animale» (o diciture similari) per i prodotti da allevamento animale quali carne, uova, latte e derivati nei quali è utilizzata mangimistica geneticamente modificata, allo scopo di informare chiaramente i consumatori della presenza nella catena alimentare dell'allevamento di mangimistica geneticamente modificata.
(1-00278) «Zaccagnini, Pisicchio».
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga)


   La Camera,
   premesso che:
    alla fine del 2012 il fatturato complessivo del settore agroalimentare ha raggiunto i 130 miliardi di euro, con un'occupazione globale di 405.000 addetti distribuiti in 6.250 piccole, medie e grandi aziende. L'industria alimentare italiana - che insieme ad agricoltura, indotto e distribuzione rappresenta la prima filiera economica del Paese - acquista e trasforma circa il 72 per cento delle materie prime nazionali. Inoltre, è ambasciatrice del made in Italy nel mondo, dal momento che il 76 per cento dell’export alimentare è costituito da prodotti industriali di marca. L’export ha raggiunto complessivamente i 24,8 miliardi di euro mentre l’import si è fermato a 18,7 miliardi di euro, con un saldo positivo della bilancia commerciale di ben 6,1 miliardi di euro, cresciuto di quasi il 40 per cento nel 2012;
    il ruolo dell'industria alimentare come galleggiante anticiclico si è rivelato anche sul fronte dell'occupazione in una fase di crescente perdita di posti di lavoro come quella attuale;
    tuttavia, quando le crisi assumono connotati vasti e duraturi come quella attuale non esistono «isole felici». Così, al di là della grande solidità dimostrata dal settore a livello produttivo e occupazionale, va detto che la crisi dei consumi interni ha colpito il settore in modo molto pesante e aggiuntivo rispetto alla media dei consumi del Paese. Certo, alcuni comparti industriali (da quello automobilistico a quelli legati ai prodotti per l'edilizia) stanno subendo ben più vistose e pesanti perdite delle vendite, ma pochi sanno che i consumi alimentari, sull'arco 2007-2012, sono scesi di 10 punti percentuali e hanno cominciato la loro rapida discesa già nel 2007-2008, a inizio crisi;
    il calo dell'alimentare si lega alla perdita di capacità di acquisto delle famiglie a causa della disoccupazione e della crescita della pressione fiscale. Ma, quel che è più grave, è sceso anche il target qualitativo dei prodotti acquistati. Il prezzo è diventato la principale variabile di scelta del consumatore;
    il settore agroalimentare è uno dei settori strategici su cui investire per rilanciare lo sviluppo del Paese attraverso, da un lato, la valorizzazione del prodotto italiano di qualità e, dall'altro, la repressione di dinamiche di tipo contraffattivo che ne minano la reputazione e la diffusione;
    a danno dell'agroalimentare si deve registrare, infatti, un allarme contraffazione. Le frodi alimentari colpiscono made in Italy e qualità, oltre a rappresentare una minaccia per la salute;
    il business dell'agroalimentare è sempre più appetibile per la criminalità organizzata e l'industria della contraffazione: si stima, infatti, che il volume d'affari complessivo dell'agromafia sia quantificabile in circa 14 miliardi di euro (solo due anni fa questa cifra si attestava intorno ai 12,5 miliardi di euro);
    l'Italia, ancora oggi, non si contraddistingue per un sistema penale in grado di affrontare con strumenti adeguati i reati che, rispetto alla pericolosità di altri crimini, appaiono di gravità minore. Pertanto, per quanto riguarda gli illeciti riscontrati nel settore agroalimentare, solo laddove è possibile contestare anche il reato di associazione per delinquere, si procede con misure cautelari di rilievo, mentre per altri reati, come quello di sofisticazione, non essendo riferiti alla mafia nel codice penale, hanno brevissimi tempi di prescrizione. Le organizzazioni criminali, dall'importazione dei prodotti agroalimentari alle successive operazioni di trasformazione, distribuzione e vendita, ampliano la propria attività anche a causa dell'inadeguatezza del sistema dei controlli che presenta alcune debolezze nelle modalità di intervento delle indagini. È opportuna, quindi, l'esigenza di lavorare sulle normative, aumentare le ispezioni e inasprire le sanzioni e le pene al fine di garantire la trasparenza e la sicurezza in tutti i passaggi della filiera;
    è necessario, altresì, sottoporre il problema dei crimini alimentari all'opinione pubblica, in modo tale da sensibilizzare ed «educare» i consumatori a prestare attenzione alla scelta dei prodotti da consumare; si potrebbe, quindi, favorire la circolazione della conoscenza dei processi produttivi, prendendo in considerazione l'origine dei prodotti, le modalità di produzione e di conservazione degli alimenti;
    mentre nel mercato interno agisce soprattutto la contraffazione, sui mercati internazionali il Paese deve difendersi dalle imitazioni, che sono diventate una vera spina nel fianco, visto che il made in Italy nel campo alimentare è il più copiato in assoluto;
    un'adeguata azione di sensibilizzazione dovrebbe riguardare, infatti, i mercati esteri, per abituare i consumatori stranieri a saper distinguere tra un vero prodotto italiano da uno di imitazione, ovvero da iniziative ingannevoli che richiamano l'italianità;
    un significativo ausilio in tal senso è sicuramente costituito dalla previsione di sistemi di etichettatura e tracciabilità capaci di rendere più trasparenti le varie fasi del processo produttivo in modo da raccontare la storia di un prodotto dalla scelta dei sistemi di coltivazione o di allevamento, alle diverse fasi di elaborazione, fino alla vendita al dettaglio;
    diventa essenziale conoscere, quale criterio di orientamento per l'acquisto dei consumatori, l'origine del prodotto che, nel caso dell'alimento, essendo in gioco un valore come quello della salute, assume il ruolo di garanzia di rango costituzionale;
    in tal senso appare urgente dare immediata attuazione alla legge 3 febbraio 2011, n. 4, recante «Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari», attraverso l'emanazione dei decreti interministeriali di cui al comma 3 dell'articolo 4;
    occorre, altresì, promuovere un impegno in sede europea al fine di arrivare all'approvazione definitiva della proposta di regolamento sulla sicurezza dei prodotti di consumo che impone l'indicazione obbligatoria del Paese di vera produzione su una serie di beni importati da Paesi terzi (regolamento sul cosiddetto made in);
    per combattere la piaga delle imitazioni, dunque, è necessario coordinare l'attività dell'Italia con quella dell'Unione europea, ma anche con quella del World Trade Organization (WTO), cercando di superare problemi e resistenze;
    una delle criticità più evidenti è rappresentata dal fenomeno dell’italian sounding, che consiste nella commercializzazione di prodotti non italiani con l'utilizzo di nomi, parole e immagini che richiamano l'Italia, inducendo, quindi, ingannevolmente a credere che si tratti di prodotti italiani;
    più di recente si è diffusa una forma più raffinata di italian sounding, legale seppur nei fatti ingannevole: la tendenza a rilevare note aziende agroalimentari italiane, in modo tale che non soltanto il nome suoni italiano ma venga associato all'azienda che dal momento della sua nascita e per anni ha messo sul mercato il prodotto;
    l’italian sounding sottrae notevoli potenzialità alle esportazioni nazionali e, sconfinando raramente nell'illecito, risulta difficilmente perseguibile;
    a livello internazionale purtroppo la tutela dall’italian sounding e quella delle denominazioni di origine e dei prodotti di qualità in generale non ha registrato significativi passi avanti;
    la sempre maggior transnazionalità del fenomeno contraffattivo impone, quindi, un forte impegno, a livello europeo e internazionale, per giungere alla definizione di un quadro di regole comuni che risponda a principi di reciprocità ed efficacia;
    a livello nazionale, inoltre, occorre mantenere un fronte unitario, che veda coinvolti tutti gli attori istituzionali ed il mondo delle imprese, attraverso una più forte ed intensa collaborazione;
    la difesa delle produzioni tipiche non può prescindere, quindi, dal contrasto alla contraffazione e da un'informazione chiara e trasparente ai consumatori,

impegna il Governo:

   a valutare l'opportunità di rivedere la normativa vigente in materia di contraffazione, in particolare quella relativa ai prodotti agroalimentari, al fine di assicurare la trasparenza e la sicurezza in tutti i passaggi della filiera;
   a predisporre tempestive iniziative volte alla sensibilizzazione dei consumatori, con particolare riguardo all'attenzione per i prodotti da consumare, alla presa in considerazione dell'origine dei prodotti, alle modalità di produzione e alla conservazione degli alimenti;
   ad emanare i decreti interministeriali di cui al comma 3 dell'articolo 4 della legge 3 febbraio 2011, n. 4, recante «Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari»;
   a promuovere in sede europea le opportune iniziative al fine di arrivare alla definitiva approvazione della proposta di regolamento sulla sicurezza dei prodotti di consumo (regolamento sul cosiddetto made in).
(1-00279) «Faenzi, Russo, Catanoso, Fabrizio Di Stefano, Riccardo Gallo».
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga)


   La Camera,
   premesso che:
    l’italian sounding e la contraffazione dei prodotti alimentari made in Italy provocano nel nostro Paese un ingente danno alle imprese e la perdita di migliaia di posti di lavoro;
    a quanto si apprende anche da organi di stampa il fatturato del falso made in Italy compreso quello relativo al fenomeno dell’italian sounding, ha superato i 60 miliardi di euro nel solo agroalimentare;
    il danno per le possibili esportazioni del nostro Paese si evidenzia con particolare gravità soprattutto nei mercati emergenti, dove spesso il «falso» è più diffuso del «vero»;
    secondo quanto riportato dal rapporto Agromafie del 2013 si valuta che il giro d'affari della criminalità raggiunga i 14 miliardi di euro, con un incremento pari al 12 per cento rispetto a due anni fa. Si deve, infatti, tenere presente che proprio l'agricoltura e l'alimentare sono considerate oramai aree prioritarie di investimento dalla criminalità organizzata che purtroppo in molte zone controlla non solo la distribuzione ma talvolta anche la produzione di diversi prodotti alimentari;
    la problematica coinvolge sia i prodotti italiani «generici» sia i prodotti ad indicazione geografica, è effettivamente molto complessa e ha diversi filoni lungo cui si sviluppa: la contraffazione vera e propria, i falsi prodotti dop o igp, i fenomeni imitativi di nomi per prodotti che nulla hanno a che vedere con i veri prodotti italiani (cosiddetti italian sounding). Su tutti questi fronti è necessario intervenire in maniera coerente ed organica;
    in Europa, alcuni Paesi continuano a chiedere rigore in determinati settori, in particolare nelle politiche economiche e di bilancio. Non è, però, accettabile che l'Unione segua questa linea di condotta solo rispetto ad alcuni settori, mostrandosi, invece, distratta su altri. Il Governo ha il dovere di chiedere che sulla tutela della qualità e dell'origine dei prodotti si applichi lo stesso atteggiamento, il medesimo rigore, che l'Europa richiede sulle politiche di bilancio. La qualità e la protezione dell'origine dei prodotti sono un patrimonio fondamentale per diversi Paesi europei, ed in particolare per il nostro, per cui non è possibile accettare di sacrificare questa ricchezza e disperdere tale patrimonio;
    è necessario quindi che l'Unione europea garantisca il massimo impegno nella difesa e nel riconoscimento delle indicazioni geografiche italiane nell'ambito dei negoziati bilaterali e multilaterali a livello internazionale. Questa problematica dovrà essere considerata tra le priorità dell'Unione in sede negoziale;
    il sistema agroalimentare italiano nonostante la contraffazione, garantirà quest'anno, un ulteriore incremento dell’export che crescerà dell'8 per cento raggiungendo la cifra di 34 miliardi di euro. Si tratta di una fondamentale risorsa per il nostro Paese che deve essere tutelata adeguatamente. In particolare, ciò è possibile solo attraverso politiche ed interventi mirati a salvaguardare la promozione della qualità e della tracciabilità degli alimenti lungo tutta la filiera, fino al consumatore finale;
    appare necessario intervenire per rendere pubblici i riferimenti di quelle società che risultano eventualmente coinvolte in pratiche commerciali ingannevoli o comunque scorrette, finalizzate ad usare in maniera impropria il marchio made in Italy;
    in Europa continua a persistere un'impostazione che tende a ritenere incompatibile con le regole del mercato unico la difesa della qualità collegata in particolare alla individuazione e localizzazione della zona di origine del prodotto o delle parti qualificanti del suo processo produttivo. Infatti, ad eccezione delle regole che sono state fissate per alcuni settori e per le denominazioni di origine, per tutti gli altri prodotti si è preferito affermare un diverso principio, per cui l'indicazione obbligatoria è resa tale solo nel caso in cui la sua omissione possa indurre il consumatore in errore circa l'effettiva provenienza del prodotto alimentare così come delineato dall'articolo 3 della direttiva 2000/13/CE. Principio confermato dal regolamento CE n. 1169/2011;
    appare necessario riflettere sulla necessità di superare tale impostazione, anche alla luce del fatto che tutelare l'origine del prodotto alimentare coincide, nel caso italiano, con la doverosa rivendicazione di tutela di un patrimonio enogastronomico e culturale unico al mondo;
    nella XVI legislatura è stata approvata dal Parlamento la legge 3 febbraio 2011, n. 4, sull'etichettatura, con la finalità di difendere e promuovere il sistema produttivo italiano, per il quale la qualità è una caratteristica fondamentale collegata intrinsecamente alle origini territoriali del prodotto, che proprio per questo legame indissolubile devono essere correttamente e chiaramente comunicate al consumatore. Sono state riscontrate, tuttavia, alcune difficoltà nella fase attuativa della richiamata legge per questioni essenzialmente legate alla compatibilità tra le stringenti disposizioni nazionali fortemente volute e condivise dalla grande maggioranza del Parlamento e le norme europee che invece prevedono, al riguardo, principalmente regimi facoltativi per salvaguardare il cosiddetto principio di libera circolazione delle merci e di libero mercato;
    appare necessario che il Governo italiano continui ad impegnarsi affinché questa dicotomia venga superata affermando in Europa il necessario rigore sulla tutela della «qualità» e dell’«origine»;
    ai fini di una maggiore tutela del consumatore e della prevenzione delle frodi, esiste la possibilità per un Paese membro dell'Unione europea di attuare le «ulteriori disposizioni» citate dall'articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169 del 2011, in particolare, per ciò che attiene alla tutela delle denominazioni di origine controllate e delle indicazioni di provenienza dei prodotti agroalimentari nonché alla repressione di fenomeni diffusi di concorrenza sleale;
    il 5 dicembre 2013, in sede europea, il «Comitato di gestione catena alimentare» ha espresso il definitivo parere favorevole, anche grazie ad una forte sollecitazione del Governo italiano, sullo schema di regolamento di esecuzione, che implementa quanto disposto dal richiamato regolamento n. 1169/2011, dettando le prescrizioni sulle indicazioni obbligatorie in etichetta, rispetto all'origine e al luogo di provenienza per le carni suine, pollame e ovicaprine. In particolare, si stabilisce che l'indicazione «ORIGINE ITALIA» può essere utilizzata solo se l'animale è nato, allevato e macellato in Italia;
    tuttavia, è necessario migliorare ed ampliare il quadro di trasparenza e rintracciabilità delle informazioni attraverso l'introduzione di norme chiare, semplici ed efficaci che consentano al consumatore una immediata visibilità delle informazioni, in particolare per l'origine dei prodotti;
    in tal senso, le recenti norme introdotte dalla Commissione europea nel settore dell'olio di oliva, grazie anche alla incisiva attività di continua sensibilizzazione svolta dal Governo, sono da considerarsi un primo passo positivo nella direzione di una maggiore trasparenza e garanzia sulle informazioni e per l'origine,

impegna il Governo:

   a sollecitare la Commissione europea affinché, nel quadro di quanto stabilito nel regolamento (UE) n. 1169 del 2011, l'Unione europea si doti di norme efficaci, rigorose, chiare e trasparenti in materia di origine dei prodotti prevedendo l'obbligatorietà dell'indicazione dell'origine dei prodotti anche per quei settori attualmente non contemplati dalla regolamentazione vigente;
   a farsi promotore presso le sedi europee competenti di una decisa iniziativa in merito alla necessità che, nell'ambito della etichettatura dei prodotti agro-alimentari, venga garantita la massima trasparenza, chiarezza e comprensibilità delle informazioni, ivi compresa, in primo luogo, quella di origine;
   ad attivarsi affinché, a tutti i livelli, nazionale, comunitario e internazionale, si attivi una chiara e rigorosa politica di difesa delle produzioni italiane, al fine di contrastare con maggiore determinazione ed efficacia il fenomeno dell’italian sounding;
   ad adottare le opportune iniziative finalizzate ad una più intensa ed efficace politica della promozione e diffusione in Italia e all'estero dei prodotti agroalimentari italiani, con un incremento delle risorse finanziarie attualmente destinate e con maggiore attenzione rivolta alla qualità dei prodotti, favorendo la semplificazione degli oneri burocratici per le imprese e per le amministrazioni.
(1-00280) «Dorina Bianchi, Bosco».
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga)


MOZIONI MORASSUT, SALTAMARTINI, ANTIMO CESARO, DI GIOIA, SANTERINI ED ALTRI N. 1-00011, LOMBARDI ED ALTRI N. 1-00092, PIAZZONI ED ALTRI N. 1-00149 E FEDRIGA ED ALTRI N. 1-00252 CONCERNENTI INIZIATIVE IN MERITO ALLA DISMISSIONE DEL PATRIMONIO IMMOBILIARE DEGLI ENTI PREVIDENZIALI

Mozioni

   La Camera,
   premesso che:
    l'emergenza abitativa costituisce, nell'attuale crisi economica che colpisce il Paese, uno dei fattori di maggiore e crescente tensione sociale che interessa larghi strati della popolazione appartenenti, oltre che alle tradizionali categorie a rischio, anche a fasce di ceto medio, professionisti e famiglie con doppio reddito;
    tale situazione è resa particolarmente acuta dai caratteri del mercato immobiliare italiano dove l'offerta di abitazioni private – con costi molto alti ed inaccessibili per un numero sempre maggiore di famiglie e di giovani coppie – supera largamente l'offerta pubblica scesa progressivamente, negli ultimi anni, ad una quota pari a circa l'1 per cento della produzione edilizia totale;
    occorre prendere atto di un'assenza di iniziativa delle autorità pubbliche che, nonostante la crescita della crisi abitativa, gli interventi delle forze sociali e di vari organismi parlamentari non sono stati in grado, negli ultimi anni, di varare un'organica politica per la casa che, intrecciata con innovative politiche di governo del territorio, fosse in grado di rilanciare la produzione di edilizia a fini sociali o di carattere pubblico con il recupero urbano ed il contenimento del consumo di suolo nelle città;
    la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell'uomo hanno, in questo quadro, segnalato l'inopportunità di provvedimenti «tampone» – soprattutto in materia di proroga delle ordinanze di sfratto – che ledono il libero dispiegarsi del diritto alla proprietà, in assenza di azioni organiche e complessive capaci di dare una risposta d'insieme ai vari aspetti che riguardano il problema dell'emergenza abitativa in Italia e, d'altro canto, si deve tenere presente che il diritto alla casa e l'accesso alla proprietà della stessa sono sanciti dall'articolo 47 della Costituzione;
    parte rilevante della crisi abitativa, specie in alcuni ambiti territoriali e segnatamente nella città di Roma, è legata alla dismissione del patrimonio abitativo degli enti previdenziali pubblici e privatizzati; processo che ancora oggi – dopo le alienazioni concluse negli anni precedenti – riguarda circa 100 mila famiglie;
    in questo ambito, gli affittuari degli immobili degli enti previdenziali privatizzati vivono una condizione di preoccupazione circa gli eventuali aumenti dei canoni di affitto per il rinnovo dei contratti di locazione e per le conseguenze connesse con i possibili processi di dismissione del patrimonio immobiliare;
    per quanto riguarda i conduttori degli immobili degli enti previdenziali pubblici, la preoccupazione deriva dall'interruzione del processo di alienazione e dalla scadenza dei contratti che mette sia i conduttori con titolo che le tante famiglie di occupanti sine titulo in una condizione di angoscia e incertezza tanto più assurda in presenza di una legge – la n. 410 del 2001 – che ha fissato con chiarezza le condizioni e le prerogative con cui agire per la vendita del patrimonio degli enti previdenziali pubblici;
    in questo specifico caso, va ricordato che già il 90 per cento del patrimonio abitativo è stato alienato ai conduttori con le prerogative della suddetta legge e attraverso l'azione di specifici soggetti societari all'uopo costituiti – Scip 1 e Scip 2 –, dopo lo scioglimento dei quali il patrimonio residuo è entrato integralmente in possesso dell'Inps;
    l'Inps stesso, più volte sollecitato sul tema ha inviato, anche con specifica lettera del presidente Mastrapasqua, ai Ministeri dell'economia e delle finanze e del lavoro e delle politiche sociali – vigilanti sull'Istituto – richiesta di chiarimento sul da farsi, in ragione anche della sopravvenuta norma sulla dismissione del patrimonio immobiliare pubblico presente all'articolo 27 del cosiddetto «decreto Salva Italia», decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011;
    appare, pertanto, urgente un pronunciamento degli organi parlamentari e del Governo sulle modalità con cui affrontare, in un quadro di sostenibilità economica dello Stato e degli enti sopra richiamati, ma anche e soprattutto di tutela e garanzia sociale delle famiglie interessate, il processo di alienazione degli immobili del patrimonio abitativo degli enti pubblici e privatizzati, evitando il rischio di accentuare l'emergenza abitativa,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative, nel più breve tempo possibile, per chiarire il quadro normativo che regola il processo di alienazione del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali pubblici, in particolare precisando che, in ogni caso, al processo di alienazione si applica la disciplina della legge n. 410 del 2001, con riferimento al regime delle tutele degli inquilini, al prezzo e alle garanzie, contemperando le esigenze di redditività per la finanza pubblica dei processi di alienazione con quelle sociali, coerenti con quelle che ispirano la missione istituzionale di tali enti, quali protagonisti del sistema del welfare;
   ad intervenire per garantire, comunque, agli inquilini tutele e garanzie di controllo sui prezzi di vendita da parte dei predetti enti pubblici e sull'entità dei canoni di affitto in rinnovo di locazione, traendo prioritario riferimento da quanto stabilito dalla legge n. 410 del 2001 e dagli accordi sindacali in materia, in modo che i diritti in essa stabiliti siano effettivamente praticabili;
   ad aprire in ogni caso da subito, sempre relativamente al patrimonio immobiliare degli enti pubblici, una sede di confronto tecnico e sindacale con le organizzazioni sindacali, dell'inquilinato e con gli enti locali interessati, per individuare le soluzioni più rapide e socialmente efficaci per raggiungere gli obbiettivi sopra richiamati e per la regolarizzazione dei sine titulo o delle assegnazioni irregolari negli alloggi dei predetti enti previdenziali pubblici, anche al fine di prevenire situazioni esplosive di disagio sociale e per favorire l'accesso al credito delle famiglie con reddito medio basso, con mutui sostenibili e finalizzati all'acquisto, anche avvalendosi delle recenti misure proposte in tal senso dal Governo;
   ad impartire disposizioni affinché, nelle more dei provvedimenti da assumere, venga valutata la possibilità di differire l'esecuzione degli sfratti o degli sgomberi pendenti nelle aree urbane e sospendere le aste riguardanti le unità immobiliari ad uso residenziale che non risultino effettivamente libere per i conduttori di alloggi sia di enti previdenziali pubblici che privatizzati;
   ad intervenire, anche mediante precise disposizioni normative, per risolvere l'annosa vicenda del contenzioso giudiziario dei cosiddetti immobili di pregio;
   a farsi promotore, quanto al patrimonio degli enti privatizzati, di una decisa iniziativa presso i medesimi enti che, nel richiamarli alle responsabilità che anche essi rivestono quali attori del sistema sociale, sia volta a favorire, nel rispetto e nell'ambito della loro autonomia gestionale, organizzativa e contabile – avvalendosi anche di apposite procedure di negoziazione con le organizzazione sindacali degli inquilini – politiche di gestione del mercato delle locazioni e dei processi di dismissione immobiliare (prevedendo anche l'alienazione in favore dei conduttori delle unità abitate). Le politiche in questione dovranno ispirarsi a criteri di tutela e salvaguardia, in ogni caso, dei nuclei familiari che presentino condizioni di maggiore svantaggio e disagio economico, ovvero che siano a rischio di esclusione sociale, così come individuati dal decreto-legge 20 ottobre 2008, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2008, n. 19. Le medesime politiche dovranno, più in generale, ispirarsi a criteri che, nel rispetto della funzione di garanzia economico-finanziaria che il loro patrimonio assume per le rispettive gestioni previdenziali, siano quanto più aderenti a quelli di carattere sociale previsti per la dismissione del patrimonio immobiliare degli enti pubblici di previdenza;
   a monitorare che i processi di dismissione immobiliare degli enti previdenziali pubblici e privatizzati, ispirati ai principi sociali di cui alla presente mozione, siano conformi ai criteri di piena trasparenza, conoscibilità e rendicontazione.
(1-00011)
(Ulteriore nuova formulazione) «Morassut, Saltamartini, Antimo Cesaro, Di Gioia, Santerini, Argentin, Braga, Villecco Calipari, Martella, Meta, Coscia, Realacci, Peluffo, Lenzi, Brandolin, Costa, Leone, Misuraca, Dorina Bianchi, Piso, Garofalo, Bernardo, Bosco, Tinagli, Zanetti, D'Agostino, Sottanelli, Cimmino, Binetti, Rabino, Causin, Fitzgerald Nissoli, Monchiero, Schirò, Dellai, Marazziti, Sberna».


   La Camera,
   premesso che:
    all'interpellanza urgente n. 2-00062, presentata dalla firmataria del presente atto di indirizzo e discussa nella seduta n. 22 del 23 maggio 2013, alla quale ci si riporta integralmente, ha risposto in rappresentanza del Governo il Sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali, Carlo Dell'Aringa;
    la risposta non ha soddisfatto l'interpellante e, per tali motivi, è stata presentata la presente mozione ex articolo 138, comma 2, del regolamento della Camera dei deputati;
    sul corretto inquadramento normativo degli enti previdenziali trasformati in associazioni e fondazioni di diritto privato, ai sensi del decreto legislativo n. 509 del 1994, il Sottosegretario di Stato ha sostenuto che tali questioni: «coinvolgono profili decisionali che esulano dalle competenze del solo Ministero che rappresento, in quanto coinvolgono, talora perlomeno, scelte che spettano al Governo nella sua collegialità»; sarebbe opportuno avere notizie in merito alla posizione che il Governo assumerà in relazione ai profili di illegittimità costituzionale sollevati dalla prima firmataria del presente atto di indirizzo e, in particolare, sul comportamento normativo da far applicare a tali soggetti;
    il Sottosegretario di Stato, nel giustificare il comportamento degli enti e quella che alla firmataria del presente atto di indirizzo appare la negligenza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, ha sostenuto in Aula che: «le disposizioni del decreto legislativo n. 509 del 1994 non hanno subito fino ad oggi alcuna modifica e sono tuttora pienamente operanti, nonostante nel tempo si siano moltiplicate le spinte del legislatore a incrementare il complesso dei vincoli finanziari e amministrativi imposti alle gestioni, attraendo nell'orbita della finanza pubblica anche le casse private di previdenza, sulla scorta della loro inclusione nell'elenco ISTAT di individuazione delle amministrazioni pubbliche (...). D'altra parte, (...) alcune iniziative hanno invece contribuito a rafforzare proprio l'autonomia riconosciuta agli enti previdenziali privatizzati, salvaguardando gli equilibri delle gestioni, in funzione – questo è importante – dell'autosostenibilità di lungo periodo (...)»;
    è vero che con il decreto legislativo n. 509 del 1994 gli enti previdenziali sono stati trasformati in associazioni o in fondazioni con deliberazione dei competenti organi, ma ad una precisa condizione: che non usufruissero più di finanziamenti o altri ausili pubblici di carattere finanziario (articolo 1 del decreto legislativo n. 509 del 1994), condizione che è stata a giudizio della prima firmataria del presente atto di indirizzo palesemente violata. È opportuno ricordare che tali enti non hanno rispettato le condizioni imposte dalla legge;
    sono enti che sussistono senza scopo di lucro, ma nella realtà quotidiana si comportano come qualsiasi società con l'unica finalità di monetizzare e speculare sul patrimonio immobiliare e sugli stessi inquilini, utilizzando quel patrimonio che negli anni era stato acquistato con danaro pubblico e che aveva una finalità ben precisa: quella di tutelare l'emergenza abitativa;
    la stessa Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture nella segnalazione, approvata dal consiglio nella seduta del 26 gennaio 2011, e depositata il successivo 3 febbraio 2013, rafforza giuridicamente quanto illustrato, affermando che la contribuzione obbligatoria di tipo solidaristico, posta a carico degli iscritti, realizza una forma indiretta di concorso finanziario dello Stato; eppure, è lo stesso decreto legislativo n. 509 del 1994 che prevede che non sono consentiti finanziamenti pubblici diretti o indiretti;
    inoltre, è lo stesso allegato III della direttiva 2004/18/CE (modificabile solo seguendo la procedura all'uopo stabilita) ad elencare, in via non limitativa, gli organismi e le categorie di organismi di diritto pubblico, includendo espressamente in tale novero gli enti che gestiscono forme obbligatorie di previdenza e assistenza;
    quanto alla legge 23 agosto 2004, n. 243, articolo 1, comma 38, norma definita di interpretazione autentica, con cui il legislatore aveva escluso dalla dismissione di cui al decreto legislativo 16 febbraio 1996, n. 104, gli enti di cui al decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, la Corte di cassazione, in diverse occasioni, si è espressa affermando che tale norma, seppure formulata come norma di interpretazione autentica, ha carattere innovativo, quindi confermando l'esigenza di tutelare dei rapporti giuridici che, secondo le leggi previgenti, avevano previsto la prelazione o l'opzione legale a favore del conduttore qualificato;
    quindi, tale legge detta una nuova regolamentazione per le situazioni non esaurite escludendo, appunto, gli enti previdenziali successivamente «privatizzati» dalla speciale disciplina posta dal decreto legislativo n. 104 del 1996, operando il consueto limite delle situazioni giuridiche esaurite, dove la locuzione «limite consueto» esprime l'esigenza di tutela dei rapporti giuridici che, secondo le leggi previgenti, avevano previsto la prelazione o l'opzione legale a favore del conduttore qualificato; la trasformazione dell'ente in fondazione ha determinato un effetto giuridico di natura successoria per tutti i rapporti giuridici pendenti e per tutti i diritti di credito o gli obblighi assunti, in mancanza di una diversa e specifica disciplina legislativa. Questo dice la Corte di cassazione, queste sono le frasi utilizzate dai supremi giudici;
    allora, quelle case andavano vendute agli inquilini secondo i principi stabiliti nel decreto legislativo n. 104 del 1996, visto che le abitano, sin dall'inizio degli anni Settanta, le hanno continuate ad abitare anche quando la suindicata normativa obbligava gli enti a dismettere il patrimonio immobiliare, e, purtroppo, le vivono ancora oggi non potendole acquistare viste le gravose condizioni;
    infatti, il 90 per cento degli inquilini è affittuario delle case degli enti da prima del 1996 ed il legislatore, con decreto legislativo n. 104 del 1996 (modificato ed integrato dalla legge n. 410 del 2001), aveva deciso di disciplinare l'attività in campo immobiliare degli enti previdenziali – secondo una specifica tabella (allegata alla legge n. 70 del 1975) tra cui era ricompresa anche Enasarco, oltre a tutti gli enti di cui al decreto legislativo n. 509 del 1994;
    alla luce di quanto detto nell'interpellanza urgente è grave che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ritenga: «difficile ipotizzare, come richiesto dall'interpellante, sistematici processi di omogeneizzazione di obiettivi e procedure (procedure, in particolare, al di fuori delle prescrizioni generali dirette ad imporre il conseguimento del risultato fondamentale che è quello della sostenibilità pluriennale per garantire agli assicurati che avranno una pensione), alla luce della normativa vigente che continua a tutelarne l'autonomia e la ricerca individuale delle soluzioni più rispondenti alle esigenze delle categorie (...)»;
    invero, non applicare una procedura omogenea comporterebbe una palese violazione dei principi costituzionali, in particolare quelli previsti dall'articolo 3; infatti, non si comprende come sia possibile legittimare comportamenti diversi sia nelle vendite che negli affitti da parte degli stessi enti sottoposti alla stessa normativa e con conseguente danno a carico degli inquilini/affittuari;
    a contrario, dimentichi degli obiettivi di natura sociale per cui sono stati istituiti e sostenuti, e che permangono a tutt'oggi, attraverso quella che alla firmataria del presente atto di indirizzo appare una falsa e distorta applicazione della normativa in materia, gli enti privatizzati hanno, con il tempo, gestito la res publica (perché frutto del danaro pubblico) come se fosse cosa privata amministrata da soggetto privato, in aperto contrasto con quanto dispone la normativa sovranazionale nella direttiva 2004/18/CE e con quanto stabilisce la Corte di giustizia dell'Unione europea. In ordine agli evidenziati profili, secondo la prima firmataria del presente atto di indirizzo emergono manifestamente dei profili di illegittimità costituzionale nell'affermare la disciplina privatistica nel caso de quo, per stridente contrasto non solo con i principi fondamentali della Carta costituzionale, ma anche con la normativa sovranazionale, laddove la diretta applicabilità delle direttive, che hanno i caratteri della chiarezza e della precisione, è stata, tra l'altro, ormai riconosciuta dalla costante giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea (fin dal lontano 1963, nella sentenza relativa al caso Van Gend en Loos, causa 26/62);
    sulla richiesta di un tavolo tecnico interistituzionale, il Sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali, nel rispondere, affermava che, nella XVI legislatura la direzione generale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali aveva preso parte ad un tavolo tecnico unitamente al Ministero dell'economia e delle finanze; i lavori si sono conclusi con delle ipotesi normative da cui si potrebbe ripartire; si chiede di avere copia di tale lavoro e di poter sapere dai Ministeri competenti quando potrà ripartire tale tavolo e quali saranno i soggetti che vi faranno parte;
    sarebbe necessario, però, rispondere in tempi brevi a tali necessità, in primis con l'abrogazione dell'articolo 1, comma 38, della legge 23 agosto 2004, n. 243, e dell'articolo 168 della legge n. 228 del 2012, nella parte in cui prevede che: «le disposizioni di cui al comma 11-bis dell'articolo 3 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, non si applicano al piano di dismissioni immobiliari della Fondazione Enasarco»;
    nelle more dell'instaurazione del tavolo tecnico, prima che vengano stabilite le modalità ed i tempi per attuare tale tavolo interministeriale per le vendite, i rinnovi delle locazioni e le conseguenti problematiche legate al patrimonio degli enti, gli stessi comunque proseguono nella vendita, ragion per cui sarebbe auspicabile, anche alla luce dei quotidiani episodi di suicidio legati anche al problema casa, intervenire con un provvedimento urgente che possa in tempi brevi dirimere la controversia;
    oltre a ciò, non è dato comprendere il perché nessuna risposta è giunta dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali a giustificazione delle perdite di Enasarco, situazione che tocca quasi tutti gli altri enti, e cioè quelle relative agli investimenti finanziari per un ammontare di circa 1,5 miliardi di euro, di cui ben 780 milioni di euro investiti nel fondo Anthracite delle Isole Cayman;
    sono riconosciuti dalla stessa Enasarco, nel bilancio 2012, i problemi derivati dai titoli strutturati, poco efficienti, molto costosi, scarsamente liquidizzabili senza perdite e molto opachi;
    dallo stesso bilancio, infatti, emerge: «in virtù di una clausola contrattuale, della cui esistenza né l’advisor, né il direttore generale, né il dirigente del servizio finanza avevano dato conoscenza al consiglio d'amministrazione della Fondazione (...) la Fondazione, sulla base di verifica effettuata con i propri legali, in data 15 aprile 2013 si è vista costretta a corrispondere la somma di euro 14,7 milioni comprensiva di interessi ad Elliott management»;
    da un'indagine della Corte dei conti, pubblicata solo nel giugno 2013, sulla gestione finanziaria di Enasarco per gli esercizi 2010-2011 emerge: «questa Corte porrà la massima attenzione nella propria relazione al bilancio 2012, sul quale impatteranno gli effetti negativi in termini di sopravvenienza passiva, per la suddetta restituzione»;
    per quanto risulta ai firmatari del presente atto di indirizzo, il portafoglio degli investimenti immobiliari e mobiliari presenterebbe uno sbilanciamento anomalo dell’asset allocation, che vedrebbe la parte illiquida rappresentata dal 92 per cento circa del totale investito rispetto all'8 per cento della parte liquida;
    gli «investimenti alternativi» sarebbero concentrati in maniera anomala attorno a 3 fondi, che andrebbero a finanziare veicoli off shore basati all'estero e rappresenterebbero complessivamente 1.815 milioni di euro del valore di carico, quasi il 93 per cento del totale del valore di carico degli «investimenti alternativi», e cioè il 29 per cento circa del totale degli asset investiti (6.284 milioni di euro);
    i tre fondi, per quanto risulta ai firmatari del presente atto di indirizzo, registrerebbero minusvalenze significative in termini di differenza fra net asset value a valori di mercato e valore di carico dell'apporto di capitale investito, responsabili in maniera preponderante della perdita complessiva di valore del totale della minusvalenza del totale del patrimonio mobiliare, pari a circa 570 milioni di euro;
    tali investimenti, in tutti e tre i casi, a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, violerebbero complessivamente i limiti 1, 2 e 3 dell'articolo 15 del regolamento per l'impiego delle risorse finanziarie della Fondazione Enasarco;
    l'operato apparentemente illecito è stato persino confermato dall'ex presidente di Enasarco. Infatti, lo stesso ex presidente di Enasarco Donato Porreca sulla rivista Il Mondo, rivista autorevole nell'informazione economica, in data 7 giugno 2013 pubblica una lettera aperta in cui attacca i vertici di Enasarco, attribuendo specifiche responsabilità circa la gestione del patrimonio immobiliare e mobiliare, muovendo delle accuse precise agli attuali vertici della fondazione Enasarco non solo sugli investimenti nei titoli tossici, ma anche sulla dismissione del patrimonio immobiliare. Lo stesso afferma che: «ma ora non posso tacere, visto come qualcuno si è esercitato nell'italica ed atavica virtù dello scaricabarile, vanamente tentando di mistificare sui propri fallimenti invocando gravose eredità del tutto inventate (Il Mondo 19, ma soprattutto nel notiziario Enasarco 10). Si tenta di spacciare iniziative improvvide come il famoso titolo Anthracite, come fossero state realizzate nel 2005, nel 2001-2004 o nel 2007, ma per ristrutturare titoli acquistati nel periodo 2001-2005. Detto prodotto è stato, invece, acquisito nel 2007 (...) al momento delle mie dimissioni (28 novembre 2006) provocate dalla vicenda giudiziaria che mi incombeva e che, si badi bene, non ha mai e dico mai riguardato la gestione della fondazione, né mobiliare, né immobiliare (...)». Continuano gli attacchi mirati del Porreca: «ho lasciato oltre un miliardo e 200 milioni di euro in contanti nelle casse della fondazione. Anzi, per maggior precisione in pronti contro termine a breve. Ho lasciato la fondazione con un bilancio tecnico perfetto e con la sostenibilità del sistema, così come prevista dalle leggi in vigore, un patrimonio immobiliare di oltre 3 miliardi in tutta sicurezza ed un piano per la dismissione degli immobili che, nel rispetto della più assoluta trasparenza, avrebbe portato nelle casse della fondazione 3 miliardi e 250 milioni, pari al valore stimato degli immobili e pari alla somma iscritta in bilancio a tale titolo. Il tutto cash e senza costi di due diligence e nel pieno rispetto dei diritti degli inquilini in ordine alla prelazione, al sostegno alle fasce sociali deboli e sotto l'egida del consiglio di amministrazione di Enasarco (...) si è frettolosamente accantonato il piano di dismissioni già predisposto ed approvato dagli organi di amministrazione e governativi per procedere al cosiddetto piano Mercurio, che dopo anni e anni e dopo costi gravosi è ancora lontanissimo dalla conclusione, con grave danno della fondazione, degli inquilini e degli stessi stabili privi di manutenzione ordinaria e straordinaria»;
    sulla richiesta dell'interpellante di una moratoria, alla luce delle difficili condizioni e gravose situazioni che moltissimi enti previdenziali utilizzano a danno degli inquilini, è sicuramente contraddittoria o di difficile comprensione la posizione assunta dal Governo attraverso il Sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali; infatti, lo stesso per tutelare le casse ha citato l'articolo 38 della Costituzione, pur dimenticando che i comportamenti attuati dagli enti a danno degli inquilini violano gli articoli 2, 3, 10 e 97;
    ma vi è di più: non è chiaro come possa sostenersi che Enasarco ha rivolto particolare attenzione ai risvolti socioeconomici di tale operazione di dismissione, se i diretti interessati, gli inquilini, non sono riusciti a poter acquistare l'agognata casa o, nei casi migliori, si sono visti costretti a firmare mutui con condizioni allucinanti, perché le banche (Monte dei Paschi di Siena e Bnl), a dispetto delle gare pubbliche cui erano obbligate, non hanno rispettato le condizioni prestabilite. Il tutto nell'assoluta inerzia delle istituzioni e degli enti preposti al controllo;
    nel mese di luglio 2013, la magistratura ha evidenziato forti infiltrazioni mafiose nella dismissione e/o assegnazione degli immobili Enasarco ad Ostia; l'ente sembra dichiararsi estraneo alla vicenda, dimostrando, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, una completa incompetenza e il mancato controllo degli immobili che gestisce;
    non si comprende come può essere giustificata la circostanza che, in data 11 settembre 2008, Enasarco, nella persona del presidente Brunetto Boco e del direttore generale Carlo Felice Maggi, ha firmato un accordo con le organizzazioni sindacali, a dispetto della circostanza che la delibera del consiglio di amministrazione, con la quale è stato approvato il piano di dismissione del patrimonio immobiliare, inteso a perseguire l'obiettivo di stabilità del bilancio tecnico ultratrentennale, è datata 18 settembre 2008;
    inoltre, non si può non far rilevare che, in data 12 novembre 2013, è stato pubblicato un articolo sul quotidiano La Stampa, che riguardava una maxitruffa di 80 milioni di euro con due arrestati avvenuta a Torino a seguito di un'indagine della Guardia di finanza; in tale articolo affiorava che: «i commercialisti potevano contare su consulenti legali (uno pure radiato dall'ordine degli avvocati), ma anche su colleghi. Come l'ex associato e docente universitario, nonché ex direttore dell'Enasarco di Roma, che proprio in quegli uffici aveva piazzato la sede di una società servita a fabbricare fatture fasulle. Lui e Boggi chiacchieravano al tavolo di un ristorante «in» del centro. A spese dei contribuenti onesti (...)», La descrizione sembrerebbe corrispondere a Carlo Felice Maggi ex direttore di Enasarco e massimo responsabile del «progetto Mercurio» ed ex consigliere del fondo immobiliare Idea Fimit sgr. Se fosse così sarebbe enormemente preoccupante quanto denunciato nell'articolo;
    che la nomina del presidente di Enasarco, Brunetto Boco, sia avvenuta in contrasto con l'articolo 17 dello statuto è, secondo la prima firmataria del presente atto di indirizzo, assolutamente pacifico e lo si può affermare senza impelagarsi in inutili e fantasiose esasperazioni di diritto. È sufficiente leggere l'articolo 17 dello statuto della fondazione, dove in modo chiaro – e non si tratta di una mera presunzione – è stabilito che per la nomina del presidente è richiesto il requisito della professionalità che, ai sensi dell'articolo 1, comma 4, lettera b), del decreto legislativo n. 509 del 1994, è ritenuto esistente solo nei soggetti appartenenti alla categoria degli agenti e rappresentanti di commercio, anche in stato di quiescenza. Il signor Brunetto Boco, non rivestendo la qualità di rappresentante di commercio né attivo né in pensione, non poteva essere eletto consigliere e conseguentemente presidente. Circostanze che a giudizio della firmataria del presente atto di indirizzo dovrebbero integrare i presupposti di cui all'articolo 2, comma 6, del decreto legislativo n. 509 del 1994 e, di conseguenza, comportare il commissariamento dell'ente e, se ciò non dovesse accadere, chi farà tale scelta se ne assumerà le conseguenze;
    ecco perché sarebbe adeguato fare confluire tutti gli enti privatizzati, di cui al decreto legislativo n. 509 del 1994, con i relativi patrimoni immobiliari, anche se conferiti a fondi pensioni di società di gestione del risparmio, nell'Inps, così come avvenuto per Inpdap e Enpals, in modo da poter tutelare gli iscritti beneficiari dei trattamenti pensionistici, attuando le eventuali vendite anche attraverso fondi immobiliari completamente gestiti dal Ministero dell'economia e delle finanze. Tale possibilità porterebbe un duplice risultato: a) ridurre i costi sostenuti dalla casse; b) rendere più agevole il controllo e la vendita del patrimonio immobiliare, evitando così delle speculazioni a danno dei cittadini, cosa che invece sta accadendo,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative normative urgenti volte:
    a) ad abrogare sia l'articolo 1, comma 38, della legge 23 agosto 2004, n. 243, che l'articolo 1, comma 168, della legge n. 228 del 2012, nella parte in cui prevede che: «le disposizioni di cui al comma 11-bis dell'articolo 3 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, non si applicano al piano di dismissioni immobiliari della Fondazione Enasarco (...)», poiché trattasi di norme ad avviso della firmataria del presente atto di indirizzo non in linea con i principi costituzionali;
    b) a precisare che alle dismissioni degli enti previdenziali, di cui al decreto legislativo n. 509 del 1994, si applica il decreto legislativo n. 104 del 1996;
    c) a stabilire, altresì, che il decreto legislativo n. 104 del 1996 trovi applicazione anche nei confronti delle dismissioni attuate attraverso i fondi immobiliari di società di gestione del risparmio che hanno avuto il conferimento del loro patrimonio da enti previdenziali di cui al decreto legislativo n. 509 del 1994;
    d) a sospendere gli sfratti per finita locazione e morosità degli inquilini degli enti previdenziali, anche se attuati attraverso fondi immobiliari di società di gestione del risparmio o di altre società, per un tempo non inferiore ad un anno;
   a disporre, in relazione alle dismissioni degli enti previdenziali privatizzati, ai sensi del decreto legislativo n. 509 del 1994, un tavolo tecnico interistituzionale finalizzato a definire norme trasparenti per la stipula ed i rinnovi dei canoni di locazione nelle more della dismissione del patrimonio immobiliare;
   a verificare, attraverso gli uffici competenti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, la legittimità della nomina del presidente di Enasarco Brunetto Boco;
   ad effettuare, attraverso gli uffici competenti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, l'immediata analisi della gestione finanziaria dell'ente e ad accertare le relative responsabilità del presidente e degli organi del consiglio di amministrazione;
   a verificare, attraverso gli uffici competenti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, quali siano state le azioni che l'ente ha intrapreso nei confronti dei responsabili delle perdite provocate sugli investimenti finanziari, come indicato nel bilancio consuntivo 2012;
   a verificare, attraverso gli uffici competenti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, quali siano state le azioni che l'ente ha intrapreso per accertare chi siano i responsabili di quanto ha denunciato la magistratura sulla gestione delle assegnazioni/dismissioni degli immobili ad Ostia;
   ad accertare e a verificare tramite ispezione dell'Agenzia delle entrate la reale rispondenza delle categorie catastali degli immobili di proprietà di Enasarco a quelle denunciate dallo stesso ente;
   a porre rimedio, con un'adeguata iniziativa normativa, anche al conflitto d'interesse che sta scaturendo dal fatto che le stesse organizzazioni sindacali che compongono il consiglio d'amministrazione degli enti previdenziali sono anche firmatarie degli accordi di vendita del patrimonio e/o di rinnovi contrattuali degli affitti in rappresentanza degli inquilini;
   a valutare di fare confluire tutti gli enti previdenziali privatizzati, di cui al decreto legislativo n. 509 del 1994, con i relativi patrimoni immobiliari anche se conferiti a fondi pensione di società di gestione del risparmio, nell'Inps, così come avvenuto per l'Inpdap e l'Enpals – tale scelta risolverebbe gran parte delle criticità su indicate – in modo da poter tutelare al meglio gli iscritti beneficiari dei trattamenti pensionistici.
(1-00092)
(Nuova formulazione) «Lombardi, Villarosa, Bechis, Grillo, Daga».


   La Camera,
   premesso che:
    in questa fase di crisi economica, l'emergenza abitativa risulta essere uno dei fattori di maggiore e crescente tensione sociale che coinvolge larghi strati della popolazione: dalle categorie a rischio fino a larghe fasce di ceto medio, oltre 430.000 famiglie sono in difficoltà con il pagamento dei mutui, mentre solo nel 2012 sono state 67.790 le sentenze di sfratto (oltre 250.000 negli ultimi quattro anni), di cui l'87 per cento per morosità. Una situazione di vero allarme che riguarda tutto il Paese, anche se con situazioni di vera e propria emergenza per le grandi aree urbane e per le regioni dell'Italia settentrionale, ove, proprio per l'incidenza della crisi economica, le percentuali di sfratti per morosità incolpevole superano il 90 per cento;
    lo stato attuale del mercato immobiliare e del sistema di accesso al credito non fanno che aggravare il quadro sopra descritto, in quanto l'offerta di abitazioni private – a costi molto elevati, assolutamente inaccessibili per famiglie e giovani coppie, anche a fronte delle gravose condizioni richieste per ottenere finanziamenti a tal fine diretti – sovrasta nettamente l'offerta pubblica, che negli ultimi anni è scesa fino a toccare, attualmente, un quota di poco avvicinabile all'uno per cento della produzione edilizia complessiva;
    l'inerzia da parte delle autorità pubbliche in materia, le quali – al di fuori di provvedimenti disorganici ed estemporanei – non sono state capaci di promuovere politiche innovative per la casa, che permettano di arrestare il consumo di suolo e, al contempo, favorire il recupero urbano per rilanciare l'edilizia residenziale pubblica e a fini sociali, mette seriamente a rischio il diritto alla casa e l'accesso alla proprietà della stessa, sancito dall'articolo 47 della Costituzione;
    aspetto di estrema rilevanza nella situazione esposta di crisi abitativa è quello attinente alla dismissione del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali pubblici e privatizzati, dismissione che ancora oggi investe le vicende umane e le sorti di numerosi nuclei familiari;
    nello specifico, gli affittuari degli immobili degli enti previdenziali privatizzati hanno subito un continuo e costante aggravio delle loro condizioni abitative: considerevoli sono gli aumenti dei canoni di affitto per il rinnovo dei contratti di locazione e, in molti casi, anche l'acquisto dell'alloggio è reso impossibile a causa dei prezzi – a valore di mercato – praticati dagli enti stessi, senza neanche tenere conto dello stato reale in cui versano gli immobili e in molti casi delle agevolazione fiscali e urbanistiche avute in passato. Tutto ciò è causa di una situazione di intollerabile disagio sociale;
    a determinare il contesto di emergenza abitativa sopra introdotto ha contribuito in maniera rilevante la successione nel tempo di una serie considerevole, nonché disorganica e talvolta contraddittoria, di provvedimenti normativi che hanno gradualmente mutato il regime dei rinnovi dei contratti di locazione e della vendita degli immobili inerenti al patrimonio degli enti previdenziali privatizzati, facendo sorgere molti dubbi, oltre che sulla sostenibilità sociale, anche sulla legittimità delle procedure in atto;
    tali vicende normative prendono il via con il decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, – con il quale si avvia la privatizzazione degli enti previdenziali, che assumono personalità giuridica di diritto privato, pur continuando a sussistere come enti senza scopo di lucro – e si diramano passando per il decreto legislativo 16 febbraio 1996, n. 104, come integrato dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, – che disciplina l'attività in campo immobiliare degli enti previdenziali pubblici – l'articolo 1, comma 38, della legge n. 243 del 2004, il decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 2010, il decreto-legge n. 201 del 2011 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011 e la direttiva europea 2004/18/CE;
    tra gli atti normativi sopra citati, causa una particolare situazione di incertezza la formulazione della legge di interpretazione autentica di cui all'articolo 1, comma 38, della legge n. 243 del 2004, la quale esclude che le norme sulla dismissione del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali pubblici – nello specifico l'articolo 1, comma 1, del decreto legislativo n. 104 del 1996, che regola il campo di applicazione dell'intera disciplina – si applichino agli enti previdenziali privatizzati, anche quando la trasformazione degli enti in questione in persone giuridiche di diritto privato sia avvenuta successivamente all'entrata in vigore del decreto stesso. La sopra citata norma contenuta nella legge n. 243 del 2004, ha dato il via, di fatto, a operazioni di dismissione a prezzi di mercato, con valori correnti, e a rinnovi dei contratti di locazione con aumenti dei canoni anche fino al 300 per cento, con conseguenti rischi di sfratto per gli inquilini non più disposti ad accettare i nuovi e insostenibili, prezzi di locazione;
    la norma interpretativa stabilita dalla sopra citata legge n. 243 del 2004 è già stata oggetto di pronuncia a sezioni unite 22 giugno 2006, n. 20322, da parte della Suprema Corte di cassazione, la quale si è espressa contestandone la natura di legge di interpretazione autentica, attribuendole invece portata innovativa, determinando così che i rapporti giuridici sorti sulla base delle leggi previgenti seguano il regime di tutela stabilito da queste ultime. Pertanto, la dismissione del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali, privatizzati successivamente all'entrata in vigore del decreto legislativo n. 104 del 1996, dovrebbe seguire quest'ultima disciplina e le successive modifiche e integrazioni;
    pur in presenza dell'ambigua norma interpretativa sopra citata, non dovrebbero tuttavia permanere dubbi sull'intrinseca natura pubblicistica degli enti previdenziali privatizzati, la quale si desumerebbe anche alla luce di quanto stabilito dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, il cui articolo 5 prevede che, ai fini dell'applicazione delle disposizioni in materia di finanza pubblica, per amministrazioni pubbliche si intendano gli enti e i soggetti indicati ai fini statistici nell'elenco oggetto del comunicato dell'Istituto nazionale di statistica emanato in data 24 luglio 2010, il quale comprende gli enti sopra citati;
    inoltre, per chiarire la natura degli enti previdenziali privatizzati, può essere portato a sostegno quanto previsto nel decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, che al comma 11-bis dell'articolo 3 – rubricato «razionalizzazione del patrimonio pubblico e riduzioni dei costi per locazioni passive» – introduce una nuova e specifica procedura di dismissione immobiliare per gli enti previdenziali inseriti nel conto economico della pubblica amministrazione. Altresì, la pronuncia del Consiglio di Stato, sezione VI, n. 6014 del 2012, ha chiarito in via definitiva che, il mutamento operato dal decreto legislativo n. 509 del 1994 ha lasciato immutato il carattere pubblicistico dell'attività istituzionale di previdenza e assistenza, svolta dagli enti in esame, che conservano una funzione strettamente correlata all'interesse pubblico, costituendo, la privatizzazione, un'innovazione di carattere essenzialmente organizzativo, interpretazione confermata nella sentenza della sezione III del Tar del Lazio, 12 giugno 2013, n. 05938;
    il quadro tracciato, connotato da forte disorganicità e ambiguità normativa, determina, tra l'altro, un'irragionevole eterogeneità di situazioni tra ente ed ente, che rischia di creare situazioni di iniquità di trattamento, a riprova della quale non può non citarsi la disposizione di cui all'articolo 1, comma 168, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la quale esclude espressamente l'applicabilità delle procedure di dismissione introdotte dal comma 11-bis dell'articolo 3 della legge n. 135 del 2012, contenenti aspetti di maggior favor per i conduttori al piano di dismissione immobiliare della fondazione Enasarco;
    posto quanto sopra illustrato circa la situazione di disagio in cui versano i conduttori di immobili degli enti previdenziali privatizzati, non meno preoccupante può considerarsi quanto sta accadendo ai conduttori di immobili appartenenti agli enti previdenziali pubblici, per l'interruzione del processo di alienazione e per la scadenza dei contratti di locazione che rendono insicuro e incerto il futuro delle famiglie dei conduttori con titolo nonché degli occupanti sine titulo, nonostante siano chiaramente indicati dalla legge n. 410 del 2001 condizioni e prerogative per la vendita degli immobili di tali enti, il cui patrimonio residuo è ora entrato integralmente in possesso dell'Inps;
    l'Inps stessa, tuttavia, attende chiare indicazioni operative da parte dei Ministeri dell'economia e delle finanze e del lavoro e delle politiche sociali vigilanti sull'istituto, anche in relazione alla sopravvenuta norma sulla dismissione del patrimonio immobiliare pubblico, presente all'articolo 27 del cosiddetto «decreto Salva Italia» 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011;
    alla luce di tutto ciò, non sembra rinviabile un pronunciamento sulla questione da parte del Governo e degli organi parlamentari, affinché il processo di alienazione degli immobili degli enti previdenziali pubblici e privatizzati avvenga in un quadro di tutela e garanzia sociale delle famiglie interessate,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative indirizzate a chiarire il quadro normativo entro cui deve svolgersi il processo di alienazione del patrimonio immobiliare dei vari enti previdenziali privatizzati, affinché le procedure avvengano in maniera trasparente e uniforme, evitando disparità di trattamento;
   a promuovere con urgenza, nel quadro di tali iniziative, misure finalizzate all'abrogazione dell'articolo 1, comma 38, della legge 23 agosto 2004, n. 243, e dell'articolo 1, comma 168, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, nella parte in cui prevede che: «le disposizioni di cui al comma 11-bis dell'articolo 3 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, non si applicano al piano di dismissioni immobiliari della Fondazione Enasarco (...)»;
   a intervenire per tutelare gli inquilini, vigilando sui prezzi di vendita degli immobili degli enti e sull'entità dei canoni di affitto al momento del rinnovo del contratto di locazione, traendo primario riferimento da quanto stabilito dalla legge n. 410 del 2001;
   ad intervenire in modo chiaro presso gli enti previdenziali pubblici, in particolare presso l'Inps, affinché vengano riprese con celerità e con eguali tutele – in particolare quelle previste dal comma 20 dell'articolo 3 della legge n. 410 del 2001, confermate dall'articolo 43-bis del decreto-legge n. 207 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 14 del 2009 – le procedure di alienazione degli immobili reimmessi in possesso dell'Inps stesso;
   a disporre, in relazione alle dismissioni immobiliari degli enti previdenziali, un tavolo tecnico interistituzionale e di confronto sindacale per raggiungere le finalità sopra indicate e provvedere alla regolarizzazione degli occupanti sine titulo e alle assegnazioni irregolari di alloggi, indicando inoltre percorsi per agevolare l'accesso al credito delle famiglie con reddito medio basso, con mutui sostenibili e finalizzati all'acquisto;
   a sospendere, nelle more dell'instaurazione del tavolo tecnico e dell'adozione dei provvedimenti necessari, l'esecuzione degli sgomberi nonché delle aste e degli sfratti per morosità incolpevole riguardanti unità immobiliari ad uso residenziale;
   ad utilizzare il patrimonio abitativo sfitto e disponibile degli enti previdenziali, anche quello conferito ai fondi immobiliari, mettendolo a disposizione dei comuni per affrontare l'emergenza abitativa;
   ad adottare provvedimenti idonei a vincolare gli enti previdenziali pubblici o privatizzati a riconsiderare contratti già stipulati secondo forme e canoni socialmente sostenibili e a stipulare e rinnovare i contratti di locazione, tenendo conto della situazione di difficoltà economica delle famiglie;
   a prevedere, in attesa di chiarimenti sulle procedure da adottare scaturenti dall'apposito tavolo tecnico all'uopo istituito, il blocco delle procedure di alienazione degli immobili degli enti previdenziali privatizzati e degli aumenti dei canoni connessi ai rinnovi contrattuali, nonché delle procedure di sfratto in corso;
   a prevedere, con apposito provvedimento, che il prezzo di alienazione degli immobili, le cui procedure sono in fase di attuazione, rimanga fermo per un periodo comunque non inferiore a 5 anni, in modo da garantire a tutti coloro che attualmente non sono in grado di procedere all'acquisto la possibilità di poterlo effettuare alle medesime condizioni.
(1-00149) «Piazzoni, Migliore, Nicchi, Aiello, Zan, Zaratti, Pellegrino, Boccadutri, Pilozzi».


   La Camera,
   premesso che:
    nell'attuale contesto di crisi economica che colpisce il Paese, l'emergenza abitativa rappresenta un elemento di maggiore e crescente tensione sociale, che riguarda diversi strati della popolazione, non soltanto le categorie a rischio, ma anche larghe fasce di ceto medio, giovani coppie e famiglie con doppio reddito;
    tale situazione è dovuta ad una coesistenza di fattori: l'andamento del mercato immobiliare con un'offerta di abitazioni private a costi sempre più elevati; la difficoltà di accesso al credito con le banche restie nel concedere mutui e la mancanza di politiche abitative volte all'ammodernamento del patrimonio immobiliare esistente, con il recupero urbano e senza ulteriore consumo del suolo;
    la scarsità di alloggi di edilizia residenziale pubblica da concedere in locazione, in combinazione con le difficoltà di accesso al credito da parte delle giovani coppie che nell'attuale momento di crisi economica sono sempre più contrassegnate dalla precarietà di lavoro, non solo ostacola la naturale formazione di nuovi nuclei familiari, ma crea anche un disagio sociale che vede caricare sui privati proprietari immobiliari i problemi dell'edilizia sociale;
    le continue proroghe degli sfratti nelle aree di crisi abitativa non hanno fatto altro che caricare sui privati proprietari immobiliari la risoluzione dei problemi abitativi delle categorie socialmente deboli; è riconosciuto da tutti ormai che i timori sulla mancanza di garanzia per l'immediata restituzione dell'immobile al locatore alla scadenza del contratto, mancanza di garanzia che in passato ha costretto i piccoli proprietari a tenere spesso gli immobili sfitti, ha inciso pesantemente sulla paralisi del settore delle locazioni e sull'innalzamento dei prezzi degli affitti;
    parte di tale disagio abitativo è dovuto anche alla dismissione del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali pubblici e privati;
    la normativa di riferimento in materia risale al decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, con il quale si avvia la privatizzazione degli enti previdenziali, cui fa seguito il decreto legislativo 16 febbraio 1996, n. 104, come integrato dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, (che disciplina l'attività in campo immobiliare degli enti previdenziali pubblici), l'articolo 1, comma 38, della legge n. 243 del 2004, il decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 112 del 2010, il decreto-legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, la direttiva europea 2004/18/CE;
    il susseguirsi di interventi legislativi ha, di fatto, creato un panorama indefinito ed eterogeneo di situazioni tra ente ed ente, che necessita di chiarimenti per evitare speculazioni ed iniquità di trattamento;
    in particolare, pare che a creare maggiore confusione sia stata la norma di interpretazione autentica di cui all'articolo 1, comma 38, della legge n. 243 del 2004, la quale esclude che le norme sulla dismissione del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali pubblici possano applicarsi agli enti previdenziali privatizzati; disposizione sulla quale si è pronunciata anche la Corte di cassazione, con sentenza a sezioni unite n. 20322 del 22 giugno 2006, contestandone la natura di norma di interpretazione autentica e attribuendole di contro portata innovativa;
    peraltro, la natura pubblicistica degli enti previdenziali pur privatizzati trova, comunque, conferma da quanto stabilito all'articolo 5 della legge n. 44 del 2012, laddove si dispone che, ai fini dell'applicazione delle disposizioni in materia di finanza pubblica, per amministrazioni pubbliche si intendono gli enti ed i soggetti indicati nell'elenco Istat oggetto di comunicato pubblicato in data 24 luglio 2010, il quale comprende, per l'appunto, gli enti privatizzati;
    a rendere ancora più disorganico il quadro normativo inerente all'alienazione degli immobili da parte degli enti e, conseguentemente, disomogenee le modalità di dismissione adottate dagli stessi è l'articolo 1, comma 168, della legge di stabilità per il 2013 (legge 24 dicembre 2012, n. 228), laddove prevede che «(...) le disposizioni di cui al comma 11-bis dell'articolo 3 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n.135 (cosiddetta spending review bis) non si applicano al piano di dismissioni immobiliari della fondazione Enasarco (...)»;
    non meno confusa appare la situazione che investe gli immobili degli enti previdenziali pubblici, già oggetto in passato delle operazioni cosiddette Scip 1 e Scip 2;
    il patrimonio residuo invenduto è ora entrato integralmente in possesso dell'Inps; lo stesso presidente dell'istituto ha scritto ai Ministeri vigilanti, Ministeri dell'economia e delle Finanze e del lavoro e delle politiche sociali, per chiedere chiarimenti sul da farsi, anche alla luce del sopravvenuto intervento normativo sulla dismissione del patrimonio immobiliare pubblico di cui all'articolo 27 del «decreto salva Italia», decreto-legge n. 201 del 2011;
    a parere dei firmatari del presente atto di indirizzo, gli enti previdenziali privatizzati e pubblici devono garantire in primis i trattamenti previdenziali dei loro iscritti, salvaguardando i versamenti contributivi da loro effettuati,

impegna il Governo:

   ad adottare le opportune iniziative atte a definire un quadro normativo univoco per tutti gli enti previdenziali, pubblici e privatizzati, entro cui debbano svolgersi le operazioni di dismissione del relativo patrimonio immobiliare;
   ad intervenire, nell'ambito della dismissione degli immobili degli enti privatizzati, da un lato, per garantire agli inquilini uniformità di trattamento nella definizione del prezzo di vendita da parte degli enti, parametrato a prezzo di mercato, e, dall'altro, per tutelare, al contempo, i versamenti contributivi degli iscritti agli enti medesimi, tenuto conto che con essi nel tempo gli enti hanno proceduto all'acquisto di siffatto patrimonio immobiliare;
   ad intervenire, altresì, presso gli enti previdenziali pubblici e, in particolare, presso l'Inps, come richiesto dal suo stesso presidente, affinché vengano riprese con celerità e chiarezza, le operazioni di alienazione degli immobili reimmessi in possesso dell'istituto medesimo, sempre con definizione del prezzo di vendita parametrato al prezzo di mercato;
   ad attuare, in collaborazione con le regioni, una riforma degli strumenti di edilizia residenziale pubblica, con l'introduzione di modelli innovativi di partenariato pubblico e privato, in grado di ampliare il parco alloggi dell'edilizia sociale, incentivando, anche con benefici economici rivolti alla copertura dei costi legati alla bonifica delle aree e degli immobili dismessi, o non più utili ai loro fini istituzionali, le iniziative di recupero e ristrutturazione urbanistica ed edilizia che evitano l'espansione urbana delle periferie.
(1-00252) «Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini».


MOZIONI FRATOIANNI ED ALTRI N. 1-00190, ZAMPA, MARAZZITI ED ALTRI N. 1-00156, GIANCARLO GIORGETTI, CORSARO ED ALTRI N. 1-00266, COSTA ED ALTRI N. 1-00267, TONINELLI ED ALTRI N. 1-00269 E PALESE ED ALTRI N. 1-00271 CONCERNENTI INIZIATIVE IN ORDINE ALLA DISCIPLINA DELL'INGRESSO, DEL SOGGIORNO E DELL'ALLONTANAMENTO DEI CITTADINI STRANIERI, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA PROBLEMATICA DEI CENTRI DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE

Mozioni

   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, così come modificato dall'articolo 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94, ha introdotto nell'ordinamento italiano il «reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato»;
    l'Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per non aver rispettato il principio del non-respingimento, contenuto nella convenzione di Ginevra del 1951;
    l'articolo 13 della Costituzione recita che «la libertà personale e inviolabile (...) non è ammessa forma alcuna di detenzione, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge»;
    a fronte del dettato costituzionale, tuttavia, nei centri di identificazione ed espulsione, quanto ha luogo è, a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, una vera e propria detenzione regolata da provvedimenti amministrativi, caratterizzata peraltro da pratiche disomogenee sul territorio e da sostanziali disparità di condizioni di trattenimento, in violazione del principio di uguaglianza;
    secondo i dati di Famiglia cristiana, che riprendono quelli elaborati dalla direzione generale della giustizia penale del Ministero della giustizia, paradossalmente, prima dell'introduzione del reato attualmente previsto e punito dall'articolo 10-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998, il numero di espulsioni per coloro che si trovavano in Italia in maniera irregolare era addirittura maggiore: il 49 per cento nel 2003 contro il 28 per cento del 2012;
    secondo quanto riportato nel rapporto «Costi disumani. Spesa pubblica per il contrasto all'immigrazione irregolare» – redatto a cura dell'associazione Lunaria e, recentemente, presentato in sede di audizione dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato della Repubblica – dal 2005 al 2011 sono stati impegnati 143,8 milioni di euro in media all'anno per allestire, gestire, mantenere e ristrutturare il sistema dei centri (cda, cpsa, cara, cie). «In particolare per i CIE i dati identificabili negli avvisi pubblici per l'affidamento della loro gestione in base ai capitolato unico di appalto di gara del novembre 2008, portano a stimare i soli costi di funzionamento in almeno 25,1 milioni di euro l'anno, cui aggiungere i costi di manutenzione ordinaria e straordinaria (non quantificabili con solo riferimento ai CIE), i costi per la sorveglianza dei Centri (non inferiori a 26,3 milioni l'anno), i costi di missione del personale di scorta che procede all'esecuzione dei rimpatri coatti (il cui costo medio annuale può essere stimato in 3,6 milioni di euro). I costi minimi sicuramente riconducibili al sistema di detenzione amministrativa nei CIE sono dunque pari ad almeno 55 milioni di euro l'anno»;
    i centri di identificazione ed espulsione (cie), istituiti dalla legge 6 marzo 1998, n. 40, e previsti dal testo unico sull'immigrazione (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), sono strutture di trattenimento degli stranieri in condizione di irregolarità, destinati all'espulsione;
    l'articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, così come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, cosiddetta legge «Bossi-Fini», prevede che «quando non sia possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento», «il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso» il centro di identificazione ed espulsione, e che, quindi, tali strutture siano destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, dei cittadini stranieri extracomunitari irregolari e destinati all'espulsione;
    a far data dall'8 agosto 2009, con l'entrata in vigore della legge 15 luglio 2009, n. 94 (il cosiddetto pacchetto sicurezza), il termine massimo di permanenza degli stranieri in tali centri è passato da 60 giorni a 180 giorni complessivi, rafforzando così la loro natura di luoghi di permanenza obbligatoria e, nei fatti, di luoghi di detenzione amministrativa delle e dei migranti;
    secondo i dati forniti dalla polizia di Stato, nel 2012 erano 7.944 (7.012 uomini e 932 donne) i migranti trattenuti in tutti i centri di identificazione ed espulsione operativi in Italia. Di questi, solo la metà (4.015) sono stati effettivamente rimpatriati con un tasso di efficacia (rapporto tra rimpatriati e trattenuti) del 50,54 per cento. Rispetto al 2010, il rapporto tra i migranti rimpatriati rispetto al totale dei trattenuti nei centri di identificazione ed espulsione è cresciuto di appena il 2,3 per cento, mentre, rispetto al 2011, l'incremento del tasso di efficacia nei rimpatri è risultato addirittura irrilevante (+0,3 per cento);
    il citato articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, al comma 2 dispone che in tali centri lo straniero è trattenuto «con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza e il pieno rispetto della sua dignità»;
    l'articolo 21 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, specifica che le modalità del trattamento nei centri di identificazione ed espulsione «devono garantire, nel rispetto del regolare svolgimento della vita in comune, la libertà di colloquio all'interno del centro e con visitatore proveniente dall'esterno, in particolare con il difensore che assiste lo straniero, e con i ministri di culto, la libertà di corrispondenza, anche telefonica, ed i diritti fondamentali della persona» e che in tali centri devono essere presenti «i servizi sanitari essenziali, gli interventi di socializzazione e la libertà di culto» e i «servizi predisposti per le esigenze fondamentali di cura, assistenza, promozione umana e sociale»;
    all'interno dei centri di identificazione ed espulsione si sono verificate gravi violazioni dei diritti umani, come denunciato sia da inchieste ed articoli di stampa, sia dalle associazioni di volontariato e dalle associazioni per la tutela dei diritti umani, tra le quali anche Amnesty International e Medici senza Frontiere, e fin dall'indagine interministeriale presentata dall'ambasciatore Staffan de Mistura nel 2007;
    sono numerosissimi gli atti di autolesionismo e tentativi di suicidio che sono stati anche denunciati da autorevoli organizzazioni impegnate nel campo dei diritti;
    in particolare, come risulta dall'indagine «Arcipelago CIE» realizzata tra febbraio 2012 e febbraio 2013 da Medici per i diritti umani (Medu) e pubblicata a maggio 2013, la struttura dei centri di identificazione ed espulsione è simile a quella dei centri di internamento. «L'inattività forzosa per prolungati periodi di tempo, in spazi angusti ed inadeguati, insieme all'incertezza sulla durata e l'esito del trattenimento, rendono il disagio psichico dei migranti uno degli aspetti più preoccupanti e di più difficile gestione all'interno dei centri»;
    da un punto di vista prettamente sanitario, le indagini di Medici per i diritti umani evidenziano, inoltre, che «in generale all'interno dei Centri di identificazione e di espulsione, non è previsto personale medico specialistico anche laddove sarebbe certamente necessario»;
    dalle visite effettuate da molti parlamentari nei centri di identificazione ed espulsione italiani sono emerse diverse criticità, prima fra tutte l'altissima compressione dei diritti fondamentali: pur in presenza di un titolo di detenzione solo amministrativo, ai fini dell'identificazione, dell'espulsione o del rimpatrio, si è riscontrata la presenza di persone private della libertà personale per lunghissimi periodi di tempo, impossibilitate a svolgere alcun tipo di attività ricreativa, lavorativa e formativa;
    l'assenza di un regolamento «comune» per tutti i centri di identificazione ed espulsione, presenti in Italia, e la presenza di soli regolamenti adottati dalle prefetture di competenza, determina un diverso grado di flessibilità nei diritti concessi, anche sulla base della diversa interpretazione delle «ragioni di sicurezza»;
    altro dato preoccupante è costituito dalla forte eterogeneità e promiscuità delle persone presenti all'interno dei centri di identificazione ed espulsione: vi si trovano persone che hanno a lungo risieduto legalmente in Italia e che, ad un certo punto, per le ragioni più diverse, hanno perso il permesso di soggiorno (cosiddetti overstayer); richiedenti asilo che hanno potuto presentare richiesta di protezione internazionale solo dopo essere giunti ai centri di identificazione ed espulsione e che, dunque, non sono stati trasferiti in un centro di accoglienza per richiedenti asilo; ex detenuti, a fine pena, che sono stati poi trasferiti nei centri di identificazione ed espulsione in attesa di identificazione o di rimpatrio, nonché numerose persone che sono state a lungo trattenute nei centri di identificazione ed espulsione, poi rilasciate e che, nuovamente fermate, vi rientrano;
    inoltre, è stata riscontrata all'interno dei centri di identificazione ed espulsione la presenza di persone coniugate con cittadini italiani e persone le cui condizioni di salute risultano incompatibili con il trattenimento, persino minori, nonostante le norme vigenti lo vietino;
    in particolare, ha destato preoccupazione la presenza nei centri di identificazione ed espulsione di un elevato numero di ex detenuti che, dopo aver scontato pene anche di diversi anni, vengono trattenuti per ulteriori lunghi periodi di tempo all'interno degli stessi, nonostante la direttiva interministeriale del 30 luglio 2007, dei Ministri pro tempore Amato e Mastella, stabilisca che, in linea con le indicazioni del rapporto «De Mistura», l'identificazione per detenuti debba avvenire in carcere, e non più negli allora centri di permanenza temporanea, da considerarsi come luoghi destinati più utilmente al riconoscimento di altri soggetti; si tratta di un riconoscimento che si presenta problematico e che richiede un considerevole impiego di forze dell'ordine, sia per gli impegnativi compiti di sorveglianza che per quelli di accompagnamento presso i tribunali competenti;
    tutti gli aspetti critici rilevati nel corso delle visite nei centri di identificazione ed espulsione da parte di delegazioni di parlamentari sono resi più gravi dall'allungamento del termine massimo di permanenza all'interno delle strutture che, senza riuscire a facilitare il problema dell'identificazione e dei rimpatri, ha finito per creare una sorta di limbo giuridico, caratterizzato dalla negazione di diritti, anche fondamentali, nel quale i trattenuti possono permanere fino a 18 mesi e al quale occorre urgentemente porre rimedio;
    incessanti sono ormai le rivolte da parte degli immigrati trattenuti per protestare contro le difficili condizioni e le gravi violazioni dei diritti umani fondamentali, come dimostrano da ultimo le rivolte al centro di identificazione ed espulsione di Gradisca d'Isonzo;
    all'interno del centro di identificazione ed espulsione di Crotone si è anche verificata la morte di un immigrato, con conseguente chiusura dello stesso;
    nel giugno del 2012, in concomitanza con l'emersione di lacune strutturali che avevano portato alla chiusura del «Serraino Vulpitta» di Trapani e del «Malgrado tutto» di Lamezia Terme, nonché di gravi inadempienze contrattuali emerse in numerosi centri, la Ministra dell'interno pro tempore, Anna Maria Cancellieri, ha istituito una task-force, con il compito di analizzare la situazione in cui versano i centri di identificazione ed espulsione, relativamente agli aspetti di carattere normativo, organizzativo e gestionale, al fine di elaborare proposte normative atte a migliorare l'operatività dei centri di espulsione ed assicurarne l'uniformità di funzionamento a livello nazionale;
    in precedenza, nel luglio 2006, con decreto del Ministro dell'interno pro tempore, Giuliano Amato, venne istituita la commissione cosiddetta De Mistura, il cui citato rapporto fu depositato il 31 gennaio 2007;
    la commissione, istituita nel 2012 ha visto, quali componenti, esclusivamente funzionari del Ministero dell'interno; mentre la commissione del 2006 era composta sia da membri ministeriali, sia da appartenenti all'associazionismo (una commissione «mista»);
    la commissione De Mistura (del 2006) operò visitando tutti i centri, incontrando le prefetture, le questure, ascoltando le associazioni dei vari territori, gli enti locali e le persone trattenute; esaminò, inoltre, i documenti che le venivano sottoposti e raccolse direttamente migliaia di dati, anche attraverso l'utilizzo di apposite schede di rilevazione;
    la citata commissione già evidenziò la difficoltà a eseguire i provvedimenti di espulsione, ritenendo dunque che «l'approccio normativo complessivo ai fenomeno andrebbe profondamente modificato riconducendo l'espulsione alla sua natura di provvedimento necessario da applicarsi come ultima ratio, laddove tutte le altre possibilità di regolarizzare si siano rivelate in concreto non possibili»;
    le conclusioni della commissione De Mistura non trovarono attuazione, né sembrano esser state considerate nell'impostazione dell'indagine del 2012. Le risultanze dei due rapporti appaiono estremamente diverse, così come le conclusioni: mentre la commissione De Mistura, dopo avere analizzato tutte le criticità presenti nei luoghi di detenzione amministrativa, concludeva per il «superamento» degli allora centri di permanenza temporanea ed assistenza attraverso il loro «svuotamento», la più recente task-force ha elaborato un «Documento programmatico» che, pubblicato solo ad aprile 2013, e quindi in fase di dimissione del Governo pro tempore, è volto ad implementare i centri di detenzione amministrativa, individuando le criticità prevalentemente imputabili a condotte delle persone trattenute;
    le soluzioni prospettate nel progetto di revisione del «sistema cie», tutto condensato in un rapporto di 27 pagine, più allegati (cosiddetto rapporto Ruperto), muove dal presupposto della necessità dei centri di identificazione ed espulsione e prevede numerose novità sia dal punto di vista amministrativo che da quello del funzionamento vero e proprio;
    in tal senso, in tale rapporto si coglie una sorta di ulteriore discostamento delle prassi e delle normative sul trattenimento amministrativo in Italia, rispetto alla direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, nota come «direttiva rimpatri»;
    ogni passo dello stesso, infatti, apre un elemento di problematicità: ad esempio, nel prendere atto del fatto che i centri di identificazione ed espulsione operano con capienza ridotta a causa del danneggiamento dei locali causato dai trattenuti, non si affronta il correlato tema per cui il forte ribasso dei corrispettivi previsti dalle convenzioni agli enti gestori ha portato alla diminuzione del personale degli stessi, nonché all'ulteriore abbassamento della qualità minima del sistema complessivo dei servizi con conseguenze anche gravi per le persone trattenute;
    nel rapporto si annuncia poi che molti immigrati senza documenti potranno essere rimpatriati con maggiore velocità utilizzando non i centri di identificazione ed espulsione, ma i centri di primo soccorso e accoglienza, che, con procedimenti spesso informali, comportano il rischio del ricorso alle espulsioni cosiddette collettive, in violazione degli accordi di Schengen, la cui pratica è da ritenersi altresì illegittima secondo l'articolo 4 del protocollo 4 allegato alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali;
    altro aspetto su cui il rapporto si sofferma molto è la necessità di prevenire e contenere gli atti di ribellione, isolando in appositi spazi i rivoltosi e addirittura i «potenziali» rivoltosi, prevedendo celle speciali in carceri speciali;
    sul tema la sentenza del tribunale di Crotone 12 dicembre 2012, n. 1410, ha stabilito che i protagonisti della rivolta nel centro di identificazione ed espulsione di Crotone – i quali, saliti sul tetto della struttura, hanno lanciato alcuni oggetti contundenti contro le forze dell'ordine – non sono colpevoli di danneggiamento e offesa a pubblico ufficiale in quanto agirono per «legittima difesa» e la reazione degli stranieri alle «offese ingiuste» è da considerarsi proporzionata; il giudice ha infatti ritenuto che, nel caso dei centri di identificazione ed espulsione, si tratta di «strutture – nel loro complesso – ai limite della decenza, intendendo tale ultimo termine nella sua precisa etimologia, ossia di conveniente alla loro destinazione: che è quella di accogliere essere umani. E, si badi, esseri umani in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale per cui lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non deve essere rapportato al cittadino straniero irregolare medio (magari abituato a condizioni abitative precarie), ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di nazionalità o di razza»;
    da ultimo, il caso Alma Shalabayeva ha evidenziato che, secondo quanto dichiarato dal presidente Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato della Repubblica, in un articolo pubblicato su L'Unità del 17 luglio 2013, «accade che la politica dei respingimenti venga praticata con brutale efficienza nei confronti di migliaia di anonimi immigrati e richiedenti asilo» e che, dunque, tale caso istituzionale «potrebbe rappresentare l'occasione per ripensare a fondo la materia e per interrogarsi, in particolare, sulla legittimità di queste forme di rimpatrio: quante espulsioni espongono lo straniero al rischio di trattamenti illegali e crudeli?»,

impegna il Governo:

   a ripensare radicalmente l'attuale sistema di detenzione amministrativa, ingiustificabile e ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo illegittimo in uno Stato di diritto, e che risulta, peraltro, inefficace per quanto attiene all'effettività dei provvedimenti di espulsione, inutilmente costoso ed altamente lesivo dei diritti umani fondamentali;
   ad intraprendere urgenti iniziative normative tese ad abrogare l'articolo 10-bis del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, concernente il cosiddetto «reato di clandestinità»;
   ad assumere iniziative per riformare l'intera disciplina dell'ingresso, del soggiorno e dell'allontanamento dei cittadini stranieri;
   ad ampliare i canali di ingresso regolare, a garantire l'ingresso per la ricerca di lavoro, anche per contrastare il grave fenomeno della tratta degli esseri umani, nonché ad introdurre meccanismi di regolarizzazione ordinaria;
   ad introdurre politiche migratorie atte a garantire effettive possibilità di inserimento sociale dei migranti.
(1-00190)
(Nuova formulazione) «Fratoianni, Migliore, Pilozzi, Kronbichler, Daniele Farina, Sannicandro, Di Salvo, Piazzoni, Boccadutri, Costantino, Nicchi, Aiello, Palazzotto, Pellegrino».


   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero», così come modificato dall'articolo 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94, ha introdotto nel nostro ordinamento il «reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato»;
    i centri di identificazione ed espulsione, istituiti dalla legge 6 marzo 1998, n. 40, e previsti dal testo unico sull'immigrazione (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), sono strutture di trattenimento degli stranieri in condizione di irregolarità, destinati all'espulsione;
    l'articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, così come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, cosiddetta legge Bossi-Fini, prevede che «quando non sia possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento», «il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso» il centro di identificazione ed espulsione e che, quindi, tali strutture siano destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, dei cittadini stranieri extracomunitari irregolari e destinati all'espulsione;
    dall'8 agosto 2009, con l'entrata in vigore della legge 15 luglio 2009, n. 94 (cosiddetto pacchetto sicurezza), il termine massimo di permanenza degli stranieri in tali centri è passato da 60 giorni a 18 mesi complessivi, rafforzando così la loro natura di luoghi di permanenza obbligatoria, caratterizzandosi come luoghi di detenzione amministrativa delle e dei migranti;
    secondo i dati forniti dalla polizia di Stato, nel 2012 sono stati 7.944 (7.012 uomini e 932 donne) i migranti trattenuti in tutti i centri di identificazione ed espulsione operativi in Italia. Di questi solo la metà (4.015) sono stati effettivamente rimpatriati, con un tasso di efficacia (rimpatriati su trattenuti) del 50,54 per cento. Rispetto al 2010, il rapporto tra i migranti rimpatriati rispetto al totale dei trattenuti nei centri di identificazione ed espulsione è incrementato di appena il 2,3 per cento, mentre rispetto al 2011, l'incremento del tasso di efficacia nei rimpatri è risultato addirittura irrilevante (+0,3 per cento): si conferma, dunque, la sostanziale inutilità dell'estensione della durata massima del trattenimento ai fini di un miglioramento nell'efficacia delle espulsioni;
    il citato articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, al comma 2, dispone che in tali centri lo straniero è trattenuto «con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza e il pieno rispetto della sua dignità»;
    l'articolo 21 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, specifica che le modalità del trattamento nei centri di identificazione ed espulsione «devono garantire, nel rispetto del regolare svolgimento della vita in comune, la libertà di colloquio all'interno del centro e con visitatore proveniente dall'esterno, in particolare con il difensore che assiste lo straniero, e con i ministri di culto, la libertà di corrispondenza, anche telefonica, ed i diritti fondamentali della persona» e che in tali centri devono essere presenti «i servizi sanitari essenziali, gli interventi di socializzazione e la libertà di culto» e i «servizi predisposti per le esigenze fondamentali di cura, assistenza, promozione umana e sociale»;
    all'interno dei centri di identificazione ed espulsione si sono verificate gravi violazioni dei diritti umani, come denunciato sia da inchieste ed articoli di stampa, sia dalle associazioni di volontariato e dalle associazioni per la tutela dei diritti umani, tra le quali anche Amnesty international e Medici senza frontiere, e fin dall'indagine interministeriale presentata dall'ambasciatore de Mistura nel 2007;
    in particolare, come risulta dall'indagine «Arcipelago CIE» realizzata tra febbraio 2012 e febbraio 2013 da Medici per i diritti umani e pubblicata a maggio 2013, la struttura dei centri di identificazione ed espulsione è simile a quella dei centri di internamento. «L'inattività forzosa per prolungati periodi di tempo, in spazi angusti ed inadeguati, insieme all'incertezza sulla durata e l'esito del trattenimento, rendono il disagio psichico dei migranti uno degli aspetti più preoccupanti e di più difficile gestione all'interno dei centri»;
    da un punto di vista prettamente sanitario, le indagini di Medici per i diritti umani evidenziano che: «In generale all'interno dei CIE non è previsto personale medico specialistico anche laddove sarebbe certamente necessario». I servizi sanitari, erogati in tutti i centri direttamente dagli enti gestori, non sembrano garantire in modo adeguato il diritto alla salute: permangono ostacoli rilevanti nell'accesso alle cure specialistiche e agli approfondimenti diagnostici, dovuti essenzialmente alle caratteristiche di strutture chiuse al mondo esterno dei centri di identificazione ed espulsione;
    oltre all'assistenza sanitaria, gli enti gestori sono tenuti a fornire i servizi di mediazione linguistico-culturale, l'orientamento legale e il supporto socio-psicologico. Gli standard di erogazione di tali servizi sono apparsi non omogenei tra i vari centri e nel complesso insoddisfacenti;
    in una lettera indirizzata al Ministro dell'interno pro tempore, Anna Maria Cancellieri, e datata 11 luglio 2012, gli onorevoli Livia Turco e Roberto Zaccaria hanno riferito circa le visite ispettive, effettuate da parte di alcune delegazioni di parlamentari, all'interno di diversi centri di identificazione ed espulsione presenti sul territorio italiano nel corso del mese di giugno 2012, al fine di avere una conoscenza diretta delle condizioni di permanenza dei migranti trattenuti;
    dalle visite effettuate sono emerse diverse criticità e primariamente un'altissima compressione dei diritti fondamentali: pur in presenza di un titolo di detenzione solo amministrativo, ai fini dell'identificazione, dell'espulsione o del rimpatrio, si è riscontrata la presenza di persone private della libertà personale per lunghissimi periodi di tempo, impossibilitate a svolgere alcun tipo di attività ricreativa, lavorativa, formativa;
    l'assenza di un regolamento «comune» per tutti i centri di identificazione ed espulsione presenti in Italia e la presenza di soli regolamenti adottati dalle prefetture di competenza determinano un diverso grado di flessibilità nei diritti concessi, anche sulla base della diversa interpretazione delle «ragioni di sicurezza»;
    altro dato preoccupante è costituito dalla forte eterogeneità e promiscuità delle persone presenti all'interno dei centri di identificazione ed espulsione: vi si trovano persone che hanno a lungo risieduto legalmente in Italia e che, ad un certo punto, per le ragioni più diverse, hanno perso il permesso di soggiorno (cosiddetti overstayer); richiedenti asilo che hanno inoltrato la domanda dopo essere giunti al centro di identificazione ed espulsione e che, dunque, non sono stati trasferiti in un centro di accoglienza per richiedenti asilo; ex detenuti, a fine pena, che sono stati poi trasferiti nel centro di identificazione ed espulsione in attesa di identificazione o di rimpatrio; nonché numerose persone che sono state a lungo trattenute nei centri di identificazione ed espulsione, poi rilasciate e che, nuovamente fermate, vi rientrano;
    in particolare, ha destato preoccupazione la presenza nei centri di identificazione ed espulsione di un elevato numero di ex detenuti, che dopo aver scontato pene anche di diversi anni, vengono trattenuti per ulteriori lunghi periodi di tempo all'interno dei centri di identificazione ed espulsione, nonostante una direttiva interministeriale del 30 luglio 2007, degli allora Ministri Amato e Mastella, stabilisse che, in linea con le indicazioni dell'allora rapporto De Mistura, l'identificazione per i detenuti dovesse avvenire in carcere, e non più negli allora centri di permanenza temporanea, da considerarsi come luoghi destinati più utilmente al riconoscimento di altri soggetti. Riconoscimento che, comunque, si presenta problematico e che causa un considerevole impiego di forze dell'ordine, sia per gli impegnativi compiti di sorveglianza che per quelli di accompagnamento presso i tribunali competenti;
    tutte le criticità rilevate nel corso delle visite da parte di delegazioni di parlamentari, sono fortemente aggravate dall'allungamento del termine massimo di permanenza all'interno di un centro di identificazione ed espulsione, che, senza riuscire a facilitare il problema dell'identificazione e dei rimpatri, ha finito per creare una sorta di limbo giuridico, caratterizzato dalla negazione di diritti – anche fondamentali –, nel quale i trattenuti possono permanere fino a 18 mesi e al quale occorre urgentemente porre rimedio;
    nel giugno del 2012, in concomitanza con l'emersione di lacune strutturali che avevano portato alla chiusura del «Serraino Vulpitta» di Trapani e del «Malgrado tutto» di Lamezia Terme e di gravi inadempienze contrattuali emerse in numerosi centri, il Ministro dell'interno pro tempore, Anna Maria Cancellieri, ha istituito una task-force, con il compito di analizzare la situazione in cui versano i centri di identificazione ed espulsione, relativamente agli aspetti di carattere normativo, organizzativo e gestionale, al fine di elaborare proposte normative atte a migliorare l'operatività dei centri di espulsione ed assicurarne l'uniformità di funzionamento a livello nazionale;
    precedentemente, nel luglio 2006, con decreto dell'allora Ministro dell'interno, Giuliano Amato, venne istituita la Commissione De Mistura, il cui citato rapporto fu depositato il 31 gennaio 2007. Vale rilevare la diversa composizione delle due commissioni: la Commissione del 2012 è stata composta esclusivamente da funzionari del Ministero dell'interno, mentre la Commissione precedente era composta sia da membri ministeriali che da appartenenti all'associazionismo (una commissione «mista»);
    la Commissione De Mistura operò visitando tutti i centri, incontrando le prefetture, le questure, ascoltando le associazioni dei vari territori, gli enti locali e le persone trattenute; esaminò, inoltre, i documenti che le venivano sottoposti e raccolse direttamente migliaia di dati, anche attraverso l'utilizzo di apposite schede di rilevazione;
    le conclusioni della Commissione De Mistura non trovarono attuazione, né paiono esser state tenute a riferimento nell'impostazione dell'indagine 2012. Le risultanze dei due rapporti appaiono estremamente diverse, così come le conclusioni. Infatti, mentre la commissione De Mistura, dopo avere analizzato tutte le criticità presenti nei luoghi di detenzione amministrativa, concludeva per il «superamento» degli allora centri di permanenza temporanea e assistenza attraverso il loro «svuotamento», la più recente task-force ha elaborato un «documento programmatico», che, pubblicato solo ad aprile 2013, e quindi in fase di dimissioni del Governo, è volto ad implementare i centri di detenzione amministrativa, individuando le criticità prevalentemente imputabili alla condotta delle persone trattenute;
    le soluzioni prospettate nel progetto di revisione del «sistema Cie», tutto condensato in 27 pagine, più allegati, muove dal presupposto della necessità dei centri di identificazione ed espulsione e prevede numerose novità, sia dal punto di vista amministrativo che del funzionamento vero e proprio;
    in tal senso, nel cosiddetto rapporto Ruperto, si coglie una sorta di ulteriore discostamento delle prassi e delle normative sul trattenimento amministrativo in Italia, rispetto alla direttiva 2008/115/CE del Parlamento e del Consiglio, nota come «direttiva rimpatri»;
    infatti, ogni passo del rapporto apre un elemento di problematicità: ad esempio, nel prendere atto del fatto che i centri di identificazione ed espulsione operano con capienza ridotta a causa del danneggiamento dei locali causato dai trattenuti, non affronta il correlato tema per cui il forte ribasso dei corrispettivi previsti dalle convenzioni agli enti gestori ha portato ad una diminuzione del personale degli stessi;
    nel rapporto si annuncia poi che molti immigrati senza documenti potranno essere rimpatriati con maggiore velocità utilizzando non i centri di identificazione ed espulsione, ma i centri di primo soccorso e accoglienza, che, con procedimenti spesso informali, comportano il rischio del ricorso alle espulsioni cosiddette collettive – la cui pratica è da ritenersi illegittima secondo l'articolo 4 del protocollo 4 allegato alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali – in violazione degli stessi accordi di Schengen;
    altro aspetto su cui il rapporto si sofferma molto è la necessità di prevenire e contenere gli atti di ribellione, isolando in appositi spazi i rivoltosi e addirittura i «potenziali» rivoltosi, prevedendo celle speciali in carceri speciali: la grave carenza di spazi e attività ricreative all'interno dei centri di identificazione ed espulsione costituisce uno degli elementi che provoca maggior malessere tra i trattenuti. I drastici tagli nei bilanci a disposizione degli enti gestori, insieme al prolungamento dei tempi massimi di trattenimento a 18 mesi, hanno contribuito ad accrescere la tensione nei centri e a peggiorare ulteriormente le condizioni di vita dei trattenuti nel corso dell'ultimo anno;
    a questo proposito, appaiono quanto mai appropriate e attuali le considerazioni – risalenti al 2008 e contenute nel XVIII Dossier statistico immigrazione di Caritas/Migrantes –: «Proprio la prevista dilatazione della restrizione della libertà di movimento (estensione dei tempi massimi di trattenimento a 18 mesi), tuttavia, forse rivela il vero intento della norma: introdurre una lunga carcerazione preventiva per pochi malcapitati, in modo che serva come monito e deterrente per altri. In realtà, e non solo in Italia, il contrasto dell'immigrazione irregolare ormai entrata sul territorio nazionale si muove secondo logiche casuali e crudeli (...). In definitiva, gli immigrati effettivamente espulsi sono modeste percentuali, e non sono necessariamente i più pericolosi o parassitari»;
    al riguardo, la sentenza 12 dicembre 2012, n. 1410, del tribunale di Crotone, ha stabilito che i protagonisti della rivolta nel centro di identificazione ed espulsione di Crotone – i quali, saliti sul tetto della struttura, hanno lanciato alcuni oggetti contundenti contro le forze dell'ordine – non sono colpevoli di danneggiamento e offesa a pubblico ufficiale in quanto agirono per «legittima difesa» e la reazione degli stranieri alle «offese ingiuste» è da considerarsi proporzionata. Il giudice ha, infatti, scritto che, nel caso dei centri di identificazione ed espulsione, si tratta di «strutture – nel loro complesso – al limite della decenza, intendendo tale ultimo termine nella sua precisa etimologia, ossia di conveniente alla loro destinazione: che è quella di accogliere essere umani. E, si badi, esseri umani in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale; per cui lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non deve essere rapportato al cittadino straniero irregolare medio (magari abituato a condizioni abitative precarie), ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di nazionalità o di razza»;
    precedentemente, la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 105 del 2001, ha rilevato che: «Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia dell'immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani»;
    anche il relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti dei migranti, in un rapporto del 2010, denuncia in numerosi Stati l'uso sproporzionato della detenzione nella gestione dell'immigrazione, sottolineando come essa dovrebbe essere utilizzata solo come misura di ultima istanza;
    da ultimo, il caso Alma Shalabayeva ha mostrato come, secondo quanto dichiarato dal Presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato della Repubblica, in un articolo pubblicato su L'Unità del 17 luglio 2013, «accade che la politica dei respingimenti venga praticata con brutale efficienza nei confronti di migliaia di anonimi immigrati e richiedenti asilo» e come, dunque, tale caso istituzionale «potrebbe rappresentare l'occasione per ripensare a fondo la materia e per interrogarsi, in particolare, sulla legittimità di queste forme di rimpatrio: quante espulsioni espongono lo straniero al rischio di trattamenti illegali e crudeli ?»,

impegna il Governo:

   a ripensare gli attuali strumenti di gestione dell'immigrazione irregolare che risultano inefficaci (per quanto attiene all'effettività dei provvedimenti di espulsione) e costosi – tenendo conto che l'aumento dei costi è incongruo rispetto agli obiettivi – e ad abbattere i tempi di permanenza nei centri di identificazione ed espulsione, oggi inaccettabili per durata e inutili, oltre il periodo iniziale, all'effettiva identificazione delle persone trattenute;
   ad assumere iniziative per riformare l'intera disciplina dell'ingresso, del soggiorno e dell'allontanamento dei cittadini stranieri, riducendo a misura eccezionale, o comunque del tutto residuale, il trattenimento dello straniero ai fini del suo rimpatrio, a favorire l'opzione del rimpatrio volontario assistito prima di procedere a qualunque forma di allontanamento coatto e a mettere in atto programmi di assistenza al rimpatrio volontario e di reintegrazione nei Paesi di origine, assicurando una capillare informazione su questi programmi;
   ad assumere iniziative per rivisitare le norme che sanzionano l'ingresso e il soggiorno irregolare, fermo restando il diritto del Paese, secondo le norme internazionali vigenti, all'espulsione come sanzione amministrativa quando non esistano i requisiti per il soggiorno regolare o per l'accoglimento dell'istanza di protezione umanitaria;
   ad introdurre politiche migratorie atte a garantire effettive possibilità di ingresso regolare e di inserimento sociale, nonché a introdurre meccanismi di regolarizzazione ordinaria;
   ad intervenire sulla disciplina di permanenza, per evitare il trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione di coloro che hanno bisogno di protezione, come le vittime di tratta, i minori, i richiedenti asilo;
   a evitare il trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione di coloro che, dopo un periodo di detenzione penale, non siano già stati identificati in carcere come previsto e come è da incentivare come prassi ordinaria;
   a garantire che le pratiche necessarie ai fini dell'identificazione e delle eventuali procedure di rimpatrio avvengano nel massimo della trasparenza, garantendo ai profughi (a maggior ragione se minorenni) un'adeguata ospitalità presso centri appositi in cui sia garantita l'assistenza psicologica e legale;
   a garantire il periodico monitoraggio da parte delle prefetture delle reali condizioni di vita nei centri, verificando la congruenza dei servizi offerti con le convenzioni in essere e ad uniformare ed armonizzare i regolamenti e le convenzioni su tutto il territorio nazionale, così da assicurare unità di trattamento nei centri di identificazione ed espulsione;
   a eliminare ogni restrizione e difficoltà al normale ingresso di associazioni umanitarie e organizzazioni non governative all'interno dei centri, al fine di umanizzare le condizioni di vita, sostenere un clima di collaborazione tra tutti i soggetti coinvolti, individuare e sciogliere eventuali problemi sociali non identificabili al momento dell'ingresso, favorire, laddove possibile, il reinserimento sociale, nonché prevenire tensioni;
   ad assumere un'iniziativa normativa organica in materia di asilo nel rispetto dell'articolo 10 della Costituzione.
(1-00156)
(Seconda ulteriore nuova formulazione) «Zampa, Marazziti, Santerini, Schirò, Martella, Civati, Villecco Calipari, Murer, Mogherini, Madia, Cenni, Bellanova, Gozi, Grassi, Lenzi, Carra, D'Incecco, Tullo, Amoddio, Blazina, Incerti, Iori, Carlo Galli, Fabbri, Giuseppe Guerini, Porta, Garavini, Piccione, Cinzia Maria Fontana, Laforgia, Malpezzi, Marco Di Maio, Ghizzoni, Marzano, Pes, Gadda, Senaldi, Gribaudo, Cimbro, Gnecchi, Quartapelle Procopio, Velo, Lattuca, Moscatt, Tentori, Antezza, La Marca, Fiano, Capone, De Micheli, Chaouki, Beni, Biondelli».


   La Camera,
   premesso che:
    il «reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato» è stato introdotto nel 2009 dall'articolo 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94, (cosiddetto pacchetto sicurezza) che ha modificato il testo unico delle disposizioni circa la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) introducendovi l'articolo 10-bis;
    successivamente alla sua introduzione, nell'ordinamento italiano il reato di immigrazione clandestina è stato dichiarato legittimo anche dalla Corte costituzionale (sentenza n. 250 del 2010): come da consolidata giurisprudenza, il potere di disciplinare l'immigrazione rappresenta una prerogativa essenziale dello Stato in quanto espressione del controllo del territorio, in quanto la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato è «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l'ordine pubblico» (sentenze della Corte costituzionale n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994);
    il reato di immigrazione clandestina vige anche in numerosi altri Stati europei, ad esempio in Francia, Germania e Gran Bretagna, talvolta con pene molto più severe e, pertanto, anche in sede europea, non vi è alcuna pronuncia che abbia dichiarato l'articolo 10-bis contrario a disposizioni comunitarie o internazionali;
    i centri di identificazione ed espulsione, così denominati con decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, e previsti dall'articolo 14 del testo unico sull'immigrazione (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), come modificato dall'articolo 12 della legge n. 189 del 2002, sono strutture destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, degli stranieri extracomunitari irregolari e destinati all'espulsione e si propongono di evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul territorio e di consentire la materiale esecuzione, da parte delle forze dell'ordine, dei provvedimenti di espulsione emessi nei confronti degli irregolari;
    l'istituzione e l'operatività di tali centri sono del tutto in linea con quanto dispone e richiede l'Unione europea, poiché è la stessa direttiva 2008/115/CE («direttiva rimpatri») a prevede, agli articoli 15 e 16, il «trattenimento» «in appositi centri di permanenza temporanea» «per il tempo necessario all'espletamento diligente delle modalità di rimpatrio» e ad imporre agli Stati membri, tra cui l'Italia, l'adozione di «norme chiare, trasparenti ed eque per definire una politica di rimpatrio efficace quale elemento necessario di una politica d'immigrazione correttamente gestita»;
    nonostante la normativa europea, risulta però che in Italia dei dodici centri per l'identificazione ed espulsione ne siano stati chiusi sei, di cui ultimo quello di Gradisca d'Isonzo, a causa dei danneggiamenti e delle rivolte che, periodicamente, vengono innescate dai clandestini ospitati ed in attesa di espulsione e, sempre secondo quanto si apprende dai dati pubblicati dal Ministero dell'interno, che la capienza dei centri di identificazione ed espulsione è stata ridotta almeno in quattro dei sei istituti rimasti aperti;
    è evidente che la chiusura dei centri di identificazione ed espulsione comporta, di conseguenza, un insufficiente numero di posti disponibili rispetto al numero dei clandestini presenti sul nostro territorio e in continuo arrivo a causa di politiche lassiste di questo Governo in tema di immigrazione (pare, infatti, che siano oltre 40 mila gli immigrati entrati clandestinamente e sbarcati sulle coste italiane nel 2013), ma soprattutto – circostanza che pone l'Italia non solo in contrasto con la normativa europea ma anche con le politiche degli altri Stati europei in questo momento – la mancata esecuzione dei rimpatri dei clandestini;
    infatti, a fronte di una massiccia immigrazione clandestina e per l'inerzia delle istituzioni comunitarie – che, come noto, hanno nel tempo avocato a sé sempre più competenze in materia di immigrazione, rivelando però sempre più l'incapacità di apprestare in tempi brevi effettivi strumenti di controllo del fenomeno – recentemente in altri Stati europei i Governi hanno cominciato a predisporre misure sempre più severe in materia di contrasto all'immigrazione clandestina, come ad esempio in Gran Bretagna dove il Premier David Cameron ha annunciato che, a partire dall'inizio del 2014, applicherà una severissima politica restrittiva ai sussidi pubblici per l'immigrazione, bloccherà i servizi di assistenza sanitaria gratuita a quegli stranieri che non sono in grado di dimostrare la loro permanenza regolare sul suolo britannico ed introdurrà sanzioni per chi offrirà un lavoro o una casa agli irregolari;
    in Italia la chiusura dei centri di identificazione ed espulsione, la mancata effettuazione delle espulsioni e, invece, operazioni come Mare Nostrum, non solo vanno in direzione completamente opposta alle politiche degli altri Paesi europei in questo momento, ma creano un sistema diversificato di cui i trafficanti di esseri umani approfittano, ed anzi alimentano, il traffico di esseri umani, potendo ora i trafficanti garantire a chi paga il viaggio verso l'Italia la certezza che arriverà sicuramente a destinazione senza venire fermato o rimpatriato;
    al di là degli studi e delle conclusioni delle diverse commissioni ministeriali, sostenere che una rigorosa legislazione interna scoraggia sicuramente i flussi migratori clandestini, e conseguentemente le tragedie come quella recente di Lampedusa, ha un preciso riscontro oggettivo: dopo l'entrata in vigore del reato di ingresso e soggiorno illegale ex articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nell'anno 2010 gli sbarchi sono diminuiti dell'88 per cento, secondo i dati del Ministero dell'interno pubblicati a suo tempo, ma ora però non più disponibili sul sito, salvando così numerose vite umane e dando un duro colpo ai trafficanti di esseri umani che gestiscono, come è noto ormai a tutti, l'organizzazione di tali viaggi illegali;
    oltre al «trattenimento» nei centri di identificazione ed espulsione, necessario per procedere all'effettiva espulsione dei clandestini, sempre la direttiva cosiddetta rimpatri (direttiva 2008/115/CE) dispone altresì che «al fine di agevolare la procedura di rimpatrio si sottolinea la necessità di accordi comunitari e bilaterali di riammissione con i Paesi terzi»;
    mancando un'azione comune a livello comunitario, occorre, infatti, da parte dei Governi una continua cooperazione internazionale con i Paesi di origine per la stipula o il rinnovo di accordi sia con riguardo alle operazioni di controllo dei confini, soprattutto di quelli costieri, sia per velocizzare e agevolare le operazioni di rimpatrio dei clandestini; anche in questo caso, sono i numeri a dimostrare la validità di tale sistema: ad esempio, dal maggio 2009, a seguito dell'accordo stipulato dal Ministro dell'interno pro tempore Maroni tra l'Italia e la Libia, prima della guerra, il flusso di sbarchi di immigrati era quasi cessato, passando da 39.000 persone nel 2008 a 450 nel 2009;
    essendo il nostro un Paese europeo di confine, ove più difficile è il controllo delle frontiere, in gran parte marittime, dunque è più facile meta dei flussi migratori clandestini, non è pensabile, e nella grave congiuntura economica che si sta attraversando neanche sostenibile, che la gestione di tutto il problema dell'immigrazione, anche quando derivante da vere e proprie emergenze umanitarie a seguito di eventi bellici, sia a carico solo del sistema italiano;
    a livello comunitario, gli Stati non sono ancora riusciti a creare un sistema comune di asilo, come dimostra anche la vicenda della guerra in Libia: in tale occasione il Consiglio Giustizia Affari Interni (GAI) non volle inspiegabilmente applicare la direttiva 55/2001/CE, la quale disponeva la condivisione degli oneri e la redistribuzione sull'intero territorio europeo (burden sharing) delle persone in caso di fughe di massa ed emergenze umanitarie, come, appunto, innegabilmente stava accadendo in Libia;
    recentemente è stato modificato il regolamento di Dublino III, che vede l'Italia fortemente penalizzata quale Paese in gran parte costiero e di primo ingresso e, pertanto, competente all'accoglienza dei richiedenti asilo, ma ancora gli altri Stati non hanno voluto introdurre il principio del burden sharing,

impegna il Governo:

   a rafforzare l'attuale sistema di detenzione amministrativa, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo del tutto legittimo e in linea con le normative europee e di altri Stati, innanzitutto ripristinando quanto prima la funzionalità dei sei centri di identificazione ed espulsione di Gradisca d'Isonzo, Brindisi, Bologna, Crotone, Modena e Trapani Vulpitta, attualmente chiusi;
   a rendere effettivo il recepimento della direttiva 2008/115/CE («direttiva rimpatri»), procedendo in modo celere all'identificazione e al rimpatrio dei clandestini presenti sul territorio italiano, anche mediante il rinnovo e la stipula di accordi con i Paesi di origine;
   ad assumere iniziative per rafforzare e rendere effettiva l'intera disciplina dell'ingresso, del soggiorno e dell'allontanamento dei cittadini stranieri, così come previsto dal testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286);
   a scoraggiare qualsiasi forma di ingresso «facile» nel territorio italiano, che, come ben noto, non fa che rafforzare e incrementare il grave fenomeno della tratta degli esseri umani e, invece, ad adottare campagne di informazione sia nei Paesi di origine dei principali flussi migratori irregolari che nel nostro Paese, in cui vengano fornite precise informazioni circa la legislazione vigente nel nostro Paese in materia di ingresso e soggiorno irregolare, i rischi inerenti ai viaggi e i tassi di disoccupazione del mercato del lavoro italiano;
   ad attivarsi presso le istituzioni europee affinché venga introdotto il principio del burden sharing nelle politiche relative all'immigrazione e all'asilo, venga rivisto il regolamento di Dublino III e vengano rafforzate le misure di controllo e pattugliamento dei confini, soprattutto costieri;
   a procedere alla stipula e al rinnovo di accordi per il controllo delle acque territoriali con i Paesi di origine, ma soprattutto con quelli dove vengono organizzati i viaggi clandestini e, dunque, dove operano i trafficanti, al fine di scongiurare le partenze e le perdite di ulteriori vite umane.
(1-00266) «Giancarlo Giorgetti, Corsaro, Fedriga, Molteni, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini».


   La Camera,
   premesso che:
    il problema del flusso migratorio sulle coste italiane, e di conseguenza europee, ha ormai raggiunto livelli di drammaticità insostenibili, sia in termini di vittime causate da affondamenti delle imbarcazioni utilizzate per il viaggio che in termini di gestione da parte dell'amministrazione statale dell'accoglienza, della permanenza ed eventualmente dell'espulsione dei clandestini;
    la cronaca quotidiana parla di disperati del mare, che, pur di sfuggire da una vita di violenze e privazioni nei loro rispettivi Paesi, non esitano ad affrontare massacranti viaggi in condizioni disumane su delle imbarcazioni che chiamare di fortuna risulta essere fuori luogo;
    l'ultima tragedia, in ordine di tempo, nel mare di Sicilia non può non indurre il Governo e l'apparato statale nel suo insieme ad agire, affinché vi sia un efficace e concreto impegno allo scopo di prevenire innanzitutto tragedie come quelle già raccontate e regolamentare sia l'approdo dei migranti nel nostro Paese che il loro soggiorno sul territorio, e più precisamente nei cosiddetti centri di identificazione ed espulsione, meglio noti come cie;
    le condizioni dei centri di identificazione ed espulsione costituiscono un ulteriore problema da affrontare con assoluta urgenza: l'aumento esponenziale degli ultimi tempi del flusso migratorio, in special modo dalle coste settentrionali dell'Africa, ha messo in evidenza il problema della capacità di accoglimento da parte di queste strutture delle migliaia di migranti che vi vengono trasferiti;
    un problema, questo dei centri di identificazione ed espulsione, con risvolti che vanno anche al di là della semplice gestione della questione della permanenza dei migranti: non bisogna dimenticare, infatti, che in passato molti sono stati gli episodi di violenza scoppiati all'interno dei centri di identificazione ed espulsione dovuti proprio al loro sovraffollamento, con pericolose ripercussioni anche sulla sicurezza dei cittadini residenti nelle adiacenze dei centri;
    affinché questi centri di accoglienza, e di conseguenza chi li gestisce, possano fornire un servizio dignitoso, seppur temporaneo, ai migranti, occorre intervenire sui criteri organizzativi e sui relativi finanziamenti, anche al fine di evitare eventuali ricadute negative sulle amministrazioni locali;
    occorre che lo Stato si assuma pienamente l'onere di sostenere finanziariamente il mantenimento e la gestione dei centri, in modo da assicurare una degna soluzione all'accoglimento dei migranti;
    ai fini di una corretta ed efficiente gestione dei centri, è necessario che il capo del dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno operi con i poteri straordinari di cui all'articolo 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, che disciplina le ordinanze di protezione civile. In tal modo, il capo del dipartimento potrà disporre di adeguati poteri di intervento gestionale e finanziario sulle strutture;
    come già evidenziato e sottolineato in apertura di premessa a questa mozione, la sicurezza delle località adiacenti ai centri di accoglienza e delle popolazioni ivi residenti risulta essere uno degli aspetti più delicati della questione legata ai flussi migratori;
    nel complesso universo dei problemi legati ai flussi immigratori, non bisogna dimenticare due fattori altrettanto importanti ed essenziali ai fini di una possibile soluzione, ovvero l'integrazione dei migranti e lo sforzo che lo Stato deve assumersi, da una parte, per coinvolgere i Governi di appartenenza dei migranti ad adoperarsi per un controllo maggiore delle partenze effettuate dalle coste dei loro territori e, dall'altra, per sollecitare l'Unione europea a farsi carico di un problema che non può e non deve ricadere soltanto sulle spalle dell'Italia, che, per posizionamento geografico, è anche il Paese che maggiormente risente del flusso migratorio;
    per questi motivi, ai fini della politica di integrazione dei migranti, occorre che i permessi di soggiorno rilasciati siano effettivamente connessi ad un rapporto di lavoro già esistente, con la possibilità di prorogarlo per tutta la durata del già citato rapporto di impiego;
    soltanto in questo modo, è possibile giungere ad una seria ed efficace regolamentazione non solo dei flussi migratori, ma anche assicurare a chi arriva nel nostro Paese le condizioni di vita dignitose che non ha avuto nel suo,

impegna il Governo:

   a fare quanto in suo potere per dotare i centri di identificazione ed espulsione dei finanziamenti necessari per il loro corretto funzionamento e per la loro messa in sicurezza;
   ad assumere iniziative per fornire adeguati poteri di intervento organizzativo e finanziario al capo del dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno, in modo da poter gestire al meglio i centri esistenti;
   ad incentivare le politiche di integrazione dei migranti, legando il conferimento di permessi di soggiorno a rapporti di lavoro già esistenti, con la possibilità di prorogarne gli effetti di pari passo con la durata del rapporto di lavoro medesimo;
   ad effettuare un lavoro di monitoraggio dei flussi migratori insieme ai Governi dei Paesi da cui maggiormente provengono le imbarcazioni, in modo da rallentare i flussi e prevenire le tragedie del mare causate dalle condizioni disumane di viaggio su imbarcazioni prive di qualsiasi requisito di idoneità;
   a sollecitare le autorità dell'Unione europea ad intervenire allo scopo di fornire un effettivo aiuto e sostegno ai Paesi, quali l'Italia, che sono maggiormente coinvolti ed interessati dai flussi migratori a causa della propria posizione strategica e centrale nel Mediterraneo.
(1-00267) «Costa, Dorina Bianchi, Alli, Tancredi».


   La Camera,
   premesso che:
    il problema del flusso migratorio sulle coste italiane, e di conseguenza europee, ha ormai raggiunto livelli di drammaticità insostenibili, sia in termini di vittime causate da affondamenti delle imbarcazioni utilizzate per il viaggio che in termini di gestione da parte dell'amministrazione statale dell'accoglienza, della permanenza ed eventualmente dell'espulsione dei clandestini;
    la cronaca quotidiana parla di disperati del mare, che, pur di sfuggire da una vita di violenze e privazioni nei loro rispettivi Paesi, non esitano ad affrontare massacranti viaggi in condizioni disumane su delle imbarcazioni che chiamare di fortuna risulta essere fuori luogo;
    l'ultima tragedia, in ordine di tempo, nel mare di Sicilia non può non indurre il Governo e l'apparato statale nel suo insieme ad agire, affinché vi sia un efficace e concreto impegno allo scopo di prevenire innanzitutto tragedie come quelle già raccontate e regolamentare sia l'approdo dei migranti nel nostro Paese che il loro soggiorno sul territorio, e più precisamente nei cosiddetti centri di identificazione ed espulsione, meglio noti come cie;
    le condizioni dei centri di identificazione ed espulsione costituiscono un ulteriore problema da affrontare con assoluta urgenza: l'aumento esponenziale degli ultimi tempi del flusso migratorio, in special modo dalle coste settentrionali dell'Africa, ha messo in evidenza il problema della capacità di accoglimento da parte di queste strutture delle migliaia di migranti che vi vengono trasferiti;
    un problema, questo dei centri di identificazione ed espulsione, con risvolti che vanno anche al di là della semplice gestione della questione della permanenza dei migranti: non bisogna dimenticare, infatti, che in passato molti sono stati gli episodi di violenza scoppiati all'interno dei centri di identificazione ed espulsione dovuti proprio al loro sovraffollamento, con pericolose ripercussioni anche sulla sicurezza dei cittadini residenti nelle adiacenze dei centri;
    affinché questi centri di accoglienza, e di conseguenza chi li gestisce, possano fornire un servizio dignitoso, seppur temporaneo, ai migranti, occorre intervenire sui criteri organizzativi e sui relativi finanziamenti, anche al fine di evitare eventuali ricadute negative sulle amministrazioni locali;
    occorre che lo Stato si assuma pienamente l'onere di sostenere finanziariamente il mantenimento e la gestione dei centri, in modo da assicurare una degna soluzione all'accoglimento dei migranti;
    come già evidenziato e sottolineato in apertura di premessa a questa mozione, la sicurezza delle località adiacenti ai centri di accoglienza e delle popolazioni ivi residenti risulta essere uno degli aspetti più delicati della questione legata ai flussi migratori;
    nel complesso universo dei problemi legati ai flussi immigratori, non bisogna dimenticare due fattori altrettanto importanti ed essenziali ai fini di una possibile soluzione, ovvero l'integrazione dei migranti e lo sforzo che lo Stato deve assumersi, da una parte, per coinvolgere i Governi di appartenenza dei migranti ad adoperarsi per un controllo maggiore delle partenze effettuate dalle coste dei loro territori e, dall'altra, per sollecitare l'Unione europea a farsi carico di un problema che non può e non deve ricadere soltanto sulle spalle dell'Italia, che, per posizionamento geografico, è anche il Paese che maggiormente risente del flusso migratorio;
    per questi motivi, ai fini della politica di integrazione dei migranti, occorre che i permessi di soggiorno rilasciati siano effettivamente connessi ad un rapporto di lavoro già esistente, con la possibilità di prorogarlo per tutta la durata del già citato rapporto di impiego;
    soltanto in questo modo, è possibile giungere ad una seria ed efficace regolamentazione non solo dei flussi migratori, ma anche assicurare a chi arriva nel nostro Paese le condizioni di vita dignitose che non ha avuto nel suo,

impegna il Governo:

   a fare quanto in suo potere per dotare i centri di identificazione ed espulsione dei finanziamenti necessari per il loro corretto funzionamento e per la loro messa in sicurezza;
   ad assumere iniziative per fornire adeguati poteri di intervento organizzativo e finanziario al capo del dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno, in modo da poter gestire al meglio i centri esistenti;
   ad incentivare le politiche di integrazione dei migranti, legando il conferimento di permessi di soggiorno a rapporti di lavoro già esistenti, con la possibilità di prorogarne gli effetti di pari passo con la durata del rapporto di lavoro medesimo;
   ad effettuare un lavoro di monitoraggio dei flussi migratori insieme ai Governi dei Paesi da cui maggiormente provengono le imbarcazioni, in modo da rallentare i flussi e prevenire le tragedie del mare causate dalle condizioni disumane di viaggio su imbarcazioni prive di qualsiasi requisito di idoneità;
   a sollecitare le autorità dell'Unione europea ad intervenire allo scopo di fornire un effettivo aiuto e sostegno ai Paesi, quali l'Italia, che sono maggiormente coinvolti ed interessati dai flussi migratori a causa della propria posizione strategica e centrale nel Mediterraneo.
(1-00267)
(Testo modificato nel corso della seduta) «Costa, Dorina Bianchi, Alli, Tancredi».


   La Camera,
   premesso che:
    i centri di identificazione ed espulsione, istituiti dalla legge 6 marzo 1998, n. 40, e previsti dal testo unico sull'immigrazione (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), sono strutture di trattenimento degli stranieri in condizione di irregolarità e destinati all'espulsione;
    i centri di accoglienza per richiedenti asilo, in base al decreto del Presidente della Repubblica n. 303 del 2004, di cui al decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, sono strutture nelle quali viene inviato e ospitato, per un periodo variabile di 20 o 35 giorni, lo straniero richiedente asilo privo di documenti di riconoscimento o che si è sottratto al controllo di frontiera, per consentire l'identificazione o la definizione della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato;
    l'articolo 14 del testo unico sull'immigrazione al primo comma dispone che: «Quando non è possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento alla frontiera o il respingimento, a causa di situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l'effettuazione dell'allontanamento, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di identificazione ed espulsione più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze. Tra le situazioni che legittimano il trattenimento rientrano (...) anche quelle riconducibili alla necessità di prestare soccorso allo straniero o di effettuare accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità ovvero di acquisire i documenti per il viaggio o la disponibilità di un mezzo di trasporto idoneo»;
    secondo quanto riportato nel rapporto di Medici senza frontiere, in questi centri convivono «negli stessi ambienti vittime di tratta, di sfruttamento, di tortura, di persecuzioni, così come individui in fuga da conflitti e condizioni degradanti, altri affetti da tossicodipendenze, da patologie croniche, infettive o della sfera mentale, oppure stranieri che vantano anni di soggiorno in Italia, con un lavoro (non regolare), una casa e la famiglia o sono appena arrivati. Sono luoghi dove coesistono e s'intrecciano in condizioni di detenzione storie di fragilità estremamente eterogenee tra loro da un punto di vista sanitario, giuridico, sociale e umano, a cui corrispondono esigenze molto diversificate» (Al di là del muro, abstract, Medici senza frontiere – Missione Italia, 2010);
    secondo l'indagine realizzata tra febbraio 2012 e febbraio 2013 da Medici per i diritti umani (Medu), la struttura dei centri di identificazione ed espulsione è simile a quella dei centri di internamento. «I dispositivi di contenimento dei settori in cui si trovano effettivamente ristretti i migranti risultano poi essere dei recinti – assimilabili a grandi gabbie – che racchiudono spazi di dimensioni inadeguate ed eccessivamente oppressivi. (...) L'inattività forzosa per prolungati periodi di tempo, in spazi angusti ed inadeguati, insieme all'incertezza sulla durata e l'esito del trattenimento, rendono il disagio psichico dei migranti uno degli aspetti più preoccupanti e di più difficile gestione all'interno dei centri» (Arcipelago CIE – Sintesi – MEDU, maggio 2013);
    da un punto di vista prettamente sanitario, le indagini dei Medici per i diritti umani evidenziano che le criticità più diffuse sono: «difficoltà di accesso alle cure e alle prestazioni diagnostiche presso le strutture ospedaliere e i servizi sanitari presenti sul territorio; l'impossibilità di accesso ai centri del personale delle ASL; carente comunicazione tra i singoli CIE e tra i CIE e le carceri nei casi di trasferimento di trattenuti malati; carenza di personale medico specialistico (ad esempio psichiatrico e ginecologico) che sarebbe particolarmente necessario dato il contesto dei centri, reciproca sfiducia tra i trattenuti ed il personale sanitario con conseguente compromissione del rapporto medico-paziente; notevole discrezionalità tra i vari centri nella valutazione dell'idoneità sanitaria al trattenimento. (...) In generale all'interno dei CIE non è previsto personale medico specialistico anche laddove sarebbe certamente necessario»;
    a questo contesto a dir poco allarmante, va aggiunto che già nel 2008, in occasione della proroga del termine massimo di permanenza nei centri di identificazione ed espulsione da 60 a 180 giorni complessivi, si erano scatenate forti critiche in ambito giuridico. Come riportato nel rapporto di Medici per i diritti umani sopracitato: «non solo la proroga viene concessa o negata senza contraddittorio fra le parti, ma al giudice non è neppure concesso di modulare la durata del trattenimento prorogato (...). Ed allora appare evidente il contrasto con due parametri costituzionali: il diritto di difesa e la riserva di giurisdizione in materia di libertà personale, che già erano prospettabili quando il trattenimento era consentito nel limite di trenta giorni, prorogabili in altri trenta, ma che ora emergono con forza in ragione della triplicazione della durata della permanenza nei CIE e della genericità dei presupposti legittimanti le proroghe» (in: G. Savio. La disciplina dell'espulsione e del trattenimento nei CIE: La condizione giuridica dello straniero dopo le recenti riforme della normativa in materia di immigrazione, Seminario ASGI-MD, settembre 2009);
    ciononostante, con decreto-legge 23 giugno 2011, n. 89, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 agosto 2011, n. 129, la durata massima del trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione è stata ulteriormente prorogata fino ad un massimo di 18 mesi. Tale provvedimento, nel recepire la Direttiva europea 2008/115/CE (cosiddetta direttiva rimpatri), ne avrebbe stravolto il senso, visto che la normativa europea conferisce al trattenimento dello straniero ai fini del rimpatrio un carattere meramente residuale, mentre nell'ordinamento italiano tale misura è praticamente applicata come strumento ordinario di esecuzione delle espulsioni;
    inoltre, l'allungamento dei tempi del trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione non ha fatto altro che peggiorare le condizioni dei migranti ed il loro malessere. Ciò risulterebbe da un sensibile incremento degli episodi di fuga nell'anno 2012 rispetto all'anno precedente;
    come riportato nel documento dell'Unione delle Camere Penali Italiane del 15 gennaio 2013 (Osservatorio Carcere – La sentenza di Crotone e la inumana realtà dei CIE): «il Giudice di Crotone il 12 dicembre 2012 ha assolto tre cittadini extracomunitari che avevano indetto una protesta all'interno del Cie Sant'Anna di Isola Capo Rizzuto dal 9 al 13 ottobre, scardinando grate, finestre, ringhiere e rubinetterie, lampade e staccando intonaci, salendo sui tetti e lanciando i materiali indicati. Nella lunga ed articolata motivazione, peraltro contestuale, il Giudice monocratico finisce per ritenere giustificata la condotta dei trattenuti, stabilendo che essi abbiano agito per difendere i loro diritti fondamentali (alla libertà personale e alla dignità umana) da una iniqua ed ingiusta aggressione posta in essere. La violazione della libertà personale e della dignità umana sarebbe avvenuta per ed a causa della piena inosservanza delle norme nazionali e comunitarie che disciplinano il trattenimento dei cittadini stranieri. Inosservanza e violazione di norme riconducibile alla Pubblica amministrazione, intesa come Prefettura e Giudice di Pace, cui è rimessa l'ampia giurisdizione della materia e della libertà personale delle persone. Il Giudice monocratico ha ascoltato i racconti dei trattenuti, ha analizzato i provvedimenti amministrativi e dei Giudici di pace, ha esaurientemente richiamato la normativa comunitaria esistente ed ha disposto una ispezione del Cie. (...) Indipendentemente dalla soluzione giuridica, che però è consequenziale alle premesse, allo sviluppo argomentativo e all'amara realtà fotografata, quello che importa è soprattutto la coraggiosa ed impietosa critica rivolta alle nostre procedure amministrative, inadeguate e non conformi ai presupposti imposti dalla direttiva 115/2008, alla non effettività del controllo giurisdizionale, alla irrealizzabilità di una efficace la difesa tecnica e, non ultimo, alle condizioni inumane del trattenimento dei tre imputati e degli altri ospiti. Talmente ingiusti sono stati valutati – giuridicamente – i provvedimenti di trattenimento presso il Cie, tanto inefficace il controllo del Giudice di Pace, tanto inesistente lo spazio riconosciuto alla difesa e tanto deplorevoli le condizioni di trattenimento che il Giudice ha ritenuto la condotta di rivolta degli imputati scriminata dalla necessità di dover difendere i loro diritti fondamentali da un'ingiusta aggressione alle regole previste dall'ordinamento nazionale e sovrannazionale. (...) Appaiono in concreto non recepiti, e l'analisi dei singoli provvedimenti amministrativi dei tre imputati è impietosa, il principio di proporzionalità del trattenimento, quale misura da applicarsi nel caso in cui qualsiasi altra risulti inadeguata, ed il principio dell'obbligo motivazionale di tale scelta che dovrebbe rappresentare la extrema ratio. Il controllo giurisdizionale di quei provvedimenti, affidato al Giudice di pace, viene definito dal Giudice di Crotone «non effettivo»: avvisi senza nozioni tecniche, mancanza di traduzione degli atti, assenza di un interprete in una udienza altamente tecnica quale quella di convalida e difensori catapultati il giorno stesso in udienza senza la possibilità di conoscere adeguatamente il caso specifico e gli atti. (...) Le condizioni di permanenza sono state ritenute all'esito della ispezione posta in essere dal Giudice togato contrarie alla disposizione dell'articolo 14 decreto legislativo 286/1998 ed in palese violazione dei divieti sanciti dall'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (...)»;
    nel giugno 2012, il Ministro dell'interno ha istituito una commissione interna al dicastero per l'analisi della situazione dei centri di identificazione ed espulsione italiani. Le risultanze contenute nel documento programmatico appaiono molto diverse da quelle frutto dell'indagine svolta dalla commissione De Mistura istituita nel 2006. Quest'ultima, infatti, si espresse nel senso del superamento attraverso lo svuotamento degli allora centri di permanenza temporanea ed assistenza, mentre, come riportato dall'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (Asgi) il documento programmatico è «volto ad incrementare i centri di detenzione amministrativa in nome dell'efficienza e del risparmio di spesa, individuando le criticità nella sola (o prevalente) condotta delle persone trattenute.» (Asgi, Il Documento programmatico sui C.I.E. del Ministero dell'Interno: un pessimo programma di legislatura, 23 aprile 2013);
    l'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione critica apertamente il documento ministeriale, al punto da chiedere al Ministro dell'interno e alle istituzioni di non tenerne conto;
    secondo il monitoraggio di Lunaria, associazione di promozione sociale, per i centri di identificazione ed espulsione lo Stato affronta una spesa di 55 milioni di euro l'anno, e ciò a fronte di risultati evidentemente scarsi, visto che «su 169.126 persone transitate nei centri tra il 1998 e il 2012, sono state soltanto 78.081 (il 46,2 per cento del totale) quelle effettivamente rimpatriate»,

impegna il Governo:

   ad intervenire in modo strutturale e non emergenziale al fine di rendere omogeneo sul territorio italiano l'intervento di assistenza nei centri di identificazione ed espulsione e nei centri di accoglienza per richiedenti asilo, anche in relazione ai servizi di assistenza sanitaria ed alimentare, nel rispetto delle culture delle persone ospitate;
   ad assumere iniziative per riformare l'intera disciplina dell'ingresso, del soggiorno con eventuale inserimento lavorativo e della gestione dei flussi;
   a proporre, presso gli organi competenti in sede di Unione europea, che la problematica in questione contempli un'equa condivisione di oneri e destinazioni finali che siano distribuiti proporzionalmente sull'intero ambito territoriale comunitario, in riferimento anche ad un'efficace prevenzione dell'attività criminale, spesso connessa ai flussi migratori, in relazione alla tratta degli esseri umani;
   a razionalizzare le risorse impiegate nel settore al fine di evitare sprechi ed interventi inefficaci anche attraverso l'incremento del numero delle commissioni territoriali, soprattutto nelle zone di sbarco, per garantire il rispetto delle tempistiche del rilascio dello status di rifugiato;
   a verificare il rispetto dei termini stabiliti nei contratti pubblici d'appalto, all'uopo stipulati secondo i principi di trasparenza e massima diffusione dei relativi bandi di gara;
   a riferire l'esito dei sopralluoghi effettuati nelle strutture, pubblicando i relativi rapporti sul sito istituzionale del Ministero dell'interno.
(1-00269) «Toninelli, Dadone, D'Ambrosio, Colonnese, Marzana, Lorefice, Simone Valente, Luigi Gallo, Frusone, Brescia, Colletti, Cozzolino, Fraccaro, Lombardi, Nuti, Dieni, Nesci».


   La Camera,
   premesso che:
    l'immigrazione costituisce per l'Italia e l'Unione europea un fenomeno di rilevante significato sociale, con notevoli implicazioni sul piano demografico, economico, politico, culturale e antropologico, che richiede interventi strutturali e mirati a garantire anche la coesione sociale;
    in particolare nella XVI legislatura, il Governo Berlusconi ha affrontato il tema nei suoi vari aspetti, senza rinunciare a politiche di accoglienza, sostegno e integrazione dell'immigrazione regolare, accompagnandole con misure di rigore, per massimizzare il suo apporto positivo all'interno del sistema produttivo e sociale del Paese;
    i Governi Berlusconi sostenuti dalla maggioranza di centrodestra hanno promosso una politica di immigrazione che si fonda su due dimensioni che si sostengono reciprocamente: fermezza e rigore contro la clandestinità e integrazione fondata sul lavoro, sulla conoscenza e sul rispetto dell'identità italiana;
    in una situazione internazionale particolarmente complicata, per molti aspetti drammatica, di fronte a una crisi economico-finanziaria di portata mondiale e in presenza di fatti rivoluzionari nei Paesi della riva sud del Mediterraneo, il Governo è riuscito a governare le emergenze che si è trovato davanti sempre nell'interesse del Paese, anche riuscendo nell'impresa di gestire l'ondata di flussi migratori che ha interessato le coste italiane;
    una coerente integrazione di milioni di persone già presenti nel nostro Paese e di molte migliaia che chiedono l'ammissione richiede una disciplina dei flussi e dei visti che garantisca la presenza e la convivenza degli immigrati provenienti dalle varie nazioni, tenendo in considerazione le reali possibilità di assorbimento nel tessuto sociale italiano, al fine di assicurare il rispetto e la tutela della dignità umana dei lavoratori stranieri, dei valori e della sicurezza dei cittadini del nostro Paese;
    l'ingresso illegale nel territorio dello Stato costituisce nella maggior parte dei casi il presupposto per l'emarginazione e lo sfruttamento lavorativo di molti stranieri e, spesso, il serbatoio per il reclutamento della manovalanza della criminalità;
    per continuare a combattere efficacemente la clandestinità bisogna proseguire nell'applicazione puntuale e rigorosa della cosiddetta «legge Bossi-Fini», che lega la possibilità di ingresso e soggiorno sul territorio dello Stato al possesso di un regolare contratto di lavoro;
    questo fondamentale principio stabilito dall'ordinamento italiano si sta affermando anche nelle più moderne legislazioni degli altri Paesi europei;
    quello che manca ancora è una politica comune europea sulla gestione dell'immigrazione illegale; è necessario ragionare, a livello europeo, su come consentire l'immigrazione legale e, quindi, la partecipazione di tanti lavoratori stranieri allo sviluppo del Paese e dell'Unione europea, impedendo al tempo stesso che organizzazioni criminali gestiscano vere e proprie tratte di esseri umani;
    in questo ambito, il Governo italiano ha per primo sollevato in Europa il problema, sottolineando come il fronteggiare, da un lato, l'immigrazione clandestina e l'adottare, dall'altro, una politica di accoglienza, di inserimento e di integrazione dei lavoratori stranieri che giungono in Europa non costituiscono questioni che possono essere semplicemente delegate alla buona volontà dei Paesi costieri;
    nonostante, infatti, molte e forse troppe dichiarazione di intenti, l'Europa non ha dato al nostro Paese un contributo decisivo e l'Italia ha finito per dover affrontare praticamente da sola le ondate migratorie, ondate che hanno subito una forte impennata a causa delle diverse situazioni di conflitto che si sono sviluppate sulla riva sud del Mediterraneo ma che, comunque, rappresentano un dato permanente che va affrontato, sia nell'interesse dei Paesi di accoglienza sia nei confronti delle popolazioni dei Paesi di emigrazione;
    lo sforzo logistico e finanziario sostenuto dall'Italia, fin dalle rivolte sviluppatesi in Tunisia, in Egitto e in Libia, è stato notevole e molto impegnativo e i sacrifici, segnatamente delle popolazioni di Lampedusa, sono state enormi. Questo significa gestione dei flussi ma anche rimpatri coattivi per coloro che non hanno titolo all'accoglienza;
    la solidarietà dell'Europa non può essere limitata al campo finanziario: l'immigrazione irregolare è un problema annoso e il compito di affrontarlo è stato lasciato ai Paesi in prima linea e, in particolare modo, all'Italia. Lampedusa e, in altro modo, altri punti di approdo in Italia rappresentano la porta sud dell'Europa e non solo del nostro Paese: guerre, persecuzioni, regimi autoritari, grandi trasformazioni appena iniziate sulla riva sud del Mediterraneo, privatizzazione della violenza e debolezza o assenza statuale, pulizia etnica e insicurezza di vita spingono centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini a cercare il proprio futuro in Europa rischiando la vita;
    le frontiere italiane non sono più, ormai, nazionali ma europee. Sono frontiere comuni che delimitano uno spazio, quello europeo, che è comune e che implica una gestione che deve essere comune. In questo senso, sull'onda emotiva dell'ultima tragedia di Lampedusa l'Unione europea ha fatto molte promesse, ma al primo Consiglio europeo utile Van Rompuy ha sostanzialmente rinviato la questione al prossimo mese di giugno 2013;
    è necessario, quindi, che anche nel settore dell'immigrazione l'Europa si muova secondo i principi di collaborazione e di mutuo sostegno;
    le strutture che accolgono, assistono e ospitano gli immigrati irregolari presenti nel Paese si distinguono in centri di accoglienza (cda), centri di accoglienza richiedenti asilo (cara) e centri di identificazione ed espulsione (cie);
    tali centri, in particolare i centri di identificazione ed espulsione, fanno ormai stabilmente parte dell'ordinamento e risultano indispensabili per un'efficiente gestione dell'immigrazione irregolare. La finalità del trattenimento degli stranieri irregolari è quella di rimuovere gli ostacoli che, transitoriamente, impediscono di eseguire il rimpatrio, laddove ricorrano: il rischio che la persona da allontanare si renda irreperibile, l'esigenza di accertare la sua identità (poiché priva di passaporto), oppure la necessità di acquisire un mezzo di trasporto idoneo al rimpatrio;
    decorsi i primi 180 giorni di trattenimento, la misura è prorogabile per periodi di 60 giorni, fino a ulteriori 12 mesi, solo se il rimpatrio non è stato ancora eseguito a causa della mancanza di collaborazione della straniero, che ostacola il rimpatrio, oppure a causa di ritardi nell'ottenimento del lasciapassare dal suo Paese di origine;
    nel 2012, la percentuale dei rimpatriati dopo il trattenimento in un centro di identificazione ed espulsione è aumentata sino al 50,6 per cento (nel 2010 era del 48,2 per cento), mentre è conseguentemente diminuita (dal 17,5 per cento del 2010 al 5,2 per cento del 2012) la percentuale di coloro che sono stati dimessi dai centri per mancata identificazione;
    la durata effettiva del trattenimento dipende dal livello di cooperazione offerto da ciascun Paese di provenienza dell'immigrato irregolare. Per esempio, nel caso della Tunisia, in virtù del processo verbale firmato a Tunisi il 5 aprile 2011, sono state avviate procedure semplificate di rimpatrio dei tunisini. Nel 2012, il tempo di permanenza medio degli stranieri nei centri di identificazione ed espulsione è stato di 38 giorni a fronte di un 50,6 per cento di espulsi dopo il trattenimento;
    l'interesse manifestato da più parti della classe politica, la costante vigilanza degli organismi internazionali, e, purtroppo, i tragici episodi degli sbarchi del mese di ottobre 2013 hanno determinato, soprattutto negli ultimi tempi, una maggiore attenzione e un più elevato controllo dell'attività svolta in materia dall'amministrazione pubblica. L'ondata di manifestazioni e rivoluzioni, che ha avuto inizio in Tunisia nel dicembre 2010, e che poi si è allargata a tutta la sponda nord-africana del Mediterraneo, meglio conosciuta come «Primavera araba», ha comportato un notevole incremento della presenza di immigrati irregolari non identificati in Italia, creando difficoltà e nuovi interrogativi sulla gestione dei centri di identificazione ed espulsione e sulle politiche migratorie adottate al riguardo;
    nel mese di giugno del 2012, il Ministro dell'interno pro tempore, Annamaria Cancellieri, ha costituito una task-force, interna al Ministero, con il compito di analizzare la situazione in cui versano i centri di identificazione ed espulsione italiani, relativamente agli aspetti di ordine normativo, organizzativo e gestionale, allo scopo di elaborare un quadro d'insieme e di formulare proposte idonee a migliorarne l'operatività e ad assicurare l'uniformità complessiva del sistema di accoglienza nei centri medesimi. Il presidente della commissione, il Sottosegretario di Stato pro tempore Saverio Ruperto, è stato altresì incaricato di recarsi presso i centri presenti su tutto il territorio nazionale, al fine di raccogliere ogni informazione utile allo svolgimento dell'analisi e all'elaborazione di un documento programmatico che ne racchiude le conclusioni;
    dalle visite programmate dal Sottosegretario di Stato pro tempore Ruperto, e condotte presso i centri di identificazione ed espulsione nel corso del 2012, sono emerse talune disparità nella conduzione dei centri ed ha reso evidente la necessità di dare uniformità organizzativa, soprattutto per quanto riguarda il trattamento degli immigrati ospitati nelle strutture;
    dagli approfondimenti compiuti in virtù dell'attività svolta dal tavolo di lavoro, è emerso che gli aspetti critici più evidenti nella gestione dei centri di identificazione ed espulsione riguardano, in primo luogo, gli ingenti oneri economici che l'amministrazione deve sostenere per la manutenzione e conservazione delle strutture, le quali sono sovente oggetto di atti vandalici da parte dei soggetti ivi trattenuti;
    il tavolo di lavoro ha prodotto, ad inizio 2013, un documento programmatico in cui sono state delineate una serie di proposte programmatiche utili a migliorare le condizioni dei centri,

impegna il Governo:

   ad adottare le opportune iniziative per rendere la permanenza nei centri di identificazione ed espulsione più breve possibile, nonché per prevenire situazioni di disordine e violenza, nel rispetto dei diritti della persona;
   ad assumere iniziative per rendere l'organizzazione dei centri di identificazione ed espulsione basata su standard di qualità elevati, omogenei e verificabili, e improntata a criteri di economicità ed efficienza;
   ad adottare le opportune iniziative per offrire, all'interno dei centri di identificazione ed espulsione, un servizio di assistenza sanitaria efficiente e completo per favorire una maggiore tutela della salute di tutti gli ospiti delle strutture;
   al fine di ridurre i tempi di identificazione degli stranieri irregolari, a mettere in campo ogni strumento utile alla collaborazione con le autorità consolari dei Paesi maggiormente interessati al fenomeno migratorio, semplificando i compiti dei funzionari diplomatici nell'organizzazione degli incontri con gli stranieri da identificare;
   a mettere all'ordine del giorno dell'agenda europea il tema dell'accoglienza agli immigrati e ai profughi, e la promozione di una politica di accoglienza europea, introducendo il principio del burden sharing e prevedendo anche lo stanziamento di risorse specifiche per i centri di identificazione ed espulsione italiani, a fronte di una disponibilità del nostro Paese a farsi carico di una congrua parte dei profughi, nonché la possibilità di ricollocazione della parte restante tra gli altri Stati membri, permettendo, ad esempio, il ricongiungimento familiare ed il transito ai migranti che volessero fare richiesta di asilo in uno Stato diverso da quello di primo accesso all'Unione europea;
   a promuovere e valorizzare l'apporto dei lavoratori immigrati al progresso economico e sociale del Paese, favorendo, al contempo, un processo di effettiva integrazione nel tessuto sociale italiano e la conoscenza ed il rispetto delle regole e della cultura di riferimento del nostro Paese;
   a proseguire nel potenziamento degli uffici amministrativi competenti, affinché i permessi di soggiorno siano rilasciati e rinnovati nei tempi previsti dalla legge;
   a vigilare sull'applicazione delle disposizioni in vigore e sul rispetto puntuale e rigoroso delle norme che legano la possibilità di ingresso e soggiorno sul territorio dello Stato al possesso di un regolare contratto di lavoro e ad intensificare e rendere pienamente efficaci i controlli ispettivi, con il fattivo coinvolgimento dei vari livelli istituzionali e delle parti sociali;
   a valutare, sulla base dell'esperienza compiuta, ogni possibilità di miglioramento dell'attuale assetto normativo, per contrastare l'immigrazione clandestina e regolare i flussi migratori, legandoli alle effettive necessità economiche e sociali del Paese;
   ad intensificare una specifica, coordinata e capillare attività di contrasto dei fenomeni di illegalità e di sfruttamento del lavoro irregolare;
   a potenziare le sinergie con le regioni e gli enti locali, per favorire la diffusione di ogni informazione utile al positivo inserimento degli stranieri nella società italiana, come la conoscenza dei loro diritti e doveri, le opportunità di integrazione e di crescita personale e comunitaria offerte dalle amministrazioni pubbliche e dall'associazionismo, nonché per sostenere ogni iniziativa di prevenzione della discriminazione razziale.
(1-00271) «Palese, Bergamini, Polverini».


Risoluzione

   La Camera,
   al termine del dibattito sulle mozioni concernenti iniziative in ordine alla disciplina dell'ingresso, del soggiorno e dell'allontanamento dei cittadini stranieri, con particolare riferimento alla problematica dei centri di identificazione ed espulsione
   premesso che:
    nell'ordinamento italiano la previsione di centri per l'identificazione e l'espulsione degli immigrati risale alla seconda metà degli anni novanta;
    i Cie sono stati giudicati una vera anomalia giuridica e amministrativa da vasti settori della società civile e del mondo giudiziario che hanno contestato nel corso degli anni la grave inadeguatezza dei centri nel tutelare la dignità e i diritti fondamentali della persona;
    istituiti dalla legge Turco-Napolitano (legge n. 40 del 1998) e previsti dall'articolo 14 del Testo Unico sull'immigrazione (TU 286/1998), come modificato dall'articolo 13 della legge Bossi-Fini, i «CIE» (ex CPT) vanno considerati a tutti gli effetti delle carceri, dove vengono trattenuti extracomunitari in attesa di identificazione e della successiva espulsione. Tra questi oltre il 90 per cento sono soggetti condannati in via definitiva che dopo aver espiato la propria pena nelle carceri italiane vengono poi trasferiti nei Cie in attesa di espulsione;
    tale è la situazione emersa dalle ispezioni condotte dai sottoscritti deputati in alcuni dei Cie presenti sul territorio nazionale, nonché dai dati diffusi dal Ministero degli interni;
    già nel 2007 il Ministro dell'Interno, Giuliano Amato e il Ministro della giustizia, Clemente Mastella, firmarono una direttiva interministeriale che permetteva l'identificazione già in carcere dei detenuti extracomunitari da espellere, rendendo in tal modo più efficiente il sistema dei rimpatri, attraverso una più stretta collaborazione tra le autorità carcerarie e le Forze di polizia e consentendo l'espletamento di tutte le pratiche necessarie all'identificazione durante la permanenza in carcere dei cittadini extracomunitari;
    tale procedura permetterebbe alla Questura competente di avviare l'identificazione immediatamente dopo l'emanazione del provvedimento di custodia cautelare o della definitiva sentenza di condanna con ciò rendendo più celere l'acquisizione da parte della stessa Questura del provvedimento di espulsione, del documento valido per l'espatrio e l'individuazione del vettore per la partenza e, infine, attraverso uno stretto coordinamento tra orario di scarcerazione e partenza, favorire l'espulsione immediata;
    questo renderebbe più efficiente il sistema attuale delle espulsioni, che si è dimostrato essere, almeno a partire dall'anno 2003, molto poco efficace proprio per la difficoltà a identificare i soggetti da allontanare e affievolirebbe le criticità emerse in questi anni in relazione al trattenimento nei Cie dei soggetti in via di espulsione;
    tale modalità comporterebbe anche un significativo risparmio per le casse erariali,

impegna il Governo

ad assumere le opportune iniziative per dare concrete risposte a tale fenomeno ponendo termine alla continua mancata applicazione della sopracitata direttiva interministeriale che eviterebbe tempi lunghi con la identificazione degli immigrati durante la carcerazione detentiva e favorirebbe una riduzione dei Cie presenti sul nostro territorio nazionale.
(6-00040) «Di Lello, Di Gioia, Locatelli, Pastorelli».


DISEGNO DI LEGGE: DISPOSIZIONI SULLE CITTÀ METROPOLITANE, SULLE PROVINCE, SULLE UNIONI E FUSIONI DI COMUNI (A.C. 1542-A) ED ABBINATE PROPOSTE DI LEGGE: MELILLI; GUERRA ED ALTRI (A.C. 1408-1737)

A.C. 1542-A – Questione pregiudiziale

QUESTIONE PREGIUDIZIALE DI COSTITUZIONALITÀ

  La Camera,
   premesso che:
    il disegno di legge n. 1542-A ed abb., recante «Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni», contiene diverse disposizioni che presentano profili di incostituzionalità;
    il contenuto del testo appare innanzitutto in contrasto con i principi autonomistici della Costituzione, ed è anche incoerente con gli obiettivi proclamati, perché produrrebbe ulteriori strutture con aggravi di costi, paralisi e complicazioni decisionali;
    le disposizioni che configurano le Province come enti di secondo livello sono in violazione palese dei principi costituzionali che regolano le autonomie locali. Tra questi principi, vi è quello del riconoscimento e promozione delle realtà locali, solennemente proclamato dall'articolo 5 della Carta Costituzionale: «La Repubblica, una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali». Tali principi si ritrovano affermati nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Nella sentenza n. 106 del 2002 si legge: «Il nuovo Titolo V ha disegnato di certo un nuovo modo d'essere del sistema delle autonomie. Tuttavia i significativi elementi di discontinuità nelle relazioni tra Stato e regioni che sono stati in tal modo introdotti non hanno intaccato le idee sulla democrazia, sulla sovranità popolare e sul principio autonomistico che erano presenti e attive sin dall'inizio dell'esperienza repubblicana. Semmai potrebbe dirsi che il nucleo centrale attorno al quale esse ruotavano abbia trovato oggi una positiva eco nella formulazione del nuovo articolo 114 della Costituzione, nel quale gli enti territoriali autonomi sono collocati al fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica quasi a svelarne, in una formulazione sintetica, la comune derivazione dal principio democratico e dalla sovranità popolare». L'articolo 5 sancisce quindi un vincolo preciso per il legislatore ordinario, che può solo sviluppare, e non comprimere, l'autonomia locale, dando piena e intangibile copertura costituzionale all'assetto storico delle autonomie locali e, oggi, anche ai principi della Carta europea delle autonomie locali;
    nel testo vi è una evidente violazione del principio della rappresentanza democratica sancito dall'articolo 1 della Costituzione. La configurazione delle Province e delle Città metropolitane come enti di secondo livello i cui organi sono eletti non direttamente dal popolo ma dagli amministratori comunali è in contrasto con gli articoli 1 e 114 della Costituzione che configurano le Province e le Città metropolitane come «enti costitutivi della Repubblica» la cui legittimazione non può che derivare dal popolo, come previsto dall'articolo 1 della Costituzione. Non a caso, nel disegno di legge costituzionale n. 1543, il Governo ha previsto l'eliminazione delle Province e Città metropolitane dal secondo comma dell'articolo 114 della Costituzione, proprio per consentire una governance diversa di queste istituzioni di area vasta. Il modello di autonomia accolto dalla sin dal 1947, non è una semplice formula organizzativa di enti territoriali, ma integra una garanzia democratica di cui sono destinatari i cittadini, che vantano un diritto alla vita democratica e alla partecipazione in questi enti (diritto ormai riconosciuto anche ai cittadini europei, oltre che ai nazionali). In secondo luogo, negli enti definiti territoriali (secondo la precedente formulazione dell'articolo 114 della Costituzione), o costitutivi della Repubblica (secondo la nuova formulazione dell'articolo 114 della Costituzione), in forza del principio democratico, l'esercizio del diritto alla partecipazione democratica culmina nella formazione di una rappresentanza politica;
    per disciplinare dunque il nuovo assetto dei livelli di governo della Repubblica, e magari giungere all'abolizione dell'ente provincia è necessario approvare una legge costituzionale in merito; questo è evidente soprattutto alla luce della recente pronuncia della Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di alcune disposizioni, in materia di riordino delle province, contenute nel decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e nel decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135;
    l'approvazione di una legge costituzionale per l'abolizione delle province è necessaria anche per la necessità di rispondere alle autorevoli sollecitazioni europee verso un contenimento della spesa pubblica dell'amministrazione territoriale; ciò non esclude che, proprio per una piena ed effettiva considerazione di questa esigenza, sia necessaria una più estesa e complessiva razionalizzazione del titolo V della parte seconda della Costituzione;
    ulteriore questione che rende assai dubbia la costituzionalità delle disposizioni contenute all'interno del disegno di legge, è l'evidente disparità di trattamento che si viene a creare tra un cittadino elettore residente nel comune capoluogo dell'area metropolitana e il cittadino elettore residente negli altri comuni dell'area metropolitana. Questo perché, a norma dell'articolo 4, comma 1, del disegno di legge in oggetto, il sindaco della città metropolitana è di diritto il sindaco del comune capoluogo; lo statuto può prevedere l'elezione diretta del sindaco della città metropolitana solo a determinante condizioni, e solo dopo l'approvazione di una legge statale sul sistema elettorale. Nella pratica, la regola stabilita è quella dell'automatismo che intercorre tra essere sindaco del comune capoluogo e essere sindaco della città metropolitana: questo crea una grave disparità tra i cittadini dell'area metropolitana, perché i cittadini elettori del comune capoluogo avranno di fatto la possibilità di esprimere la propria preferenza elettorale anche per il sindaco della città metropolitana; possibilità che è del tutto preclusa ai cittadini elettori degli altri comuni dell'area metropolitana;
    il disegno di legge in oggetto non contiene quindi una visione organica delle funzioni, delle competenze e dei ruoli degli enti territoriali della Repubblica, secondo lo schema delineato dal Titolo V della Costituzione; l'approvazione di una legge costituzionale rimane l'unica opzione in grado di ridisegnare in maniera puntuale e coerente l'impianto delle Repubblica delle autonomie e percorrere concretamente la strada del cambiamento istituzionale attraverso la riforma organica della rappresentanza locale,

delibera

di non procedere all'esame del disegno di legge A.C. 1542-A ed abb.
n. 1. Brunetta, Russo, Sarro, Luigi Cesaro, Castiello, Petrenga, Faenzi, Palese, Laffranco, Centemero, Abrignani, Riccardo Gallo, Catanoso.

A.C. 1542-A – Questione sospensiva

QUESTIONE SOSPENSIVA

  La Camera,
   premesso che:
    il riordino, la semplificazione e la razionalizzazione delle articolazioni territoriali della Repubblica è urgente e necessaria al fine di rimuovere la «giungla» amministrativa e di ridurre i costi della politica derivanti dall'esistenza di troppi livelli di governo a carattere elettivo e, soprattutto, della proliferazione di innumerevoli enti funzionali a base territoriale diversamente nominati, dalla quale risulta un intreccio quando non un intralcio ed una sovrapposizione di competenze nonché di funzioni, che appesantiscono la decisione amministrativa;
    il sovrapporsi disordinato dei tentativi di riforma del sistema delle autonomie locali, dei quali il provvedimento in titolo è l'ultimo in ordine di tempo, lascia disorientati con riguardo al caos istituzionale creato, al merito delle politiche di riorganizzazione in esso tentate, alla loro legittimità;
    neanche il provvedimento in titolo appare idoneo a realizzare gli obiettivi sopraindicati nella cornice istituzionale vigente, risultando foriero di situazioni conflittuali e di probabili oneri di spesa per la finanza pubblica, segnalati anche dai rappresentanti degli organi auditi – in particolare, sono stati messe in evidenza «la confusione ordinamentale e la moltiplicazione di oneri», nonché la complessità del meccanismo di riordino, «suscettibile di produrre costi e di alimentare il contenzioso» oltre all'insieme delle procedure indicate che «mal si concilierebbero, per la durata e la complessità, con la provvisorietà del disegno organizzativo perseguito dal provvedimento»;
    i tentativi di riordino territoriale compiuti finora si sono rivelati maldestri e improvvidi, figli di un'ottica «emergenziale» e provvisoria, non supportati a livello costituzionale e, parimenti, anche il provvedimento ordinario in titolo non risulta immune da profili critici di illegittimità, palesi o latenti, che ne pongono a rischio la tenuta o rischiano di determinarne, ancora una volta, il rigetto da parte dell'organo costituzionale competente,

delibera

di sospendere l'esame del disegno di legge n. 1542-A ed abb. fino all'approvazione dei progetti di legge costituzionali in materia di soppressione delle province.
n. 1. Dadone, Cozzolino, D'Ambrosio, Dieni, Fraccaro, Lombardi, Nesci, Nuti, Toninelli, Carinelli.

A.C. 1542-A – Parere della V Commissione

PARERE DELLA V COMMISSIONE SUL TESTO DEL PROVVEDIMENTO E SULLE PROPOSTE EMENDATIVE PRESENTATE

Sul testo del provvedimento elaborato dalla Commissione di merito:

NULLA OSTA

Sugli emendamenti trasmessi dall'Assemblea:

PARERE CONTRARIO

sugli emendamenti 1.365, 3.300, 3.304, 3.330, 3.340, 3.350, 12.1, 12-ter.200, 12-ter.201, 12-ter.202, 12-ter.203, 16.3, 21.3, 23.1 e sull'articolo aggiuntivo 23.023, in quanto suscettibili di determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica privi di idonea quantificazione e copertura;

NULLA OSTA

sulle restanti proposte emendative.