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Resoconto dell'Assemblea

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XVII LEGISLATURA

Allegato B

Seduta di Venerdì 16 ottobre 2015

ATTI DI INDIRIZZO

Mozioni:


   La Camera,
   premesso che:
    ormai da mesi l'Italia sta fronteggiando una situazione drammatica: sulle coste italiane continuano ad arrivare barconi pieni di migranti provenienti dall'Africa e dal Medio Oriente, che fuggono da scenari di guerra o di rivolte popolari e soprattutto da reiterata violazione dei diritti umani, fame e povertà, fenomeno che non può più essere considerato come transitorio o eccezionale e che non riguarda soltanto le iniziative umanitarie e il controllo delle frontiere, ma passa anche attraverso la cooperazione economica con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo;
    d'altronde l'immigrazione non può essere arrestata, perché è parte della storia dell'umanità, ma va gestita nell'interesse dei Paesi di origine e di quelli di destinazione dei flussi migratori, anche e soprattutto per impedire il rischio di una deriva razzista;
    gli sbarchi quotidiani di migranti stanno determinando una vera e propria emergenza umanitaria che non può e non deve essere una questione solo italiana, ma europea, delle istituzioni dell'Unione europea e di tutti gli Stati membri in una visione solidaristica e di condivisione delle responsabilità;
    per controllare i flussi migratori che dalle aree di crisi si riversano sull'Europa «non si può solo alzare un muro, né bastano solo le azioni di cooperazione: serve una strategia di lungo termine» che mescoli la cooperazione con i Paesi in difficoltà alla ricostruzione di Paesi «vicini al collasso totale», parole pronunciate dal Ministro degli affari esteri e della cooperazione, Paolo Gentiloni, al termine della conferenza interministeriale sul nesso tra cooperazione economica e controllo dei flussi immigratori che si è tenuta a Roma nel 2014, il cosiddetto Processo di Khartoum sull'immigrazione dall'Africa orientale (EU-Horn of Africa migration route initiative), in attuazione del precedente Processo di Rabat, ovvero il foro di dialogo regionale tra l'Unione europea e i Paesi dell'Africa occidentale, centrale e mediterranea, nato nel 2006 su impulso di Spagna, Francia e Marocco al fine di affrontare le sfide poste dalle migrazioni lungo la rotta migratoria Africa sub-sahariana-Unione europea, secondo un approccio di responsabilità condivisa tra Paesi d'origine, transito e destinazione dei flussi migratori;
    il Processo di Khartoum è un accordo firmato il 28 novembre 2014 a Roma tra i Paesi dell'Unione europea e i Paesi di origine e di passaggio dei migranti che, dal Corno d'Africa e dall'Africa dell'Est si riversano sulle coste della Libia per raggiungere l'Europa, approdando nel nostro Paese, scappando da Somalia, Eritrea, Darfur/Sudan, Etiopia e dunque da situazioni di conflitto decennali, da violazioni di diritti umani documentati in innumerevoli rapporti di organizzazioni della società civile; nel corso della citata conferenza è stata sancita la volontà tra i Paesi partecipanti di collaborare per combattere il traffico di esseri umani, intervenire sui fattori scatenanti dell'emigrazione, cercare di garantire dei percorsi più strutturati per chi emigra, tutelando le fasce più vulnerabili e i richiedenti asilo e, per arrivare a questi obiettivi, occorrono accordi che portino a scambi d'informazioni, a sviluppo di capacity building, assistenza tecnica e buone pratiche per sostenere lo sviluppo sostenibile nei Paesi d'origine e di transito, creare strategie comuni di lotta alle reti criminali che gestiscono il traffico di migranti, regolare i flussi migratori e, là dov’è possibile, prevenirli;
    occorre, dunque, innanzitutto favorire un processo di revisione e miglioramento della qualità e efficacia degli interventi volti allo sviluppo (sostenibile) da parte delle grandi organizzazioni internazionali, a partire da Onu e Banca mondiale, con particolare riferimento a quei Paesi ove ha origine il flusso migratorio;
    è evidente che la stabilizzazione delle aree di conflitto, da cui ha origine la forte pressione migratoria, non può prescindere da strategie di cooperazione finalizzate alla riduzione della povertà e al conseguimento della sicurezza alimentare, attraverso lo sviluppo agricolo locale da sostenere mediante investimenti in infrastrutture e innovazione volti a generare, nel rispetto dell'uso sostenibile delle risorse naturali, un livello di modernizzazione in grado di contrastare gli effetti negativi del cambiamento climatico e a superare l'agricoltura di sussistenza con la diffusione di pratiche agricole capaci di assorbire forza lavoro qualificata e di creare filiere produttivo-commerciali;
    secondo la Banca mondiale, tra i Paesi emergenti, si è in presenza di una riduzione significativa di quelli molto poveri (scesi da oltre 60 a 34), tuttavia aumentano però quelli considerati «fragili» (36 secondo l'Ocse), ovvero condizionati e messi in difficoltà sul versante dello sviluppo economico a causa di conflitti (dovuti soprattutto a insipienza e irresponsabilità internazionali), debolezze istituzionali, inadeguatezza delle reti sociali e imprenditoriali;
    infine, il Presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Renzi, a margine del suo intervento alla sessione dell'Onu tenutasi a settembre 2015, ha assicurato che l'Italia metterà a disposizione più risorse per i programmi a sostegno della lotta alla fame, alla povertà, alle malattie e al sottosviluppo: «Da qui al 2017 saremo al quarto posto nel G7 per gli investimenti nella cooperazione internazionale»;
    il nostro Paese si è impegnato, in maniera attiva nel corso del lungo iter diplomatico che ha portato all'adozione del Trattato internazionale sul commercio delle armi, affinché esso fosse in linea con quanto da sempre sostenuto nell'ambito della tutela, rispetto e promozione dei diritti umani, del disarmo, della cooperazione allo sviluppo e nel rispetto delle norme di diritto internazionale umanitario e con il richiamo all'obbligo di risolvere le controversie internazionali con mezzi pacifici;
    la legge n. 185 del 1990 rappresenta una delle più avanzate normative sul controllo dei materiali di armamento e, con il recepimento anche di successive direttive sul controllo dei trasferimenti dei materiali di armamento, il sistema normativo italiano è risultato pienamente in grado di poter attuare il citato Trattato; peraltro, in questa legge, con la lettera d) del comma 6 dell'articolo 1, viene vietata l'esportazione e il transito di materiali di armamento verso i Paesi i cui Governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell'Unione europea o del Consiglio d'Europa,

impegna il Governo:

   a predisporre una seria strategia di politica estera dell'Unione europea più flessibile e adeguata nel rispondere alle minacce e alle sfide emergenti in settori quali la sanità, l'energia, i cambiamenti climatici, l'accesso all'acqua o il processo di desertificazione, fattori che spingono le popolazioni africane coinvolte verso altri Paesi e che si legano inevitabilmente all'aumento dei flussi migratori, attraverso l'adozione di misure e proposte per la riduzione dell'impatto ambientale e del consumo delle risorse, per una cooperazione allo sviluppo che non sia sinonimo di sostentamento, per la risoluzione di conflitti non basata sul solito interventismo militare;
   a potenziare le strutture consolari di assistenza sociale nei Paesi africani, in modo che esse possano farsi carico di un primo orientamento in loco dei nuovi migranti con la costituzione di appositi sportelli all'interno degli uffici consolari;
   a far sì che l'approccio al dramma dei profughi e dei flussi migratori dall'Africa sia affrontato dall'Unione europea nel solco dei processi di Rabat e di Khartoum, ovvero con una nuova politica dell'Unione europea nei confronti del continente africano in grado di affrontare le cause remote (povertà, crisi e conflitti), anche tramite il miglioramento delle situazioni della sicurezza, umanitarie e dei diritti umani e delle condizioni socio-economiche nei Paesi di origine, e di rafforzare la cooperazione con i Paesi di transito per il controllo dei flussi, per un contrasto efficace dei trafficanti e per rafforzarne le capacità in modo da consentire alle autorità locali di affrontare la questione in maniera più proficua;
   ad assumere iniziative per implementare con fatti concreti il cosiddetto Processo di Khartoum, adoperandosi affinché l'intera Unione europea non si caratterizzi esclusivamente con missioni militari come Eunavfor Med, Frontex o Active Endeavour, ma si decida a intervenire sui problemi strutturali dell'immigrazione dall'Africa attraverso un consistente piano di cooperazione allo sviluppo che rafforzi le economie locali;
   a rendere effettivi gli impegni assunti, nel quadro dei citati processi, attraverso un approccio di maggiore generosità in termini di stanziamenti nella cooperazione allo sviluppo con questi Paesi, implementando contestualmente più serrati controlli sulla destinazione di tali fondi e sui fenomeni di corruzione inevitabilmente correlati;
   ad assumere iniziative per continuare a rafforzare la partnership tra Unione europea e l'Unione africana e con le organizzazioni regionali africane, con i Paesi di origine e di transito dei flussi migratori, con l'Organizzazione internazionale per le migrazioni e l'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite;
   a intraprendere, anche in collaborazione con i Governi dei Paesi riceventi, ogni utile iniziativa volta a incrementare i fondi per la cooperazione pubblica allo sviluppo nel settore agricolo locale, al fine di sostenere investimenti volti alla diffusione di modelli di produzione in grado di generare occupazione, di consentire agli operatori di accedere a mercati più ampi di quelli strettamente locali, di attivare meccanismi che permettano loro di recuperare la maggior parte possibile del valore di ciò che producono e di capitalizzare le risorse naturali, specie nelle aree a forte rischio ecologico, dove i servizi agricoli, come l'irrigazione, sono insoddisfacenti e il cambiamento climatico influisce in maniera significativa sulla disponibilità di cibo e sulla stabilità della sua offerta, il suo accesso e il suo utilizzo, alimentando, di fatto, espulsioni e progetti migratori;
   considerata l'evidente correlazione tra conflitti, traffico d'armi e flussi migratori, in specie provenienti dall'Africa, ad adottare ogni utile iniziativa affinché sia interrotta immediatamente l'esportazione di armi a tutti i Paesi che non rispettano i fondamentali diritti umani nel rispetto della legge n. 185 del 1990 e, parallelamente, a farsi promotore, nelle sedi bilaterali e in quelle multilaterali, di tutte le iniziative diplomatiche necessarie a limitare comunque il commercio con tutti questi Paesi.
(1-01018) «Spadoni, Grande, Manlio Di Stefano, Sibilia, Di Battista, Scagliusi, Del Grosso».


   La Camera,
   premesso che:
    con la comunicazione (COM (2006) 372) del 12 luglio 2006 veniva definita la «Strategia tematica per l'uso sostenibile dei pesticidi»; nell'introduzione, «Descrizione del problema ambientale», si afferma che: «(...) costituiti principalmente da prodotti fitosanitari e da biocidi, i pesticidi sono destinati a influenzare i processi di base degli organismi viventi e possono pertanto uccidere o controllare gli organismi nocivi come i parassiti. Allo stesso tempo possono provocare effetti negativi indesiderati su organismi non bersaglio, sulla salute umana e sull'ambiente. I possibili rischi associati al loro utilizzo sono accettati in certa misura a fronte dei benefici economici che ne derivano, se si pensa che i prodotti fitosanitari, ad esempio, contribuiscono a garantire un'offerta affidabile di prodotti agricoli di elevata qualità, salutari e a prezzi accessibili. Da tempo questi prodotti sono regolamentati nella maggior parte degli Stati membri e nella Comunità. Negli anni è stato istituito un sistema altamente specializzato per valutare i rischi per la salute umana e per l'ambiente connessi all'impiego dei pesticidi. Nonostante tutti i tentativi fatti per circoscrivere i rischi legati all'impiego dei pesticidi e per evitare effetti indesiderati, è ancora possibile ritrovare quantitativi indesiderati di alcuni pesticidi nelle varie matrici ambientali (e soprattutto nel suolo e nelle acque) e nei prodotti agricoli sono ancora presenti residui superiori ai limiti stabiliti per legge. È pertanto necessario ridurre per quanto possibile i rischi prodotti dai pesticidi alle persone e all'ambiente, riducendo al minimo o, se possibile, eliminando l'esposizione e incentivando attività di ricerca e sviluppo su alternative, anche non chimiche, meno dannose (...)»;
    la direttiva 2009/128/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, recepita con il decreto legislativo 14 agosto 2012, n. 150, ha istituito un quadro per l'azione comunitaria ai fini dell'utilizzo sostenibile dei prodotti fitosanitari;
    in applicazione dell'articolo 6 del predetto decreto legislativo è stato predisposto il piano di azione nazionale per l'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari. Il piano è stato adottato in data 22 gennaio 2014 a seguito dell'emanazione del decreto interministeriale;
    il piano di azione nazionale si propone di ridurre i rischi associati all'uso dei prodotti fitosanitari, promuovendo un processo di cambiamento delle tecniche di utilizzo dei prodotti verso forme più compatibili e sostenibili in termini ambientali e sanitari;
    sebbene con l'adozione del piano di azione nazionale vi sia una rinnovata attenzione sull'utilizzo e sui controlli dei prodotti fitosanitari, l'Istituto superiore per la ricerca e la protezione dell'ambiente, Ispra, lancia l'allarme con il «Rapporto nazionale pesticidi nelle acque. Dati 2011-2012 – edizione 2014», nel quale si rileva che, nonostante la vendita di pesticidi sia diminuita, nelle acque sono state registrate 175 diverse sostanze e in alcune rilevazioni fino a 36 sostanze contemporaneamente: un miscuglio chimico di cui, ad oggi, ancora non si conoscono precisamente gli effetti. In merito alla non adeguata conoscenza degli effetti, che un miscuglio di numerose sostanze può avere sugli ecosistemi, si legge dal dossier dell'Ispra che: «(...) nei campioni sono spesso presenti miscele di sostanze diverse: ne sono state trovate fino a 36 contemporaneamente. L'uomo, gli altri organismi e l'ambiente sono, pertanto, esposti a un cocktail di sostanze chimiche di cui non si conoscono adeguatamente gli effetti, per l'assenza di dati sperimentali (...)»;
    le modalità operative previste nel piano di azione nazionale per perseguire l'ottenimento degli obiettivi dati dall'Unione europea in tema di corretto utilizzo dei prodotti fitosanitari, sono: a) la formazione obbligatoria dei venditori, dei consulenti e degli operatori; b) l'informazione e la sensibilizzazione per la popolazione; c) i controlli funzionali sulle macchine per la distribuzione; d) l'adozione di misure specifiche per la tutela delle acque; e) misure specifiche per la riduzione dell'uso dei fitofarmaci; f) buone pratiche di manipolazione ed uso dei fitofarmaci durante tutto il loro «ciclo di vita»;
    nonostante le linee guida contenute nel piano di azione nazionale e la normativa sui prodotti fitosanitari siano molto stringenti riguardo alla loro immissione in commercio, alle modalità di vendita e di stoccaggio dei prodotti, ai residui negli alimenti, al divieto di trattamenti durante la fioritura per non causare danni alle api, si dice poco o niente sull'esecuzione dei trattamenti. Sono esplicitamente vietati solo i trattamenti in prossimità dei pozzi, mentre per i trattamenti in prossimità di abitazioni e giardini esistono alcuni regolamenti comunali e delibere che valgono naturalmente solo sul territorio del comune che li ha emanati, nonché le disposizioni del codice civile e del codice di procedura penale, in riferimento a danni a persone o cose determinati da modalità operative sconsiderate o comunque da negligenza nell'uso. Esistono, poi, le disposizioni sulla sicurezza sul lavoro di cui al decreto legislativo n. 81 del 2008 e al decreto legislativo n. 106 del 2009, che prevedono anche di evitare danni a persone terze, ad esempio vietando l'ingresso nell'area di un cantiere o, come nel caso in esame, evitando di disperdere nell'ambiente sostanze potenzialmente tossiche. Queste procedure possono variare da azienda ad azienda e possono essere sottoposte a verifica da parte degli uffici competenti delle aziende sanitari locali;
    visto il vuoto normativo, si è cercato anche nel piano di azione nazionale di risolvere il problema in via «amicale» con l'agricoltore, chiedendogli di adottare alcune attenzioni: evitare i trattamenti quando c’è vento; controllare che la nuvola dei trattamenti non raggiunga le zone abitate; avvisare prima dei trattamenti in modo che i residenti possano chiudere porte e finestre; raccogliere i panni stesi, coprire l'orto con teli e non sostare nelle vicinanze dell'appezzamento da trattare. Tuttavia, non vi è esplicito divieto o una normativa nazionale uguale per tutti i comuni, né una reale campagna di sensibilizzazione, informazione e formazione dell'agricoltore per espletare, idoneamente, i trattamenti e non recare danno alla popolazione immediatamente prossima ai terreni agricoli. La problematica si acuisce quando alcuni comuni sono soliti autorizzare trattamenti e irrorazioni con diserbanti nei parchi cittadini e nelle vicinanze di molte abitazioni;
    quando si esegue un trattamento fitosanitario, soltanto una parte esigua della miscela contenente la sostanza attiva raggiunge il bersaglio, mentre il resto viene disperso nell'ambiente;
    nel merito della domanda relativa alle distanze di sicurezza per il rischio di contaminazione, va precisato che qualcosa in merito lo si ritrova solo nel regolamento (CE) n. 889/2008 inerente alla produzione biologica, che, fra l'altro, non indica una distanza specifica di sicurezza;
    l'articolo 63, «Regime di controllo e impegno dell'operatore», del titolo IV («Controlli») del capo I («Requisiti minimi di controllo») fa, infatti, riferimento alle misure precauzionali da prendere per ridurre il rischio di contaminazione da parte di prodotti o sostanze non autorizzati e misure di pulizia da prendere nei luoghi di magazzinaggio e lungo tutta la filiera di produzione dell'operatore;
    in concreto, nel caso in cui gli appezzamenti coltivati secondo il metodo biologico siano contigui a coltivazioni convenzionali (possibili fonti di inquinamento per fenomeni di deriva) spetta all'agricoltore che produce in biologico adottare misure precauzionali (quali la predisposizione di barriere sui confini a rischio e/o fasce di rispetto) per ridurre il rischio di contaminazione da parte di prodotti o sostanze non autorizzate dai disciplinari tecnici. Dunque, in una normativa che si presenta alquanto debole per quel che concerne il biologico, sul fronte dell'utilizzo dei prodotti fitosanitari, è del tutto assente la previsione di una distanza di sicurezza ben definita;
    sulla rivista The lancet oncology, l'Organizzazione mondiale della sanità ha classificato tre pesticidi nella categoria 2A, cioè «probabilmente cancerogeni», l'ultimo livello prima di «sicuramente cancerogeni». La International agency for research on cancer ha preso in considerazione due insetticidi: il Diazinon e il Malathion, ma a suscitare scalpore è stato il parere espresso dall'agenzia sul Glisofato;
    il Glisofato è stato sintetizzato dalla Monsanto negli anni ’70 ed è il principio attivo del diserbante Roundup, il quale rappresenta l'erbicida più usato al mondo, oltre ad essere quello che si ritrova più spesso nell'ambiente; è presente in più di 750 prodotti destinati all'agricoltura, silvicoltura, usi urbani e domestici;
    alcuni esperimenti sugli animali hanno dimostrato che il diserbante provoca danni cromosomici, un maggiore rischio di tumore alla pelle, al tubolo renale e agli adenomi delle cellule pancreatiche. Tuttavia, la International agency for research on cancer ritiene che l'insieme della letteratura scientifica esaminata non permetterebbe di concludere con assoluta certezza che il Glisofato sia cancerogeno;
    il decreto legislativo 14 agosto 2012, n. 150, all'articolo 5, prevede l'istituzione del consiglio tecnico-scientifico sull'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, istituito con il decreto interministeriale del 22 luglio 2013;
    il decreto interministeriale del 15 luglio 2015, in attuazione dell'articolo 22 del decreto legislativo 14 agosto 2012, n. 150, stabilisce le «modalità di raccolta ed elaborazione dei dati per l'applicazione degli indicatori previsti dal piano d'azione nazionale per l'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari»;
    l'allegato al decreto interministeriale del 15 luglio 2015, al primo e al secondo capoverso, recita che: «l'articolo 22 del decreto legislativo 14 agosto 2012, n. 150, prevede l'adozione di indicatori utili alla valutazione dei progressi realizzati attraverso l'attuazione del piano d'azione nazionale per l'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari e specifica che tali indicatori, oltre a permettere “una valutazione dei progressi realizzati nella riduzione dei rischi e degli impatti derivanti dall'utilizzo di prodotti fitosanitari”, dovranno anche permettere di “rilevare le tendenze nell'uso di talune sostanze attive con particolare riferimento alle colture, alle aree trattate e alle pratiche fitosanitarie adottate”. Il decreto legislativo precisa che gli indicatori stabiliti saranno utilizzati, tra l'altro, i dati rilevati ai sensi del regolamento (CE) n. 1185/2009, sulle statistiche relative ai prodotti fitosanitari (...)»;
    il 14 dicembre 2009 è entrato in vigore il regolamento n. 1107/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo all'immissione sul mercato dei prodotti fitosanitari che abroga le direttive del Consiglio 79/117/CEE (sul divieto di immissione nel mercato e di impiego di prodotti fitosanitari contenenti determinate sostanze attive) e 91/414/CEE (relativa all'autorizzazione e all'immissione sul commercio dei prodotti fitosanitari). L'applicazione del regolamento è avvenuta il 14 giugno 2011. Tra le innovazioni contenute nel nuovo regolamento europeo c’è l'introduzione dei criteri di cut-off che escludono a priori le sostanze attive identificate pericolose per la salute dell'uomo, degli organismi animali o dell'ambiente;
    le sostanze attive che possiedono caratteristiche intrinseche di pericolosità tali da destare preoccupazione verranno, invece, identificate come sostanze «candidate alla sostituzione». I prodotti fitosanitari contenenti tali sostanze attive dovranno essere sottoposti ad una procedura di «valutazione comparativa» che dovrà verificare la disponibilità, in commercio, di prodotti analoghi, o di metodi non chimici alternativi, con profilo tossicologico ed eco-tossicologico più favorevole;
    tale nuovo quadro normativo si inserisce in una situazione legislativa che ha visto, nel marzo 2009, la conclusione del programma europeo di revisione di tutte le sostanze attive fitosanitarie presenti sul mercato nel 1993 ai sensi della direttiva 91/414/CEE. La revisione ha interessato circa 1.000 sostanze e al termine circa 750 sono state escluse dal commercio in Europa;
    in Italia si stima che circa 200 sostanze attive fitosanitarie siano state revocate. Tra queste un numero rilevante ha riguardato sostanze impiegate diffusamente (ad esempio, i fosforganici), la cui sostituzione ha creato qualche problema richiedendo una ridefinizione delle strategie di difesa delle colture;
    in questo scenario si inseriscono, quindi, le importanti disposizioni previste dal nuovo regolamento n. 1107/2009 sull'immissione in commercio dei prodotti fitosanitari che potrebbero portare, nei prossimi anni, all'esclusione dal commercio di altre sostanze attive, attualmente autorizzate (incluse nell'allegato I);
    infatti, il processo prevede che le sostanze attualmente autorizzate siano rivalutate, alla luce dei nuovi criteri di cut- off e di selezione delle sostanze candidate alla sostituzione, soltanto al momento della scadenza della loro autorizzazione al commercio. Quindi, solo fra diversi anni si potrà conoscere l'effettiva disponibilità delle sostanze attive;
    tale situazione di incertezza determina rilevanti criticità anche in sede di predisposizione ed aggiornamento dei disciplinari di produzione integrata a livello regionale. Nei disciplinari di produzione integrata sono, infatti, riportate le strategie di difesa integrata a cui devono attenersi le aziende agricole che aderiscono alle organizzazioni dei produttori e che rappresentano, quindi, le metodologie produttive che sono alla base delle attività di promozione e valorizzazione della qualità della maggior parte delle produzioni ortofrutticole regionali;
    l'articolo 30, paragrafo 1, del regolamento n. 1107/2009, indica che: ”(...) in deroga all'articolo 29, paragrafo 1, lettera a), gli Stati membri possono autorizzare, per un periodo provvisorio non superiore a tre anni, l'immissione sul mercato di prodotti fitosanitari contenenti una sostanza attiva non ancora approvata, a condizione che:
     a) la decisione di approvazione non abbia potuto essere presa entro un termine di trenta mesi dalla data di ammissibilità della domanda, prorogato degli eventuali termini aggiuntivi fissati in conformità dell'articolo 9, paragrafo 2, dell'articolo 11, paragrafo 3, o dell'articolo 12, paragrafo 2 o 3;
     b) a norma dell'articolo 9 il fascicolo sulla sostanza attiva sia ammissibile in relazione agli usi proposti;
     c) lo Stato membro concluda che la sostanza attiva può soddisfare i requisiti di cui all'articolo 4, paragrafi 2 e 3, e che il prodotto fitosanitario può prevedibilmente soddisfare i requisiti di cui all'articolo 29, paragrafo 1, lettere da b) a h);
     d) siano stati stabiliti livelli massimi di residuo conformemente al regolamento (CE) n. 396/2005;
    il paragrafo 3 dell'articolo 30 del regolamento stabilisce che: «(...) le disposizioni di cui ai paragrafi 1 e 2 si applicano fino al 14 giugno 2016 (...)»;
    in verità questo articolo così come l'articolo 53 (che prevede autorizzazioni in deroga per ragioni di emergenza fitoiatrica, la cui validità è di centoventi giorni) del medesimo regolamento stanno trovando una forte applicazione in contrasto con i caratteri di eccezionalità e in deroga alla norma comunitaria nella parte in cui trova difficile applicazione quanto stabilito dal regolamento (CE) n. 396/2005 sui livelli massimi di residui. Molte autorizzazioni concesse in riferimento all'articolo 30 del citato regolamento, di fatto, si sono anche spinte oltre i tre anni previsti, producendo delle vere e proprie distorsioni del sistema autorizzatorio, anche perché è difficile constatare l'interruzione, dopo i termini di scadenza, delle sostanze autorizzate e che cosa si intende per emergenza fitoiatrica;
    a tal riguardo, dal sito del Ministero della salute, dove tra l'altro vi è una lunga lista di sostanze autorizzate in base all'articolo 53, si legge che: «(...) la Commissione europea sta predisponendo una nuova linea guida ad uso degli Stati membri al fine di chiarire in quali circostanze una situazione può essere definita di emergenza fitoiatrica ed allo scopo di uniformare le procedure di rilascio di dette autorizzazioni da parte degli Stati stessi; saranno, inoltre, fornite indicazioni procedurali su come effettuare la richiesta di autorizzazioni eccezionali (...)»;
    alla luce di quanto poc'anzi descritto, appare evidente che l'impianto autorizzatorio in deroga (articoli 30 e 53 del regolamento n. 1107/2009) è carente delle definizioni guida che chiariscano che cosa si intende e quando si verifica un'emergenza fitoiatrica, come appare anche che le disposizioni del piano di azione nazionale, così come i suoi decreti attuativi sulla costituzione del consiglio tecnico-scientifico sull'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, e le modalità di raccolta ed elaborazione dei dati per l'applicazione degli indicatori previsti dal piano d'azione nazionale e il «Rapporto nazionale pesticidi nelle acque. Dati 2011-2012-edizione 2014» dell'Ispra evidenziano una vera e propria aporia finalistica del complesso normativo, tenendo conto anche del regolamento (CE) n. 396/2005 sui livelli massimi di residui;
    a precisa domanda posta dai firmatari del presente atto di indirizzo al Ministero della salute sull'esistenza di dati statistici delle autorizzazioni di cui all'articolo 30 del regolamento, la risposta è stata che il Ministero non possiede dati che consentano di capire quante e quali sono state le autorizzazioni rilasciate in merito al citato articolo,

impegna il Governo:

   ad assumere un'iniziativa normativa sull'utilizzo dei prodotti fitosanitari più stringente, rispetto a quella oggi in vigore, che introduca a livello nazionale divieti ed eventuali sanzioni, superando la logica delle raccomandazioni e sancendo distanze certe e determinate tra i luoghi oggetto di irrorazione con fitofarmaci e i centri abitati e le coltivazioni biologiche e biodinamiche, al fine di garantire il diritto alla salute;
   ad assumere iniziative normative per introdurre il divieto esplicito di utilizzo dei prodotti fitosanitari nei parchi pubblici, come già avviene in altri Paesi dell'Unione europea;
   ad adottare una campagna informativa più efficace, attraverso una cartellonistica chiara e leggibile, in grado di avvertire la popolazione circa il luogo in cui è stato fatto uso di pesticidi, indicando, tra l'altro, le eventuali malattie che essi comportano e il «periodo di carenza» al fine di evitare di cagionare danni alla salute umana, con il partenariato del Ministero della salute, sulla base di altre campagne messe già in atto come quella contro il fumo, avvalendosi anche del servizio pubblico radiotelevisivo e delle maggiori testate giornalistiche nazionali;
   ad assumere iniziative normative per introdurre specifiche distanze di sicurezza fra i campi coltivati dove sono utilizzati i prodotti fitosanitari e i campi dove non se ne fa utilizzo, che al momento non sono disciplinate a livello nazionale;
   ad effettuare, avvalendosi di enti pubblici e della collaborazione dei centri di ricerca e studi indipendenti, un monitoraggio sugli effetti a lungo termine di determinati prodotti impiegati, con particolare riguardo al «cocktail di fitosanitari», così come descritto nel dossier dell'Ispra;
   ad assumere un'apposita iniziativa normativa al fine di obbligare gli agricoltori che praticano l'agricoltura convenzionale, e quindi che utilizzano i fitofarmaci, al rispetto delle distanze di sicurezza fra le colture, al fine di evitare che le produzioni biologiche e biodinamiche vengano contaminate;
   a valutare la messa al bando del Glifosato dal territorio nazionale, al fine di applicare il «principio di precauzione» per salvaguardare le condizioni di vita e di lavoro degli operatori del settore, oltre alla salute pubblica e dell'ambiente, avendo quale punto di valutazione scientifica il parere dell’International agency for research on cancer e i numerosi studi di cancerogenicità fin ora esperiti, valutando, inoltre, anche l'esclusione delle sostanze di sintesi classificate come «probabilmente cancerogene»;
   a porre in essere iniziative concrete che limitino fortemente l'utilizzo delle deroghe sul territorio italiano e a dar seguito a quanto previsto dal piano d'azione nazionale per l'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, dalla «Strategia tematica per l'uso sostenibile dei pesticidi» e dalle norme di recepimento e attuative del complesso normativo;
   ad assumere iniziative affinché le attuali disposizioni degli articoli 30 e 53 del regolamento n. 1107/2009 vengano riviste in maniera più restrittiva e nel reale rispetto ed applicazione di fatto di quanto previsto dall'intero corpo normativo sull'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, garantendo che i livelli massimi di residui vengano rispettati;
   ad attivarsi in sede comunitaria affinché vengano emanate le mancanti linee guida che chiariscano che cosa si intende e in quali circostanze si verifica una emergenza fitoiatrica;
   ad avviare, per il tramite del competente Ministero, un'indagine con cui acquisire i dati statistici sulle autorizzazioni rilasciate di cui all'articolo 30 del regolamento n. 1107/2009;
   a realizzare una vera strategia nazionale con cui invertire le attuali politiche sull'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, che di fatto appartengono più a degli enunciati di buoni propositi che non alla realtà fattuale, creando un cluster agronomico-ambientale dove ricercare e sperimentare prodotti fitosanitari a base di sostanze naturali, al fine di diminuire, per poi eliminare dal territorio italiano, i prodotti fitosanitari di sintesi alla luce anche delle scelte, sempre maggiori, di conversione aziendale dall'agricoltura convenzionale a quella biologica.
(1-01019) «Zaccagnini, Scotto, Pellegrino, Zaratti, Nicchi, Fratoianni, Franco Bordo».


   La Camera,
   premesso che:
    gli eventi degli ultimi mesi, con il riaprirsi della crisi greca e l'emergenza migratoria, hanno ancora una volta evidenziato l'esigenza di rilanciare il processo di integrazione politica e di rafforzare il funzionamento delle istituzioni;
    il rapporto sul completamento dell'Unione economica e monetaria presentato dai quattro (cinque) presidenti nel giugno 2015 individua una serie di misure che potrebbero essere adottate nei prossimi anni per rinforzare la governance economica europea;
    considerato l'incalzare della crisi greca e la difficoltà con cui gli Stati membri e le istituzioni europee vi hanno posto rimedio, il rapporto, con le sue proposte eccessivamente timide e la sua mancanza complessiva di ambizione, è però «nato vecchio» ed appare già oggi già oggi superato dagli eventi;
    il Consiglio europeo del 25-26 giugno 2015, nel prenderne atto ha invitato le varie formazioni del Consiglio direttamente interessate al rapporto – ECOFIN, Affari generali, affari Sociali – ad esaminare sollecitamente le proposte del rapporto;
    il tema del funzionamento dell'Unione economica e monetaria ha delle implicazioni di prima grandezza per i futuri assetti politici e istituzionali dell'Unione europea e va pertanto trattato come una questione di carattere «costituzionale» e politico prima ancora che economico;
    durante il semestre di Presidenza l'Italia ha posto il tema della riapertura del cantiere istituzionale dell'Unione, evocando il tema della revisione dei Trattati e lanciando in Consiglio affari generali un processo di riflessione ad ampio spettro sugli assetti istituzionali, da cui sono emersi diversi processi negoziali, fra cui il negoziato in corso per un accordo interistituzionale sulla «better regulation». Da questo processo di ricognizione si può ripartire per avviare un processo più ambizioso di ripensamento degli assetti europei, tenendo conto anche dei lavori in corso al Parlamento europeo sul funzionamento del Trattato di Lisbona e sul futuro;
    le scadenze dei prossimi anni – la revisione intermedia del quadro finanziario pluriennale dell'Unione, il referendum britannico sull'appartenenza alla Unione europea, la prima valutazione del «fiscal compact» e la sua eventuale inclusione nei Trattati prevista nel 2017, le scadenze elettorali in alcuni grandi Paesi europei – concorrono a determinare una finestra temporale entro la quale assumere una iniziativa forte in quest'ambito;
    il 25 marzo 2017 cadrà il sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma, un'occasione preziosa per celebrare e rilanciare lo spirito dei padri fondatori dell'Europa;
    la ricorrenza rappresenterebbe un'occasione di grande lustro per la città di Roma e per l'Italia, all'indomani del Giubileo e prima del settembre 2017, quando a Losanna si deciderà sulle Olimpiadi 2024, ma soprattutto rappresenterà una grande opportunità per ridare slancio al processo politico e istituzionale di integrazione, dopo le vicissitudini degli ultimi anni,

impegna il Governo:

   a proseguire il lavoro, avviato durante il semestre di Presidenza italiana dell'Unione europea, sul funzionamento delle istituzioni, per attuare pienamente il Trattato di Lisbona e per riaprire il dibattito sulla revisione dei Trattati in vista delle scadenze del 2017;
   a promuovere in tutte le formazioni del Consiglio un dibattito ambizioso sui seguiti del cosiddetto Rapporto dei Quattro (cinque), Presidenti, facendo sempre valere, anche nei rapporti con gli altri Stati membri e con le istituzioni europee il carattere altamente politico, e non meramente «tecnocratico» delle decisioni sul funzionamento dell'Eurozona;
   ad assicurare, in tutti i passaggi di questo dibattito, uno stretto coordinamento fra tutte le amministrazioni più direttamente interessate ed una puntuale informazione del Parlamento;
   a ricercare convergenze, nelle varie sedi politiche e istituzionali, con i Paesi di analoga sensibilità, anche a partire dai sei Paesi fondatori, per avviare un percorso che porti al lancio di iniziative specifiche su priorità politiche di interesse comune, e, più in generale, ad un rilancio dell'integrazione europea, eventualmente con l'avvio, nei prossimi anni, di un processo di revisione dei Trattati;
   ad adottare tutte le necessarie iniziative – sul piano politico e su quello della comunicazione e informazione – anche con il coinvolgimento delle parti sociali e della società civile, affinché il sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma venga adeguatamente valorizzato, adoperandosi per farne, oltre che un momento celebrativo, anche una tappa fondamentale nel percorso di studio, riscoperta e rilancio della integrazione europea;
   ad avanzare – presso le massime istituzioni dell'Unione europea – la proposta di svolgere le celebrazioni del sessantesimo anniversario, della firma del trattato di Roma in Campidoglio a Roma il giorno 25 marzo 2017, ponendo al centro dell'evento il ruolo dell'Unione europea e dell'integrazione europea con particolare riguardo ai temi della crescita economica, dell'immigrazione e della sicurezza.
(1-01020) «Morassut, Michele Bordo, Melilli, Tidei, Meta, Martella, Carella, Piazzoni, Stella Bianchi, Peluffo, Miccoli, Coscia, Ferro».


   La Camera,
   premesso che:
    ogni anno, nel mondo, milioni di bambine e adolescenti sono sottoposte a mutilazioni genitali femminili (MGF), procedure intenzionali, non eseguite per ragioni terapeutiche ma culturali, che compromettono irreversibilmente la qualità della loro vita ledendo il diritto all'integrità psicofisica, alla dignità, alla libertà; tali pratiche di escissione e infibulazione rappresentano inoltre un gravissimo rischio per la salute, essendo causa di traumi psicologici, infezioni, infertilità e morti prenatali;
    sebbene tali interventi, secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, siano maggiormente diffusi nei Paesi dell'Africa e del Medio Oriente, dove si contano oltre 125 milioni di casi, pratiche di escissione e infibulazione avvengono anche nel nostro continente. Secondo le stime dell'Organizzazione mondiale della sanità (eseguite al ribasso e non considerando che si tratta di un fenomeno nascosto, che viene diversamente praticato da immigrati di seconda generazione o irregolari), in Europa oltre 500.000 donne avrebbero subito mutilazioni genitali e 180.000 ragazze sarebbero a rischio;
    secondo gli ultimi dati forniti dal dipartimento per le pari opportunità sono circa 35.000 le donne immigrate presenti in Italia che potrebbero aver subito mutilazioni genitali, tra cui 4.600 di età inferiore a 17 anni, provenienti da Paesi di tradizione escissoria (pertanto, le vittime potenziali di questa pratica sarebbero circa il 22 per cento);
    la fondazione «L'albero della vita» ha redatto nel 2011 la stima ad oggi più aggiornata della diffusione del fenomeno in Italia, rilevando ben 7.727 bambine a rischio, di cui quasi il 70 per cento di età compresa fra i 3 e i 10 anni e iscritte alle scuole dell'infanzia o primarie;
    il 18 dicembre 2014 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato, per consenso di tutti i membri dell'ONU, la risoluzione A/C3/69/L.22 che afferma la richiesta di messa al bando universale delle mutilazioni genitali femminili, confermando la posizione già assunta dalla medesima Assemblea con la risoluzione A/RES/67/146 del 20 dicembre 2012. L'adozione di tali risoluzioni riflette l'intesa di tutti gli stati di definire le MGF una violazione dei diritti umani, la quale deve essere combattuta attraverso tutte le misure necessarie, al fine di proteggere donne e bambine da questa forma di violenza;
    in Italia sono stati compiuti determinanti progressi normativi per il contrasto alle MGF, tramite la legge 9 gennaio 2006, n. 7 («Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazioni genitali femminili») che prevede espressamente che il Ministero della salute «emani le Linee guida destinate alle figure professionali sanitarie nonché ad altre figure professionali che operano con le comunità di immigrati provenienti da Paesi dove sono effettuate le pratiche di mutilazione genitale femminile (MGF), per realizzare una attività di prevenzione, assistenza e riabilitazione delle donne e delle bambine già sottoposte a tali pratiche»;
    sono importanti strumenti di contrasto al fenomeno MGF anche altri atti normativi quali la legge 1o ottobre 2012, n. 172, di ratifica della Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale, la legge 27 giugno 2013, n. 77, di ratifica della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica e, da ultimo, il decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito dalla legge n. 119 del 15 ottobre 2013 contro il femminicidio;
    dal novembre 2009 il Ministero dell'interno ha istituito un servizio di prevenzione e contrasto delle pratiche di mutilazione genitale femminile, gestito da operatori della polizia di Stato in collaborazione con il dipartimento per le pari opportunità della presidenza del Consiglio, per accogliere segnalazioni e notizie di reato avvenute sul territorio italiano dando informazioni sulle strutture sanitarie e sulle organizzazioni di volontariato a cui rivolgersi;
   a livello di azione sul territorio è poi determinante l'intesa Stato-regioni del dicembre 2012 per lo sviluppo di un sistema di prevenzione e contrasto delle MGF, la cui efficacia non è ancora monitorata;
    la stessa legge n. 7 del 2006, prevede il divieto di praticare le mutilazioni genitali femminili considerandole un grave reato, punito severamente e ravvisa la necessità di sorveglianza e prevenzione soprattutto nei confronti delle figlie delle donne che le hanno già subite nel loro Paese d'origine;
    infine, trattandosi di un fenomeno culturale, volontariamente occultato all'interno di ristretti gruppi sociali e familiari, il più efficace contrasto alle MGF si attua tramite politiche di integrazione, alfabetizzazione, inserimento scolastico, sensibilizzazione ed educazione delle famiglie e delle comunità di appartenenza,

impegna il Governo:

   a verificare l'applicazione della legge 9 gennaio 2006 n. 7, e delle linee guida della risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite ONU A/C.3/69/L.22, n. 18, del dicembre 2014, nonché l'efficacia delle norme che ne regolano l'applicazione nel nostro Paese;
   a procedere, nel più breve tempo possibile, alla realizzazione di un sistema istituzionalizzato di raccolta dati sull'incidenza del fenomeno in Italia, al fine di predisporre politiche di prevenzione e contrasto adeguate;
   a monitorare, poiché l'ultima ricognizione risale al 2007, quali siano le regioni che hanno promosso una formazione specifica agli operatori sanitari che hanno il compito di accogliere e curare le bambine che fanno ricorso al Servizio sanitario nazionale a causa delle conseguenze fisiche e psicologiche delle MGF;
   a sostenere, anche economicamente, le regioni che hanno sviluppato attività progettuali sul proprio territorio finalizzate alla realizzazione di percorsi virtuosi di prevenzione e contrasto alle mutilazioni genitali femminili;
   a predisporre, in collaborazione con l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ed avvalendosi dei principali media e degli organi di comunicazione e di stampa, periodiche campagne informative di prevenzione e di sensibilizzazione.
(1-01021) «Iori, Martelli, Albanella, Amato, Amoddio, Antezza, Argentin, Arlotti, Bazoli, Bergonzi, Blazina, Paola Boldrini, Bonomo, Borghi, Capone, Capozzolo, Carloni, Carnevali, Carocci, Carra, Cimbro, Coppola, Marco Di Maio, Di Salvo, D'Incecco, Donati, Famiglietti, Cinzia Maria Fontana, Fregolent, Gadda, Carlo Galli, Giacobbe, Giuliani, Gnecchi, Iacono, Laforgia, Lacquaniti, Lodolini, Patrizia Maestri, Malisani, Malpezzi, Marchi, Marzano, Mongiello, Morani, Moretto, Narduolo, Nicoletti, Paris, Patriarca, Pes, Piazzoni, Preziosi, Prina, Quartapelle Procopio, Rampi, Romanini, Rossi, Rossomando, Rubinato, Sbrollini, Senaldi, Sgambato, Tidei, Valeria Valente, Verini, Villecco Calipari, Zampa, Zan, Zanin».


   La Camera,
   premesso che:
    il sesto programma comunitario di azione in materia di ambiente, istituito con decisione n. 1600/2002 CE, ha previsto l'elaborazione di una strategia tematica per l'uso sostenibile dei pesticidi la cui attuazione si è sviluppata in primo luogo con la direttiva 2009/128/CE, volta ad istituire un quadro normativo comune ai Paesi dell'Unione europea, per un utilizzo sostenibile dei pesticidi. Tale misura è stata assunta tenendo conto del principio di precauzione, allo scopo di ridurre i rischi e gli impatti sulla salute e sull'ambiente derivanti dall'utilizzo di tali prodotti ed incoraggiare lo sviluppo e l'introduzione della difesa integrata e di tecniche o approcci alternativi;
    la direttiva riguarda, in particolare, i pesticidi che sono prodotti fitosanitari, intervenendo essenzialmente a disciplinare la fase di utilizzo di tali prodotti, ritenuta cruciale per la determinazione effettiva dei rischi;
    la stessa direttiva assegna agli Stati membri il compito di garantire l'implementazione di politiche ed azioni volte al perseguimento di tali obiettivi, prevedendo inoltre la predisposizione di appositi piani di azioni nazionali: la direttiva è stata di recente attuata nell'ordinamento italiano con il decreto legislativo 14 agosto 2012, n. 150;
    il decreto legislativo si applica ai prodotti fitosanitari, definiti come prodotti contenenti o costituiti da sostanze attive, antidoti agronomici o sinergizzanti, destinati ad uno dei seguenti impieghi: proteggere i vegetali o i prodotti vegetali da tutti gli organismi nocivi o prevenire gli effetti di questi ultimi; influire sui relativi processi vitali, conservare i prodotti vegetali medesimi, distruggere quelli indesiderati; controllare o evitare la loro crescita indesiderata;
    il provvedimento prevede inoltre l'adozione di un piano d'azione nazionale per l'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, che definisce gli obiettivi, le misure, le modalità ed i tempi per la riduzione dei rischi e degli impatti dell'utilizzo dei prodotti fitosanitari sulla salute umana, sull'ambiente e sulla biodiversità;
    il medesimo piano di azione nazionale promuove lo sviluppo e l'introduzione della difesa integrata e di metodi di produzione o tecniche di difesa alternativi, al fine di ridurre la dipendenza dai prodotti fitosanitari, anche in relazione alla necessità di assicurare una produzione sostenibile, rispondenti ai requisiti di qualità stabiliti dalle norme vigenti;
    gli obiettivi del piano riguardano i seguenti settori:
     la protezione degli utilizzatori dei prodotti fitosanitari e della popolazione interessata;
     la tutela dei consumatori;
     la salvaguardia dell'ambiente acquatico e delle acque potabili;
     la conservazione della biodiversità e degli ecosistemi;
    la normativa di recente entrata in vigore individua altresì diverse misure specifiche in tema di formazione e abilitazione degli operatori professionali, di utilizzo e vendita dei prodotti fitosanitari, di raccolta di dati, di informazione e di sensibilizzazione della popolazione, per la tutela dell'ambiente acquatico e dell'acqua potabile e per la riduzione dei rischi in aree specifiche;
    particolarmente rilevante appare la parte dedicata alla difesa fitosanitaria a basso apporto di prodotti fitosanitari, che include sia la difesa integrata, articolata in un regime obbligatorio e in uno volontario, che l'agricoltura biologica;
    il processo normativo europeo e nazionale che regola oggi le autorizzazioni e le modalità di utilizzo dei fitofarmaci, offre alte garanzie e sicurezza per i consumatori, per gli utilizzatori, per la popolazione residente nelle aree di coltivazione e per l'ambiente;
    la produzione biologica e le ulteriori limitazioni «volontarie» operate dai produttori per mezzo «dei disciplinari di produzione integrata avanzata» contribuiscono ad aumentare i parametri di sicurezza nell'impiego dei fitosanitari;
    l'obiettivo di un'armonica convivenza tra produzione agricola e cittadini rappresenta oggi una importante priorità. Si raccomanda, in particolare, una maggiore e forte azione di comunicazione da parte delle istituzioni, al fine di proporre alla collettività un quadro equilibrato e più rispondente alla realtà sull'alto grado di sicurezza del processo di produzione agricola, verso la salute del cittadino e la salvaguardia dell'ambiente;
    secondo l'Istituto superiore di sanità, su 40.000 casi di intossicazione da sostanze chimiche, solo il 5 per cento riguarda i fitofarmaci e comunque tali casi non coinvolgono cittadini comuni, ma esclusivamente gli operatori che manipolano tali prodotti e, in via accidentale anche i loro familiari, quando lo stoccaggio non viene eseguito secondo le norme vigenti: nel 90 per cento dei casi, pertanto, si tratta di intossicazioni accidentali;
    il piano di azione nazionale è stato pubblicato ed adottato con il decreto 22 gennaio 2014, «Adozione del Piano di azione nazionale per l'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, ai sensi dell'articolo 6 del decreto legislativo 14 agosto 2012, n. 150, recante: «Attuazione della direttiva 2009/128/CE che istituisce un quadro per l'azione comunitaria ai fini dell'utilizzo sostenibile dei pesticidi»;
    nel panorama dell'agricoltura europea, l'affermazione che l'Italia è il Paese che utilizza le quantità maggiori di prodotti fitosanitari risulta non congrua perché il valore non deve essere interpretato in senso assoluto ma in proporzione alle tipologie di colture presenti nei diversi Stati membri ed alle differenti avversità a parassiti che colpiscono le singole realtà agricole. Infatti, i Paesi del nord e del centro Europa non hanno una così ampia produzione di ortofrutta come l'Italia e le coltivazioni ortofrutticole sono quelle più esposte agli attacchi dei parassiti ed alle malattie;
    l'uso dei fitofarmaci dipende, in termini quantitativi, dalla maggiore o minore vulnerabilità delle colture rispetto alle fitopatie e da fattori climatici ed ambientali. L'agricoltura italiana, pertanto, sul piano della lotta fitopatologica, presenta caratteristiche molto diverse dai Paesi del nord e del centro Europa ed è esposta a maggiori problematiche fitosanitarie;
    secondo uno studio comparato con gli altri Paesi europei effettuato dalla European crop protection (ECPA), l'Italia è l'unico Stato membro che registra una netta diminuzione dei prodotti fitosanitari dovuto alla grande adesione da parte delle imprese italiane alle misure agroambientali previste dai piani di sviluppo rurale;
    i fitofarmaci, tra l'altro, sono immessi in commercio, in media, dopo dieci anni di sperimentazioni e valutazioni scientifiche effettuate dalla casa produttrice e dalla Commissione europea con il supporto dell'EFSA ai sensi del regolamento (CE) 1107/2009 che stabilisce norme molto restrittive per la loro immissione in commercio;
    per quanto riguarda l'immissione in commercio dei fitofarmaci è da sottolineare che la politica europea di immissione in commercio degli stessi è decisamente improntata al miglioramento degli standard di sicurezza e di impatto sull'ambiente; infatti, il processo di revisione delle sostanze attive ha determinato una sostanziale riduzione delle sostanze attive disponibili per la difesa fitosanitaria tanto che già oggi alcuni gruppi di parassiti risultano essere di difficile controllo a causa della mancata inclusione di sostanze attive utili nell'allegato I del regolamento europeo che ha determinato l'assenza sul mercato di prodotti fitosanitari efficaci nella lotta di determinate fitopatologie;
    tale situazione viene fronteggiata in via temporanea con autorizzazioni straordinarie che rappresentano, per questi casi, l'unico percorso normativo percorribile, tenuto conto anche del fatto che per i medesimi prodotti tali autorizzazioni vengono concesse ogni anno in altri Paesi europei (Francia e Spagna) creando situazioni di concorrenza sleale nei riguardi delle nostre produzioni,

impegna il Governo:

   a valutare l'opportunità che le procedure e le modalità per il rilascio delle autorizzazioni adottate da parte dei Ministeri interessati debbano rispondere ad esigenze di semplificazione e di celerità richieste dalle imprese;
   a valutare l'opportunità di intervenire a livello comunitario per l'adozione di provvedimenti che interdicano la messa in commercio e l'uso di sostanze per le quali si siano evidenziate, dopo la fase di autorizzazione, caratteristiche di nocività per la salute e per l'ambiente tali da essere incompatibili con i requisiti che la normativa europea impone;
   a valutare l'opportunità di predispone specifiche iniziative al fine di garantire un'accurata formazione degli operatori agricoli in modo che gli stessi vengano messi a conoscenza dei rischi connessi all'utilizzazione di fitofarmaci in agricoltura che risultino nocivi per la salute e per l'ambiente;
   a valutare l'opportunità di impegnare risorse economiche idonee a sostenere il processo di innovazione e di ricerca di soluzioni sempre più adeguate, sicure e congrue sotto i diversi profili;
   a valutare l'opportunità di accompagnare l'attuazione del Piano di azione nazionale con l'approvazione degli atti da adottare a livello nazionale che devono essere prodotti in tempo utile dai diversi Ministeri competenti;
   a valutare l'opportunità di predisporre campagne di informazione utili per i consumatori ed a promuovere la predisposizione di etichette di più facile comprensione, in grado di assicurare la conoscenza dei prodotti fitosanitari utilizzati.
(1-01022) «Dorina Bianchi, Bosco».

Risoluzioni in Commissione:


   Le Commissioni XI e XIII,
   premesso che:
    i recenti episodi di cronaca di braccianti morti nelle campagne (l'ultimissimo registrato il 14 ottobre 2015, denunciano come, ancora oggi, il fenomeno del caporalato sia altamente diffuso nel settore agricolo, rappresentando una piaga tutt'altro che estirpata;
    l'agricoltura è indubbiamente un settore che genera maggiore allarme sociale in ragione, anche e soprattutto, della stagionalità di alcune attività produttive;
    secondo gli ultimi dati disponibili almeno 80 sono i centri dove sussiste il fenomeno del caporalato (con maggiore concentrazioni in Sicilia, Puglia, Campania e Calabria) ed oltre 100 mila i lavoratori agricoli coinvolti in situazioni di sfruttamento lavorativo;
    non può d'altro canto ignorarsi il fenomeno dell'evasione fiscale da parte di persone fisiche extracomunitarie o di imprese straniere che, una volta aperta la partita IVA e dopo un'attività di qualche mese, scompaiono nel nulla, senza assolvere gli obblighi dei versamenti delle imposte e dei contributi previdenziali;
    il fenomeno necessita pertanto un intervento che contrasti anche l'evasione fiscale sull'attività operativa di quei soggetti, giuridici e fisici, che sfruttando il lavoro nero non presentino affatto dichiarazione dei redditi e pagamenti d'IVA;
    parimenti, si reputa imprescindibile un intervento sulla vigente disciplina delle cooperative che, prevedendo agevolazioni fiscali e contributive, genera episodi di cooperative fittizie (caporalato) creando de facto distorsioni nel mercato e nella concorrenza sleale;
    il 27 agosto 2015, al termine del vertice organizzato al Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, con la partecipazione del Ministro della giustizia, imprese, sindacati e Inps, il Ministro Martina aveva annunciato un piano di contrasto contro il fenomeno del caporalato e, più in generale, contro il lavoro irregolare in agricoltura, entro 15 giorni, nonché il varo in tempi stretti di un provvedimento che preveda la confisca dei beni per le imprese che si macchiano di caporalato come avviene per i mafiosi;
    da allora sono trascorsi più di quindici giorni, senza che del predetto piano e dei relativi contenuti si sia saputo più nulla;
    dal 1o settembre 2015, tuttavia, sono operativi – o almeno avrebbero dovuto esserlo ai sensi del decreto-legge n. 91 del 2014 – sia la Rete del lavoro agricolo di qualità, cui le imprese agricole interessate possono far domanda di adesione a condizione che siano in regola con i versamenti dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi e che non abbiano riportato condanne penali o abbiano procedimenti penali in corso, sia la cabina di regia, presieduta dall'Inps, che esamina le domande di adesione e delibera entro trenta giorni dalla data di presentazione dell'istanza,

impegnano il Governo:

   ad intensificare, in particolare nelle regioni del Mezzogiorno più interessate dal fenomeno del lavoro nero in agricoltura, i controlli per l'emersione e consolidare, al contempo, nuovi strumenti utili al contrasto permanente del fenomeno del caporalato;
   ad assumere iniziative normative volta ad introdurre l'obbligo di prestazione, da parte delle aziende agricole con datori di lavoro che siano cittadini non comunitari, di una garanzia fideiussoria, bancaria o assicurativa, ovvero la previsione di un deposito cauzionale, in favore dell'Agenzia delle entrate, per un importo non inferiore a 10.000 euro;
   ad intervenire sul sistema della vigilanza cooperativa e a porre in essere, nell'ambito delle proprie competenze, azioni di contrasto delle cosiddette false cooperative o cooperative spurie, assumendo iniziative per prevedere la confisca dei beni per coloro che commettono il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro di cui all'articolo 12 del decreto-legge n. 138 del 2011;
   a prevedere, nel dare piena attuazione alla Rete del lavoro agricolo e di qualità, il coinvolgimento di tutte le articolazioni territoriali della cabina di regia, in primis enti territoriali e locali, al fine di monitorare al meglio le diverse realtà territoriali e rispondere in maniera più efficiente e funzionale alle rispettive esigenze;
   a relazionare alle competenti Commissioni parlamentari sui contenuti dello specifico piano operativo di contrasto al caporalato ed alle altre forme di lavoro irregolare, messo a punto dalla cabina di regia preposta alla realizzazione della Rete del lavoro agricolo di qualità.
(7-00815) «Simonetti, Fedriga, Guidesi».


   La VII Commissione,
   premesso che:
    l'accesso alle prestazioni regionali di diritto allo studio per gli studenti universitari è regolato dall'articolo 8 del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68;
    non risulta ancora attuato il comma 1 di tale articolo in quanto non è stato emanato il decreto ministeriale destinato a definire i requisiti di eleggibilità per l'accesso alle borse di studio con riferimento a criteri relativi al merito e alla condizione economica degli studenti;
    il medesimo decreto ministeriale, ai sensi dell'articolo 7, comma 7, del decreto legislativo n. 68 del 2012, avrebbe dovuto anche stabilire, con cadenza triennale, l'importo delle borse di studio, nonché i criteri e le modalità di riparto del fondo integrativo statale;
    fino all'adozione di tale decreto, restano in vigore – ai sensi dell'articolo 8, comma 5, del decreto legislativo n. 68 del 2012 – le disposizioni di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 9 aprile 2001 sull'uniformità di trattamento nel diritto allo studio universitario (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 172 del 26 luglio 2001);
    il comma 3 dell'articolo 8 del decreto legislativo n. 68 del 2012 stabilisce che le condizioni economiche dello studente universitario sono individuate sulla base dell'Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, ora abrogato e sostituito, con decorrenza dal 1o gennaio 2015, dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5 dicembre 2013, n. 159;
    l'articolo 2, comma 3, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 159 del 2013 stabilisce che l'ISEE si calcola sommando l'indicatore della situazione reddituale con il venti per cento dell'indicatore della situazione patrimoniale (ISP) e rapportando il totale alle dimensioni del nucleo familiare sulla base della scala di equivalenza contenuta nell'allegato 1 del medesimo decreto;
    l'articolo 5, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 159 del 2013 stabilisce che, ai fini del calcolo dell'ISP, il valore dei fabbricati di proprietà del nucleo familiare dello studente è quello definito ai fini della determinazione dell'imposta municipale sugli Immobili (IMU), quindi, sulla base del comma 4 dell'articolo 13 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, moltiplicando la rendita catastale totale per 168, mentre invece il valore catastale dei medesimi fabbricati si ottiene utilizzando il moltiplicatore 126;
    l'applicazione della nuova procedura di calcolo può portare sia l'ISEE 2015, che l'ISP 2015, di una famiglia a valori più alti di quelli utilizzati negli anni precedenti, anche senza variazioni del reddito e della consistenza del patrimonio;
    il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, con decreto n. 486 del 14 luglio 2015, ha provveduto ad aggiornare per l'anno accademico 2015/16, esclusivamente sulla base della variazione annuale dell'indice generale ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati (+0,2 per cento) i valori minimo e massimo di ISEE entro cui ogni singola regione fissa il limite massimo di ISEE per l'accesso alle prestazioni di diritto allo studio universitario sul suo territorio;
    nonostante che dal 1o gennaio 2015 l'ISEE contenga già obbligatoriamente al suo interno la componente patrimoniale il Ministero, nel decreto sopra citato, ha fissato anche i valori minimo e massimo di ISPE (indice della situazione patrimoniale equivalente) entro cui ogni singola regione può fissare il limite massimo di ISPE per l'accesso alle prestazioni di diritto allo studio universitario sul suo territorio;
    un recente studio dell'Istituto regionale programmazione economica della Toscana (IRPET), effettuato sulla base dei dati reddituali e patrimoniali degli studenti contenuti negli archivi amministrativi dell'azienda regionale Toscana per il diritto allo Studio, ha evidenziato un aumento dei valori dei nuovi ISEE e ISPE rispetto ai precedenti (a parità dei dati familiari reddituali e patrimoniali) che porterebbe, se confermato, ad una riduzione del numero di studenti che avranno accesso alle prestazioni di diritto allo studio universitario;
    particolarmente preoccupante è la situazione degli studenti attualmente borsisti: lo studio dell'IRPET sopra citato mostra che circa il 9 per cento di loro perderebbe improvvisamente la borsa di studio nonostante che abbiano rispettato le condizioni di merito e non si siano modificate le loro condizioni di reddito;
    gli studenti che si sono immatricolati o iscritti alle università per l'anno accademico 2015/16 hanno dovuto presentare, ai fini della determinazione dei contributi da versare all'ateneo, l'ISEE relativo al proprio nucleo familiare utilizzando, per la prima volta, le nuove norme e modalità di calcolo;
    nel caso in cui dovesse risultare confermata la riduzione della platea degli studenti beneficiari del diritto allo studio e l'aumento delle contribuzioni universitarie, a causa delle modifiche della normativa ISEE, si potrebbe verificare un ulteriore allontanamento dagli studi universitari dei giovani appartenenti alle classi meno abbienti e anche alla classe media impoverita dalla crisi economica, aggravandosi così sia il divario di formazione superiore dei cittadini, di cui l'Italia già soffre in tutti i confronti statistici internazionali, sia il divario di accesso alle prestazioni di diritto allo studio degli studenti italiani rispetto agli studenti degli altri Paesi: gli studenti italiani che fruiscono di borse per il diritto allo studio sono circa 140.000, a fronte di 305.000 spagnoli, 440.000 tedeschi e 629.000 francesi;
    tutte le premesse e le considerazioni sin qui fatte si applicano egualmente alle istituzioni e agli studenti dell'alta formazione artistica e musicale (AFAM), settore strategico della formazione superiore e della cultura italiana,

impegna il Governo:

   a convocare urgentemente tutte le parti interessate al problema, con l'obiettivo di raccogliere, in collaborazione con le regioni e con la massima tempestività, i dati 2015/16 relativi al numero delle domande presentate per le borse di studio, al numero degli studenti risultati beneficiari degli interventi per la prima volta o in continuità con gli anni precedenti, alla distribuzione statistica dei valori ISEE presenti nelle domande, comparati con i dati degli anni precedenti, in modo da poter determinare, rapidamente e con esattezza, le eventuali conseguenze della nuova normativa per il calcolo dell'ISEE sul diritto allo studio universitario e sull'accesso alla dell'alta formazione artistica e musicale;
   a raccogliere gif analoghi dati dalle università per quanto riguarda l'esenzione o la riduzione dei contributi universitari da versare da parte degli studenti, sulla base dell'ISEE del loro nucleo familiare;
   nel caso in cui si accertasse che vi è stato effettivamente un calo dei beneficiari delle prestazioni per garantire il diritto allo studio, in particolare per gli studenti già borsisti, ad attuare, insieme con le parti coinvolte, interventi in grado almeno di mantenere stabile il numero di nuovi accessi allo studio e di garantire la continuità delle prestazioni per quegli studenti che hanno rispettato le condizioni di merito e non hanno visto modificata la situazione reddituale e patrimoniale della famiglia;
   ad accelerare i tempi per la completa attuazione del decreto legislativo n. 68 del 2012;
   a chiarire, in via definitiva, l'esclusione delle provvidenze del diritto allo studio universitario dal calcolo del reddito del nucleo familiare dello studente ai fini ISEE;
   a proporre, nella prossima legge di stabilità, un significativo e stabile aumento del fondo integrativo statale per le borse per garantire il diritto allo studio per almeno 100 milioni di euro, in modo da cominciare a recuperare il divario con gli altri Paesi europei.
(7-00814) «Ghizzoni, Coscia, Malpezzi, Carocci, Rocchi, Malisani, Pes, Manzi, D'Ottavio, Sgambato, Blazina, Ventricelli, Narduolo».


   La VIII Commissione,
   premesso che:
    una effettiva messa in sicurezza e bonifica dei siti contaminati costituisce un obiettivo essenziale di politica ambientale ed economica per il Paese;
    tale intervento è utile per lo sviluppo economico dell'Italia in quanto può aprire da un lato interessanti prospettive di riqualificazione urbanistica e territoriale, anche liberando ampie zone per la fruizione collettiva, dall'altro può essere la premessa per una loro nuova valorizzazione produttiva, previa riconversione – ove possibile ed opportuno – verso produzioni non inquinanti ed anzi ecologicamente orientate;
    esso può anche contribuire alla crescita dell'occupazione, soprattutto qualificata, nel nostro Paese. Infatti, grazie allo sviluppo della ricerca anche applicata, negli interventi di messa in sicurezza e bonifica vengono utilizzate sempre più frequentemente tecnologie innovative e complesse, la cui applicazione su larga scala richiede l'impiego di un numero cospicuo e crescente nel tempo di laureati e tecnici specializzati;
    una corretta politica di tutela della qualità del suolo garantisce anche la salubrità dei prodotti agroalimentari;
    si afferma però la necessità di introdurre norme e disposizioni tecniche uniformi e certe per garantire ai consumatori la qualità dei prodotti ed alle aziende la certezza delle attività d'impresa;
    la materia delle bonifiche dei siti contaminati non è oggetto di una disciplina organica da parte del diritto europeo, ma principi rilevanti per tale materia sono presenti nella regolamentazione della responsabilità ambientale (direttiva ELD 2004/35/EC) e nella normativa sulle emissioni industriali (direttiva IED 2010/75/EC);
    in Italia la disciplina vigente in tema di bonifiche è oggetto di continue revisioni parziali e scollegate fra loro, per lo più attraverso decreti-legge, e tale frammentarietà genera difficoltà di applicazione della norma da parte degli operatori e disomogeneità di applicazione a livello nazionale;
    Sogesid spa, società in house del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare è coinvolta come stazione appaltante e per attività di progettazione in numerosi interventi di bonifica e messa in sicurezza e questa società è stata oggetto di indagini giudiziarie e di interrogazioni parlamentari;
    anche Invitalia spa, società in house del Ministero dello sviluppo economico, è coinvolta come stazione appaltante e per attività di progettazione in interventi di bonifica quali quelli per le aree di Piombino, Trieste, Bagnoli con compiti analoghi a quelli di Sogesid;
    in importanti siti di interesse nazionale quali Bagnoli, Bussi sul Tirino, Cogoleto operano sia il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare che commissari di Governo, generando sovrapposizioni di competenze che si traducono in inefficienze complessive;
    i numerosissimi accordi di programma ancora in essere, che hanno visto negli anni il tentativo di coinvolgere il sistema privato nei percorsi di messa in sicurezza e bonifica nei siti industriali, non sempre hanno raggiunto gli obiettivi prefissati;
    vi sono siti contaminati che, a causa della difficoltà di individuare i responsabili dell'inquinamento o per la presenza di contenziosi in atto, costituiscono un pericolo sanitario e il sindaco, quale massima autorità sanitaria, è individuato come soggetto che deve attivare gli interventi in via sostitutiva, in base all'articolo 250 del decreto legislativo n. 152 del 2006;
    nonostante la legge preveda che, qualora il comune non sia in grado di intervenire a bonificare o a mettere in sicurezza l'area contaminata, sia la regione a subentrare, gli interventi da effettuare sono talmente numerosi che molti rimangono inattuati,

impegna il Governo:

   a promuovere un'organica riforma della disciplina riguardante la bonifica dei siti contaminati, tenendo in considerazione il contesto normativo generale in materia di protezione del suolo e garantendo la corretta applicazione della disciplina comunitaria;
   a monitorare e rendicontare i risultati raggiunti da tutti gli accordi di programma in tema di riqualificazione ambientale e produttiva delle aree sottoscritti dal Governo attraverso i Ministeri e, in base agli esiti di tale verifica, a mettere in campo nelle situazioni più critiche iniziative più efficaci di risanamento;
   ad istituire, senza oneri aggiuntivi per lo Stato, un tavolo tecnico permanente presso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare con l'obiettivo di garantire un confronto tecnico scientifico con gli istituti scientifici nazionali, con gli esperti del settore e con le agenzie ambientali (Arpa) al fine di definire linee guida tecniche per gli operatori, affidando la definizione delle modalità di funzionamento del tavolo tecnico, al quale dovranno partecipare anche il Ministero dello sviluppo economico, il Ministero della salute e il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, oltre a una rappresentanza della Conferenza unificata e delle Arpa, al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare con decreto;
    a promuovere la formazione e l'aggiornamento in tema di applicazione della normativa sulle bonifiche;
    ad assumere iniziative per garantire l'applicazione delle migliori tecniche disponibili a livello internazionale;
    ad assumere iniziative per definire, avvalendosi delle competenze dell'ISPRA, delle Arpa, dell'Istituto superiore di sanità e del CNR, procedure di verifica e certificazione delle nuove tecnologie applicabili per la messa in sicurezza e bonifica dei siti contaminati che tengano conto anche di criteri di sostenibilità e della necessità di limitare il consumo di suolo e di risorse naturali;
    ad assumere iniziative per eliminare le figure dei commissari straordinari qualora i siti rientrino nella normativa afferente ai siti di interesse nazionale;
    ad adottare iniziative per definire e circoscrivere in maniera dettagliata l'attività di Sogesid spa e di Invitalia spa, rivedendone gli obiettivi statutari e valutando anche l'individuazione di un'unica società in house che si occupi di interventi ambientali, con particolare riferimento a quelli di messa in sicurezza e bonifica di aree contaminate, secondo criteri di economicità, razionalità ed efficienza della pubblica amministrazione;
    ad assumere iniziative per escludere dal patto di stabilità le somme relative agli interventi dei comuni per mettere in sicurezza e bonificare i siti contaminati, e ad individuare un percorso normativo che consenta comunque – soprattutto in caso di rischio sanitario – un'azione rapida ed efficace per la bonifica o la messa in sicurezza di tali siti.
(7-00816) «Bratti, Borghi, Realacci, Mazzoli, Tino Iannuzzi, Cominelli, Carrescia, Manfredi, Stella Bianchi, De Menech, Giovanna Sanna, Gadda, Zardini, Ginoble, Braga, Mariani».

ATTI DI CONTROLLO

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   PARENTELA e NESCI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   in località San Nicola di Celico (Cosenza), insiste una discarica, autorizzata per contenere un volume complessivo di 290 mila metri cubi di rifiuti, con una possibile espansione sino a 500 mila metri cubi nei pressi di un'altra, dismessa, costata 880 milioni negli anni ‘90, pensata per sversare 78 mila metri cubi ma che ha finito per raccogliere 107 mila con successivi devastanti sovrabbanchi;
   la discarica di Celico è di proprietà della società MI.GA. srl, che fa capo al gruppo Vrenna, citato nella relazione della commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, nella quale si riferisce che «benché non abbia avuto un riscontro processualmente rilevante, è emersa l'esistenza di posizioni cosiddette "di reciproco rispetto" tra i mafiosi e Vrenna»;
   la discarica sorge a ridosso del Parco nazionale della Sila, a circa 500 metri di distanza da centri abitati, a un'altitudine di 800 metri, a ridosso dei torrenti Pinto e Cannavino. L'area a forte rischio sismico, è sottoposta a vincolo idrogeologico mentre il vasto bosco interessato è sottoposto a tutela paesaggistico-ambientale, condizioni che avrebbero dovuto scoraggiare il rilascio delle dovute autorizzazioni;
   il dipartimento ambiente della regione Calabria, che inizialmente aveva inibito con ordinanza n. 62821 del 21 febbraio 2014 il conferimento dei rifiuti dei comuni di Cosenza, Rende e Paola nella discarica di Celico (Cosenza), il 4 marzo 2014 ha emesso un'altra ordinanza (n. 76660) in contrasto con la precedente, con la quale ha disposto il conferimento di circa 350 tonnellate di rifiuti indifferenziati al giorno nella discarica di Celico, principalmente dei predetti comuni;
   con ordinanza n. 53 del 13 maggio 2015 il presidente della giunta regionale della Calabria, Mario Oliverio, ha emesso un'ordinanza contingibile e urgente che permette lo sversamento di rifiuti non trattati ai sensi di legge e l'utilizzo delle discariche private in supporto al sistema pubblico per il trattamento dei rifiuti indifferenziati, detti «tal quale»;
   la succitata ordinanza fa riferimento ad una norma che permette di derogare al decreto legislativo n. 152 del 2006 per sei mesi reiterabili due sole volte. L'ordinanza del 13 maggio 2015 risulta essere invece la quinta deroga per complessivi 30 mesi;
   con nota n. 288922 il 2 ottobre dalla regione, la discarica di Celico non avrebbe dovuto essere aperta al conferimento degli scarti di lavorazione e utilizzo dell'impianto di trattamento ma il conferimento continua. Ciò appare agli interroganti una finzione «semantica» contenuta nella disposizione regionale che vieta il conferimento solo a ditte private (e pubbliche) inserite nel «circuito pubblico dei rifiuti», mentre sembra permetterebbe il conferimento dei rifiuti provenienti da impianti privati;
   negli ultimi anni nel comune di Celico è stato riscontrato uno strano picco di malattie alla tiroide e di un particolare tipo di tumore riscontrabile solo in luoghi fortemente inquinati. È naturale che si giunga, dunque, a sospettare che la causa possa essere legata all'inquinamento provocato dalla vecchia discarica, Alcune testimonianze raccontano di due operai che, dopo aver lavorato per anni nella discarica, sono deceduti dopo essersi ammalati di tumore. Altre testimonianze parlano di abbondanti perdite di percolato nel torrente Cannavino e di animali morti dopo essersi abbeverati nel corso d'acqua. Della vecchia discarica non esiste un vero e proprio piano di caratterizzazione né un piano di bonifica ma solo un progetto di messa in sicurezza con costi molto elevati, parte dei quali a carico della collettività, La differenza tra una bonifica e una messa in sicurezza è sostanziale: la bonifica dovrebbe portare alla rimozione degli inquinanti, mentre la messa in sicurezza è semplicemente un'opera di contenimento degli inquinanti nel tentativo di posticiparne negli, anni l'eventuale fuoriuscita nell'ambiente circostante;
   il Comitato ambientale presilano ha già raccolto più di 6 mila firme per chiedere il ritiro dell'autorizzazione integrata ambientale (AIA) per l'impianto di Celico (CS) e l'impegno a non emettere più dispositivi per l'utilizzo dell'impianto e della discarica, di non inserirli nel, nuovo piano rifiuti e di passare ad una gestione pubblica e partecipata del ciclo dei rifiuti;
   a due anni dalla fine del commissariamento (1997-2013) per l'emergenza sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, la regione Calabria versa in piena emergenza, senza che sia stato adottato un piano per mettere a regime un efficace trattamento complessivo dei rifiuti –:
   se i Ministri interrogati siano a conoscenza della situazione esposta nelle premesse e come mai non sia stato fatto valere da parte della Soprintendenza il vincolo paesaggistico-ambientale riconosciuto nel 1988 dal Corpo forestale dello Stato che grava sull'area su cui sorge la discarica;
   in base a quali norme, prassi o consuetudini il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare abbia consentito alla giunta regionale di prorogare per ben 5 volte – arrivando come sopra detto sino a 30 mesi la deroga al decreto legislativo n. 152 del 2006.
(5-06688)


   LENZI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione. — Per sapere – premesso che:
   il decreto legislativo n. 178 del 2012 in applicazione della legge n. 183 del 2010 prevede la riorganizzazione della Croce Rossa Italiana;
   tale decreto prevede all'articolo 1 la privatizzazione della CRI attraverso la costituzione dell'associazione Croce Rossa Italiana e quindi «Le funzioni esercitate dall'Associazione italiana della Croce rossa (CRI), sono trasferite alla costituenda Associazione della Croce Rossa italiana»;
   detta nuova associazione è persona giuridica di diritto privato ai sensi del libro primo, titolo II, capo II, del codice civile ed è iscritta di diritto nel registro nazionale, nonché nei registri regionali e provinciali delle associazioni di promozione sociale, applicandosi ad essa, per quanto non diversamente disposto dal presente decreto, la legge 7 dicembre 2000, n. 383. L'Associazione è di interesse pubblico ed è ausiliaria dei pubblici poteri nel settore umanitario, è posta sotto l'alto Patronato del Presidente della Repubblica, non è ancora costituita e, dopo vari rinvii, dovrebbe nascere nel 2016;
   i comitati locali e provinciali esistenti alla data del 31 dicembre 2013, «, assumono, alla data del 1o gennaio 2014, la personalità giuridica di diritto privato, sono disciplinati dalle norme del titolo II del libro primo del codice civile e sono iscritti di diritto nei registri provinciali delle associazioni di promozione sociale, applicandosi ad essi, per quanto non diversamente disposto dal presente decreto, la legge 7 dicembre 2000, n. 383»;
   la gestione della fase transitoria era demandata all'ente strumentale della Croce Rossa Italiana che manteneva la personalità giuridica di diritto pubblico, e che doveva essere costituito nel 2016 in contemporanea alla nascita della associazione;
   tale organico disegno, che prevedeva la contemporanea trasformazione di tutti i livelli organizzativi della precedente CRI, da ente pubblico ad associazione di diritto privato rientrante tra le associazioni di promozione sociale, è stato profondamente modificato da due interventi normativi in decreti di proroga che hanno permesso la trasformazione delle associazioni locali e provinciali e rinviato alla fine del 2015 la trasformazione delle associazioni regionali e nazionali. In questo momento quindi, in modo assolutamente anomalo per enti che gestiscono servizi, i livelli provinciali sono associazioni di diritto privato iscritte di diritto al registro delle associazioni di promozione sociale mentre, le associazioni regionali e nazionale sono rimaste enti pubblici;
   tale situazione inoltre implica un in pianto assai diverso da quello prefigurato del decreto legislativo n. 178 del 2012, senza che, ad avviso dell'interrogante, si sia stata una chiara decisione parlamentare in tal senso;
   l'articolo 6 del decreto suddetto regolamentava la situazione del personale dipendente prevedendo la possibilità di opzione e successivamente l'applicazione della normativa per le eccedenze di personale nelle pubbliche amministrazioni;
   con decreto-legge 192 del 2014 è stata introdotta una modifica alla legge 190 del 2014 per estendere le disposizioni sulla mobilità del personale delle ex-province anche al personale CRI, allo scopo di rendere più agevole il processo di riordino dell'Ente;
   al momento della privatizzazione dei comitati provinciali solo una piccola parte del personale (l'1,7 per cento) ha scelto di rimanere come dipendente della associazione provinciale e quindi il personale è stato assegnato alle sedi regionali o al nazionale;
   nelle more della definizione delle procedure per la gestione degli esuberi sul territorio si sta procedendo ad assunzioni di personale precario presso i comitati provinciali (si veda, ad esempio, il bando per assunzione di autista soccorritore del comitato provinciale di san donato milanese del 10 febbraio 2015) per svolgere funzioni che potrebbero benissimo essere svolte dal personale transitato alla sede regionale e al quale il sistema pubblico ancora paga lo stipendio;
   l'attuale articolo 1, comma 4, del decreto n. 178 del 2012 stabilisce che le funzioni della CRI sono tra le altre:
    «d) organizzare e svolgere, in tempo di pace e in conformità a quanto previsto dalle vigenti convenzioni e risoluzioni internazionali, servizi di assistenza sociale e di soccorso sanitario in favore di popolazioni, anche straniere, in occasione di calamità e di situazioni di emergenza, di rilievo locale, regionale, nazionale e internazionale; e) svolgere attività umanitarie presso i centri per l'identificazione e l'espulsione di immigrati stranieri, nonché gestire i predetti centri e quelli per l'accoglienza degli immigrati ed in particolare dei richiedenti asilo»;
   lo stesso decreto all'articolo 1, comma 6, riconosce la possibilità per l'associazione di stipulare convenzioni con enti pubblici e la sua ancora permanente natura di ente pubblico non economico facilita le possibilità di assegnazione di servizi senza necessità di gara;
   questa facoltà è stata utilizzata per ottenere affidamento di servizi, per poi sub-appaltarli alla associazione privata provinciale con relativa assunzione di personale, come accaduto per l'affidamento diretto effettuato dalla prefettura di Milano per la gestione del Cara all'associazione regionale e da quest'ultima girato alla CRI associazione privata provinciale (http://www.ilgiorno.it);
   in diverse relazioni e/o dichiarazioni (si veda, ad esempio, l'annuale relazione al parlamento) l'attuale presidente nazionale della CRI, l'avvocato Rocca, ha ribadito l'auspicio che tale configurazione mista che permette di assumere la qualifica di soggetto pubblico o di soggetto privato, quando conviene, venga mantenuta –:
   se, il Governo sia al corrente della situazione suesposta e se non ritenga opportuno chiarire le prospettive dell'ente CRI nonché la natura della sua organizzazione. (5-06700)


   GALGANO. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 10, comma 5, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, prevede l'istituzione, coerentemente all'articolo 119 della Costituzione, dell'agenzia per la coesione territoriale ed il trasferimento ad essa ed alla Presidenza del Consiglio dei ministri di competenze del Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica e, conseguentemente, delle unità di personale di ruolo e con rapporti di lavoro a tempo determinato per la loro residua durata, nonché le risorse finanziarie e strumentali del citato Dipartimento, ad eccezione di quelle afferenti alla Direzione generale per l'incentivazione delle attività imprenditoriali;
   con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 9 luglio 2014 è stato approvato lo statuto dell'Agenzia per la coesione territoriale che, sottoposta ai poteri di indirizzo e vigilanza del Presidente del Consiglio dei Ministri e al controllo della Corte dei Conti, ha personalità giuridica di diritto pubblico ed è dotata di autonomia organizzativa, contabile e di bilancio. Il suo compito è assicurare il perseguimento delle finalità di cui all'articolo 119, quinto comma, della Costituzione e, in particolare, sorvegliare e sostenere la politica di coesione di cui al decreto legislativo n. 88 del 2011, nonché rafforzare l'azione di programmazione e coordinamento degli investimenti finanziati dai Fondi strutturali e di investimento europei e dal Fondo per lo sviluppo e la coesione;
   l'Agenzia, ai sensi di quanto previsto dal menzionato articolo 10 del decreto legge n. 101 del 2013 e dallo Statuto, ha infatti l'obiettivo di sostenere, promuovere ed accompagnare, secondo criteri di efficacia ed efficienza, programmi e progetti per lo sviluppo e la coesione economica, nonché di rafforzare, al fine dell'attuazione degli interventi, l'azione di programmazione e sorveglianza di queste politiche;
   in particolare, obiettivo strategico dell'Agenzia è di fornire supporto all'attuazione della programmazione comunitaria e nazionale 2007-2013 e 2014-2020 attraverso azioni di accompagnamento alle Amministrazioni pubbliche centrali, regionali e locali titolari di Programmi e agli enti beneficiari degli stessi, con particolare riferimento agli Enti locali, nonché attività di monitoraggio e verifica degli investimenti e di supporto alla promozione e al miglioramento della progettualità e della qualità, della tempestività, dell'efficacia e della trasparenza delle attività di programmazione e attuazione degli interventi;
   fino alla sua piena operatività organizzativa, l'Agenzia si avvale delle strutture e del personale dell'ex dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica;
   ai sensi dell'articolo 10, comma 4, della legge istitutiva, gli organi dell'Agenzia sono: a) il Direttore generale; b) il Comitato direttivo; c) il Collegio dei revisori dei conti;
   con decreto del Presidente del Consiglio 4 novembre 2014 è stata nominata direttore generale dell'Agenzia Maria Ludovica Agrò, attuale direttore generale per la politica regionale unitaria comunitaria del Ministero dello sviluppo economico;
   ai sensi dello statuto, l'organizzazione dell'Agenzia, articolata in settori di attività, è determinata con regolamento adottato, previo parere del Comitato direttivo, dal direttore e approvato dal Presidente del Consiglio dei ministri, determina l'organizzazione dell'Agenzia in settori di attività. L'organico è fissato in 200 unità e può comprendere personale in posizione di comando, fuori ruolo, distacco, o analogo istituto previsto dalle amministrazioni di provenienza e personale di ruolo assunto mediante, concorso pubblico;
   con interpellanza urgente n. 2-00984 del 3 giugno 2015 la sottoscritta evidenziava il rischio di perdere i circa 12 miliardi non ancora utilizzati della programmazione dei fondi europei del 2007-2013, nonché il ritardo dei progetti riguardanti la programmazione 2014-2020, a causa della mancata operatività dell'Agenzia per la coesione, istituita dall'articolo 10 del decreto legge n. 101 del 2013 proprio allo scopo di supportare le amministrazioni pubbliche nella realizzazione dei progetti cofinanziati dai fondi strutturali europei. L'interrogante lamentava che a due anni dalla sua istituzione l'Agenzia non era ancora nel pieno delle sue funzioni, in quanto non risultava ancora insediato il comitato direttivo e non era stato ancora adottato il regolamento organizzativo, e chiedeva pertanto interventi per velocizzare l'avvio dell'Agenzia che è stata creata apposta per far fronte alle inefficienze degli enti in relazione all'utilizzo dei fondi europei, nonché interventi per il tempestivo utilizzo dei fondi strutturali del periodo di programmazione in corso;
   in risposta all'interpellanza, il Viceministro dell'Interno Filippo Bubbico ha annunciato che «dei circa 46,7 miliardi di fondi strutturali europei destinati all'Italia dalla programmazione 2007-2013, rimangono da spendere, entro il 31 dicembre 2015, 13,6 miliardi di euro (7,9 se si esclude la quota di cofinanziamento nazionale)» e che nostro Paese è riuscito a, limitare a 27,7 milioni di euro il disimpegno automatico in caso di mancata certificazione della spesa. «Il raggiungimento dell'obiettivo di fine anno richiede di essere monitorato con la massima attenzione. Al fine di sostenere tale impegno saranno intensificate le azioni di sostegno e accompagnamento alle amministrazioni responsabili della gestione, azioni volte a individuare le criticità che rallentano l'attuazione, al fine di evitare il disimpegno delle risorse, e per migliorare la qualità degli investimenti cofinanziati;
   nello scorso mese di aprile, dopo un confronto con i servizi della Commissione europea, sono state condivise a livello politico le misure da adottare nel quadro dei piani di azione che, per ciascun programma operativo, indicano gli interventi necessari per la chiusura, con tabelle di marcia sull'attuazione della spesa, ivi incluse le eventuali riprogrammazioni, al fine di migliorare la qualità dei programmi e consentire il pieno assorbimento delle risorse programmate, anche ricorrendo al migliore uso delle flessibilità previste dagli orientamenti comunitari sulle procedure di chiusura dei programmi e di certificazione e rendicontazione degli stessi.» (...) «L'entrata a regime del nuovo assetto istituzionale di coordinamento e presidio delle politiche di coesione a livello centrale, con l'avvenuta istituzione delle due strutture, da una parte, il Dipartimento per le politiche di coesione presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e, dall'altra, l'Agenzia per la coesione territoriale, rispettivamente titolari delle funzioni di programmazione e di attuazione della politica di coesione, contribuirà al migliore perseguimento di tale obiettivo.»;
   sempre in occasione dello svolgimento dell'interpellanza urgente n. 2-00984, il Viceministro Bubbico ha riferito altresì che «con riguardo al funzionamento dell'Agenzia per la coesione territoriale, i relativi atti costitutivi sono stati registrati dalla Corte dei conti e il 29 maggio scorso si è insediato il comitato direttivo, previsto dallo statuto dell'ente. La bozza di regolamento organizzativo, già concordata con le amministrazioni concertanti, ha ricevuto parere positivo da parte del comitato direttivo ed è al momento oggetto della consultazione con i sindacati. L'Agenzia, la cui missione è incentrata sul presidio e sull'accompagnamento dell'attuazione dei programmi e interventi della politica di coesione, interverrà con particolare attenzione sul sostegno alla fase di progettualità, come previsto nell'ambito del regolamento organizzativo in via di adozione. Sarà, quindi, data risposta all'esigenza di miglioramento della qualità della spesa, oltre che all'accelerazione dell'attuazione dei programmi cofinanziati. L'attenzione ai tempi di attuazione dei programmi e interventi della politica di coesione rappresenta, peraltro, uno degli obiettivi strategici dell'Agenzia.»;
   la Commissione europea, nelle raccomandazioni all'Italia sul programma di riforma 2015, chiede tra le azioni da mettere in atto «di assicurare la piena operatività dell'Agenzia per la coesione territoriale in modo da determinare un sensibile miglioramento della gestione dei fondi dell'UE»;
   dal rendiconto generale dell'Amministrazione dello Stato per l'esercizio finanziario 2014 si evince che, relativamente al Ministero dello sviluppo economico, i residui al 31 dicembre 2014 riguardanti la gestione del Fondo per lo sviluppo e la coesione (capitolo 8425) ammontano a ben 12.715 milioni di euro e sono dovuti proprio alla non operatività della nuova Agenzia per la coesione territoriale, non essendo stati ancora adottati i regolamenti di organizzazione e di contabilità;
   nel parere approvato il 23 settembre 2015 sul rendiconto 2014 la Commissione attività produttive della Camera ha espresso parere favorevole con l'osservazione di segnalare al Governo «l'urgenza di dare piena operatività all'Agenzia per la coesione territoriale al fine di consentire l'avvio di tutte le attività relative alla gestione del Fondo per lo sviluppo e la coesione» –:
   dal momento che l'Agenzia per la coesione territoriale è chiamata a svolgere il delicato ruolo di garantire una maggiore efficienza nell'utilizzo dei fondi comunitari all'Italia e con tale finalità deve sostenere e monitorare l'attività di programmazione delle amministrazioni locali, quale sia stato di operatività dell'Agenzia e quali misure intenda adottare per assicurare il suo pieno funzionamento;
   quali iniziative il Governo intenda adottare per garantire il pieno utilizzo dei fondi strutturali del periodo di programmazione in corso, con particolare riferimento ai programmi regionali a più elevato rischio di definanziamento, nonché quali misure intenda mettere in atto per impedire, che vadano perduti i fondi europei in giacenza. (5-06701)

Interrogazioni a risposta scritta:


   CAMPANA. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   sono nove milioni le donne vittime di violenza online. Il dato emerge dal rapporto «A world—wide-wake up call», realizzato grazie alla collaborazione tra UN Women, un'entità dell'Organizzazione delle Nazioni Unite che promuove l'uguaglianza di genere, e la Broadband Commission for Digital Development, nata nel maggio del 2010 per iniziativa dell'Unesco e dell'Unione internazionale delle comunicazioni (ITU);
   la stampa nazionale ha dato contezza dei risultati del rapporto che mette in evidenza come la piaga della violenza sulle donne non si fermi al mondo reale, ma trovi ampi spazi anche nella rete dove assume contorni diversi: dagli insulti sessisti alla diffusione di materiale pornografico l'elenco è lungo;
   inoltre, a quanto si apprende, la violenza in rete e quella nel mondo reale, si alimentano a vicenda, spesso un attacco online poi si tramuta in una violenza fisica e viceversa;
   secondo lo studio il 73 per cento delle donne connesse ha subito un attacco cibernetico. A finire di più nel mirino sono ragazze che hanno un'età compresa tra i 18 e i 24 anni;
   nel mirino dello studio finiscono i gestori dei principali social network ritenuti ancora troppo lenti nella rimozione dei contenuti segnalati e per non aver ancora trovato una risposta efficace e tempestiva per consentire agli utenti molestati di trovare tutela –:
   se il Governo sia a conoscenza di quanto esposto in premessa;
   se abbia contezza di studi simili che prendano in considerazione solo il caso italiano;
   se, oltre a quelli riguardanti il fenomeno del cyber bullismo, esistano dei progetti ad hoc per quanto riguarda la tutela della donna in rete e se, per quelle donne che presentano denuncia di stalking, si attivino dei controlli che riguardino anche il profilo virtuale della loro vita relazionale, al fine di tutelare pienamente la donna vittima di violenza. (4-10766)


   PRATAVIERA, MATTEO BRAGANTINI, CAON e MARCOLIN. — Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
   il cosiddetto «Fondo Letta-Lanzillotta», è un fondo per la valorizzazione e la promozione delle aree territoriali svantaggiate confinanti con le regioni a statuto speciale istituito nel 2007 e destinato ai comuni adiacenti alle regioni a statuto speciale;
   il rifinanziamento del predetto fondo garantirebbe ai comuni beneficiari la possibilità di mantenere e garantire alcuni servizi fondamentali per i cittadini quali il trasporto scolastico, gli ambulatori, la cura delle aree boschive e altro;
   per fare un esempio, per quanto riguarda il Veneto, il fondo interessa ben 64 amministrazioni comunali confinanti con il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia (29 comuni in provincia di Belluno, 8 comuni in provincia di Treviso, 7 comuni in provincia di Venezia, 12 comuni in provincia di Vicenza, 8 Comuni in provincia di Verona);
   a tale fondo va a sommarsi il «Fondo Odi» per lo sviluppo dei comuni di confine, meglio conosciuto come «Fondo Brancher», istituito nel 2010 e destinato ai comuni confinanti con il Trentino;
   di recente, il Comitato per i comuni di confine veneti ha dato il via libera a 35 milioni di finanziamenti dall'ex fondo Odi. La notizia giunge con un comunicato stampa da parte della regione Veneto (n. 953 del 27 luglio 2015) nel quale si legge testualmente che: «Il Comitato ha assegnato i fondi messi a bando nel biennio 2013-2014 che le due province autonome destinano ai comuni limitrofi delle due regioni confinanti nell'arco alpino, in base all'intesa Brancher di perequazione tra regioni a statuto speciale e regioni a statuto ordinario»;
   questo è solo una piccola goccia nel mare e non interessa neanche tutti i comuni di confine i quali, in generale, attraverso il rifinanziamento dei fondi sopra citati potrebbero ridurre le differenze con i confinanti che godono di un'autonomia finanziaria più ampia;
   la questione è nota da diverso tempo anche a questo Governo; il 4 giugno 2013, con un comunicato stampa è stato reso noto che una delegazione di sindaci dell'associazione dei comuni di confine aveva incontrato l'allora Ministro per gli affari regionali: «Al centro dell'incontro, la revisione delle norme sul patto di stabilità ed il rifinanziamento di due fondi per lo sviluppo di quelle aree, comprese tra regioni a statuto ordinario e regioni a Statuto speciale. Il Ministro ha riconosciuto le obiettive difficoltà dei comuni di confine e dei piccoli comuni e ha ribadito l'impegno del Governo a rivedere il patto di stabilità, come dichiarato dallo stesso Presidente del Consiglio al momento dell'insediamento. In modo da permettere anche a questi comuni, particolarmente virtuosi, di poter utilizzare le risorse già a disposizione (...). Per ciò che riguarda, invece, il rifinanziamento del fondo Letta-Lanzillotta e del fondo Odi, il Ministro ha spiegato che in un momento in cui il Paese si trova costretto a fronteggiare emergenze economiche urgenti ed indifferibili sarà difficile arricchire questi fondi, ma ha garantito che della questione informerà il Consiglio dei Ministri nel tentativo di trovare una soluzione»;
   da allora purtroppo per i comuni di confine nulla è cambiato nonostante le sollecitazioni dirette da parte dei sindaci e delle associazioni che rappresentano questi comuni –:
   quali iniziative urgenti il Governo abbia intenzione di porre in essere al fine di prevedere una deroga al patto di stabilità per i comuni di confine tale che possa permettere almeno di far fronte agli interventi indifferibili ed urgenti che queste regioni si trovano ad affrontare;
   quali iniziative abbia intenzione di porre in essere, anche attraverso l'istituzione di un tavolo permanente di cui facciano parte i rappresentanti dei comuni di confine, al fine di trovare adeguate misure finanziarie tali da permetterle di superare lo storico divario esistente.
(4-10767)


   FANUCCI e BINI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   nel comune di Piteglio (frazione di Prunetta) ricade il complesso IPOST, una delle numerose strutture di proprietà dell'INPS;
   IPOST era l'ente previdenziale gestito da Poste Italiane s.p.a. che aveva realizzato in Italia centri vacanze ad uso dei figli dei dipendenti. Il complesso in questione, costituito da una colonia (circa 10.000 metri quadrati di superficie) e da un albergo (3.000 metri quadrati circa), ha funzionato, con cadenza stagionale per 22 anni (fino al 1997);
   da quell'anno, l'immobile è stato completamente abbandonato e nonostante l'interesse di soggetti privati, manifestatosi a più riprese nel tempo, non è mai possibile stabilire un rapporto di interlocuzione risolutivo con la proprietà, prima IPOST oggi INPS;
   per effetto della legge n. 122 del 2010, infatti, il 31 maggio 2010, IPOST viene soppresso e tutte le funzioni, unitamente al patrimonio, vengono trasferite ad INPS, la quale affida transitoriamente la gestione del patrimonio ad una società ad hoc: Inps Gestione Immobiliare (IGel SpA) a partecipazione maggioritaria di INPS nella cui compagine azionaria vi sono svariati soggetti di natura privata. IGel ha il compito di individuare e sviluppare le migliori soluzioni per la salvaguardia del complesso immobiliare di proprietà dell'INPS;
   dopo la chiusura, varie iniziative sono state portate avanti dalle amministrazioni comunali del comune di Piteglio che si sono succedute, con l'obiettivo di individuare soluzioni condivise pubblico-privato. Purtroppo dette iniziative sono andate ad arenarsi nelle complessità di una gestione statale impantanata entro procedure che mal si conciliano con il dinamismo dell'imprenditoria e del mercato;
   il lungo periodo di inutilizzo ha deteriorato la struttura degli eventi meteorici che hanno colpito la provincia di Pistoia nel marzo 2015 hanno ulteriormente aggravato lo stato di conservazione dei beni, esponendo la proprietà al «rischio» di interventi manutentivi non più procrastinabili in relazione al mantenimento di un livello accettabile di sicurezza;
   nel 2012, con l'obiettivo di addivenire ad una gestione del patrimonio più ampia e strutturata, INPS decide di affidare l'intera gestione ad un soggetto esterno; dunque viene indetta apposita gara. La divisione immobiliare del gruppo Pirelli si aggiudica l'appalto e la seconda in graduatoria, la società immobiliare ROMEO, impugna il provvedimento di assegnazione davanti al giudice amministrativo. Dopo due sentenze contrarie, la ROMEO promuove ricorso dinanzi al Consiglio di Stato dove si vede riconosciuto il diritto all'assegnazione. Nel 2014, a seguito degli eventi amministrativi e giudiziari, la società quarta classificata, SOVIGEST, promuove a sua volta ricorso avverso la ROMEO. Nelle more di una decisione definitiva, IGel mantiene la competenza sulla gestione del patrimonio;
   la società INVIMIT Sgr, soggetto di gestione del risparmio del Ministero dell'economia e delle finanze, ad inizio 2014 acquisisce la competenza circa ogni procedura di ricollocazione del patrimonio immobiliare a qualunque titolo riconducibile alla proprietà dello Stato, fra cui le proprietà dell'INPS;
   nel contesto rappresentato, protraendosi i tempi di risoluzione definitiva del caso oltre ogni limite ragionevolmente breve, ed essendo INPS nell'impossibilità di procedere alla vendita diretta che competerebbe ad INVIMIT, la stessa INPS ha determinato di attivare opportuni bandi di locazione dei propri immobili;
   il 18 febbraio 2015 il geometra Rodolfo Cazzola, procuratore di IGel SpA, ha inviato una nota al sindaco di Piteglio da cui si evince la necessità di un intervento diretto da parte del Governo nazionale. Ciò in considerazione del fatto che le procedure in corso, oltre a non aver consentito in passato l'apertura di un dialogo con imprese disponibili all'acquisto, lasciano temere per una possibile ulteriore dilazione dei tempi, non più compatibile con lo stato di conservazione dei beni;
   l'intervento in questione potrebbe consistere di una norma che, in considerazione della localizzazione geografica (area a rischio desertificazione), dello stato di consunzione del patrimonio (ulteriormente incrementato dagli eventi meteorici di inizio marzo), del possibile impatto positivo sull'economia locale di una operazione di vendita e successiva riqualificazione dei beni, metta fin da subito INPS nella condizione di procedere alla vendita diretta del complesso immobiliare sito nella frazione di Prunetta –:
   quali iniziative il Governo ritenga di adottare per consentire, nei tempi più rapidi possibili secondo quanto stabilito dalla legge, la vendita del complesso immobiliare IPOST, sito nella frazione di Prunetta (Piteglio), al fine di favorire una riqualificazione dell'immobile e dell'area in cui la struttura ricade. (4-10769)


   MANNINO, BUSTO, DAGA, DE ROSA, MICILLO, TERZONI, ZOLEZZI e VIGNAROLI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   in base alla Direttiva europea 1999/31/CE, nelle discariche non possono essere smaltiti rifiuti non trattati, e la separazione dei rifiuti destinati agli invasi deve consistere in processi che, oltre a modificare le caratteristiche dei rifiuti allo scopo di ridurne il volume o la natura pericolosa e di facilitarne il trasporto o favorirne il recupero, abbiano altresì l'effetto di evitare o diminuire nel miglior modo possibile ripercussioni negative sull'ambiente nonché rischi per la salute umana;
   la Direttiva 1999/31/CE – recepita in Italia con il decreto legislativo 13 gennaio 2003 n. 36 ed attuata con il decreto del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare 3 agosto 2005 – individua come biodegradabile qualsiasi rifiuto che per natura subisce processi di decomposizione aerobica o anaerobica, quali, ad esempio, rifiuti di alimenti, rifiuti dei giardini, rifiuti di carta e di cartone;
   con la circolare U.prot.GAB-2009-0014963 del 30 giugno 2009, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare pro tempore ha fornito delle indicazioni in merito alle forme di trattamento dei rifiuti, includendo la trito vagliatura tra quelle idonee a soddisfare gli obblighi contenuti nella normativa comunitaria di riferimento;
   il 6 agosto del 2013, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha inviato a tutte le Regioni e alle Province autonome di Trento e Bolzano una circolare avente per oggetto «termine di efficacia della circolare del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare U.prot.GAB-2009-0014963 del 30 giugno 2009», all'interno della quale viene precisato – in base a quanto asserito dalla Commissione nel parere motivato della Commissione Europea (prot. 9026 del 1o giugno 2012) e nel ricorso depositato il 13 giugno 2013 contro la Repubblica Italiana (registro della Corte numero causa C 323/13) – che la trito vagliatura, pur rappresentando un miglioramento della gestione dei rifiuti indifferenziati, non può soddisfare, da sola, l'obbligo di trattamento previsto dall'articolo 6, lettera a) della direttiva 1999/31/Ce;
   in quell'occasione il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha dichiarato che «con questa circolare viene definitivamente chiarito quali sono i trattamenti necessari per il conferimento dei rifiuti in discarica dove non potrà arrivare mai più il cosiddetto “tal quale”, anche se sottoposto a tritovagliatura»;
   con la stessa circolare del 6 agosto del 2013, il Ministro ha invitato le regioni e le province autonome a osservare le precisazioni fornite e ad adottare le iniziative conseguenti e necessarie al fine di assicurare il pieno rispetto degli obiettivi stabiliti dalle norme comunitarie;
   su questo argomento si è espressa la Corte di giustizia dell'Unione europea tramite la sentenza del 15 ottobre 2014 in merito alla causa c-323/13. La Corte, tra le altre cose, ha stabilito che la mera compressione e/o triturazione dei rifiuti indifferenziati destinati a essere collocati a discarica non risponde ai requisiti posti dalla direttiva n. 31 del 1999;
   l'ISPRA nel Rapporto sui rifiuti urbani del 2013, con dati riferiti all'anno 2012, certifica come la metà dei rifiuti raccolti (53 per cento), a livello nazionale, sono stati smaltiti – in palese violazione della Direttiva europea 1999/31/CE – senza essere sottoposti ad alcuna forma di pretrattamento, invero detta percentuale supera il 70 per cento in sei regioni (Valle d'Aosta, Liguria, Trentino Alto Adige, Marche, Campania e Piemonte), e il 50 per cento in altre sei (Lazio, Basilicata, Veneto, Sicilia, Calabria, e Toscana);
   l'ISPRA, nel Rapporto sui rifiuti urbani del 2014, con dati riferiti l'anno 2013, fornisce la percentuale di rifiuti urbani smaltiti in discarica senza trattamento preliminare per regione: Valle d'Aosta, 100 per cento; Trentino Alto Adige, 85 per cento; Marche, 75 per cento; Liguria, 74 per cento; Campania, 65 per cento, Piemonte, 63 per cento, Basilicata 61 per cento; Calabria, 60 per cento; Veneto, 58 per cento; Sicilia, 48 per cento; Emilia Romagna, 42 per cento; Toscana, 42 per cento;   Italia, 41 per cento; Lazio, 35 per cento; Sardegna, 18 per cento; Umbria, 9 per cento; Puglia, 7 per cento; Abruzzo, 5 per cento; Lombardia, 5 per cento; Friuli Venezia Giulia, 5 per cento; Molise, 4 per cento –:
   di quali dati disponga il Governo, con riferimento al 2014, riguardanti lo smaltimento dei rifiuti nelle discariche italiane, con particolare attenzione alle quantità di «tal quale» ovvero tritovagliato;
   se tali dati siano stati forniti alla Commissione europea al fine di permettere alla Commissione stessa di ottemperare ai propri compiti, ossia di controllare che gli Stati membri rispettino quanto stabilito dal diritto europeo. (4-10772)


   MANNINO, BUSTO, DAGA, DE ROSA, MICILLO, TERZONI, ZOLEZZI e VIGNAROLI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   ogni dodici mesi la Commissione europea rende pubblica la relazione annuale sul controllo dell'applicazione del diritto dell'Unione europea;
   «EU Pilot» è un'iniziativa della Commissione europea con la quale si chiede agli Stati membri di rispondere a quesiti e di individuare soluzioni ai problemi connessi all'applicazione del diritto dell'Unione europea. Il progetto prevede una banca dati e uno strumento di comunicazione online. Attraverso il dialogo nell'ambito di EU Pilot, la Commissione e gli Stati membri risolvono i problemi più rapidamente, apportando benefici a cittadini e imprese attraverso il raggiungimento della conformità agli obblighi derivanti dal diritto dell'Unione;
   il numero di nuovi casi EU Pilot è aumentato gradualmente tra il 2011 e il 2013. Tuttavia, nel 2014, il numero di nuovi casi è sceso nuovamente ai livelli del 2011: sono stati aperti 1208 nuovi casi (con un calo pari al 20 per cento circa);
   la cifra si compone di 423 procedimenti avviati in seguito a denunce, 8 procedimenti avviati a seguito di richieste di informazioni e 777 nuovi procedimenti d'ufficio;
   nel 2014 sono stati trattati 1336 casi EU Pilot. Dei 1336 casi EU Pilot trattati nel 2014, la Commissione ne ha chiusi 996 a seguito di una risposta soddisfacente da parte dello Stato membro. Il tasso dei casi risolti per gli Stati membri è stato quindi del 75 per cento contro il 70 per cento del 2013. Un caso è stato respinto dallo Stato membro a questo stadio e la commissione ne ha accettato il rigetto. Nel complesso 339 casi EU Pilot sono stati chiusi dopo che la Commissione ha respinto le risposte fornite dagli Stati membri; 325 di questi casi sono stati seguiti da procedure d'infrazione formali (contro i 396 del 2015), dei quali 91 casi riguardavano la mobilità e i trasporti, 43 l'ambiente, 39 la fiscalità e l'unione doganale e 37 l'occupazione e gli affari sociali. Italia, Spagna, Germania e Francia hanno registrato il numero più elevato di casi EU Pilot di questo tipo, seguiti da procedimenti d'infrazione (rispettivamente 31, 28 e 22 casi ciascuno);
   alla fine del 2014 risultavano aperti 1348 casi EU Pilot. Alla fine del 2014 la maggioranza dei casi EU Pilot ancora aperti riguardava l'Italia (139), la Spagna (91), la Grecia e la Polonia (73 ciascuna). L'ambiente è rimasto il settore maggiormente interessato, con 390 casi aperti, seguito da giustizia (157) e mobilità e trasporti (157);
   qualora il caso EU Pilot non venisse risolto, allora la Commissione europea procede all'invio allo Stato membro di una lettera di messa in mora ossia apre una procedura di infrazione;
   le procedure di infrazione possono comportare degli oneri diretti a carico degli Stati inadempienti, a seguito di una condanna da parte della Corte di giustizia dell'Unione europea al pagamento di sanzioni, in esito ai ricorsi ex articolo 260 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Tuttavia, anche a prescindere dalla comminazione di sanzioni, le procedure di infrazione possono comportare oneri finanziari per lo Stato membro interessato derivanti dall'adozione delle misure finalizzate al superamento del contenzioso con l'Unione europea. In tale accezione, possono configurarsi diverse tipologie di oneri finanziari, tra cui si evidenziano:
    spese connesse a misure compensative di danni ambientali, presenti nelle procedure di infrazione del settore ambiente;
    oneri amministrativi connessi, in linea di massima, alla necessità di attività a carico di strutture della pubblica amministrazione;
    minori entrate per l'erario, dovute principalmente a diminuzione di imposte e altri oneri contributivi;
    spese relative all'adeguamento delle violazioni in materia di lavoro, nell'ambito del pubblico impiego e del comparto della previdenza;
    oneri per interessi moratori, derivanti da ritardi nei pagamenti di somme dovute a carico del bilancio dello Stato –:
   se disponga di informazioni riguardo al numero e alle motivazioni dei casi EU Pilot ancora aperti, e, in particolare, concernenti le indagini della Commissione europea sull'Italia in materia ambientale.
(4-10773)


   MANNINO, BUSTO, DAGA, DE ROSA, MICILLO, TERZONI, ZOLEZZI e VIGNAROLI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   con una prima sentenza, nel 2007, la Corte di giustizia dell'Unione europea ha dichiarato che l'Italia era venuta meno, in modo generale e persistente, agli obblighi relativi alla gestione dei rifiuti stabiliti dalle direttive relative ai rifiuti, ai rifiuti pericolosi e alle discariche di rifiuti;
   nel 2013, la Commissione europea ha ritenuto che l'Italia non avesse ancora adottato tutte le misure necessarie per dare esecuzione alla sentenza del 2007. In particolare, 218 discariche ubicate in 18 delle 20 regioni italiane non erano conformi alla direttiva «rifiuti»; inoltre, 16 discariche su 218 contenevano rifiuti pericolosi in violazione della direttiva «rifiuti pericolosi»; infine, l'Italia non aveva dimostrato che 5 discariche fossero state oggetto di riassetto o di chiusura ai sensi della direttiva «discariche di rifiuti»;
   nel corso della causa c-196/13, la Commissione europea ha affermato che, secondo le informazioni più recenti, 198 discariche non erano ancora conformi alla direttiva «rifiuti» e che, di esse, 14 non erano conformi neppure alla direttiva «rifiuti pericolosi». Inoltre, sarebbero rimaste due discariche non conformi alla direttiva «discariche di rifiuti»;
   nella sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea del 2 dicembre 2014, la Corte ha ricordato innanzitutto che la mera chiusura di una discarica o la copertura dei rifiuti con terra e detriti non è sufficiente per adempiere agli obblighi derivanti dalla direttiva «rifiuti». Pertanto, i provvedimenti di, – chiusura e di messa in sicurezza delle discariche non sono sufficienti per conformarsi alla direttiva. Oltre a ciò, gli Stati membri sono tenuti a verificare se sia necessario bonificare le vecchie discariche abusive e, all'occorrenza, sono tenuti a bonificarle. Il sequestro della discarica e l'avvio di un procedimento penale contro il gestore non costituiscono misure sufficienti. La Corte ha rilevato poi che, alla scadenza del termine impartito, lavori di bonifica erano ancora in corso o non erano stati iniziati in certi siti; riguardo ad altri siti, la Corte ha contestato che non è stato fornito alcun elemento utile a determinare la data in cui detti lavori sarebbero stati eseguiti. La Corte, quindi, ne è arrivata alla conclusione che l'obbligo di recuperare i rifiuti o di smaltirli senza pericolo per l'uomo o per l'ambiente nonché quello, per il detentore, o di consegnarli ad un raccoglitore che effettui le operazioni di smaltimento o di recupero di rifiuti o di provvedere egli stesso a tali operazioni sono stati violati in modo persistente;
   la Corte è arrivata alla conclusione che l'Italia non ha adottato tutte le misure necessarie a dare esecuzione alla sentenza del 2007 e che è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del diritto dell'Unione. Di conseguenza, la Corta» condannato l'Italia a pagare una somma forfettaria di 40 milioni di euro. La Corte di giustizia dell'Unione europea ha rilevato poi che l'inadempimento perdura da oltre sette anni e che, dopo la scadenza del termine impartito, le operazioni sono state compiute con grande lentezza; un numero importante di discariche abusive si registra ancora in quasi tutte le regioni italiane. Essa considera quindi opportuno infliggere una penalità decrescente, il cui importo sarà ridotto progressivamente in ragione del numero di siti che saranno messi a norma, conformemente alla sentenza, computando due volte le discariche contenenti rifiuti pericolosi. L'imposizione su base semestrale consentirà di valutare l'avanzamento dell'esecuzione degli obblighi da parte dell'Italia. La prova dell'adozione delle misure necessarie all'esecuzione della sentenza del 2007 dovrà essere trasmessa alla Commissione europea prima della fine del periodo considerato. La Corte ha condannato quindi l'Italia a versare altresì una penalità semestrale a far data dal 2 dicembre 2014 e fino all'esecuzione della sentenza del 2007. La penalità sarà calcolata, per quanto riguarda il primo semestre, a partire da un importo iniziale di 42.800.000 euro. Da tale importo saranno detratti 400.000 euro per ciascuna discarica contenente rifiuti pericolosi messa a norma e 200.000 euro per ogni altra discarica messa a norma. Per ogni semestre successivo, la penalità sarà calcolata a partire dall'importo stabilito per il semestre precedente, detraendo i predetti importi in ragione delle discariche messe a norma in corso di semestre;
   in data 3 giugno 2015, gli europarlamentari del Movimento 5 Stelle, Ignazio Corrao, Eleonora Evi, Piernicola Pedicini e Marco Affronte, hanno presentato una interrogazione alla Commissione europea per sapere l'ammontare della multa semestrale in merito alle discariche abusive di cui alla sentenza Commissione/Italia (ECLI:EU:C:2007:250);
   la Commissione europea, in data 7 agosto 2015, ha risposto all'interrogazione di cui al punto precedente, affermando: «Il 13 luglio 2015 la Commissione ha inviato all'Italia una lettera con cui sollecita il pagamento della penale dovuta per il primo semestre successivo alla sentenza. La penale richiesta in tale lettera ammonta a 39,800.000 EUR, importo che è stato calcolato sulla base delle informazioni trasmesse dalle autorità italiane in merito ai progressi realizzati nella messa in conformità delle discariche. [..]»;
   la Commissione europea, in data 18 agosto 2015, ha fornito ai parlamentari sopra richiamati l'elenco delle discariche abusive oggetto della sentenza pronunciata dalla Corte di giustizia dell'Unione europea in data 2 dicembre 2014 (causa C-196/13) – Situazione allo scadere del primo semestre successivo alla sentenza (del 2 dicembre 2014-2 giugno 2015). Dall'elenco si evince che esistono ancora 185 discariche non conformi alle direttive europee ossia inottemperanti a quanto stabilito dalla più volte richiamata sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, motivo per cui è stata inflitta all'Italia la multa semestrale di 39.800.000 euro –:
   quale sia l'organo che effettua i sopralluoghi presso le discariche oggetto della sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea del 2 dicembre 2014;
   in quale modalità e con quale tempistica vengano effettuate questi sopralluoghi;
   quali siano le maggiori criticità che ancora non permettono all'Italia di ottemperare alla sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea. (4-10778)


   MANNINO, BUSTO, DAGA, DE ROSA, MICILLO, TERZONI, ZOLEZZI e VIGNAROLI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   nella sentenza Commissione europea/Italia (C-297/08, EU:C:2010:115), la Corte di giustizia dell'Unione europea ha accolto un ricorso per inadempimento ai sensi dell'articolo 226 del trattato CE, divenuto l'articolo 258 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea, ed ha constatato che la Repubblica italiana, non avendo adottato, per la regione Campania, tutte le misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell'uomo e senza recare pregiudizio all'ambiente e, in particolare, non avendo creato una rete adeguata ed integrata di impianti di smaltimento, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza degli articoli 4 e 5 della direttiva 2006/12;
   nell'ambito del controllo dell'esecuzione della sentenza Commissione/Italia (C-297/08, EU:C:2010:115), i servizi della Commissione europea hanno chiesto alle autorità italiane, in data 23 marzo 2010, informazioni in merito alle misure adottate per l'esecuzione di detta pronuncia;
   il 3 giugno 2010 le autorità italiane hanno inviato una nota contenente la relazione concernente le attività svolte o in corso di adozione per la realizzazione di una rete integrata di impianti di smaltimento dei rifiuti in Campania;
   in data 22 luglio e 8 novembre 2010, alla luce delle informazioni fornite, i servizi della Commissione europea hanno espresso forti riserve quanto all'adeguatezza delle misure previste;
   il 19 gennaio 2011 le autorità italiane hanno inviato una copia della proposta di piano regionale per la gestione dei rifiuti solidi urbani della regione Campania;
   il 24 gennaio 2011 i servizi della Commissione europea hanno nuovamente espresso le loro preoccupazioni riguardo all'esecuzione della sentenza Commissione/Italia (C-297/08, EU:C:2010:115);
   in data 21 gennaio, 14 febbraio, 30 marzo e 22 settembre 2011, si sono succeduti numerosi invii di versioni aggiornate della proposta di piano di gestione dei rifiuti;
   dopo aver analizzato tutte le informazioni fornite dalle autorità italiane, la Commissione europea, ritenendo che la Repubblica italiana non avesse ancora adottato tutte le misure necessarie per dare esecuzione alla sentenza Commissione/Italia (C-297/08, EU:C:2010:115), ha invitato detto Stato membro, mediante lettera di costituzione in mora in data 30 settembre 2011, a presentare, entro un termine di due mesi, le proprie osservazioni al riguardo. Il 6 dicembre 2011, tale termine è stato prorogato fino al 15 gennaio 2012;
   la Repubblica italiana ha risposto alla suddetta lettera di messa in mora mediante varie comunicazioni ed ha inviato, mediante note in data 27 aprile e 22 giugno 2012, la documentazione elaborata dalla regione Campania relativa alla bozza di programma attuativo per la gestione del periodo transitorio 2012-2016;
   il 24 luglio 2012 la Commissione europea, ritenendo che il suddetto programma attuativo fosse incompleto, ha chiesto alla Repubblica italiana di integrarlo entro il 15 settembre 2012 e di inviare, a partire da quella data, relazioni trimestrali in merito all'esecuzione del programma stesso;
   in data 17 dicembre 2012, nonché 20 marzo e 26 giugno 2013, la Repubblica italiana ha inviato alla Commissione relazioni trimestrali successive riguardanti lo stato di attuazione del programma per il periodo transitorio 2012-2016;
   ritenendo che continuasse ad esistere un problema strutturale e che la Repubblica italiana non avesse adottato, entro il termine impartito, tutte le misure che l'esecuzione della sentenza Commissione/Italia (C-297/08, EU:C:2010:115) comporta, la Commissione europea ha proposto, il 10 dicembre 2013, il ricorso che ha scaturito la sentenza in oggetto;
   il 16 luglio 2015 la Corte di giustizia dell'Unione europea nella causa C-653/13 ha condannato l'Italia per non aver adottato tutte le misure necessarie per l'esecuzione della sentenza Commissione/Italia (C-297/08 EU:C:2010:115); la Repubblica italiana ha quindi violato gli obblighi che le incombono in virtù dell'articolo 260, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell'Unione europea;
   la Repubblica italiana è condannata a pagare alla Commissione europea, sul conto «Risorse proprie dell'Unione europea», una penalità di 120.000 euro per ciascun giorno di ritardo nell'attuazione delle misure necessarie per conformarsi alla sentenza Commissione/Italia (C-297/08, EU:C:2010:115), a partire dalla data della pronuncia della citata sentenza e fino alla completa esecuzione della sentenza Commissione/Italia (C-297/08, EU:C:2010:115);
   la Repubblica italiana è condannata a pagare alla Commissione europea, sul conto «Risorse proprie dell'Unione europea», una somma forfettaria di 20 milioni di euro;
   il 16 ottobre 2015, ossia a tre mesi dalla sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, l'ammontare totale della somma delle multe giornaliere arriverà a 10.800.000 euro –:
   quali iniziative urgenti intende assumere affinché l'Italia si adegui in tutto il territorio nazionale a quanto stabilito dalla Corte di giustizia dell'Unione europea;
   se il Governo intenda, ai sensi dell'articolo 43 della legge 24 dicembre 2012, n. 234, avvalersi del diritto di rivalsa nei confronti della regione Campania;
   se corrisponda al vero che la regione Campania, tramite il Governo italiano, abbia inviato un nuovo Piano alla Commissione europea al fine di ottemperare alle direttiva europee ossia allo scopo di fermare l'ammontare sempre crescente di multe giornaliere. (4-10780)

AFFARI ESTERI E COOPERAZIONE INTERNAZIONALE

Interpellanza:


   Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, per sapere – premesso che:
   il giornalista di Radio Radicale Antonio Russo, nato a Francavilla a Mare il 6 giugno 1960, fu barbaramente, assassinato vicino al villaggio di Udzharma, a 25 chilometri da Tiblisi, capitale della Georgia, che da pochi anni era diventato uno Stato indipendente, dopo aver fatto parte dell'URSS;
   il suo cadavere fu ritrovato il 16 ottobre 2000;
   dall'autopsia fu accertata inequivocabilmente la natura violenta della morte di Antonio Russo: «il torace fracassato, due costole rotte con il colpo netto di un'arma che assomiglia ad una mazza di ferro...», il suo assassinio è stato particolarmente crudele e probabilmente preceduto anche da una tortura;
   a tutti gli ambienti giornalistici e politici era nota l'attività di Antonio Russo e le sue corrispondenze dalle zone Tra dell'Est europeo;
   era stato l'unico giornalista indipendente rimasto a Pristina a denunciare il dramma dei profughi bosniaci, e per molto tempo è stato uno dei pochi giornalisti a raccontare la guerra civile in Cecenia nella disattenzione dell'Europa e dell'Occidente in generale;
   sono memorabili le sue corrispondenze dall'Algeria e dal Burundi;
   Antonio Russo aveva dichiarato prima di essere assassinato di essere in possesso di nuovo materiale video sulla guerra civile in Cecenia e sulle violenze commesse in Cecenia dai Russi in aperta violazione dei diritti umani, tutelati a livello internazionale;
   l'appartamento in cui alloggiava il giornalista Antonio Russo è stato trovato devastato e sono scomparsi i documenti riguardanti il suo lavoro, il computer e il telefono satellitare;
   la polizia locale russa ha tentato inizialmente di far passare l'omicidio come un incidente stradale e poi come una aggressione di balordi a scopo di furto, depistando nei fatti le indagini;
   secondo alcune fonti Antonio Russo avrebbe documentato l'uso di armi chimiche da parte russa contro la popolazione cecene –:
   quali siano le responsabilità accertate dalle indagini sugli autori e sui mandanti dell'omicidio di Antonio Russo in Cecenia 15 anni fa;
   quali siano state le iniziative assunte dalle rappresentanze diplomatiche italiane e dai vari Governi che si sono succeduti in 15 anni per avere la piena collaborazione delle autorità di Tiblisi nelle indagini effettuate;
   quali siano state le conseguenze politiche e diplomatiche di questa vicenda.
(2-01127) «Melilla».

Interrogazione a risposta scritta:


   LATRONICO. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   la sera del 28 maggio 2013, a Monaco di Baviera un giovane ingegnere italiano di origini lucane Domenico Lorusso, residente a Monaco di Baviera è stato ucciso a pugnalate da uno sconosciuto nei pressi di una pista ciclabile;
   il signor Lorusso si era avvicinato all'assassino, dileguatosi subito dopo il delitto, dopo che questi aveva sputato addosso alla sua compagna e, secondo quanto riportato dai media tedeschi, non conosceva l'aggressore;
   dopo oltre 7 mesi di indagini la polizia tedesca sul caso di Domenico Lorusso non ha trovato nessun colpevole e la squadra anticrimine, appositamente creata per chiarire l'accaduto, ha deciso di archiviare l'inchiesta per la mancanza di ulteriori novità;
   la Germania, dalle cronache giornalistiche, appare un Paese noto per la qualità della giustizia e delle forze dell'ordine, dove il 93 per cento degli omicidi trova sempre il suo autore, ed è assai attento alle forme di prevenzione di atti criminosi. La sera del maggio 2013, però, lungo il fiume Iser nessuno ha notato qualcosa di anomalo, stranamente nessuna telecamera della zona ha ripreso la scena, nemmeno l'esame del DNA proposto dagli inquirenti ha fornito elementi utili;
   l'intera comunità lucana è rimasta scossa dal terribile evento che ha stroncato la vita ad un giovane professionista emigrato per ragioni professionali e di lavoro, provocando un dolore incolmabile alla famiglia ed a quanti lo conoscevano;
   è necessario che il Governo italiano assuma tutte le iniziative presso la polizia e gli organi inquirenti della Germania perché sia fatta luce sull'accaduto e sia assicurato alla giustizia il colpevole dell'atto criminale –:
   se i Ministri interrogati siano a conoscenza di quanto sopra esposto;
   quali iniziative, per quanto di competenza, intendano porre in essere per far emergere la verità e per far sì che venga riaperto il caso e resa giustizia per la morte del giovane ingegnere lucano.
(4-10765)

BENI E ATTIVITÀ CULTURALI E TURISMO

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   DE MENECH. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   l'archivio di Stato di Belluno è stato istituito il 1o dicembre del 1973 in base alla normativa che prevedeva la presenza di un archivio di Stato in ogni capoluogo di provincia;
   situato in via Santa Maria dei Battuti, in pieno centro storico, all'interno di una sede prestigiosa, il cui corpo originale risale al 1330, l'archivio svolge un servizio a beneficio dell'intera comunità provinciale, oltre che cittadina;
   l'archivio conserva parte della documentazione pubblica che precede l'unità d'Italia ed assolve funzioni di raccolta e conservazione degli archivi prodotti nel territorio bellunese da enti pubblici e privati, di assistenza per chi consulta i documenti, di allestimenti culturali di mostre, di attività didattiche con le scuole;
   l'organico, che è allo stato attuale formato da sei persone con qualifica amministrativa, non basta a coprire le funzioni di un archivio, non conosce, tra l'altro, alcuna professionalità con la qualifica di «archivista», tranne la figura del direttore;
   attualmente la figura del direttore è ricoperta pro tempore, a scadenza da un dirigente che è direttore in pianta organica in una sede di archivio collocato in altra provincia;
   in seguito al terremoto dell'Aquila dell'aprile 2009, è arrivato temporaneamente all'archivio di Stato di Belluno anche l'archivio processuale del Vajont; le carte del processo del Vajont si trovavano all'archivio di Stato dell'Aquila e furono sepolte dalle macerie del sisma che distrussero anche il locale dell'archivio di Stato;
   l'archivio di Belluno costituisce un elemento unificante per molte iniziative che trovano riferimento nel progetto «Archivio diffuso del Vajont» ed è sentito dalla comunità bellunese anche come un polo di aggregazione, riconosciuto come sede naturale per accogliere molte altre manifestazioni legate al ricordo della tragedia;
   dal momento del suo trasferimento all'archivio bellunese, tutto il materiale inerente il processo del Vajont, circa 150.000 documenti contenuti in 256 faldoni, è stato completamente digitalizzato;
   proprio in questo momento, insieme al comune di Longarone e all'associazione Tina Merlin, l'archivio di Stato di Belluno sta lavorando per candidare l'archivio diffuso del Vajont nell'apposito Registro Memory of the World - Unesco;
   la conseguenza di un ridimensionamento o accorpamento dell'archivio di Stato di Belluno sarebbe il depauperamento della storia di Belluno e del suo interno territorio provincia, privato di un riferimento istituzionale fondamentale per la sua conoscenza e, sottratto, dei suoi documenti secolari, cioè le carte della storia, che verrebbero smembrate in diverse sedi;
   si metterebbe inoltre a rischio la permanenza a Belluno dell'archivio del Vajont; il trasferimento dei faldoni del processo in altra sede rappresenterebbe uno schiaffo alla comunità bellunese;
   il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ha deciso di investire nella valorizzazione della memoria stanziando un finanziamento di 50 mila euro per il Museo del Vajont;
   se si intenda mantenere nel territorio bellunese l'archivio di Stato, evidenziando l'importanza che esso rappresenta per l'intera comunità;
   se si intenda proseguire nella valorizzazione della memoria, indicando nell'archivio di Stato di Belluno la sede naturale per la permanenza della documentazione del processo del Vajont, contenuto tangibile della memoria della catastrofe. (5-06687)


   PRODANI, ARTINI, BALDASSARRE, BARBANTI, BECHIS, MUCCI, RIZZETTO, SEGONI e TURCO. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   l'Enit, Agenzia nazionale italiana del turismo, è l'ente che opera per conto del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo nella promozione dell'offerta turistica italiana;
   con il decreto-legge del 31 maggio 2014, n. 83, recante «Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo», convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014, n. 106, all'articolo 16 si dispone la trasformazione di Enit in ente pubblico economico, prevedendo la nomina di un commissario straordinario per l'attuazione della riforma e, in contemporanea, la messa in liquidazione della società Promuovi Italia S.p.a.;
   in esecuzione del citato articolo è stato nominato, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 16 giugno 2014, su proposta del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, l'ingegnere nucleare Cristiano Radaelli quale commissario straordinario di Enit;
   dall'articolo del 1o luglio 2015 de il Tempo si apprende che il bilancio di previsione per il 2015 preveda entrate derivanti dallo Stato per 18 milioni di euro, 3 milioni provenienti dalla compartecipazione delle regioni alle azioni promozionali dirette ai mercati esteri, 300 mila euro da comuni e province, 1 milione e 200 mila euro da prestazioni di incentivi di servizi pubblicitari promozionali e infine 800 mila euro di «entrate diverse»: affitti di immobili, interessi bancari, e altro per un totale di 23 milioni e 500 mila euro. Alla voce «previsioni di spesa» è annotato che quasi 19 milioni sono «spese di gestione» e ben 5 milioni e 300 mila euro «spese per prestazioni istituzionali», per un totale di 24 milioni e 259 mila euro;
   il 15 luglio la Commissione attività produttive ha votato favorevolmente alla proposta di nomina di Evelina Christillin, già presidente della Fondazione Museo Egizio e del Teatro Stabile di Torino, a presidente dell'Enit;
   inoltre, agli inizi del mese di luglio 2015 il Ministro Franceschini, come si legge da un articolo del Corriere della Sera del 1o ottobre, avrebbe anche nominato i due consiglieri di amministrazione Antonio Preti e Fabrizio Lazzerini e, contemporaneamente, annunciato che, con un consiglio di amministrazione snello, l'Enit sarebbe diventato uno strumento efficiente ed in grado di affrontare le sfide per il rilancio del turismo nazionale; ma, come riportato da Wired.it, Enit risulta di fatto svuotato di ogni operatività: da mesi l'attività di promozione del brand Italia è nel limbo, il sito Italia.it va a rilento, della campagna di marketing sui mercati internazionali che avrebbe già dovuta essere lanciata da settimane non c’è traccia e all'estero, da quasi un anno, non sarebbe presente alcun rappresentante dell'ente;
   il nuovo consiglio di amministrazione dell'Enit si è insediato solamente l'8 ottobre 2015 contestualmente al passaggio di consegne tra il commissario straordinario e i nuovi amministratori;
   nell'articolo della testata on line wired.it dell'8 ottobre, viene specificato come la nuova organizzazione, delineata dalla gestione commissariale, preveda 140 addetti, 60 unità in più del vecchio Enit e che il nuovo consiglio di amministrazione debba affrontare una serie di azioni giudiziarie legate al ricorso dei dipendenti contro la trasformazione dell'Ente e al ricorso che il Ministro dello sviluppo economico ha presentato contro il fallimento di Promuovi Italia, controllata Enit e messa in liquidazione, per la quale il tribunale di Roma, su richiesta del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, dopo l'accertamento di quasi 20 milioni di euro di buco in bilancio, ha presentato istanza di fallimento;
   da un articolo pubblicato sul quotidiano on line Ttg.italia.com del 14 ottobre 2015 si apprende che molti dei dipendenti dell'Enit, abbiano deciso di lasciare l'Ente per la mancanza di certezze in merito al nuovo contratto di lavoro, optando per il trasferimento in altre strutture della pubblica amministrazione, e che il consiglio di amministrazione sia stato convocato per il 15 ottobre al fine di decidere sui modi e sui tempi per rendere operativo l'Enit;
   in un ulteriore articolo del 16 ottobre 2015, pubblicato dal quotidiano on line Ttg.italia.com, si legge che il Ministro Franceschini abbia inserito nel disegno di legge di stabilità 2016 10 milioni di euro in più di fondi destinati all'Enit e che i vertici dell'Ente, durate la riunione del consiglio di amministrazione del 15 ottobre, abbiano espresso apprezzamento per la notizia. Inoltre, viene specificato che la riunione si siano definiti i ruoli all'interno del consiglio e che Fabio Lazzerini sia stato nominato consigliere delegato –:
   se corrisponda al vero quanto riportato dal quotidiano on line Ttg.italia.com;
   se intendano intervenire per accelerare le procedure necessarie al funzionamento a regime dell'Enit ed evitare nuovi ed ulteriori ostacoli all'attività per cui l'Ente è stato trasformato;
   come intendano tutelare i lavoratori coinvolti e scongiurare che le professionalità acquisite lascino l'Ente privo di risorse umane;
   secondo quali modalità e tempistiche si procederà alla selezione del personale necessario;
   quale tipologia di contratto sia stato previsto per il nuovo inquadramento nell'Enit e quale sia la tempistica relativa alla sottoscrizione. (5-06703)

Interrogazioni a risposta scritta:


   MANFREDI, MANZI e SGAMBATO. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   l'Anfiteatro di Nola, monumento noto dalla letteratura antiquaria del XIV secolo, come «Anfiteatro laterizio», ubicato nella zona nord – occidentale della città bruniana, rivestì nell'antichità un ruolo non secondario dal punto di vista politico – economico – sociale e rappresenta un punto di riferimento per un itinerario turistico – culturale della zona nord – orientale della città metropolitana di Napoli;
   tale monumento è stato oggetto di alcune brevi campagne di scavo tra il 1985 ed il 1993, che portarono alla luce tre dei corridoi di accesso al monumento ed alcuni elementi delle murature del circuito esterno, recanti ancora il rivestimento di intonaco; solo nell'ottobre del 1997 si è dato inizio allo scavo, con un progetto in parte dall'allora CEE, per riportare alla luce l'antico anfiteatro;
   tale monumento, purtroppo, è oggetto di depauperazione a causa di una falda che lo sta sommergendo inesorabilmente e che può creare tra l'altro danni inestimabili ai marmi che vi sono all'interno che sono riconducibili al I sec. A.C. –:
   se il Ministro, sia al corrente di questa incresciosa vicenda;
   se intenda attivare in tempi rapidi un canale di comunicazione con i responsabili della locale Soprintendenza, nella speranza di contribuire quanto prima a far luce sull'accaduto, e adoperarsi per chiarire quali siano le responsabilità;
   se intenda attivarsi affinché possano essere predisposte le misure necessarie per salvaguardare l'Anfiteatro Laterizio, data l'importanza della struttura a non soltanto dal punto di vista storico e archeologico, ma anche dal punto di vista turistico ed occupazionale per tutto il territorio non solo nolano ma anche dell'intero territorio metropolitano napoletano. (4-10768)


   BRUGNEROTTO, PETRAROLI e D'INCÀ. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   nella regione del Veneto sono in atto dei progetti di invasi artificiali per il controllo delle piene, fra questi un progetto nei comuni di Trissino ed Arzignano in provincia di Vicenza che prevede di escavare circa 3 milioni di metri cubi di inerti per la realizzazione di un bacino di laminazione con funzione di invaso;
   con l'interrogazione n. 4-06792 si chiedeva Ministri di avviare misure a tutela del sito archeologico che il progetto avrebbe compromesso;
   i resti antichi consistono in almeno tre grandi gruppi di vasche rettangolari, di cui la più estesa è formata da diverse centinaia di vasche, per un tratto di almeno 1300 metri nell'alveo del fiume Guà-Agno, distribuite in almeno tre zone fra i comuni di Trissino ed Arzignano, e interessano una superficie di almeno 45 ettari; la tipologia dei manufatti, la loro posizione e livello e la loro estensione fecero supporre che essi appartenessero ad un impianto coevo e diffuso di manifattura di dimensioni industriali, e di epoca romana;
   solo dopo anni di segnalazioni, visite al sito archeologico, richieste e pressioni da parte dei residenti, nell'imminenza dei lavori di sbancamento, è stata effettuata da una cooperativa incaricata dalla Soprintendenza per i beni archeologici del Veneto, una serie di sondaggi, dei quali però non è trapelata nessuna informazione ufficiale in forma scritta, essendo stata comunicata solo a voce la presunta identificazione come impianti per la lavorazione della canapa di epoca recente, e quindi, sempre secondo la stessa comunicazione, il trasferimento di competenze alla Soprintendenza per i beni architettonici e il nulla osta alla loro distruzione; di tale comunicazione verbale, alcuni cittadini (circa 15) hanno fatto una trascrizione firmata, che quindi può essere considerata un dato rilevante;
   in tale comunicazione, veniva giustificata la presunta datazione recente dei resti nella parte del sito in comune di Trissino al periodo 1600-1700, a causa del ritrovamento di alcuni frammenti ceramici;
   un cittadino ha potuto visionare i dati di scavo, su cui la soprintendenza ha posto un vincolo di riservatezza in quanto tali dati dovrebbero essere oggetto di pubblicazione. Nel complesso dei dati visionati, su cui non ci si esprime, appare evidente invece la mancanza sia di foto che della localizzazione dei presunti ritrovamenti, contrastando la comunicazione pubblica con i dati in possesso della Soprintendenza. Nella comunicazione verbale di cui sopra, veniva indicato il ritrovamento di alcuni pali in legno infissi nelle strutture, di cui però veniva affermato che non fosse stata fatta nessuna analisi indirizzata a datarne la deposizione;
   inoltre, ben tre oggetti metallici identificabili come punte di lancia romana, ritrovati in più riprese nelle immediate adiacenze del punto di cui sotto, sono stati apparentemente giudicati «sporadici» e quindi non ancora analizzati, e giacciono inspiegabilmente inutilizzati al museo di Montecchio Maggiore;
   al fine di dare una datazione verificabile ai resti emersi nelle Rotte del Guà, alcuni privati cittadini hanno finanziato l'analisi con il metodo del carbonio 14 (14C), prelevando alcuni gusci di gasteropodi presenti nei depositi costituenti le «Vasche di Tezze» alle coordinate N 45.54338 E 11.36189, nella parte del sito in comune di Arzignano;
   l'analisi, effettuata dal professor Hong Wang dell'università dell'Illinois a Urbana-Champaign (USA) con il metodo di datazione con il 14C mediante acceleratore e spettrometro di massa (AMS), dà come risultato il numero di anni passati da quando gli organismi hanno smesso di assimilare 14C, e quindi il periodo in cui sono morti, calcolato a partire dalla data convenzionale BP (before present, 1950 d.c.), assieme ad una tolleranza che considera le incertezze strumentali e di metodo, indicata come un numero di anni prima e dopo la data più probabile;
   il risultato delle analisi effettuate indica la data di 1040 anni BP +-15 anni; la data presumibile in cui le chiocciole erano in vita è quindi compresa fra l'895 d.c e il 925 d.c., con la maggiore probabilità al 910 d.c.;
   tale risultato sembra smentire le analisi fatte dalla soprintendenza archeologica, spostando di 750 anni indietro la deposizione del materiale delle vasche, mettendo in dubbio anche il lecito ed efficace utilizzo dei fondi (27.000 euro) destinati alle ricerche archeologiche nel bilancio dell'opera idraulica, come pubblicato dalla regione Veneto; per questo motivo è stata informata anche la Corte dei Conti, ed è stata fatta comunicazione al nucleo carabinieri per la tutela del patrimonio artistico –:
   se, alla luce del risultato dell'esame condotto dall'università dell'Illinois a Urbana Champaign, non ritenga di promuovere ulteriori, complete e verificabili analisi, al fine di accertare una volta per tutte la datazione dei reperti, ponendoli quindi sotto tutela;
   se non ritenga di effettuare un controllo sul regolare utilizzo dei fondi destinati alle ricerche archeologiche (27.000 euro) che sembrerebbe abbiano prodotto scarsi risultati, contraddetti da analisi indipendenti finanziate dai cittadini.
(4-10771)

ECONOMIA E FINANZE

Interrogazione a risposta scritta:


   REALACCI. — Al Ministro dell'economia e delle finanze, al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   come si evince da numerosi articoli di stampa nazionale e locale usciti in passato, nella legge finanziaria del 2002 fu autorizzata la spesa per la realizzazione della «Città Villaggio degli Emigranti» in comune di Alvito, in provincia di Frosinone;
   una risoluzione della 5a Commissione Bilancio del Senato della Repubblica impegnava il Governo a destinare per il sopraccitato progetto un contributo statale dell'importo complessivo di euro 4.350.000,00 di cui euro 450.000,00 per l'anno 2004, euro 1.000.000,00 per l'anno 2065, euro 1.450.000,00 per l'anno 2006 ed euro 1.450.000,00 per l'anno 2007;
   il progetto promosso dall'Associazione regionale «Laziali nel mondo» prevedeva la costruzione di un sito polifunzionale (museo, biblioteca, centro studi, orto botanico, impianti sportivi e strutture ricettive) per accogliere gli emigranti laziali e le loro famiglie durante i soggiorni italiani presso il comune della Città di Alvito. Il luogo scelto per la realizzazione dell'opera è nella parte bassa della pianura a ridosso del centro storico e precisamente al di sotto della strada comunale Sotto le Mura: un'area fino al 2005 vincolato dalla legge Galasso (n. 431 del 1985) per il suo alto valore paesaggistico e panoramico (per il cono di visuale), ma svincolato appositamente con una variante al piano regolatore generale approvata dalla regione Lazio nel 2006 e voluta dall'amministrazione del Comune di Alvito dall'allora e ancora sindaco Duilio Martini;
   tra il 2005 e il 2014, come descritto dal sito www.alvitoevillaggio.org, vengono spesi circa 70.000 euro in progettazione, studi di fattibilità e realizzazione di un plastico. A cui va peraltro aggiunto il costo dell'esproprio già pagato a Giovanni Diego Ferrante, allora vice sindaco di Alvito, per i terreni richiesti per il «villaggio» e pari 82.462,75 euro;
   attualmente il progetto, già discutibile al suo esordio sia in termini di impatto ambientale e paesaggistico che di utilità, appare decisamente superato. Secondo gli ultimi decreti e determinazioni comunali sembrerebbe perfino mutato: sarebbe infatti prospettata la realizzazione del solo lotto ricettivo a fronte dei tre previsti inizialmente. Non vi saranno perciò più museo, biblioteca, centro studi, orto botanico o impianti sportivi, ma solo una palazzina con camere e ristorante. E conseguentemente vi sarà un impiego in termini di risorse umane decisamente minore;
   nelle ultime ore il territorio del Frusinate è stato colpito da una grave ondata di maltempo che, oltre ai gravissimi danni alle colture e alle cose, ha causato la perdita di una vita umana –:
   se i Ministri interrogati siano a conoscenza della questione;
   se non si intendano assumere iniziative, per quanto di competenza, volte a rivedere la destinazione dei citati fondi già allocati e non utilizzati a favore di un progetto a minor impatto ambientale e paesaggistico, diffuso nel centro storico attraverso il recupero di notevoli palazzi storici abbandonati, come promosso da associazioni locali di liberi cittadini, coniugandolo nel contempo con interventi di cura e manutenzione del territorio contro il dissesto idrogeologico, considerato che tale tipo di azioni sono già in atto nelle migliori esperienze italiane ed europee. (4-10783)

INFRASTRUTTURE E TRASPORTI

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   MOGNATO e MARTELLA. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   gli interroganti nel 2013 con interrogazione n. 5/01739 avevano richiesto quali fossero le ragioni ostative per la sottoscrizione dell'accordo di programma integrativo tra Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e regione Veneto per il completamento della variante alla strada provinciale 14 in comune di Campolongo Maggiore e realizzazione della cosiddetta circonvallazione di Bojon, per un importo stimato di 700.000,00 euro;
   nel corso degli ultimi due anni è emerso, sia sulla stampa che in seguito ad atti di sindacato ispettivo parlamentare, che la somma necessaria al completamento dell'infrastruttura trova capienza su un conto corrente della tesoreria del Ministero, che è stato soggetto a pignoramento a seguito di una richiesta risarcitoria di 1,2 miliardi di euro avanzata dall'imprenditore marchigiano Edoardo Longarini (circostanza confermata sia dal sindaco del comune di Campolongo che dal presidente di «Sistemi Territoriali spa», società strumentale della regione Veneto esecutrice dell'opera);
   il Sottosegretario di Stato per le infrastrutture e dei trasporti, Umberto Del Basso De Caro, in sede di risposta ad un atto di sindacato ispettivo ha dichiarato che le pretese risarcitorie del sopra citato imprenditore sono state impugnate in Corte di Cassazione, e che «il silenzio dell'attuale Amministrazione è espressione del rispetto per le attività della magistratura e delle forze che stanno conducendo le indagini»;
   il completamento della variante alla strada provinciale 14 e della relativa circonvallazione di Bojon con annessa pista ciclabile è un'opera lungamente attesa dalla popolazione, che sgraverebbe definitivamente il centro urbano di Bojon dal traffico di attraversamento su uno degli assi di collegamento tra la città metropolitana di Venezia e la provincia di Padova, e allo stato odierno l'attuale situazione di stallo la rende a tutti gli effetti un'incompiuta –:
   se siano intervenuti fatti o atti nuovi rispetto a quanto già comunicato dal Sottosegretario Del Basso De Caro, e se ritenga opportuno, nelle more della definizione giudiziale della controversia, assumere iniziative per avviare il finanziamento dell'opera tramite altri fondi rispetto a quelli giacenti sul conto di tesoreria oggetto di pignoramento. (5-06689)


   LENZI. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   il decreto legislativo n. 178 del 2012, in applicazione della legge n. 183 del 2010, prevede la riorganizzazione della Croce rossa italiana (CRI);
   suddetto decreto prevede all'articolo 1 la privatizzazione della Croce rossa italiana attraverso la costituzione dell'associazione Croce rossa italiana e quindi «Le funzioni esercitate dall'Associazione italiana della Croce rossa (CRI), sono trasferite alla costituenda Associazione della Croce rossa italiana»;
   tale nuova associazione «è persona giuridica di diritto privato ai sensi del Libro Primo, titolo II, capo II, del codice civile ed è iscritta di diritto nel registro nazionale, nonché nei registri regionali e provinciali delle associazioni di promozione sociale, applicandosi ad essa, per quanto non diversamente disposto dal presente decreto, la legge 7 dicembre 2000, n. 383. L'Associazione è di interesse pubblico ed è ausiliaria dei pubblici poteri nel settore umanitario; è posta sotto l'alto Patronato del Presidente della Repubblica»;
   i comitati locali e provinciali esistenti alla data del 31 dicembre 2013, «, assumono, alla data del 1o gennaio 2014, la personalità giuridica di diritto privato, sono disciplinati dalle norme del titolo II del libro primo del codice civile e sono iscritti di diritto nei registri provinciali delle associazioni di promozione sociale, applicandosi ad essi, per quanto non diversamente disposto dal presente decreto, la legge 7 dicembre 2000, n. 383»;
   la gestione della fase transitoria era demandata all'ente strumentale della Croce rossa italiana che manteneva la personalità giuridica di diritto pubblico;
   tale organico disegno che prevedeva la contemporanea trasformazione di tutti i livelli organizzativi della precedente Croce rossa italiana da ente pubblico ad associazione di diritto privato rientrante tra le associazioni di promozione sociale, è stato profondamente modificato da due interventi normativi con decreti di proroga che hanno permesso la trasformazione delle associazioni locali e provinciali e rinviato alla fine del 2015 la trasformazione delle associazioni regionali e nazionali. In questo momento quindi, in modo assolutamente anomalo per enti che gestiscono servizi, i livelli provinciali sono associazioni di diritto privato iscritte di diritto al registro delle associazioni di promozione sociale mentre, le associazioni regionali e nazionale sono rimaste enti pubblici;
   l'attuale normativa della motorizzazione permette l'immatricolazione nel registro automobilistico nazionale delle ambulanze della Croce rossa italiana con targa CRI e particolari condizioni di favore giustificate dal valore civile dell'impegno profuso;
   con determina presidenziale del 3 febbraio 2014, il presidente nazionale della Croce rossa italiana ha previsto una complessa normativa per permettere anche alle associazioni locali di utilizzare i mezzi. In particolare, le associazioni provinciali della Croce rossa italiana, potrebbero acquistare il veicolo e poi cederlo in comodato gratuito al comitato centrale Croce rossa italiana che lo immatricolerebbe e poi lo cederebbe in uso al comitato provinciale, oppure cederlo al comitato della Croce rossa italiana nazionale (ente pubblico) che lo cederebbe in comodato gratuito alla Croce rossa italiana provinciale (associazione privata) –:
   se sia a conoscenza della situazione descritta in premessa e se essa sia rispettosa della normativa vigente. (5-06702)

INTERNO

Interrogazione a risposta orale:


   GALGANO. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   già da qualche anno, episodi legati a ’ndrangheta e camorra si legano a doppio filo con il territorio umbro: l'ultima denuncia rappresenta l'ennesima conferma della presenza sempre più forte delle cosche nella regione;
   protagonista della vicenda è Michele Inserra (giornalista del Quotidiano del Sud e autore di importanti servizi per il programma «Storie vere» di Rai Uno) che, nel mese di marzo 2015, ha subito minacce e pesanti intimidazioni a Terni;
   Inserra (che, nel frattempo, ha presentato su quanto accaduto un esposto alla procura di Reggio Calabria che potrebbe aver poi trasmesso il fascicolo a quella ternana) si trovava in Umbria, dove stava effettuando una inchiesta sulla ’ndrangheta nei pressi dell'abitazione di una famiglia calabrese che vive nella provincia suddetta;
   la sua presenza non è stata assolutamente gradita: il giornalista è stato infatti invitato ad andare via «con minacce tangibili, intimidazioni, gesti abbastanza chiari e parole inequivocabili» pronunciate «da un uomo appartenente ad una nota famiglia di ’ndrangheta» di Reggio Calabria residente nella città umbra, dove è stato arrestato anche un altro famoso ’ndranghentista, Carmelo Gallico, noto come «il poeta» a capo (secondo alcune sentenze) della omonima cosca di Palmi;
   Inserra si è occupato per anni di camorra, prima di dedicarsi ai fatti di ’ndrangheta. Eppure gli episodi recenti che hanno riguardato l'Umbria (a Terni in particolare l'arresto di un dipendente pubblico in odore di camorra e lo smantellamento di un centro odontoiatrico considerato dagli inquirenti un'attività per il riciclaggio di denaro sporco della ’ndrangheta) hanno lasciato sorpreso anche lui;
   i tentacoli delle organizzazioni mafiose sempre più spesso si allungano verso la regione: il fenomeno è impressionante, tenuto conto che il Ros ha arrestato negli ultimi nove anni qualcosa come 400 persone coinvolte in traffici di droga che transitavano su Perugia;
   l'allarme è suonato quindi da un pezzo e il problema risulta conosciuto, come del resto ha spiegato nei mesi scorsi (durante la presentazione del rapporto antimafia presentato a Tuono sul Trasimeno) Salvatore Calleri, presidente della fondazione Antonino Caponnetto, mettendo in guardia le istituzioni su una situazione nel complesso «sottostimata»;
   secondo il rapporto, in Umbria sono presenti gruppi camorristici (come il clan Di Caterino, Ucciero, Schiavone, Terracciano, Gallo, Magliulo, Fabbrocino),’ndranghetisti (come il clan Pollino, Mancurso, Molè, Bellocco, Farao Marincola, Morabito), nonché mafiosi come Carini e Palermo;
   sono stati rilevati anche gruppi laziali di «mafia capitale», Magliana, Sacra Corona unita e gruppi stranieri di albanesi, colombiani, nigeriani, rumeni, nordafricani e cinesi;
   Calleri ha spiegato che sempre più spesso l'Umbria viene scelta da sodalizi mafiosi (il cui fatturato è stimabile tra i 2 e i 3 miliardi di euro) in cerca di «tranquillità», che sul territorio riescono più facilmente nelle svolgimento di attività criminose, tenuto conto, inoltre, che la crisi economica (e la conseguente perdita di posti di lavoro) che attanaglia ormai da svariati anni la regione non incoraggia certo un clima di legalità, favorendo il radicarsi dei fenomeni mafiosi –:
   se non intenda approfondire quanto denunciato in premessa, nonché adottare, per quanto di competenza, rapide ed efficaci iniziative al riguardo, al fine di evitare che in Umbria continuino a proliferare le attività portate avanti dalle organizzazioni criminali. (3-01770)

Interrogazione a risposta in Commissione:


   SGAMBATO e MANFREDI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   l'Ospedale di «San Giuseppe Moscati» di Aversa (A.S.L. Caserta), attivo dal 1986, è uno dei presidi ospedalieri più importanti della Campania;
   eroga prestazioni nelle seguenti principali unità operative e servizi: ematologia, chirurgia generale, chirurgia toraco-addomino-vascolare, day hospital oncologico, ginecologia e ostetricia, pediatria e neonatologia, otorinolaringoiatria, ortotraumatologia, medicina generale, anatomia patologica, rianimazione e terapia intensiva, day hospital di neurologia e centro sclerosi multipla, gastroenterologia ed endoscopia digestiva, cardiologia, radiologia e neuroradiologia, pronto soccorso e medicina d'urgenza, anestesia;
   attualmente dispone di 234 posti letto e sono circa 75.000 gli accessi annui; secondo un recente report si rilevano circa 93.000 accessi annui al pronto soccorso, a fronte di 500.000 persone che insistono nel territorio di riferimento;
   all'ospedale Cardarelli di Napoli, il più importante presidio ospedaliero, della Campania, il numero di accessi al pronto soccorso è di circa 110.000 all'anno;
   mettendo a confronto questi dati, si evince che l'ospedale Moscati di Aversa è il secondo ospedale della Campania per numero di accessi al pronto soccorso;
   i presidi ospedalieri più grandi e in particolare le strutture di pronto soccorso offrono un servizio per cui, vista la frequenza di situazioni critiche, si richiede la presenza costante di forze dell'ordine;
   da dicembre 2008, nell'ospedale di Aversa, non vi è più un presidio di polizia h24 interno alla struttura che garantisca sicurezza al personale sanitario e ai pazienti;
   più volte è stato denunciato il fatto che al pronto soccorso dell'ospedale Moscati di Aversa non è garantito un accettabile livello di sicurezza al personale sanitario, spesso vittima di violente aggressioni, come accaduto anche recentemente per l'ennesima volta;
   il presidio di polizia svolge vigilanza all'interno dell'ospedale e attività di polizia giudiziaria (adempie alla funzione di ufficio denunce, alla raccolta di notizie privilegiate di reato, all'acquisizione dei referti da inviare alla competente autorità giudiziaria ai sensi dell'articolo 365 del codice penale nonché delle dichiarazioni di cittadini coinvolti in incidenti stradali, sul lavoro o di vittime o testimoni di fatti violenti); inoltre si rapporta al pubblico nell'ambito di tutte le competenze della polizia di Stato;
   i presidi di polizia all'interno delle strutture ospedaliere dipendono dalle questure territoriali e sono attivati su richiesta delle amministrazioni per ragioni di sicurezza e di opportunità debitamente motivate, ove le risorse di personale e di organizzazione lo consentano;
   per garantire una maggiore sicurezza, nel presidio ospedaliero Moscati di Aversa sono state installate telecamere per la videosorveglianza che, tuttavia, non possono essere l'unico strumento per la prevenzione delle aggressioni che comunque continuano a riscontrarsi –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza dei fatti sopraesposti e con quali iniziative intenda intervenire al fine di disporre nuovamente un presidio di polizia presso il pronto soccorso dell'ospedale Moscati di Aversa, assegnando un congruo personale, in modo da tutelare il regolare svolgimento dell'attività assistenziale nell'interesse del personale sanitario e dei cittadini. (5-06697)

Interrogazioni a risposta scritta:


   CORDA, FRUSONE, TOFALO e BASILIO. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   il Corpo nazionale dei vigili del fuoco è universalmente considerato un'eccellenza dello Stato, poiché è in grado di assicurare il servizio di soccorso tecnico urgente, 24 ore su 24, in qualsiasi condizione ed in qualsiasi luogo del territorio nazionale;
   le sopravvenute difficoltà economiche e le esigenze di spending review non hanno consentito e non garantiscono al Corpo di poter svolgere il suo lavoro senza difficoltà; anzi esso ogni giorno lotta per superare le inadeguatezze organizzative e i ritardi normativi accumulati negli anni;
   le manovre di finanza pubblica attuate nelle ultime legislature hanno determinato decurtazioni degli stanziamenti ordinari di bilancio, che hanno inciso in modo particolare sulle spese per l'acquisto di beni e servizi ed hanno gravemente provocato una carenza di personale sia effettivo che volontario nonché una mancanza di risorse necessarie e mezzi e di una continua formazione professionale;
   in tanti comandi d'Italia, diversi distaccamenti sono rimasti chiusi a causa della grave carenza di organico del personale qualificato, riducendo anche le squadre delle sedi centrali, con il risultato di non poter garantire il soccorso tecnico urgente. Spesso in alcuni comandi si fa fatica anche per svolgere il servizio di vigilanza, e quando c’è una emergenza, il personale in servizio, dopo aver fatto il turno ordinario di 12 ore si ritrova a coprire un altro turno di altre 12 in straordinario, non lavorando più nemmeno in sicurezza, e senza sapere come e quando verrà retribuito;
   una condizione aggravata dai passaggi di qualifica e dalla riduzione dei richiami del personale volontario, con gravissime ripercussioni sul personale che vive una costante condizione di stress, condizione che non permette di garantire l'operatività dei distaccamenti presenti sul territorio. La conseguenza è la mancanza di una giusta e pronta risposta in termini di soccorso alla popolazione;
   la situazione attuale è quindi una pianta organica ridotta all'osso, mezzi insufficienti e altre carenze in seno al Corpo dei vigili del fuoco. Questa sta diventando una vera emergenza perché si rischia di produrre enormi conseguenze che in tema di soccorso;
   i discontinui dei vigili del fuoco sono oltre 50.000 e da decenni sono parte integrante del Corpo nazionale vigili del fuoco, utilizzati massicciamente nei servizi logistici così come nel soccorso. Ad essi vengono applicati contratti a tempo determinato, da gennaio del 2015 addirittura di soli 14 giorni, per non riconoscere l'indennità di disoccupazione. E c’è da aggiungere il drastico taglio del numero dei richiami a annuali. Tutto questo sta assestando un grave colpo all'intera organizzazione dei vigili del fuoco e quindi alla delicata macchina del soccorso. Un problema che riguarda tutti i cittadini;
   inoltre, la situazione è resa ancora più grave dal blocco delle assunzioni degli idonei dell'ormai famoso concorso «814», i cui partecipanti ancora oggi attendono di conoscere le loro sorti;
   anche in Sardegna, come in tutte le regioni italiane, la situazione è ugualmente preoccupante. Il 25 giugno 2015 è stata siglata la convenzione per la campagna antincendio 2015, ma l'esiguità delle risorse economiche destinate dalla regione Sardegna (600.000 euro), consente di approntare squadre boschive supplementari solo per 40 giorni a fronte di un impegno operativo sul campo di sei mesi. Inoltre, sussiste un'assoluta insufficienza di automezzi fuoristrada idonei alla lotta agli incendi boschivi con capacità idrica, oltre alla carenza di personale che solo nella regione sarda si attesta attualmente sulle 350 unità. Per non parlare delle attuali emergenze dovute a esondazioni e alluvioni in tutto il Bel Paese –:
   se il Ministro intenda mettere in campo ogni azione utile per la risoluzione della problematica per garantire la sicurezza dei cittadini e se intenda promuovere un necessario rafforzamento dell'organico del Corpo dei vigili del fuoco già carente da tempo risolvendo questa criticità, innanzitutto con lo sblocco delle assunzioni degli idonei di concorso e, successivamente con l'ingresso nel Corpo di ulteriore personale volontario da affiancare a quello già effettivo. (4-10763)


   PAGLIA. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   nella prima mattinata del 15 ottobre 2016 le forze dell'ordine hanno proceduto allo sgombero dell'occupazione a scopo abitativo di via Solferino 42 a Bologna;
   negli spazi dell'edificio di proprietà dell'Istituto Cavazza, inutilizzato da 10 anni, trovavano ospitalità da febbraio 2015 circa 30 persone;
   a causa dell'intervento 30 persone hanno perso la possibilità di un alloggio e fra loro 5 minori;
   una prassi già non rispettata a Bologna vuole che in casi come questo sia avvisato il comune, così da poter predisporre l'intervento dei servizi sociali, a tutela particolare dei minori –:
   se risulti quali siano le ragioni per cui non si sia proceduto ad avvisare in alcun modo sindaco e amministrazione comunale, considerando anche la recente riunione del locale comitato per l'ordine pubblico e la sicurezza. (4-10770)


   ATTAGUILE, FEDRIGA, ALLASIA, BORGHESI, BOSSI, BUSIN, CAPARINI, GIANCARLO GIORGETTI, GRIMOLDI, GUIDESI, INVERNIZZI, MOLTENI, GIANLUCA PINI, RONDINI, SALTAMARTINI e SIMONETTI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   è recente la notizia della bufera che si è abbattuta ancora una volta sulla gestione degli immigrati in Sicilia;
   questa volta, come riportato dalla stampa, a finire sotto i riflettori è la Omnia Academy i cui uffici sono stati perquisiti dalla guardia di finanza su ordine della Procura di Agrigento nell'ambito di una inchiesta per associazione a delinquere finalizzata a commettere truffe ai danni dello Stato e falsi in atti pubblici che, al momento, vede sette indagati;
   la Omnia Academy, è l'associazione di promozione sociale con sede a Favara che gestisce in provincia di Agrigento e Caltanissetta il più alto numero di cittadini extracomunitari richiedenti asilo, una delle maggiori realtà dell'intera Sicilia con un volume d'affari che dal 2013 al 2014 (in un solo anno), è passato da 1,5 milioni di euro a circa 5 milioni;
   la Omnia Academy ha 85 impiegati ed è impegnata in 14 comuni della provincia di Agrigento, i cui uffici sono stati anch'essi perquisiti dagli uomini della guardia di finanza;
   i comuni in questione, sono quelli di Naro, Camastra, Casteltermini, Favara, Canicattì, Cammarata, San Giovanni Gemini, Castrofilippo, Palma di Montechiaro, Alessandria della Rocca, Sant'Angelo Muxaro, Cattolica Eraclea, Grotte e Porto Empedocle, tutti in provincia di Agrigento;
   la procura di Agrigento ipotizza gravi irregolarità nella gestione dei cittadini extracomunitari affidati alle numerose strutture della Omnia Academy –:
   quali iniziative di competenza, anche di carattere urgente, il Ministro interrogato intenda adottare per assicurare un'amministrazione trasparente dei fondi e delle procedure relative alla gestione dei migranti in territorio siciliano. (4-10776)


   COLONNESE, LOREFICE e BRESCIA. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   l'attuale andamento del fenomeno migratorio, ha mostrato l'esigenza di un intervento che non sia solo emergenziale, ma che abbia un approccio sistematico e strutturato. Nell'ambito del sistema organizzativo di accoglienza bisognerebbe prestare particolare cura non solo alle procedure relative ai pubblici appalti per la gestione dell'accoglienza dei migranti, comprese le strutture temporanee, ma anche agli affidatari di tali servizi al fine di prevenire e contrastare eventuali fenomeni corruttivi e di infiltrazione da parte della criminalità;
   nonostante la Direttiva del Ministro dell'interno in materia di implementazione delle attività di controllo sui soggetti affidatari dei servizi di accoglienza dei cittadini extracomunitari, nella Circolare 11209 del 20 agosto 2015 trasmessa ai Prefetti, si denotano delle evidenti criticità di tutto il sistema di accoglienza «emergenziale», che non risponde in maniera efficace ed efficiente al fenomeno e dove spesso vengono ignorate le indicazioni di buone prassi per la sua gestione;
   risulta in particolare, agli interroganti che, nella struttura di Giugliano in Campania, adibita all'accoglienza dei migranti e gestita dall'Associazione «Crescere Insieme» di Pozzuoli, gli ospiti vivano in completa «autogestione»: niente assistenza medica, cibo scadente, acquisto di medicinali attingendo al pocket money che dovrebbe essere deputato alle piccole spese ulteriori rispetto ai servizi garantiti dall'accoglienza; l'associazione infatti risulterebbe vincitrice di una gara d'appalto ai sensi dell'articolo 20 del decreto legislativo n. 163 del 2006, e dovrebbe essere dunque firmataria, tra gli altri, dell'allegato A al bando di gara «capitolato d'oneri» –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza di quanto esposto in premessa;
   se e quali strategie intenda attuare per prevenire episodi similari a quello descritto in premessa, che stanno interessando tutto il territorio nazionale, denotando delle evidenti criticità di tutto il sistema di accoglienza «emergenziale», che non sta rispondendo in maniera efficace ed efficiente ad un fenomeno si complesso, ma dove spesso vengono ignorate le indicazioni di buona prassi per la sua gestione. (4-10781)


   MOLTENI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   la provincia di Como ospita oltre 1.200 sedicenti profughi richiedenti asilo, di cui 2/3 si trovano nel capoluogo;
   per la gestione di ogni sedicente profugo, lo Stato stanzia mille euro mensili, ciò che corrisponde ad un flusso pari ad 1,2 milioni di euro mensili diretto verso la Provincia comasca;
   a fronte di questi esborsi, destinati poi alle associazioni e cooperative che si occupano, materialmente dei sedicenti profughi, sarebbero necessari dei controlli, che ricadrebbero teoricamente nella sfera di competenza della Prefettura territorialmente competente;
   il prefetto di Como, Bruno Corda, ha spiegato agli organi di stampa come un primo controllo preventivo avvenga in sede di selezione delle associazioni e cooperative chiamate a gestire i migranti irregolari, poiché di ciascuna vengono verificate le esperienze accumulate ed il possesso dei requisiti richiesti dalla legge;
   verifiche ex post sulla gestione dell'accoglienza sarebbero poi condotte da un'apposita commissione tecnica insediata presso la Prefettura, che opererebbe la valutazione di congruità dei servizi erogati al capitolato dei singoli contratti;
   l'assegnazione dei contratti alle associazioni ed alle cooperative avviene tramite gara d'appalto;
   la prefettura di Como ha indetto due gare d'appalto per il 2015, ma ad esse si sono aggiunte assegnazioni supplementari al di fuori di questa procedura, in ragione della necessità di accogliere un flusso di sedicenti profughi più grande di quello previsto;
   le gare dovrebbero in teoria premiare le offerte più vantaggiose in termini di servizi erogati;
   si sono registrati peraltro casi di richiami formali ai gestori a causa di problemi concernenti le sedi in cui i sedicenti profughi sono stati accolti –:
   quale sia l'elenco delle associazioni e delle cooperative che gestiscono l'accoglienza dei sedicenti profughi ospitati nella provincia di Como;
   se sia in possesso di dati relativi ai fondi concessi a ciascuna associazione e cooperativa, nonché ai costi da queste sostenute nella conduzione delle attività di accoglienza;
   quali modalità di rendicontazione venga richiesta e quale sia il livello di tracciabilità delle spese effettivamente sostenute;
   quali siano i dati relativi ai sedicenti profughi ospitati in provincia di Como, in particolare per ciò che attiene alla loro ripartizione per nazionalità, al numero di domande di tutela internazionale presentate, al numero di domande di protezione internazionale accolte e respinte, al numero di coloro che hanno lasciato clandestinamente le strutture di assegnazione e a quello di coloro che sono stati rimpatriati verso i Paesi di origine. (4-10782)

ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ E RICERCA

Interrogazione a risposta orale:


   CAMPANA. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   il Giornale di Monza ha riportato nei giorni scorsi la notizia che un giovane sedicenne frequentante l'Istituto cattolico professionale Ecfop sarebbe costretto a seguire le lezioni in corridoio perché gay;
   i genitori dello studente hanno presentato denuncia ai carabinieri e la madre ha dichiarato alla stampa che «Quando ho chiesto come mai fosse in corridoio, mi hanno spiegato che è per via di una fotografia pubblicata su Instagram nella quale mio figlio è nudo assieme a un altro ragazzo», precisando che i ragazzi sono ritratti dalla vita in su;
   a parere dell'interrogante, da quanto emerge dal racconto giornalistico della vicenda, non è attribuibile allo studente alcun comportamento degno di censura all'interno della scuola e la punizione si riferisce solo ad una interpretazione che appare maliziosa di una fotografia –:
   se il Ministro sia a conoscenza di quanto esposto in premessa;
   se sia prevista una forma di controllo sugli istituti privati, di matrice confessionale, per evitare forme di discriminazione basate sull'orientamento sessuale, come quella raccontata dai media locali o se siano allo studio iniziative in tal senso.
(3-01771)

Interrogazione a risposta in Commissione:


   VALIANTE. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   la legge n. 107 del 2015 (La Buona Scuola) ha introdotto e attivato un processo di innovazioni e di sperimentazioni che vedono coinvolte le scuole in un importante e imponente lavoro progettuale e di pianificazione annuale e triennale;
   le novità introdotte, come l'organico del potenziamento e il piano triennale dell'offerta formativa, hanno innescato processi e scadenze legati ad una tempistica incalzante che richiede rispetto delle indicazioni normative e responsabilità nella trasmissione dati, da cui dipendono destinazione di risorse e nuove assunzioni di personale;
   la concomitanza di numerose e importanti scadenze ha indotto il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca stesso a rivedere alcune scadenze e correre ai ripari per dare alle scuole maggiore serenità nell'attività di pianificazione (ad esempio il rinvio della presentazione del piano triennale offerta formativa dal 31 ottobre 2015 – scadenza originaria – al 16 gennaio 2016, ad esempio il rinvio dei bandi per l'alternanza scuola-lavoro dal 14 ottobre 2015 – scadenza originaria – al 21 ottobre 2015, ad esempio il bando per la realizzazione di laboratori territoriali rinviato dal 7 ottobre 2015 – scadenza originaria – al 16 ottobre 2015, la pubblicazione del rapporto di autovalutazione – RAV – dal 30 settembre 2015 al 10 ottobre 2015);
   viene rilevata e segnalata da molte scuole una persistente attività del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca nel pubblicare bandi di notevole importanza per la qualità dell'offerta formativa delle scuole e che i medesimi bandi, pur richiedendo una complessa attività di progettazione, di coinvolgimento territoriale e di passaggi formali negli organi collegiali, impongono scadenze che appaiono improbabili, come ad esempio il bando per le attività teatrali nelle scuole, pubblicato il 12 ottobre 2015, con scadenza 19 ottobre (bando per candidature e importi anche di centinaia di migliaia di euro per ogni scuola o rete di scuole) o ancora il bando importantissimo per l'educazione motoria nelle scuole pubblicato il 12 ottobre 2015 con scadenza 19 ottobre;
   i medesimi bandi riportano la data di emissione del dipartimento competente, ad esempio il 30 settembre 2015) ma vengono poi pubblicati circa due settimane dopo, accorciando di fatto i giorni utili per la presentazione delle candidature da parte delle scuole;
   la esiguità dei tempi utili alla candidatura genera insofferenza ed equivoci sulla capacità del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca e dell'apparato amministrativo di garantire l'uguaglianza delle scuole di fronte alle opportunità dei bandi pubblicati, causando negli ambienti scolastici la percezione che scadenze così repentine scoraggino invece che promuovere la partecipazione delle scuole –:
   quali iniziative di competenza intenda assumere, affinché i bandi ministeriali che richiedano attività progettuale, responsabilità collegiale e coinvolgimento di attori istituzionali non presentino scadenze inferiori ai 20/30 giorni, prorogando quindi le scadenze dei bandi citati.
(5-06686)

LAVORO E POLITICHE SOCIALI

Interrogazione a risposta orale:


   PATRIZIA MAESTRI e LENZI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   il comma 108 dell'articolo 1 della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013), ha previsto che gli enti pubblici di previdenza e assistenza sociale adottino interventi di razionalizzazione per la riduzione delle proprie spese, in modo da conseguire, a partire dal 2013, risparmi aggiuntivi non inferiori a 300 milioni di euro annui;
   in virtù di tale norma di legge, l'INPS, a decorrere dal 2 maggio 2013, ha disposto prima la riduzione e poi la sospensione delle visite mediche di controllo domiciliare disposte d'ufficio dall'ente, lasciando operative solo quelle richieste dai datori di lavoro. Tale decisione ha comportato la sospensione dei rapporto di collaborazione di natura libero-professionale (articolo 6 del decreto 18 aprile 1996) per circa 1.400 medici assegnati alle attività di controllo d'ufficio delle assenze per malattia;
   ogni anno l'INPS spende oltre 2 miliardi di euro per l'indennità di malattia e circa 50 milioni di euro per le visite mediche di controllo d'ufficio, in gran parte recuperati attraverso le sanzioni per le assenze a visita, le riduzioni prognostiche e le irreperibilità al domicilio dichiarato;
   dal 2013 l'INPS dispone di un budget di soli 12 milioni di euro per le visite di controllo che può comportare solamente una media di 5 visite d'ufficio al mese per medico rispetto alle 21 previste in precedenza;
   i recenti fatti di cronaca hanno riportato all'attenzione pubblica la proposta, condivisa anche nel documento conclusivo dell'indagine conoscitiva sull'organizzazione dell'attività dei medici che svolgono gli accertamenti sanitari per verificare lo stato di salute del dipendente assente per malattia, approvato dalla XII Commissione affari sociali della Camera dei deputati, di istituire presso l'INPS un polo unico per l'effettuazione delle visite di accertamento medico legale che assommasse a se le competenze oggi ripartite tra INPS e aziende sanitarie locali, in particolare per quanto attiene le visite di controllo ai dipendenti della pubblica amministrazione;
   tale ipotesi consentirebbe un significativo risparmio di risorse per gli istituti preposti e un sicuro efficientamento dell'attività di controllo. Essa consentirebbe inoltre procedere alla riorganizzazione dell'attività di medicina fiscale, andando incontro all'esigenza di dare certezze ai suddetti rapporti di lavoro, anche per l'indubbio interesse pubblico di garantire che coloro che svolgono funzioni di controllo possano farlo senza timori –:
   quali siano gli orientamenti del Ministro interrogato circa la costituzione di un polo unico per l'effettuazione delle visite di accertamento medico legale presso l'INPS. (3-01773)

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   SIMONETTI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   un articolo di Libero del 13 ottobre 2015, a firma di Francesco Borgonovo, evidenzia il paradosso per cui una pensionata italiana trasferitasi all'estero rischia il taglio del trattamento previdenziale, mentre «la straniera che si trasferisce in Italia viene gentilmente omaggiata di un assegno»;
   l'articolo, ovviamente, fa riferimento al piano dell'Inps, annunciato nei giorni scorsi dal presidente Boeri, di ridurre la pensione agli anziani che scelgono di trasferirsi all'estero per vivere più dignitosamente e serenamente, stante l'esiguità dell'importo pensionistico;
   nulla, invece, propone il presidente dell'Inps per ridurre la spesa derivante dalla concessione dell'assegno sociale ai familiari di lavoratori extracomunitari ricongiunti nel nostro Paese;
   in proposito, si ricorda che fino al 2008 bastava che un extracomunitario soggiornante legalmente in Italia avanzasse domanda di ricongiungimento familiare perché l'anziano parente, una volta entrato nel territorio, potesse beneficiare del trattamento sociale;
   con un emendamento della Lega Nord al decreto-legge n. 112 del 2008 (ora comma 10 dell'articolo 20 – legge n. 133 del 2008) – si ricorda – è stato posto rimedio a questa stortura, prevedendo che a decorrere dal 1o gennaio 2009 ai fini dell'ottenimento dell'assegno sociale è necessario il requisito, del soggiorno legale, in via continuativa, per almeno 10 anni nel territorio nazionale, in aggiunta a quello della anzianità anagrafica;
   è bene altresì rammentare che l'assegno sociale (importo 2015 pari a 448,51 euro per 13 mensilità) è una prestazione economica erogata, a domanda, in favore di coloro che si trovano in condizioni economiche particolarmente disagiate e, come tale, riveste carattere assistenziale, in quanto prescinde dall'effettivo versamento di contributi previdenziali;
   nell'anno 2014 gli stranieri over 65enni che hanno ricevuto l'assegno sociale sono stati 55.930, per una spesa totale di 327 milioni e 190 mila euro, cifra allarmante di per sé ma irrisoria se raffrontata con quella che sarà nel 2019, quando saranno decorsi i dieci anni di permanenza minima in Italia;
   risulta pertanto all'interrogante quanto mai irragionevole che l'Inps proponga per contenere la spesa pensionistica, interventi sugli importi derivanti da vera contribuzione prima ancora che agire sui requisiti per la concessione dell'assegno sociale a stranieri che non hanno affatto contribuito al benessere del nostro Paese –:
   se il Governo abbia una stima della spesa previdenziale derivante dalla concessione dell'assegno sociale a cittadini extracomunitari nel 2019, starting year di un nuovo ed ingente flusso di domande della prestazione;
   se il Governo, dinanzi a cifre preoccupanti, non ritenga di dover assumere iniziative per intervenire con tempestività sui requisiti per l'ottenimento dell'assegno da parte di cittadini stranieri, come prevedere una permanenza minima superiore a dieci anni o prevedere per essi un limite reddituale più alto;
   se ed in quali termini trovi concretezza la proposta del presidente Boeri di «colpire» i pensionati italiani che, pur di trovare migliori condizioni di vita, hanno scelto loro malgrado di trasferirsi all'estero lontano dai propri familiari. (5-06692)


   TRIPIEDI, CHIMIENTI, COMINARDI, CIPRINI, PESCO, ALBERTI, LOMBARDI e DALL'OSSO. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   in data 22 giugno 2015, la società «L'Isola Verde Erboristeria», ha avviato una procedura di licenziamento collettivo per riduzione di attività per 121 dei 400 dipendenti dell'azienda, 21 dei quali dislocati presso la sede legale e operativa di Lugnano di Vicopisano (PI) e i restanti 100 presso i 33 punti vendita dislocati sul territorio nazionale, che si avvieranno alla chiusura;
   in data 15 luglio 2015, l'azienda ha comunicato al Ministero del lavoro la conclusione negativa della fase sindacale chiedendo, nel contempo, una convocazione per portare a termine la fase amministrativa;
   in data 5 agosto 2015, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, si sono incontrati i rappresentanti dello stesso dicastero, della società, dei lavoratori e dei sindacati FILCAMS CGIL e FISASCAT CISL, per discutere della situazione occupazionale dell'azienda indicata. In detto incontro, la società ha reso noto che i motivi che hanno portato all'attuale crisi siano riconducibili principalmente all'adozione del contratto di solidarietà di tipo espansivo deciso dall'azienda, che ha portato all'assunzione di 270 lavoratori e per il quale, a luglio 2014, l'I.N.P.S. ha comunicato di non voler concedere il contributo agevolativo connesso alla stipula del contratto stesso. Al termine della riunione in oggetto, le parti hanno concordato di richiedere il trattamento di Cassa integrazione guadagni straordinaria (CIGS) per crisi aziendale per cessazione parziale di attività con durata di 12 mesi a partire dal 15 settembre 2015, tutti posti a zero ore e senza rotazione stante la cessazione dell'attività nelle sedi, per 98 dipendenti dislocati in 32 punti vendita che andranno a chiudere, e di fare ricorso ad un contratto di solidarietà difensivo;
   l'azienda, come piano di gestione degli esuberi, ha inoltre sottoscritto l'impegno di attivare percorsi di formazione professionale, finanziata dagli enti pubblici territoriali per i lavoratori in CIGS, finalizzati al riassorbimento parziale degli stessi; di avviare trattative con altri imprenditori al fine di cedere o affittare i punti vendita con relativo assorbimento del personale presente negli stessi; di attivarsi nel tentativo di ricollocare il maggior numero di dipendenti presso altre aziende; nel caso vi fosse una ripresa del mercato, di riassorbire figure professionali disponibili a spostamenti sul territorio, nei limiti stabiliti dalla legge;
   per i licenziamenti collettivi, le parti hanno deciso che la società potrà procedere con il licenziamento dei lavoratori in Cassa integrazione guadagni straordinaria e Contratto di solidarietà a partire dal 5 agosto 2015 e per tutto il periodo di fruizione della Cassa integrazione guadagni straordinaria;
   per i Contratti di solidarietà, le parti hanno deciso che, per la sola sede di Lugnano di Vicopisano, venga stipulato un Contratto di solidarietà di tipo difensivo per 12 mesi, a partire dal 15 settembre 2015;
   una rappresentanza dei lavoratori, ascoltata dagli interroganti, ha denunciato il fatto che i tempi di erogazione della CIGS comunicati dall'I.N.P.S., hanno decorrenza dai 6 ai 12 mesi, tempi che per gli stessi lavoratori risultano essere inaccettabili, anche in virtù del fatto che tale ammortizzatore sociale spetta loro di diritto perché contemplato nella voce dei contributi da loro versati. Il ritardo previsto dell'erogazione dell'ammortizzatore sociale in questione, diventa ancor più drammatico se si considera il fatto che molti dei lavoratori della società hanno stipendi inferiori ai mille euro mensili e che a quanto risulta agli interroganti, in data 25 ottobre 2015, verrà elargito, ai dipendenti in oggetto, l'ultimo stipendio relativo al lavorato di settembre 2015. Va ricordato inoltre che, con la procedura di Cassa integrazione guadagni straordinaria, tale esiguo stipendio viene ulteriormente ridotto all'80 per cento. Tale riduzione di reddito complessivo mensile, rende altresì molto difficoltoso anche il solo cercare un nuovo impiego per i lavoratori della società in oggetto;
   il ritardo dell'erogazione dell'ammortizzatore sociale ai lavoratori, sta inducendo alcuni dipendenti, a quanto consta agli interroganti, alla riflessione di scegliere volontariamente l'opzione della mobilità come soluzione di beneficio economico immediato, al fine di evitare le eccessive ristrettezze economiche date dalla modalità della Cassa integrazione guadagni straordinaria attualmente proposta. È doveroso però ricordare che questa scelta di ripiego, di fatto, annullerebbe la protezione temporale utile a rafforzare la posizione di ricollocamento del lavoratore, in un contesto di crisi economica particolarmente aggressiva quale è quella attuale, proiettandolo oltremodo in un futuro più che incerto;
   nell'ottica legata agli stipendi contenuti, è necessario anche ricordare che a quanto risulta agli interroganti molti dei dipendenti hanno per anni effettuato spostamenti superiori ai 50 chilometri per recarsi dal proprio domicilio al luogo di lavoro, senza alcun rimborso spese;
   molti dei dipendenti in cassa integrazione risultano agli interroganti essere monoreddito;
   molti dei dipendenti a cui verrà erogata la Cassa integrazione guadagni straordinaria per un anno, con scadenza al 15 settembre 2016, termine oltre il quale entreranno nel procedimento di mobilità, a quanto consta agli interroganti hanno età superiore ai 35 anni, e, quindi, con oggettive difficoltà di ricollocazione nel mondo del lavoro;
   in prospettiva futura, i lavoratori hanno denunciato la mancanza di un serio piano di riassorbimento nel mondo del lavoro. Ciò che chiedono a quanto risulta agli interroganti è un concreto progetto di supporto alla riqualificazione professionale, dove un programma strutturato sia a disposizione per migliorare le capacità e gli skills più richiesti dalle aziende che assumono, come la conoscenza della lingua inglese commerciale, l'uso di applicazioni informatiche, consulenze nel campo del marketing e studi commerciali approfonditi. In sintesi, ciò che è dai lavoratori richiesto, sono i miglioramenti di tutti quei supporti utili ad una candidatura per un futuro lavoro, non previsti dall'azienda di cui attualmente fanno parte –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza di quanto esposto in premessa e quali iniziative abbia previsto, in prospettiva futura, per facilitare la ricerca di nuovi posti di lavoro ai dipendenti della società «L'Isola Verde Erboristeria», in considerazione di tutte le oggettive problematiche dei lavoratori, delle richieste degli stessi e di quelle proposte dall'azienda;
   se il Ministro interrogato abbia previsto iniziative, in concertazione con l'I.N.P.S., per far sì che ai lavoratori interessati sia erogata la spettante Cassa integrazione guadagni straordinaria, con effetto immediatamente successivo all'erogazione dell'ultimo stipendio previsto.
(5-06694)


   ZOLEZZI, TRIPIEDI, CIPRINI, COMINARDI, CHIMIENTI, LOMBARDI e DALL'OSSO. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   in data 13 ottobre 2015, sul quotidiano online «gazzettadimantova.it», veniva pubblicata la notizia riguardante l'aumento record dei licenziamenti nella zona del Mantovano;
   i licenziamenti dei primi nove mesi del 2015 nelle aziende con più di 15 addetti di detta zona, risultano essere 1315, 31 in più dei 1284 dell'intero 2014, anno considerato, per la provincia, il peggiore dall'inizio della crisi;
   i primi 9 mesi del 2015, hanno inoltre evidenziato una quantità sostanzialmente invariata di lavoratori iscritti ai centri per l'impiego, fattore che conferma le difficoltà generali. Nel 2014 il dato era di 8735 iscritti e, dopo 9 mesi del 2015, di 8468 iscritti;
   Massimo Marchini, segretario generale della Cgil di Mantova, ha definito terrificante l'attuale situazione impiegatizia. Ha inoltre aggiunto che il record negativo non è inaspettato a causa delle molte casse integrazioni arrivate a conclusione, delle crisi di alcune aziende importanti del comparto tessile, della difficile situazione del Macello Cooperativo di Bagnolo e di parte del settore metalmeccanico;
   Marchini definisce la situazione occupazionale mantovana talmente caduta in basso da essere letteralmente sprofondata, aggiungendo che la ripresa a livello nazionale già fragile che lo stesso Marchini ritiene enfatizzata, nella zona di sua competenza risulta essere quasi impercettibile. Il risultato è un quadro incerto e destinato a riprendere con estrema lentezza;
   sempre per Marchini, l'aumento di 4.000 avviamenti al lavoro nei primi mesi del 2015, non significa ripresa stabile e definitiva, visto che i lavoratori coinvolti risultano essere assunti per lo più con contratti precari, senza tutele, che toccano trasversalmente i comparti e i lavoratori di ogni età. Vi è un aumento di contratti a tutele crescenti, che però non possono usufruire dell'articolo 18, ma anche dell'utilizzo dei voucher, dei contratti a somministrazione e di quelli giornalieri. Tutte formule precarie, prive di stabilità e sicurezza;
   ad oggi, nel Mantovano, le sole aziende che riescono ad avere fatturati ancora accettabili, risultano essere quelle che puntano le loro energie sull’export. Le speranze di una ripresa per il sindacato, sono legate agli sviluppi dell'azienda Burgo e della reindustrializzazione dell'azienda Ies;
   a giudizio degli interroganti, i dati negativi sull'occupazione nella zona considerata, mettono in risalto la debolezza strutturale dell'apparato industriale creata da atteggiamenti sin troppo elusivi nel cercare di risolvere il problema da parte del Governo, a cui va aggiunta la mancanza di programmazione di un reale piano industriale volto alla creazione e al mantenimento dei posti di lavoro;

   sempre a giudizio degli interroganti, tutti i dati sopraindicati disegnano un panorama catastrofico del lavoro nella zona in questione, in netta controtendenza con l'ottimismo sulla ripresa occupazionale ripetuto in più occasioni dal Governo e dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali –:
   se il Ministro interrogato, a seguito dei dati che confermano una forte diminuzione dei posti di lavoro nella zona del Mantovano, non ritenga di dover assumere iniziative differenti e più efficaci rispetto a quelle sino ad ora adottate, anche in relazione all'esistenza di un'area sito di interesse nazionale (SIN) per la necessità di bonifiche, visto che, come dimostrato dai fatti, tali politiche non hanno portato beneficio alcuno all'occupazione;
   se intenda attivare un tavolo di lavoro con le parti sociali e le istituzioni competenti per materia, al fine di poter scambiare informazioni per contrastare in maniera seria la grave crisi occupazionale della zona anche in relazione al ritardo nella consegna dei business plan dei progetti di reindustrializzazione del polo chimico (con particolare riferimento alla ex raffineria IES-MOL). (5-06695)


   LENZI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   il Ministero del lavoro e delle politiche sociali è competente in materia di ordinamento del terzo settore e in particolare a norma dell'articolo 7 della legge n. 383 del 2002, disciplina delle associazioni di promozione sociale è responsabile della tenuta del registro nazionale;
   il decreto legislativo n. 178 del 2012, in applicazione della legge n. 183 del 2010, prevede la riorganizzazione della Croce rossa italiana;
   tale decreto prevede all'articolo 1 la privatizzazione della Croce rossa italiana attraverso la costituzione dell'associazione Croce rossa italiana e quindi «Le funzioni esercitate dall'Associazione italiana della Croce rossa (CRI), sono trasferite alla costituenda Associazione della Croce rossa italiana»;
   detta nuova associazione è persona giuridica di diritto privato ai sensi del libro primo, titolo II, capo II, del codice civile ed è iscritta di diritto nel registro nazionale, nonché nei registri regionali e provinciali delle associazioni di promozione sociale, applicandosi ad essa, per quanto non diversamente disposto dal presente decreto, la legge 7 dicembre 2000, n. 383. L'Associazione è di interesse pubblico ed è ausiliaria dei pubblici poteri nel settore umanitario, è posta sotto l'alto Patronato del Presidente della Repubblica, non è ancora costituita e, dopo vari rinvii, dovrebbe nascere nel 2016;
   i comitati locali e provinciali esistenti alla data del 31 dicembre 2013, «, assumono, alla data del 1o gennaio 2014, la personalità giuridica di diritto privato, sono disciplinati dalle norme del titolo II del libro primo del codice civile e sono iscritti di diritto nei registri provinciali delle associazioni di promozione sociale, applicandosi ad essi, per quanto non diversamente disposto dal presente decreto, la legge 7 dicembre 2000, n. 383»;
   la gestione della fase transitoria era demandata all'ente strumentale della Croce rossa italiana che manteneva la personalità giuridica di diritto pubblico, e che doveva essere costituito nel 2016 in contemporanea alla nascita della associazione;
   tale organico disegno, che prevedeva la contemporanea trasformazione di tutti i livelli organizzativi della precedente Croce rossa italiana, da ente pubblico ad associazione di diritto privato rientrante tra le associazioni di promozione sociale, è stato profondamente modificato da due interventi normativi con decreti di proroga che hanno permesso la trasformazione delle associazioni locali e provinciali e rinviato alla fine del 2015 la trasformazione delle associazioni regionali e nazionali. In questo momento quindi, in modo assolutamente anomalo per enti che gestiscono servizi, i livelli provinciali sono associazioni di diritto privato iscritte di diritto al registro delle associazioni di promozione sociale mentre, le associazioni regionali e nazionale sono rimaste enti pubblici;
   tale complessa situazione ha visto, inoltre, il presidente nazionale della Croce rossa italiana, avvocato Rocca, procedere al commissariamento di sedi provinciali a soli due anni dalle elezioni svolte. Di fatto un presidente di un ente pubblico, quale la CRI, sta commissariando associazioni di diritto privato –:
   se il Governo sia a conoscenza di questa situazione, se ritenga, per quanto di competenza, corretta la coesistenza sotto un'unica denominazione di due regimi giuridici così diversi, e se sia conforma alle norme vigenti l'azione di commissariamento, tenuto conto che la democrazia partecipativa è un elemento costitutivo delle associazioni di promozione sociale. (5-06699)


   SIMONETTI e FEDRIGA. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   già con precedente atto di sindacato ispettivo (n. 5-05116) veniva richiamata l'attenzione del Governo sull'appello su internet lanciato dai lavoratori stagionali in merito al danno e alla beffa che subiranno con l'introduzione della nuova assicurazione sociale per l'impiego (Naspi);
   il nuovo sussidio di disoccupazione introdotto con il decreto legislativo n. 22 del 4 marzo 2015, attuativo della riforma cosiddetta jobs act, infatti, aveva penalizzato fortemente i lavoratori del settore turistico, occupati per sei mesi all'anno e percettori dell'assegno di disoccupazione per i restanti sei mesi;
   a tale stortura il Governo ha posto rimedio, in parte, con il successivo decreto legislativo 14 settembre 2015, n.148;
   la soluzione «parziale» è dovuta al fatto che il decreto legislativo n. 148 ha introdotto, limitatamente agli episodi di disoccupazione intercorsi tra il 1o maggio 2015 e il 31 dicembre 2015, e solamente per i lavoratori stagionali del settore turismo, un correttivo al sistema di computo della prestazione di sostegno al reddito, capace di garantire fino a 6 mesi di copertura;
   il problema resta pertanto per gli anni successivi, giacché dal 2016 i lavoratori stagionali del settore del turismo e del comparto termale rimarrebbero soggetti al dimezzamento della durata e del valore della Naspi –:
   con quali strumenti ed entro quali tempi il Governo intenda risolvere le criticità esposte in premessa, assumendo iniziative per un correttivo strutturale alle disposizioni attuative della riforma cosiddetta jobs act. (5-06704)

Interrogazione a risposta scritta:


   GAGNARLI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   la società Cantarelli spa, diretta dall'amministratore unico Cantarelli Alessandro, è uno storico marchio di abbigliamento maschile con stabilimenti ad Arezzo Rigutino e Teronola-Cortona. La società occupa ad oggi circa 271 lavoratori, a cui si aggiungono 650 operatori dell'indotto ripartiti tra Toscana ed Umbria;
   la storica azienda di Arezzo è in crisi da un lungo periodo, ed ha già 150 dipendenti in cassa integrazione. La situazione dei lavoratori è già stata segnalata al Ministro Poletti durante una sua visita a Cortona il 10 luglio 2015, ma la richiesta di incontro con i lavoratori, purtroppo, non ha mai avuto seguito;
   secondo il quotidiano «La Nazione», la crisi della Cantarelli non è tanto di tipo produttivo quanto di tipo finanziario. L'azienda, di fatto, ha sia ordini sia mercato e per cercare di non piegare del tutto la testa ha deciso di ricorrere al concordato preventivo;
   la richiesta del concordato rientrerebbe in un più ampio piano di rilancio che comprende anche la ricerca di un eventuale partner interessato ad acquisire quote dell'impresa. Alessandro Cantarelli dalle colonne del «Corriere di Arezzo» ha assicurato che la scelta del concordato ha l'obiettivo di mettere al riparo l'azienda da possibili azioni forti di creditori, non disperderne il valore, tutelare le maestranze ed i propri clienti;
   al momento, secondo indiscrezioni, ci sarebbero 4 trattative tutte avviate. L'ipotesi del concordato appare ormai lontana, nonostante sia la più auspicata da tutti. Il giudice della sezione fallimentare del tribunale di Arezzo, infatti, ha deciso di bocciare la proposta di concordato preventivo in continuità che prevedeva la costituzione di una «newco» che in un ciclo vitale di 3 anni avrebbe avuto modo di ridare una spinta all'azienda e renderla nuovamente appetibile agli occhi del mercato, sostanzialmente per mancata copertura finanziaria;
   l'alternativa prevede l'affitto di un ramo d'azienda, quello sano, per garantire da subito la continuità. Questa soluzione che non vedrebbe un esborso immediato di fondi, ma darebbe una guida strutturata all'azienda, prevede sempre un commissariamento ministeriale, il quale tuttavia piloterebbe l'azienda a stretto contatto con persone esperte del settore;
   il 22 ottobre 2015 è fissata l'udienza pre-fallimentare: per l'ipotesi del concordato sarà necessario trovare la liquidità, altrimenti, si prospetta l'opzione del fallimento che rimane quella meno auspicabile, o quella del commissariamento. Se venisse dichiarato lo stato di insolvenza, verrebbero nominati uno o più commissari che valuterebbero, entro 30 giorni, se esistono «concrete prospettive di recupero dell'equilibrio economico». In tal caso, con la redazione di un piano di ristrutturazione e rilancio, la procedura potrebbe andare avanti, altrimenti verrebbe dichiarato il fallimento;
   il personale della Cantarelli è rappresentato prevalentemente da donne, soprattutto collocate nella fascia di età dai 45 ai 55 anni, troppo giovani per la pensione e con difficoltà di riallocazione in altri settori, ma con elevate professionalità specifiche –:
   se il Governo non ritenga opportuno attivare un tavolo tecnico tra tutti i soggetti interessati, per tutelare i circa 271 lavoratori, a cui si aggiungono 650 operatori dell'indotto ripartiti tra Toscana ed Umbria, molti dei quali potrebbero essere unici percettori di reddito familiare.
(4-10775)

POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI

Interpellanze:


   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, per sapere – premesso che:
   alle prime ore di sabato 10 ottobre 2015, si sono abbattute sul territorio del comune di Licata e, parzialmente, del comune di Palma di Montechiaro in provincia di Agrigento delle violente trombe d'aria, accompagnate da forti temporali che hanno provocato ingenti danni agli impianti, alle produzioni, alle strutture ed ai mezzi aziendali di numerosi imprenditori agricoli, che conducono le loro aziende in forma singola o associata;
   le zone interessate dall'evento calamitoso insistono su un territorio caratterizzato da agricoltura intensiva per la produzione di primaticci;
   tali produzioni vengono realizzate in ambiente protetto (serre o tunnel) cric la violenza degli elementi atmosferici ha irrimediabilmente compromesso, provocando al loro passaggio devastazione e danni la cui quantificazione è attualmente in fase di accertamento da parte delle strutture territoriali della regione siciliana;
   le attività agricole che insistono nella zona colpita costituiscono parte fondamentale del reddito complessivo di quelle comunità, trattandosi di produzioni pregiate di una agricoltura evoluta e d'avanguardia;
   tuttavia, le aziende agricole interessate sono di dimensioni piccole e piccolissime, spesso a conduzione familiare, che hanno una ridotta capacità finanziaria e patrimoniale e quindi non sono in grado di sopportare i danni subiti che, in alcuni casi, sono davvero ingenti;
   molte delle aziende che producono primaticci in serra, sono state colpite dall'evento calamitoso, mentre si trovavano nella fase di piena produzione, spesso a pochi giorni dal raccolto, con la conseguenza di vedere distrutta la produzione, vanificati gli investimenti fin qui effettuati e compromessa l'intera annata agraria;
   la regione siciliana ha già provveduto a dichiarare lo stato di calamità per tali zone ed altre della Sicilia anch'esse interessate da violenti fenomeni atmosferici che hanno provocato danni e perdite nelle popolazioni colpite –:
   se non ritenga di dovere assumere iniziative al fine di accelerare le procedure di competenza, per consentire agli imprenditori agricoli di Licata e Palma di Montechiaro in provincia di Agrigento, fortemente colpiti dall'ondata di maltempo che nei giorni scorsi ha interessato quei territori, di poter avere il ristoro del danno subito, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, e in particolare del decreto legislativo n. 102 del 2004, nel più breve tempo possibile;
   se non ritenga utile effettuare un sopralluogo nelle zone colpite dagli eventi calamitosi, al fine di accertare la gravità dei danni subiti dal comparto agricolo;
   se non ritenga di adottare iniziative di natura straordinaria affinché le aziende agricole che hanno subito danni e perdite non siano costrette alla chiusura, con i gravi effetti che ciò avrebbe sull'intera economia del territorio, e non vedano compromessa l'intera annata agraria.
(2-01126) «Capodicasa, Iacono, Lauricella, Moscatt, Causi».


   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, per sapere – premesso che:
   il fenomeno della rapida espansione delle popolazioni di cinghiale ha assunto in Europa particolare rilevanza. In Italia, negli ultimi trent'anni, l'areale di distribuzione della specie è aumentato sensibilmente permettendo al cinghiale di tornare ad occupare aree dalle quali era scomparso negli ultimi secoli;
   a partire dal dopoguerra sono stati immessi nel nostro Paese esemplari di cinghiale di taglia maggiore di origine centro-europea (esempio ungheresi, polacchi e cecoslovacchi) e si sono diffusi cinghiali allevati in promiscuità con la forma domestica, con lo scopo di ripopolare il territorio italiano. Ne consegue che il cinghiale oggi diffuso in Italia è il risultato di esemplari di origine alloctona e loro ibridazione con esemplari autoctoni e con maiali bradi e rinselvatichiti;
   le cause dell'espansione sono quindi da ricercare in primo luogo nelle numerose immissioni a fine venatorio e ripopolamenti operati in aree demaniali, al solo scopo di incrementare la fauna locale con ceppi alloctoni, molto prolifici;
   ruolo critico è svolto anche dall'assenza di una seria gestione della fauna nel nostro Paese che, unitamente alla mancanza di una strategia di interventi, ha reso la situazione preoccupante con una maggiore incidenza sul territorio, rispetto ad altre nazioni europee. In particolare, i fenomeni di danneggiamento a carico delle colture agricole e delle biocenosi naturali causate dalle popolazioni di cinghiale stanno diventando sempre più frequenti in gran parte d'Italia;
   tale situazione è ancor più aggravata, allo stato attuale, dalla mancanza di dati omogenei e completi sullo stato della popolazione del cinghiale in Italia e da una gestione faunistico venatoria fuori controllo. Non esiste infatti una banca dati unica sui capi abbattuti complessivamente, non esiste alcun blocco reale di nuove immissioni e non vi sono informazioni sull'operato degli ambiti territoriali di caccia in materia;
   il problema della presenza eccessiva di cinghiali è principalmente relativo ai danni arrecati direttamente ai sistemi agro-silvo-pastorali e alle altre specie animali e vegetali. Infatti, per la sua versatilità e per il suo caratteristico modo di cercare il cibo, il cinghiale spesso si comporta come una ruspa o una motozappa, rivolta il terreno, elimina bulbose e le piante del sottobosco, causano danni sia alla vegetazione spontanea forestale, sia alle colture agrarie;
   la gestione delle popolazioni di cinghiale ha anche una relazione diretta con la conservazione della biodiversità e delle specie minacciate. La tutela delle specie selvatiche in pericolo d'estinzione prevede infatti anche la prevenzione contro le malattie infettive, che possono compromettere la sopravvivenza di piccole popolazioni, come quella dell'orso nell'Appennino centrale. La maggior parte delle malattie infettive è interspecifica ed una specie può essere serbatoio di patogeni per altre specie. Quindi dove si verifica la convivenza del cinghiale con specie minacciate va sicuramente attuato un serio monitoraggio sanitario delle malattie pericolose (esempio la Malattia di Aujesky, patologia tipica dei suidi, risulta molto pericolosa per tutti i carnivori), vanno gestite le eventuali positività, va intensificato il monitoraggio-sanitario e vanno identificate soluzioni gestionali che possano permettere la conservazione delle specie a rischio;
   occorre ricordare infine il rischio legato agli incidenti stradali per collisione con cinghiali e l'eventualità di aggressione nei confronti dell'uomo che, sebbene ad oggi sia rappresentata da casi isolati, può divenire in prospettiva un serio problema, come ricordano le recenti cronache;
   la Commissione agricoltura con la risoluzione conclusiva n. 8-00085 approvata in data 29 ottobre 2014, ha impegnato il Governo ad intraprendere urgenti misure atte a contenere i danni dovuti alla proliferazione dei suidi, attenendosi ai pareri scientifici dell'ISPRA e degli altri Enti di ricerca competenti, privilegiando sempre le forme non cruente, dopo aver monitorato a livello nazionale l'attuazione delle misure previste dalla legge in materia di risarcimento dei danni da fauna selvatica agli agricoltori, verificata la dotazione del fondo presso il Ministero dell'economia e delle finanze, se siano stati istituiti i fondi regionali per il risarcimento dei danni prodotti da fauna selvatica e da attività venatoria, come previsto dall'articolo 26 della legge n. 157 del 1992, insieme ad una serie di altri impegni sul tema;
   dal rapporto Position Paper del Wwf Italia sul cinghiale del 9 settembre 2015 emerge che la situazione, dall'approvazione della risoluzione in Commissione agricoltura, non appare migliorata, al contrario, secondo le stime delle associazioni di categoria la percentuale di danneggiamento da parte dei suidi ha superato la soglia di tolleranza fissata al 4-5 per cento di perdita di prodotto, ingenerando un allarme sociale;
   tra le regioni più colpite c’è il Lazio, con circa tre milioni di euro di danni nel solo 2013, soprattutto nei comprensori di Amatrice, Vallepietra, Bracciano, nel reatino e nel viterbese, la Toscana dove quelli dei cinghiali rappresentano il 66 per cento dei danni, la Valle d'Aosta, il Piemonte, le Marche ed il Molise –:
   quali delle misure per le quali la Commissione agricoltura ha impegnato il Governo ad ottobre 2014 siano state intraprese e quali non abbiano ancora trovato attuazione e per quali ragioni;
   se non ritenga di dover adottare urgentemente tutte le iniziative non intraprese al fine di adempiere agli impegni assunti con la risoluzione conclusiva n. 8-00085 approvata in data 29 ottobre 2014, considerato che le criticità già esposte con il suddetto atto si sono acuite negli ultimi mesi.
(2-01128) «Gagnarli, Massimiliano Bernini, L'Abbate, Parentela, Gallinella, Lupo, Benedetti».

Interrogazioni a risposta orale:


   BOSCO. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   secondo quanto emerge da un'analisi Coldiretti diffusa a inizio settembre 2015, relativa ai dati del commercio estero, nei primi cinque mesi del 2015, si è registrato un vero e proprio boom per l’import di pomodoro fresco (+78 per cento) e concentrato (+72 per cento);
   a conferma di ciò il 27 settembre 2015, è andato in onda il servizio delle Iene a cura di Nadia Toffa «Quando il pomodoro cinese diventa Made in Italy». Nel servizio (che non è più visibile sui siti Mediaset) si è parlato della produzione di passata di pomodoro, una delle eccellenze dell'industria agroalimentare italiana. Secondo il servizio la gran parte della materia prima utilizzata per il confezionamento di salse e conserve di pomodoro in realtà non viene prodotta in Italia, ma proviene dall'estero. Per la precisione dalla Cina. La salsa di pomodoro che si trova sugli scaffali dei supermercati italiani, anche se riporta la dicitura made in Italy, non è quello che sembra perché in Italia avverrebbe solo il confezionamento del prodotto;
   uno dei motivi per cui le aziende italiane andrebbero a comprare in Cina è ovviamente il prezzo che è molto inferiore. Le ditte italiane per risparmiare preferirebbero acquistare un concentrato di pomodoro di qualità più bassa strappando un prezzo di molto inferiore a quello del mercato internazionale (500 dollari a tonnellata contro 750) che equivale a meno della metà del costo di una tonnellata di concentrato di pomodoro prodotto veramente in Italia;
   la Toffa è andata sotto copertura in Cina, a vedere come sia stato possibile ottenere prezzi così bassi. Fingendo di essere una dipendente di un'azienda che si occupa di import-export di prodotti alimentari, ha preso contatti con un delle ditte produttrici di quel concentrato di pomodoro cinese. Secondo un venditore cinese le aziende italiane comprano anche grandissime quantità di merce scaduta;
   questa possibilità di raggirare il consumatore è dovuta alla formulazione della legge 3 febbraio 2011, n. 4 «Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari», entrata in vigore il 6 marzo 2011, che relativamente ai prodotti trasformati stabilisce che l'indicazione in etichetta riguarda «il luogo in cui è avvenuta l'ultima trasformazione». Quindi basta che il confezionamento avvenga in Italia e il prodotto diventa «made in Italy». Ovviamente la produzione di tali alimenti rispetta le normative del Paese dove sono prodotti: dall'uso di pesticidi (in Italia sono vietati alcuni pesticidi utilizzati all'estero), alle quantità di metalli pesanti ed inquinanti, senza considerare le condizioni dei lavoratori;
   secondo dati diffusi il 5 ottobre 2015 dalla Coldiretti la pirateria cibo made in Italy vale 60 miliardi con quasi 2 prodotti di tipo italiano su 3 in vendita sul mercato internazionale che in realtà non hanno nulla a che fare con la realtà produttiva nazionale. A questa realtà se ne aggiunge una ancora più insidiosa: quale è quella dell’italian sounding di matrice italiana, che importa materia prima (latte, carni, olio) dai Paesi più svariati la trasforma e ne ricava prodotti che successivamente vende come italiani senza lasciare traccia dell'origine del prodotto, un meccanismo che danneggia il vero Made in Italy;
   si tratta di un vuoto normativo che è necessario colmare come chiedono il 96,5 per cento dei consumatori italiani, secondo una indagine Condotta da Coldiretti ad Expò 2015; peraltro è necessario chiarire che l'articolo 4, comma 2, della citata legge n. 4 del 2012 prevede, relativamente alle indicazioni in etichetta che «Per i prodotti alimentari trasformati, l'indicazione riguarda il luogo in cui è avvenuta l'ultima trasformazione sostanziale e il luogo di coltivazione e allevamento della materia prima agricola prevalente utilizzata nella preparazione o nella produzione dei prodotti»;
   tuttavia, come anche confermato nel servizio delle Iene da un produttore cinese di pomodoro, «...i produttori italiani di passata di pomodoro hanno “i loro sistemi” per risolvere le questioni con le autorità del nostro Paese...» –:
   se intenda valutare i danni al made in Italy agroalimentare e all'immagine del Paese che potrebbero prodursi ove quanto riportato in premessa fosse confermato e diffuso a livello internazionale;
   quali iniziative intenda assumere per modificare la legge n. 4 del 2011, al fine di rafforzare la tracciabilità della materie prime dei prodotti trasformati in Italia, e impedire un fenomeno che correttamente è stato definito «Italian sounding, di matrice italiana», che si risolve in danno dei produttori nazionali onesti. (3-01769)


   BURTONE. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   gli agrumi della Sicilia continuano ad essere vittime di una terribile patologia, il virus citrus tristeza (Ctv), che interessa circa 32.000 ettari di agrumeti, soprattutto nelle province di Catania e Siracusa;
   il problema presente da diversi anni rischia di compromettere seriamente la produzione agrumicola tant’è che potrebbe addirittura essere a rischio estinzione la produzione agrumicola siciliana nei prossimi due/tre lustri se non si interviene con immediatezza;
   la superficie colpita dal virus continua ad aumentare negli anni ed è aumentata la veicolazione della sua trasmissibilità;
   occorrono misure di sostegno per il comparto, in quanto il costo degli espianti ed i mancati guadagni legati alle vendite «perdute» sono assolutamente rilevanti tanto da indurre l'abbandono delle coltivazioni;
   sarebbe imminente il varo da parte del Ministero del Piano agrumicolo nazionale;
   alla luce delle analisi del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia agraria (Cra), con il suo Centro di ricerca per l'agrumicoltura e le colture mediterranee di Acireale è assolutamente indispensabile prevedere un piano specifico per il territorio siciliano –:
   se e quali iniziative intende adottare il Governo al fine di contrastare efficacemente l'espansione del virus Ctv che sta interessando le produzioni agrumicole della Sicilia orientale e quali misure di sostegno intenda prevedere per un comparto ormai al collasso. (3-01774)

Interrogazione a risposta in Commissione:


   ZANIN. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   il vino IGP «Delle Venezie» è prodotto in due regioni, Friuli Venezia Giulia (FVG), Veneto e nella provincia autonoma di Trento; il 74 per cento dell'uva di partenza è prodotta in Friuli Venezia Giulia, mentre la percentuale più significativa viene imbottigliata negli altri territori;
   in previsione della scadenza degli incarichi «triennali» per il controllo sui vini DOP/IGP (31 luglio 2015), la regione Friuli Venezia Giulia ha convocato la filiera regionale, assegnano i vini IGP «Delle Venezie» alla certificazione della società CEVIQ e ha trasmesso al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali la nota relativa a tale designazione;
   il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, mentre ha ricevuto dal Friuli Venezia Giulia l'assegnazione di certificazione a CEVIQ, ha contestualmente ricevuto dalla regione Veneto e dalla provincia autonoma di Trento un'assegnazione per la società Valoritalia;
   il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali ha convocato le regioni e la provincia interessate in conferenza di servizi per due volte. In questo frangente a quanto consta all'interrogante solo CEVIQ, a rinforzo di legittimità della propria assegnazione, ha presentato una raccolta di consensi, cioè moduli firmati da singole aziende dei produttori, che individuano/scelgono il soggetto certificatore. Ciò in forza del significato di «produzione controllata» (articolo 13, comma 8, del decreto legislativo n. 61 del 2010) in quanto le sottoscrizioni sono da collegare al valore intrinseco scelte di un grande numero di vitivinicultori e perciò stesso sul concetto di uva originaria. CEVIQ ha raccolto la quota maggioritaria dei produttori con il 54 per cento del totale, aggiudicandosi di fatto la legittimità del proprio ruolo di certificazione per la IGP «Delle Venezie»;
   il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, in contrasto con tale evidenza, fondando la valutazione non sul diritto dei produttori bensì su tabelle produttive cumulative, ha assegnato con decreto 15 luglio 2015 l'incarico di certificazione del vino IGP «Delle Venezie» alla sola società Valoritalia, scatenando le inevitabili e comprensibili lamentele di numerosi produttori locali –:
   se il Ministro sia a conoscenza di tale situazione;
   se risulti anche da parte di Valoritalia un'analoga raccolta di consensi dei produttori;
   se e in quali termini il decreto di assegnazione tenga conto del dato inoppugnabile formulato dalla raccolta consensi, che corrisponde ad effettive sottoscrizioni dei produttori i quali dichiarano di scegliere un ente per la certificazione del proprio prodotto;
   se non si ritenga necessario, a tutela dei diritti di scelta dei produttori e di autotutela amministrativa per il rischio di ricorso, ritornare sul merito della decisione, valutando soluzioni che tutelino in modo adeguato il diritto dei produttori a indicare il proprio ente certificatore, in quanto meglio rispondente alla qualità del lavoro dell'azienda vitivinicola. (5-06691)

Interrogazioni a risposta scritta:


   OLIVERIO. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   l'applicazione delle sanzioni comunitarie nei confronti della Russia sta penalizzando particolarmente il settore agricolo e agroindustriale italiano;
   l'ortofrutta già in queste settimane ha fatto registrare un calo delle esportazioni in considerazione della strategici là di un mercato quale quello russo che coniuga qualità e quantità;
   tra qualche settimana rischia di verificarsi un ulteriore aggravamento della crisi in relazione al settore agrumicolo e alla concorrenza di Spagna e Paesi del nord Mediterraneo;
   i fornitori spagnoli che avevano piattaforme di esportazione direttamente in Russia potrebbero invadere a prezzi ridottissimi i mercati italiani per collocare arance e clementine;
   ciò determinerebbe il collasso di uno dei settori più importanti dell'agricoltura meridionale;
   diventa fondamentale che Governo e ragioni d'intesa con le organizzazioni di categoria si preparino per tempo per fronteggiare una nuova emergenza –:
   se e quali iniziative Governo intenda assumere con la massima urgenza per assicurare al comparto agrumicolo italiano adeguato sostegno con l'obiettivo di tutelare produzioni e qualità sul mercato nazionale. (4-10764)


   PISICCHIO e SCHULLIAN. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 9, comma 1, della legge 20 febbraio 2006, n. 82, stabilisce che le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ogni anno definiscono, con proprio provvedimento, il periodo entro il quale debbono essere effettuate le fermentazioni e le rifermentazioni. Tale periodo non può comunque superare la data del 31 dicembre dell'anno in corso;
   il comma 4 del medesimo articolo prevede una deroga per effettuare, fuori dal periodo consentito, le fermentazioni, ma solo per alcune tipologie di prodotti quali i vini spumanti, i vini frizzanti nonché per i «vini tradizionali» come i vini DOP o IGP aventi diritto alla menzione «passito» o «Vin Santo», sempre che questi ultimi siano annualmente indicati nel provvedimento regionale di cui all'articolo 9, comma 1;
   per tutti gli altri vini vige la scadenza del 31 dicembre di cui al comma 1 dell'articolo 9;
   il mercato vitivinicolo internazionale richiede produzioni di vini con caratteristiche costanti tutto l'anno e non ammette che a distanza di pochi mesi i profumi, la struttura e il sapore cambino sensibilmente;
   è noto che il principale fattore del decadimento qualitativo dei vini in conservazione sia l'ossigeno; per evitare i suoi effetti deleteri, i tecnici hanno a disposizione diverse strategie produttive legate alle caratteristiche del vino che si desidera ottenere. Il vino rosso, ottenuto per macerazione delle bucce, presenta un contenuto di antiossidanti naturali estratti tecnologicamente durante il processo macerativo, da 10 a 20 volte superiori rispetto al vino bianco ottenuto per sola estrazione dei succhi della polpa. Per i vini bianchi invece è più frequente l'utilizzazione di antiossidanti sintetici ed in primis l'anidride solforosa, additivo messo sotto accusa per i suoi effetti allergeni e tossici nei confronti del consumatore. Per questo motivo, la produzione di vini bianchi di qualità, si avvale di tecnologie di vinificazione alternative e particolari, tese a ridurre al minimo il tempo di conservazione del vino dopo il processo fermentativo e prima della sua conservazione in bottiglia;
   in Italia l'Asti spumante ha applicato per primo queste tecnologie. Le uve di partenza sono uve Moscato, particolarmente aromatiche; per garantire il mantenimento della qualità e delle caratteristiche aromatiche si utilizza la tecnica del differimento nel tempo del processo di fermentazione dei mosti di moscato e dell'imbottigliamento del vino che si deve svolgere immediatamente dopo il processo fermentativo. I mosti vengono prodotti in vendemmia, mentre la fermentazione e l'imbottigliamento del vino avvengono in diversi periodi dell'anno in funzione delle esigenze del mercato. Sistema che permette, inoltre, di ridurre anche i tempi di permanenza del prodotto confezionato prima del consumo;
   il caso dell'Asti è uno di quelli previsti dalle deroghe contenute nel comma 4 dell'articolo 9 della legge 82 del 2006. Per altri prodotti, non contemplati dalle deroghe, la moderna tecnica delle fermentazioni differite, quindi effettuate dopo la data del 31 dicembre, non può essere applicata, nonostante si tratti di una pratica regolarmente utilizzata in tutti i Paesi dell'Unione europea;
   la normativa italiana, più restrittiva rispetto a quella di altri Paesi, favorire una vera e propria concorrenza sleale a totale svantaggio dei noti vini italiana oltre ad una ingiustificata, quanto incomprensibile disparità di trattamento fra produttori, della stessa area dell'Unione europea;
   detto divieto obbliga gli attori del mercato italiano ad investimenti notevoli, rendendoli meno competitivi a livello internazionale;
   sono stati raccolti illustri pareri di esperti di fama nazionale, attivi nell'ambito della tecnica enologica universitaria, che ritengono che l'unica possibilità economicamente conveniente, anche nell'ottica di ridurre l'uso di anidride solforosa, per garantire la costanza nel tempo dei caratteri organolettici dei vini, sia quella di ridurre i tempi di conservazione fermentando i mosti prodotti in vendemmi in diversi periodi dell'anno;
   a tal fine basterebbe equiparare dette fermentazioni differite alle fermentazioni spontanee fuori periodo, di cui al comma 3, dell'articolo 9, della legge 82 del 2006 nel quale si prevede che tali fermentazioni vengano comunicate ai competenti uffici periferici dell'ispettorato centrale repressione frodi, salvaguardando di fatto anche la ratio del decreto del Presidente della Repubblica n. 162 del 1965 –:
   se il Ministro interrogato non ritenga di dover assumere iniziative a tutela di un settore importante come quello vitivinicolo, modificando la normativa nel senso auspicato, in maniera da dare la possibilità al settore di operare sul mercato mondiale con gli stessi strumenti assicurati dagli altri Paesi dell'Unione europea.
(4-10779)

SALUTE

Interrogazione a risposta orale:


   D'INCECCO, LENZI, BURTONE, AMATO e GRASSI. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   il Linfedema è una patologia disabilitante la quale, pur affliggendo attualmente (tra linfedemi primari e secondari) circa 450.000 persone in Italia, è scarsamente assistita dal sistema sanitario nazionale (SSN);
   in molte regioni, infatti, alla luce delle scarse risorse messe a disposizione dallo stesso servizio sanitario nazionale, la malattia è gestita nei primi stadi evolutivi in strutture ambulatoriali del tutto inadeguate al trattamento della medesima;
   attualmente il servizio sanitario nazionale prende in carico questi malati in regime ambulatoriale, ma, capita frequentemente che negli stadi clinici avanzati, la struttura ambulatoriale non sia sufficientemente attrezzata ed adeguata per curare il paziente che, viceversa, per la sua condizione clinica «avanzata» o per condizioni di intrasportabilità, di «fragilità sociale» o di necessità di monitoraggio clinico nelle 24 ore, necessiterebbe di ricovero in DH riabilitativo o in degenza riabilitativa;
    nel 2006 l'Ospedale San Giovanni Battista di Roma, con l'avallo della competente azienda sanitaria locale (ASL RMD), e pochissime altre strutture sul territorio nazionale, decisero di dedicare parte dei posti letto di day hospital e di degenza riabilitativa alle patologie vascolari periferiche fortemente disabilitanti (non posti letto in più, ma parte di quelli già in dotazione che, peraltro, gravavano meno sulle spese sanitarie nazionale e regionali, per la consistenza dei corrispettivi economici legati ai singoli DRG, meno «onerosi» di quelli riservati alle patologie neurologiche od ortopediche);
   sin da subito, presso la citata struttura si è potuta registrare la presenza di pazienti provenienti da tutte le regioni d'Italia, ad ulteriore riprova – qualora ce ne fosse bisogno – della sistematica inadeguatezza delle strutture sanitarie di appartenenza per la patologia in parola;
   le attività di trattamento sanitario del linfedema si svolgevano in regime di day hospital presso la detta struttura, sotto la vigilanza degli organi ministeriali e regionali competenti e nel rispetto dei massimi standard qualitativi e secondo le linee guida della Società internazionale di linfologia, del Collegio italiano flebologia e della Società italiana di medicina fisica e riabilitativa;
   successivamente, a quanto risulta agli interroganti, l'Agenzia di sanità pubblica della regione Lazio ha ritenuto inappropriato il trattamento in regime di day hospital di questa malattia, indipendentemente dalla gravità clinica del singolo caso, probabilmente per una confusione normativa nazionale che, per carenze culturali gravi, erroneamente regolamenta questi aspetti;
   a causa di ciò la stessa direzione generale dell'Ospedale San Giovanni Battista di Roma, in attesa che venisse chiarito il quadro amministrativo legato a tali trattamenti, a quanto consta agli interroganti avrebbe deciso di interrompere l'erogazione di queste «tipologie assistenziali», sebbene vi fosse – e v’è tuttora – una forte richiesta di trattamenti in tal senso, anche da parte di utenti provenienti da altre regioni e preventivamente autorizzati dalle loro aziende sanitarie di appartenenza;
   a fronte di ciò, molti dei pazienti affetti da questa malattia, durante le riacutizzazioni cliniche della stessa, finiscono spesso in pronto soccorso e, a volte, ricoverati in ambiente medico o chirurgico, ricevendo cure inadeguate o incongrue rispetto alle loro reali necessità (è classico l'esempio dell'erisipela, tipica complicanza del Linfedema, che ancora oggi viene scambiata per tromboflebite, trattata incongruamente e, spesso, ricoverata), e, in casi più fortunati, viene concesso a questi malati il trattamento presso strutture estere a spese del servizio sanitario nazionale;
   in tal modo, da un lato, le strutture ospedaliere perdono posti letto per erogare trattamenti comunque inadeguati rispetto alle necessità cliniche che il linfedema comporta, mentre dall'altro gli stessi utenti devono andare incontro ad un ricovero spesso inutile o non risolutivo;
   il Ministero della salute, sin dal 2006, ha lavorato sulle linee guida sul Linfedema, ma, nonostante sia stato licenziato un documento finale già nel 2007, dette linee non sono state ancora approvate in via definitiva; su sollecitazione del Sottosegretario di Stato per la Salute e dell'allora direttore generale per la programmazione del Ministero della salute, nel 2014 fu rivista la stesura finale delle linee di indirizzo ministeriali (tra esperti ministeriali ad esterni) e la versione finale (che include, peraltro, la possibile evenienza di utilizzo di tutti i tipi di «setting assistenziali», in funzione della gravità del singolo malato) fu consegnata il 1o luglio 2014 presso gli uffici ministeriali; da allora rimane ancora a tutt'oggi il problema assolutamente il risolto;
   i fatti, sin qui riportati, denunciano una situazione gravissima, essendo un consistente numero di cittadini italiani «tagliati fuori» da quelle cure adeguate cui hanno diritto per esplicita previsione costituzionale;
   un intervento «coordinato» dei Governi nazionale e regionali è, dunque, più che mai urgente, anche perché i malati italiani di linfedema sono al momento costretti a scegliere tra un trattamento inadeguato e non completamente disciplinato in Italia, o un ricovero presso altre strutture sanitarie in Europa (Germania, Svizzera, Austria) con conseguenti e rilevanti costi per il servizio sanitario nazionale e gravi disagi per se stessi e per le proprie famiglie;
   si è di fronte all'ennesima, ingiustificata, e inammissibile lesione del diritto alla salute, nonché del principio di eguaglianza sostanziale di cui all'articolo 3 della Costituzione all'origine delle quali non può non ravvedersi un incomprensibile disinteresse dei competenti organi Statali e governativi in particolare;
   come ultima informazione all'interrogante risulta che l'Associazione dei malati SOS linfedema (regolarmente «censita» tra quelle riconosciute dal Ministero della salute), esasperata dalle continue segnalazioni di «ingiustizia sociale» che le provengono dai propri membri, stia organizzando un ricorso del tipo class-action per il riconoscimento definitivo del diritto alle cure questi malati, accompagnato da possibili richieste sanzionatorie avverso lo Stato e le istituzioni regionali (molte delle quali, non tutte, attualmente ancora disattendono questo dovere assistenziale) –:
   di quali informazioni disponga il Governo in merito ai fatti riferiti in premessa, e quali siano le ragioni che hanno ostacolato la rapida approvazione definitiva delle linee guida per il trattamento dei linfedemi, inclusa la loro immissione nel nuovo piano dei LEA (sia nelle forme primarie che secondarie) e l'erogazione dei tutori elastici (analogamente a quanto avviene nelle altre nazioni europee), indispensabili per il contenimento della patologia cronica (alla stessa stregua del farmaco antipertensivo che si utilizza per «contenere» l'ipertensione arteriosa);
   se non reputino necessario attivarsi, nell'ambito delle proprie competenze, al fine di approvare le linee guida per la cura dei linfedemi, le quali ne consentano il trattamento in day hospital ed in degenza riabilitativa, ovvero di reperire le risorse necessarie per l'istituzione di un «polo d'eccellenza» che possa soddisfare la domanda nazionale di cure per tale malattia. (3-01772)

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   GELLI. — Al Ministro della salute, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   Federfarma tramite il suo presidente, Vittorio Contarina, ha denunciato le difficoltà in cui versano molte farmacie di Roma a causa del mancato ritiro dei farmaci scaduti da parte della società municipalizzata AMA e raccolti negli appositi contenitori;
   tale disservizio si protrae ormai da un anno e rende ingestibile tale raccolta;
   il mancato ritiro e l'impossibilità da parte delle farmacie di poter raccogliere altri medicinali scaduti rischia di indurre i cittadini a liberarsene attraverso modalità non corrette e con conseguenti pericoli per la salute;
   la raccolta per lo smaltimento dei farmaci scaduti è un servizio essenziale che oltre a essere segno di civiltà, serve a tutelare la salute dei cittadini;
   secondo notizie di stampa il Ministro interrogato ha invitato i Nuclei Antisofisticazioni e Sanità dell'Arma dei carabinieri, nel mese di gennaio 2015, ad avviare un'indagine per monitorare la situazione del mancato smaltimento di tali farmaci nel comune di Roma –:
   se tale indagine sia stata conclusa e quali ne siano stati gli esiti, considerati i pericoli che la situazione descritta in premessa determina per la salute dei cittadini della capitale. (5-06693)


   LENZI. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   la Croce Rossa Italiana (CRI) è un ente soggetto alla vigilanza del Ministero della salute;
   l'articolo 2 della legge n. 183 del 2010 ha disposto il riordino degli enti vigilati;
   il decreto legislativo n. 178 del 2012 in applicazione della legge n. 183 del 2010 prevede la riorganizzazione della Croce Rossa Italiana;
   tale decreto prevede all'articolo 1 la privatizzazione della CRI attraverso la costituzione dell'associazione Croce Rossa Italiana e quindi «Le funzioni esercitate dall'Associazione italiana della Croce rossa (CRI), sono trasferite alla costituenda Associazione della Croce Rossa italiana»;
   detta nuova associazione è persona giuridica di diritto privato ai sensi del Libro Primo, titolo II, capo II, del codice civile ed è iscritta di diritto nel registro nazionale, nonché nei registri regionali e provinciali delle associazioni di promozione sociale, applicandosi ad essa, per quanto non diversamente disposto dal presente decreto, la legge 7 dicembre 2000, n. 383. L'Associazione è di interesse pubblico ed è ausiliaria dei pubblici poteri nel settore umanitario, è posta sotto l'alto Patronato del Presidente della Repubblica, non è ancora costituita e, dopo vari rinvii, dovrebbe nascere nel 2016;
   i comitati locali e provinciali esistenti alla data del 31 dicembre 2013, «, assumono, alla data del 1o gennaio 2014, la personalità giuridica di diritto privato, sono disciplinati dalle norme del titolo II del libro primo del codice civile e sono iscritti di diritto nei registri provinciali delle associazioni di promozione sociale, applicandosi ad essi, per quanto non diversamente disposto dal presente decreto, la legge 7 dicembre 2000, n. 383.»;
   tale trasformazione è effettivamente avvenuta;
   la gestione della fase transitoria era demandata all'ente strumentale della Croce Rossa Italiana che manteneva la personalità giuridica di diritto pubblico, e che doveva essere costituito nel 2016 in contemporanea alla nascita della associazione;
   tale organico disegno, che prevedeva la contemporanea trasformazione di tutti i livelli organizzativi della precedente CRI, da ente pubblico ad associazione di diritto privato rientrante tra le associazioni di promozione sociale, è stato profondamente modificato da due interventi normativi con decreti di proroga che hanno permesso la trasformazione delle associazioni locali e provinciali e rinviato alla fine del 2015 la trasformazione delle associazioni regionali e nazionali. In questo momento quindi, in modo assolutamente anomalo per enti che gestiscono servizi, i livelli provinciali sono associazioni di diritto privato iscritte di diritto al registro delle associazioni di promozione sociale mentre, le associazioni regionali e nazionale sono rimaste enti pubblici;
   la diversa natura, privata per le CRI provinciali, pubblica per le regionali e la nazionale comporta una difficile gestione della proprietà delle ambulanze a targa CRI come si evince dalla ordinanza presidenziale n. 0028 del 3 febbraio 2014 nonostante la premessa dell'ordinanza rechi «che la Croce Rossa Italiana mantiene l'unità associativa CRI ovunque essa sia operativa ed organizzata» e «nel rispetto dei principi fondamentali del movimento internazionale che esclude ogni e qualsiasi forma diversa dall'unica associazione presente sul territorio nazionale», ordinanza nella quale si prevede un complesso meccanismo per permettere l'immatricolazione dei mezzi (http://www.ilgiorno.it);
   negli ultimi due anni, anni di profonda crisi interna nel rapporto centro-periferia, risultano commissariate dal livello nazionale 113 associazioni provinciali CRI; si dà quindi il caso che le associazioni, espressione di libera volontà di associazione costituzionalmente tutelata, vengono commissariate da un ente pubblico;
   nel frattempo, mentre il contributo di finanziamento pubblico cala da 169 a 127 milioni di euro previsti nel 2016, la croce rossa italiana continua a perdere cause di lavoro aventi ad oggetto la stabilizzazione del personale, personale che dovrebbe poi essere messo in mobilità –:
   quale natura giuridica abbia l'attuale associazione stante la mancata istituzione sia dell'associazione di diritto privato sia dell'ente strumentale previsto dall'articolo 6 del decreto n. 178 del 2012;
   in che modi e tempi si intenda provvedere alla piena attuazione del decreto legislativo n. 178 del 2012. (5-06698)

SVILUPPO ECONOMICO

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   DALLAI, SANI, CENNI e TERROSI. — Al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   dall'inizio degli anni ’80 del secolo scorso, in località Casa del Corto, nel comune di Piancastagnaio, provincia di Siena, opera l'azienda florovivaistica Floramiata. Lo stabilimento produttivo nasce dal piano di riconversione dell'attività mineraria, frutto delle lotte dei lavoratori e delle popolazioni che si mobilitarono a sostegno della «vertenza Amiata»;
   il vantaggio competitivo degli impianti deriva dall'utilizzo di energia geotermica (di cui è ricco il territorio di origine vulcanica) a costi inferiori, rispetto ad altre fonti di calore. Le serre di Floramiata sono infatti completamente riscaldate da energia geotermica, senza alcuna emissione di anidride carbonica nell'ambiente: grazie a questo sistema l'azienda si pone all'avanguardia nel settore agricolo come punto di riferimento produttivo nell'utilizzo di fonti pulite e rinnovabili;
   l'azienda con i suoi 22 ettari di serre e 125 ettari di superficie è lo stabilimento del settore più grande d'Europa e rappresenta la sintesi di un modello di sviluppo che ha tentato di coniugare l'impiego sostenibile delle risorse locali con la capacità di sviluppo economico ed occupazionale;
   l'azienda rappresenta un pilastro fondamentale dell'economia locale occupando circa 250 lavoratori tra fissi ed avventizi ed una struttura fondamentale nel tessuto produttivo di un territorio vasto che comprende le province di Siena e Grosseto nella Toscana e quelle di Viterbo nel Lazio (una zona che registra storicamente tassi molto alti di disoccupazione);
   Floramiata sta attraversando però da anni una situazione di grave difficoltà economica che sta caratterizzando negativamente l'intera attività produttiva; una congiuntura aggravata anche da eventi calamitosi che hanno compromesso parte degli impianti; l'impresa registra infatti una posizione debitoria superiore ai 18 milioni di euro;
   il tribunale di Siena il 5 ottobre 2015, ritenendo il piano di concordato dell'azienda non credibile e solido, ha decretato il fallimento di Floramiata affidando al curatore fallimentare il compito di porre in liquidazione l'azienda partendo dalla sospensione immediata di tutti i dipendenti;
   tale decisione ha gettato nello sconforto lavoratori e le associazioni sindacali che hanno subito annunciato manifestazioni di protesta e sit-in per salvaguardare i livelli occupazionali; il 21, ottobre è già stato programmato un presidio a Firenze di fronte alla sede della regione Toscana;
   il fallimento di Floramiata ha allarmato inoltre gli enti territoriali coinvolti (in primo luogo le amministrazioni comunali di Piancastagnaio ed Abbadia San Salvatore nella provincia di Siena) e la regione Toscana, già attivi da anni per ricercare una soluzione positiva alla vicenda; nei prossimi giorni verrà organizzato un incontro pubblico a Piancastagnaio mentre è in programma il 16 ottobre 2015 un consiglio comunale straordinario ad Abbadia San Salvatore;
   il curatore fallimentare ha successivamente autorizzato l'esercizio provvisorio di Floramiata per un breve periodo sia per cercare di limitare la perdita dei livelli occupazionali presenti, sia per concedere la possibilità a soggetti terzi di proporre offerte concrete per gestire le attività. L'esercizio provvisorio dovrà contenere al massimo i costi svolgendo solo le attività indispensabili;
   il 12 ottobre 2015 sono stati infatti richiamati in azienda circa 60 lavoratori (la metà degli assunti a tempo indeterminato) i cui stipendi saranno pagati (secondo quanto comunicato a mezzo stampa dallo stesso curatore fallimentare) soltanto «quando ci saranno le possibilità finanziarie»;
   per i lavoratori non ricollocati saranno invece aperte le procedure per la mobilità. Si tratta di procedimenti che avranno delle conseguenze gravissime: i lavoratori che saranno licenziati appartengono infatti ad una categoria che non prevede l'intervento di ammortizzatori sociali in caso di crisi aziendali; viene soltanto riconosciuta una indennità ai dipendenti a tempo determinato a condizione che abbiano superato le 101 giornate lavorative;
   va inoltre aggiunto, in questo contesto, che la crisi di Floramiata si inserisce in un più ampio quadro di difficoltà in cui si trovano molte aziende del territorio (come, ad esempio, Rivart ed Amiata Marmi), aggravato da mesi, da problemi infrastrutturali causati dal forte maltempo che più volte ha interessato la zona. Il rischio è quindi quello di una completa deindustrializzazione dell'area e, conseguentemente, di una marginalizzazione sempre più marcata;
   appare evidente la necessità di garantire, attraverso possibili acquirenti, la continuità produttiva ed occupazionale di Floramiata. La risorsa geotermica e le professionalità presenti garantiscono infatti le potenzialità per l'azienda di essere competitiva sul mercato florovivaistico che solo nel nostro Paese registra un fatturato annuo di circa 900 milioni di euro –:
   quali iniziative urgenti intendano intraprendere i Ministri interrogati al fine di garantire la continuità lavorativa e produttiva di Floramiata che rappresenta uno strumento irrinunciabile di sviluppo sociale ed occupazionale in una vasta zona a carattere marginale;
   se i Ministri interrogati non intendano convocare un tavolo di concertazione, con la presenza di tutte le istituzioni interessate, per promuovere una strategia di rilancio dell'azienda, anche in virtù della sua competitività rispetto all'utilizzo delle fonti rinnovabili a basso costo e delle professionalità impiegate presenti;
   se i Ministri intendano predisporre interventi urgenti per assicurare ai lavoratori in mobilità, soprattutto a tempo indeterminato, adeguati ammortizzatori sociali. (5-06690)


   GALLINELLA, PARENTELA, L'ABBATE, GAGNARLI e MASSIMILIANO BERNINI. — Al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   a seguito dell'emanazione del decreto-legge 83 del 2012, convertito, con modificazioni dalla legge 134 del 2012, che ha introdotto norme di attuazione della legge n. 4 del 2011, recante disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari, la Commissione europea ha avviato la procedura EU Pilot 5938/13/SNCO contestando, di fatto, all'Italia, l'incompatibilità della normativa introdotta nel 2011 con quanto disposto dal diritto comunitario in materia di indicazione dell'origine;
   oggetto dei rilievi segnalati da Bruxelles è l'articolo 4 della suddetta legge nella parte in cui dispone che per poter definire «made in Italy» un prodotto è necessaria la sussistenza di due requisiti relativi sia al luogo di coltivazione o allevamento che a quello di trasformazione: la materia prima deve essere coltivata o allevata e trasformata in Italia;
   la suddetta prescrizione è in contrasto con la normativa comunitaria, e segnatamente con il Regolamento (UE) n. 450/2008, codice doganale aggiornato, al quale rimanda, per la definizione di Paese d'origine, il regolamento (UE) 1169/2011 relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, che determina l'origine delle merci alla cui produzione hanno contribuito due o più Paesi esclusivamente in funzione del Paese o territorio in cui esse hanno subito l'ultima trasformazione sostanziale;
   a fronte di tale situazione, sono sempre più frequenti le segnalazioni e le contestazioni effettuate dalle autorità preposte ai controlli su prodotti, specie salumi e formaggi, trasformati da aziende italiane con materia prima totalmente o in parte non nazionale e riportanti, in violazione di quanto disposto dalla legge in parola, simboli dell'Italia e diciture del tipo «prodotto italiano» –:
   come intendano risolvere il caso «Eu pilot» citato in premessa, evitando l'apertura della procedura di infrazione ed assicurando la corretta applicazione della legge n. 4 del 2011 nella parte in cui, al fine di determinare l'origine italiana di un prodotto trasformato, prescrive che la materia prima sia coltivata o allevata in Italia. (5-06696)

Interrogazioni a risposta scritta:


   PRODANI, ARTINI, BALDASSARRE, BARBANTI, BECHIS, MUCCI, RIZZETTO, SEGONI e TURCO. — Al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   la centrale Elettra di Trieste è un impianto termoelettrico a ciclo combinato cogenerativo, con la possibilità di produrre anche vapore. Ha una capacità di 140 megawatt per la vendita in ambito CIP6, una capacità residuale di 29 megawatt disponibile alla vendita sul libero mercato e cogenera vapore acqueo surriscaldato per 12.000 kg/h mediante il recupero dei gas di risulta del processo siderurgico della Ferriera di Servola;
   l'impianto, che attualmente occupa 24 lavoratori, venne ceduto dal gruppo Lucchini nel 2005 ad Alix Partners, fondo inglese con investimenti ramificati in tutto il mondo;
   nel marzo del 2013, Elettra Produzioni ha presentato la richiesta di risoluzione anticipata della Convezione CIP 6/92 al GSE (Gestore servizi energetici), concessa alla fine del 2013, così come comunicato da un articolo de Il Piccolo del 28 dicembre 2013;
   il GSE ha condizionato il corrispettivo della risoluzione anticipata della Convezione CIP6 all'effettivo subentro al Gruppo Lucchini di un soggetto terzo nella titolarità dello Stabilimento siderurgico di Servola e all'impegno del subentrante di rispettare le prescrizioni di cui all'articolo 63 del decreto legislativo n. 270 del 1999, che, al comma 2, stabilisce: «Ai fini della vendita di aziende o di rami di azienda in esercizio, l'acquirente deve obbligarsi a proseguire per almeno un biennio le attività imprenditoriali e a mantenere per il medesimo periodo i livelli occupazionali stabiliti all'atto della vendita»;
   inoltre, il gruppo Lucchini vantava nei confronti di Elettra Produzioni crediti per 22 milioni di euro derivanti dalla vendita dei gas di risulta delle lavorazioni. La cessione della Ferriera di Servola, siglata il 5 ottobre 2014, passata dall'amministrazione straordinaria della Lucchini a Siderurgica Triestina, società di proprietà al 100 per cento del gruppo Arvedi di Cremona, ha anche sancito il trasferimento di tali crediti da Lucchini ad Arvedi;
   con l'accordo di programma per l'attuazione del «Progetto integrato di messa in sicurezza, riconversione industriale e sviluppo economico produttivo nell'area della Ferriera di Servola», tra il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Ministro dello sviluppo economico, d'intesa con la regione autonoma Friuli Venezia Giulia e l'autorità portuale di Trieste con Siderurgica Triestina S.r.l., firmato in data 21 novembre 2014, i crediti sopracitati sono stati destinati a specifici impegni;
   con l'articolo 8 «Interventi di riconversione industriale e di sviluppo economico», al punto 2, lettera e), viene specificato che Siderurgica Triestina è obbligata ad utilizzare le risorse rivenienti dall'incasso dei crediti Servola esclusivamente:
    «I. in via prioritaria, per finanziare l'effettuazione delle attività/interventi necessari per il rinnovo dell'AIA e/o il rilascio di una nuova autorizzazione integrata ambientale nonché degli interventi di messa in sicurezza dei beni (quali, in primis, gli impianti) compresi nel Ramo Lucchini Trieste e nei Beni e Autorizzazioni Servola che saranno previsti in tale sede;
    II. in subordine (e per il caso in cui residuino risorse), per finanziare l'effettuazione delle attività/interventi previsti a suo carico dall'Accordo di Programma di Trieste e dal presente accordo ex articolo 252-bis. Nello specifico, gli «Interventi di massima necessari al rinnovo dell'Autorizzazione Integrata Ambientale» sono indicati all'Art. 9 dell'Accordo di Programma di Trieste, siglato a gennaio 2014»;
   il 12 settembre 2015, un articolo del quotidiano Il Piccolo si apprendeva che il futuro di Elettra fosse molto incerto e si stesse correndo il rischio dello smantellamento dell'impianto e della sua vendita ad un'azienda britannica;
   un successivo articolo del 1o ottobre 2015 de Il Piccolo annunciava come prossimo l'inizio delle procedure per la messa in mobilità dei 60 dipendenti di Elettra Produzione, suddivisi tra le sedi di Trieste, di Piombino e gli uffici di Milano; la società avrebbe, poi, indicato il 31 ottobre come termine ultimo per consentire la chiusura dell'accordo di acquisto della centrale di cogenerazione di Trieste da parte del Gruppo Arvedi. Inoltre, l'articolo citato comunica dell'incontro, organizzato presso il Ministero dello sviluppo economico tra la presidente della regione del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, in veste di commissario per la crisi industriale complessa di Trieste, Giampiero Castano, responsabile dell'unità di gestione vertenze del Ministero ed i rappresentanti di Elettra Produzione e del Gruppo Arvedi per affrontare le questioni legate alla centrale di Trieste;
   da un articolo de Il Piccolo del 7 ottobre 2015 si apprende che, durante un incontro avvenuto con le rappresentanze sindacali presso la sede di Milano, Luca Ramella, presidente di Elettra Produzione, abbia annunciato il differimento al 15 novembre della data di scadenza delle trattative in corso per la vendita dell'impianto triestino con il gruppo Arvedi; si apprende, poi, che Elettra Produzione abbia inviato una lettera al Gruppo Arvedi con la proposta di chiusura dell'accordo, nell'attesa che il Ministero dello sviluppo economico rilasci alla società cremonese l'autorizzazione all'autoproduzione di energia elettrica –:
   in che modo intendano adoperarsi per tutelare i lavoratori come previsto dall'articolo 63 decreto legislativo 270 del 1999 e per evitare lo smantellamento dell'impianto;
   come si intendano utilizzare le somme relative ai crediti vantati nei confronti di Elettra Produzione già contemplate nell'accordo di programma del mese di novembre 2014 e quali siano gli obblighi da parte del gruppo Arvedi per gli importi ad essi riferiti nel caso di acquisto dell'impianto di cogenerazione;
   quali siano i precisi vincoli temporali entro i quali Arvedi debba garantire la fornitura di gas di risulta per permettere ad Elettra di accedere allo sconto anticipato Cip6;
   se il gruppo Arvedi abbia un diritto di prelazione per l'acquisto della centrale e se siano previsti dei termini temporali massimi per l'eventuale operazione;
   quali iniziative siano state effettuate per verificare la qualità e l'effettiva realizzazione degli interventi previsti nell'accordo di programma di Trieste comunicati nella relazione tecnica predisposta da Siderurgica Triestina e consegnata al Comune di Trieste l'8 settembre 2015 anche alla luce del prossimo rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale. (4-10774)


   PLANGGER. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   il 25 giugno 2015 l'Autorità per la garanzia nelle comunicazioni ha dato il via libera al così detto «piano Caio», dal nome dell'amministratore delegato Francesco Caio delle Poste Italiane, che, grazie alla riduzione del servizio universale di recapito della corrispondenza, potrà limare i costi della società, in vista della privatizzazione prevista;
   all'interno di questo piano di razionalizzazione dei costi è previsto il recapito della posta a «giorni alterni», secondo lo schema bisettimanale, lunedì-mercoledì-venerdì-martedì-giovedì;
   inizialmente l'attuazione di questo piano si sarebbe svolta in tre fasi successive con inizio il 1o ottobre 2015 e poi il 1o aprile 2016 per concludersi non prima del mese di febbraio 2017, poi è arrivata in questi giorni la decisione del Governo di rimandare al 31 dicembre l'entrata in vigore del provvedimento;
   in questo provvedimento è previsto un coinvolgimento della popolazione che andrà aumentando, partendo dalla prima fase nella quale verrà coinvolta una ristretta fascia di popolazione (pari allo 0,6 per cento della popolazione nazionale) fino al massimo del 25 per cento nella fase conclusiva;
   va tenuto conto di quanto previsto dall'articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, dall'articolo 169, paragrafo 1. TFUE (ex articolo 153 TCE), nonché dalla direttiva 2008/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 febbraio 2008, che modifica la direttiva 97/67/CE sul pieno completamento del mercato interno dei servizi postali comunitari e che prescrive la distribuzione a domicilio della posta almeno cinque giorni lavorativi a settimana;
   sembrerebbe che l'Autorità per la garanzia nelle comunicazioni abbia concesso a Poste Italiane deroghe al principio stabilito dalla «direttiva europea sul mercato dei servizi postali» in un'ampiezza fino ad ora mai concessa, che investe il 25 per cento della popolazione italiana, quando l'eccezione massima finora consentita è stata per la Grecia e riguarda meno del 7 per cento della popolazione disseminata in migliaia di piccole isole; in altri Paesi europei sono state riconosciute deroghe, ma sempre limitate a meno dell'1 per cento della popolazione;
   risulterebbe all'interrogante che Bruxelles abbia già sollevato informalmente dubbi rispetto a questo provvedimento;
   in molti degli oltre 5.000 comuni italiani interessati a questo provvedimento il recapito postale costituisce l'unico mezzo di accesso alla stampa;
   il nuovo modello di recapito ha inoltre effetti disastrosi nelle province classificate montane, come la provincia autonoma di Bolzano, ove non si limita al 25 per cento della popolazione come fissato dalla legge di stabilità, ma interessa tutto il territorio della provincia tranne le grandi città Bolzano (capoluogo) e Merano (superiore a 30.000 abitanti), e 14 comuni con una densità abitativa superiore a 200 abitanti per chilometro quadrato (Bressanone, Laives, Brunico, Appiano, Bronzolo, Lana, Marlengo, Cermes, Caines, Gargazzone, Lagundo, Ora, Postal, Vipiteno); in questi comuni non interessati dal modello di recapito vivono circa 248.000 cittadini e cioè circa il 48 per cento della popolazione;
   con i criteri di densità abitativa generale (meno di 200 abitanti per chilometro quadrato), densità orizzontale di punti di recapito (distanza media tra i numeri civici inferiore a 50 metri), densità verticale dei punti di recapito (numero medio di utenti per civico superiore a 3), numero di utenze commerciali sul totale delle utenze inferiore al 20 per cento) e popolazione del Comune inferiore ai 30.000 abitanti rimangono in Provincia di Bolzano 98 Comuni ed intere vallate (p.e. val Venosta) con un servizio universale postale dimezzato e cioè il 52 per cento della popolazione (266.200 cittadini);
   l'adozione del criterio della densità comporta la riduzione del servizio postale in zone già poco servite da infrastrutture di diverso genere: basti pensare alla difficoltà tuttora scontata da molte aree montane nell'usufruire dei vantaggi derivanti dai servizi della banda larga, magari materialmente predisposti ma mai attivati;
   a ciò consegue il progressivo indebolimento di un tessuto sociale ed economico che, al contrario, andrebbe rafforzato, proprio continuando a garantire i servizi essenziali tra i quali quelli legati alla comunicazione;
   con questa misura Poste Italiane vuole risparmiare il 30 per cento — 50 per cento del costo per portalettere, con gravi ripercussioni nel mercato di lavoro, già difficile nelle zone periferiche e geograficamente disagiate, creando, inoltre, gravi disservizi in ordine ai giornali e alla posta prioritaria;
   ai soci locali della FIEG (Federazione italiana editori e giornali) Poste Italiane ha sempre assicurato la non applicabilità di questa riforma al territorio della provincia di Bolzano, dove il numero di copie giornali distribuite risulta essere molto superiore alla media nazionale; solo i venerdì vengono distribuiti 40.000 copie del quotidiano «Dolomiten» (su 350.000 cittadini di madrelingua tedesca);
   non si può negare il forte impatto negativo sul diritto dell'abbonato di ricevere non soltanto il proprio quotidiano ma anche il settimanale, che esce in giorni prestabiliti;
   per la popolazione delle zone rurali aumenta il divario con chi abita nei centri urbani, dove addirittura la corrispondenza, lettere e giornali arrivano due volte al giorno;
   Poste Italiane non ha fornito una stima approssimativa del risparmio dei costi attualmente sostenuti nelle singole zone di recapito interessate dal modello di recapito dei giorni alterni e gli effetti occupazionali in ordine al numero di portalettere oggi in servizio (non facilmente trasferibili dalla periferia al centro);
   risulta all'interrogante che Poste Italiane percepisce euro 262 milioni (per 5 anni) di fondi pubblici, che entrano nel bilancio aziendale, con i quali si dovrebbe garantire il servizio universale –:
   se il Governo abbia stabilito la sospensione dell'attuazione del provvedimento per poter valutare al meglio anche le problematiche su esposte;
   se il Ministro, nell'ambito del contratto di programma con Poste Italiane, sia in grado di garantire che in provincia di Bolzano il recapito in giorni alterni interessi al massimo il 25 per cento della popolazione e se sia a conoscenza di quali siano i criteri proposti da Poste Italiane per la scelta dei Comuni rurali per garantire l'impatto massimo del 25 per cento senza creare cittadini di prima e seconda classe nelle vallate;
   se il Ministro sia a conoscenza dell'effettivo risparmio dei costi nelle zone interessate dal modello del recapito a giorni alterni e se Poste Italiane abbia portato a conoscenza del Ministro a quanto ammonti la stima del numero di posti di lavoro (portalettere) che saranno soppressi in queste zone già disagiate;
   se il Ministro non ritenga opportuno considerare in modo particolare la situazione dell'Alto Adige, dove i giornali sono distribuiti con il servizio postale ed il numero di copie distribuite risulta essere molto superiore alla media nazionale;
   quali iniziative il Ministro intenda adottare, in modo particolare nella situazione dell'Alto Adige, per affrontare questo potenziale danno ai diritti dei cittadini dei territori a minore densità abitativa e all'informazione pubblica, affinché vengano garantiti i diritti degli utenti ed in particolare il diritto al servizio postale universale;
   se il Ministro intenda verificare se la suddetta riorganizzazione possa porsi in contrasto con i diritti sanciti dalla Unione Europea e le direttive comunitarie, evitando così il rischio dell'apertura di una procedura d'infrazione contro l'Italia.
(4-10777)

Trasformazione di documenti del sindacato ispettivo.

  I seguenti documenti sono stati così trasformati su richiesta dei presentatori:
   interrogazione a risposta in Commissione Oliverio 5-03611 del 23 settembre 2014 in interrogazione a risposta scritta n. 4-10764;
   interrogazione a risposta in Commissione Patrizia Maestri e Lenzi n. 5-04574 del 23 gennaio 2015 in interrogazione a risposta orale n. 3-01773;
   interrogazione a risposta in Commissione Burtone n. 5-05326 del 14 aprile 2015 in interrogazione a risposta orale n. 3-01774.