Camera dei deputati

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XVII LEGISLATURA

Allegato B

Seduta di Lunedì 13 ottobre 2014

ATTI DI INDIRIZZO

Mozioni:


   La Camera,
   premesso che:
    con lettera della Commissione europea al Governo italiano, del 20 dicembre 2013, le risorse comunitarie assegnate all'Italia per i Fondi strutturali ammontano, per la politica di coesione relativa al periodo 2014-2020, a circa 32, 2 miliardi di euro, di cui oltre il 95 per cento dell'intero ammontare sono destinati in favore dell'obiettivo crescita e occupazione;
    quasi il 73 per cento di queste risorse è destinato alle regioni del Mezzogiorno anche se con modulazione differente;
    i fondi strutturali rappresentano quasi il 20 per cento di tutti gli investimenti pubblici, considerato il ridimensionamento della quota degli investimenti che le politiche di contenimento della spesa pubblica hanno determinato nel corso di questi anni;
    nel Mezzogiorno vive circa il 30 per cento dell'intera popolazione italiana e nella stessa area vive oltre il 50 per cento dell'intera platea dei disoccupati di questo Paese e, in tale grave contesto, alcune realtà territoriali, quali la Campania e la Calabria, rivestono i tratti di una vera e propria emergenza sociale;
    dal 2008 il prodotto interno lordo del Sud è calato di quasi 14 punti percentuali, contro un 5 per cento del resto del Paese;
    il prodotto interno lordo pro capite meridionale rappresenta appena il 56 per cento di quello del resto del Paese, riportando l'Italia ad una condizione quale quella degli anni Cinquanta;
    gli investimenti fissi lordi meridionali sono caduti, da inizio crisi, di oltre trenta punti percentuali, con punte di quasi il 50 per cento, in particolare, nel settore industriale con una forbice che è tornata ad allargarsi con tutto ciò che ne consegue in termini di coesione;
    attualmente, la spesa in conto capitale nel Mezzogiorno è tornata indietro di ben diciotto anni ed è allo stesso livello del 1996;
    secondo dati Svimez, il volume di risorse teoricamente disponibili con riferimento ai fondi strutturali per i prossimi due anni (13,5 miliardi di euro nel 2014 e 17,5 miliardi di euro nel 2015) potrebbe garantire un impatto macroeconomico che sarebbe molto significativo; l'impatto aggiuntivo sul prodotto interno lordo meridionale sarebbe di oltre un punto percentuale (1,3 per cento); nel 2015, l'incremento addizionale di prodotto interno lordo sarebbe pari a otto decimi di punto percentuale;
    tali investimenti, sempre secondo Svimez, potrebbero attivare nel Mezzogiorno un incremento occupazionale pari a 34 mila unità nel 2014 e ad oltre 82 mila unità nel 2015;
    fino ad oggi, come richiamato anche dalla stessa Commissione europea, la dispersione delle risorse in un numero eccessivo di progetti, la mancanza delle condizionalità ex ante, che mirano a garantire efficacia ed efficienza, la scarsa capacità amministrativa e l'assenza di piani specifici settoriali sono state le criticità che hanno caratterizzato la gestione dei fondi europei nel nostro Paese;
    nei prossimi sette anni, come ha avuto modo di esplicitare il Governo per voce del Sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei ministri, Graziano Delrio, nel corso dell'informativa urgente svolta alla Camera dei deputati in data 7 ottobre 2014, la gestione dei fondi poggerà su tre pilastri: il Fondo per lo sviluppo e la coesione, il Piano di azione per la coesione e i fondi strutturali veri e propri;
    circa il 65 per cento dei comuni meridionali ha realizzato almeno un progetto finanziato dai fondi strutturali. Infatti, i fondi strutturali sono andati sempre più sostituendosi a quelli ordinari (spesso bloccati dal Patto di stabilità interno o da altre esigenze di finanza pubblica) e si sono dispersi in mille rivoli perdendo la loro caratteristica di risorse aggiuntive in grado di imprimere una spinta al processo di sviluppo;
    come ricordato dalla stessa Commissione europea, anche per superare i precedenti limiti programmatori, appare fondamentale rafforzare una struttura centrale di coordinamento in tema di audit e controllo (con personale tecnicamente adeguato nelle autorità di gestione e negli organismi intermedi) e che, più in generale, costituisca un «presidio» forte capace di rimuovere le inefficienze della pubblica amministrazione;
    un contributo molto importante al superamento del passato può e deve arrivare dall'Agenzia per la coesione territoriale che deve essere chiamata a svolgere la sua funzione di semplificazione e deve avere anche un ruolo di coordinamento e di pungolo all'impiego di tutte le risorse a disposizione;
    occorre un rilancio delle politiche industriali nel Mezzogiorno partendo dal monitoraggio delle risorse già stanziate e non ancora impiegate legate a strumenti della programmazione negoziata, ivi compresi i contratti d'area e i contratti di localizzazione;
    è indispensabile un rilancio delle politiche di infrastrutturazione, partendo dalle importanti opere inserite nell'ambito del decreto-legge n. 133 del 2014, non trascurando le potenzialità della macroregione adriatico-jonica;
    prioritario deve essere il contrasto alle marginalità e alla povertà diffusa che al Sud riguarda un quarto della popolazione; in alcune regioni come Calabria, Basilicata e Sicilia, il 30 per cento della popolazione è al di sotto della soglia di povertà;
    va affrontata definitivamente la questione relativa agli effetti negativi della «spesa storica» che in materia di welfare incidono in maniera penalizzante sul Mezzogiorno,

impegna il Governo:

   a velocizzare l’iter per rendere pienamente operativa l'Agenzia per la coesione territoriale con adeguata dotazione di personale, al fine di migliorare la capacità di impiego dei fondi strutturali sia per quanto riguarda la parte rimanente della programmazione 2010-2013, sia in relazione alla prossima programmazione;
   a proporre al Cipe, entro 30 giorni dall'approvazione della presente mozione, l'adozione di un'apposita delibera per la formalizzazione delle questioni legate al cofinanziamento, assicurando che tutte le risorse nazionali destinate al cofinanziamento rimangano comunque a disposizione delle regioni a cui erano originariamente destinate;
   a relazionare al Parlamento semestralmente circa l'impiego delle citate risorse;
   ad attivare una procedura concertativa con le regioni volta ad individuare i meccanismi correttivi e perequativi che consentano al Mezzogiorno di superare le criticità della «spesa storica» in materia di welfare;
   a procedere rapidamente ad un censimento delle risorse ancora disponibili e non ancora utilizzate nell'ambito degli strumenti della programmazione negoziata, finalizzato alla predisposizione di un piano di rilancio industriale, improntato sulle specificità e le eccellenze produttive presenti nel Mezzogiorno, avviando una nuova stagione di utilizzo degli strumenti della programmazione negoziata, ivi compresi i contratti d'area, i patti territoriali, i contratti di programma e i contratti di localizzazione, sulla base delle migliori pratiche e delle esperienze di successo del passato;
   a rafforzare, ulteriormente, i progetti in materia di sicurezza e legalità per contrastare la presenza dei fenomeni criminali, prima vera condizione per il rilancio delle politiche di sviluppo;
   a creare un apposito osservatorio sulle infrastrutture del Mezzogiorno con l'obiettivo di velocizzare gli investimenti in atto e individuare le priorità per la connessione del Sud ai principali corridoi di comunicazione europei;
   a potenziare i progetti concernenti il contrasto alla povertà come previsto dall'Obiettivo Tematico n. 9, mettendoli in relazione agli strumenti per la realizzazione di politiche attive di lavoro ed inserimento professionale per la creazione di un nuovo welfare;
   a concentrare la dovuta attenzione, nell'ambito della prossima programmazione, nei confronti di progetti legati alla messa in sicurezza del territorio e al contrasto dei fenomeni di dissesto idrogeologico che caratterizzano il Mezzogiorno;
   a valorizzare il patrimonio culturale e paesaggistico del Sud, riservando parte della dotazione disponibile a partire dal residuo della programmazione 2007-2013 per le politiche di recupero e promozione, mettendo in rete i grandi poli di attrazione e i siti Unesco;
   a riservare alle regioni del Sud parte della dotazione disponibile per quanto riguarda la programmazione 2014-2020 per le politiche ambientali nonché per il prosieguo dei processi di bonifica e messa in sicurezza dei siti di interesse nazionale e dei siti caratterizzati da particolari lavorazioni.
(1-00612) «Covello, Famiglietti, Tartaglione, Magorno, Raciti, Palma, Manfredi, Bonavitacola, Giorgio Piccolo, Oliverio, Tino Iannuzzi, Ragosta, Valeria Valente, Valiante, Salvatore Piccolo, Rostan, Bossa, Sgambato, Stumpo, Venittelli, Cardinale, Capone, Grassi, Schirò, Taranto, Mongiello, Albanella, Iacono, Massa, Antezza, Capodicasa».


   La Camera,
   premesso che:
    il più significativo cambiamento sociale dei nostri tempi è rappresentato dalla volontà e dal desiderio delle donne di affermare la loro autonomia e indipendenza;
    tale cambiamento sollecita la responsabilità pubblica a realizzare indispensabili misure volte a: riconoscere la libertà femminile, creare più lavoro per tutte e tutti, superare la tradizionale divisione dei ruoli in tutti i campi, prefigurare un welfare universale, per donne e uomini che lavorano e si adoperano per fare in modo di garantire a tutti i soggetti la libertà di dare il loro contributo alla vita e all'economia secondo diverse strategie personali e familiari;
    indirizzi su cui l'Unione europea è impegnata e su cui, però, emergono nel nostro Paese ritardi e arretratezze da affrontare con rapidità in occasione del semestre italiano della Presidenza del Consiglio dell'Unione europea;
    la Strategia per la parità tra donne e uomini 2010-2015 nell'Unione europea, presentata dalla Commissione europea nel settembre 2010, ha previsto specifiche priorità: pari indipendenza economica; pari retribuzione per lo stesso lavoro e lavoro di pari valore; parità nel processo decisionale; dignità, integrità e fine della violenza nei confronti delle donne. Sotto quest'ultimo aspetto il 2013 ha visto da parte dell'Unione europea l'adozione di leggi e azioni volte contrastare la violenza basata sul genere, con un bilancio di circa 15 milioni di euro per finanziare apposite campagne;
    secondo una relazione annuale dell'Unione europea, pubblicata nell'aprile 2014, le disparità uomo-donna stanno diminuendo in Europa, ma i progressi sono ancora lenti. Persistono ancora evidenti disparità fra i due sessi a livello di occupazione, retribuzione e rappresentanza, mentre la violenza contro le donne continua a essere un grave problema;
    nell'ambito dell'Unione europea, malgrado il 60 per cento dei laureati siano donne, le retribuzioni femminili sono ancora del 16 per cento inferiori rispetto a quelle degli uomini per ora lavorata. Inoltre, le donne tendono più spesso a lavorare a tempo parziale (il 32 per cento contro l'8,2 per cento degli uomini) e interrompono la carriera per occuparsi di altri membri della famiglia. Con tutto quello che ciò comporta in termini di divario pensionistico (che si attesta al 39 per cento);
    il tasso di occupazione femminile dell'Unione europea si attesta al 63 per cento contro il 75 per cento per gli uomini;
    la sopradetta relazione dell'Unione europea ricorda, inoltre, che sulle donne incide sensibilmente il lavoro non retribuito in casa e in famiglia e che la presenza femminile ai posti di comando è ancora poco diffusa. Per quanto riguarda, infine, la violenza contro le donne, un'indagine svolta dall'Agenzia dell'Unione europea per i diritti fondamentali mostra come circa il 33 per cento ha subito violenza fisica e/o sessuale dall'età di 15 anni;
    il 13 giugno 2013, l'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere (Eige) ha presentato il primo rapporto sull'indice dell'uguaglianza di genere. Un rapporto che rappresenta un indicatore delle disparità di genere nell'Unione europea e nei singoli Stati membri, nei settori del lavoro, del denaro, della conoscenza, del tempo, del potere e della salute;
    il rapporto mostra come le disparità di genere risultino ancora prevalenti nell'Unione europea, nonostante decenni di politiche volte a sostenere l'uguaglianza di genere a livello europeo;
    l'indice dell'uguaglianza di genere, riportato dal sopradetto rapporto dell'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere, ha un valore tra 1 e 100, dove 1 indica un'assoluta disparità di genere e 100 segna il raggiungimento della piena uguaglianza di genere. Ebbene, l'Unione europea ha un indice medio pari a 54, ossia è ancora a metà strada rispetto all'obiettivo della piena uguaglianza fra donne e uomini;
    se si esaminano gli indici dei vari Stati membri, emerge una forte differenza. Assolutamente negativa è la posizione dell'Italia, a cui il rapporto assegna un indice pari a 40,9, collocandosi al ventitreesimo posto su un totale di 27 Paesi. In testa alla graduatoria si trovano i Paesi scandinavi, con valori superiori a 70. Il Regno Unito ha un indice pari a 60,4; la Francia di 57,1; la Spagna di 54 e la Germania di 51,6;
    peraltro, il medesimo rapporto mostra come il nostro Paese sia quello più ricco tra i tredici Paesi che hanno un indice inferiore a 45;
    a livello mondiale, secondo l'analisi annuale del World economic forum sul Global gender gap, nella graduatoria diffusa nel 2013, l'Italia si colloca al settantunesimo posto su 136 Paesi. Per quanto riguarda altri Paesi europei, il Belgio si colloca all'undicesimo posto, la Germania al quattordicesimo, il Regno Unito al diciottesimo e la Francia al quarantacinquesimo posto. L'indice tiene conto delle disparità di genere esistenti nel campo della politica, dell'economia, dell'istruzione e della salute;
    l'Italia si conferma uno dei Paesi europei a più bassa occupazione femminile. E qui la crisi mostra il suo volto nell'impoverimento dei redditi e delle opportunità e, infine, nella sempre maggiore difficoltà di determinare il proprio progetto di vita;
    per quanto riguarda il nostro Paese, il rapporto annuale 2013 dell'Istat riporta i dati 2012 relativi al tasso di occupazione, che confermano – se mai ve ne fosse bisogno – il sensibile divario tra uomini e donne, laddove l'occupazione maschile si attesta al 66,5 per cento, contro il 47,1 per cento femminile. Nel confronto con il resto d'Europa, sempre l'Istat evidenzia come il tasso di occupazione femminile al 47,1 per cento si «scontra» con un 58,6 per cento della media dell'Unione europea a 27 Stati (59,8 Unione europea a 15 Stati);
    il medesimo rapporto Istat ricorda come «la bassa valorizzazione delle competenze, la segregazione occupazionale e la maggiore presenza nel lavoro non standard, sono elementi che concorrono a spiegare la disparità salariale femminile. In media, la retribuzione netta mensile delle dipendenti resta inferiore di circa il 20 per cento a quella degli uomini (nel 2012, 1.103 contro 1.396 euro)», così come la retribuzione oraria delle donne è dell'11,5 per cento inferiore rispetto ai maschi;
    i dati regionali indicano un'occupazione femminile al 56,5 per cento nelle regioni del Nord e al 30 per cento nelle regioni del Sud, con un divario molto più alto con l'occupazione maschile;
    in Italia, quindi, più di 5 donne su 10 sono senza reddito da lavoro e, per quelle che lo hanno, la retribuzione media pro capite (calcolata tra impiegate e operaie) si ferma sotto i 25 mila euro annui, mentre quella di un uomo sfiora il tetto dei 31 mila. Un divario che incide non solo sul quotidiano, ma che si ripercuote anche sulla consistenza della futura pensione;
    una delle vie maestre per risolvere il problema della diversa incidenza della disoccupazione femminile sta certamente nell'investire nelle politiche sociali;
    le donne sono ancora le uniche interpreti del lavoro di cura, con margini di tempo per loro stesse estremamente ristretti e con evidenti minori possibilità di occupazione e crescita professionale, e spesso costrette a lasciare il proprio lavoro dopo la nascita dei figli;
    l'autonomia delle donne è ancora ostacolata da condizioni svantaggiate: precarietà; insufficienza dei servizi di welfare quali strumenti di sostegno nella gestione del lavoro di cura e della vita professionale; dimissioni in bianco; mancato riconoscimento sociale della maternità e dei congedi di paternità; carenza di strutture per l'infanzia; un welfare con alti costi e forti disparità nell'offerta tra le diverse aree del Paese; assenza di politiche organiche e attive di sostegno al lavoro femminile. Questa è la fotografia del nostro Paese in materia di politiche di sostegno alle responsabilità familiari e alle scelte delle donne;
    nella relazione al Parlamento dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza del 2012, l'Autorità aveva sollevato la problematica relativa all'impatto negativo della mancanza di investimenti, da parte dello Stato, a favore dell'infanzia e dell'adolescenza;
    il dossier 2012 di Cittadinanza attiva ha sottolineato come le strutture comunali su cui possono contare le famiglie superano di poco quota 3.600 e sono in grado di soddisfare circa 147 mila richieste di iscrizione. Il 23,5 per cento dei bambini restano in lista d'attesa e i genitori sono costretti a rivolgersi altrove;
    è inevitabile che l'insufficienza nell'offerta dei servizi socio-educativi per l'infanzia aggravi la fatica delle donne alla loro partecipazione al mercato del lavoro;
    un importante ambito che condiziona fortemente e incide sulle opportunità e sulle prospettive di accesso al lavoro, di carriera, di tempo dedicato alla persona, è certamente quello relativo al depotenziamento dei servizi territoriali socio-assistenziali. I tagli di questi anni al sistema del welfare e, più in generale, alle regioni e agli enti locali, hanno visto indebolirsi la rete dei servizi territoriali e l'assistenza socio-sanitaria;
    insomma, se si vuole promuovere una buona e stabile occupazione femminile nel nostro Paese, vanno avviate efficaci politiche per incrementare l'offerta qualitativa e quantitativa della scuola, del tempo pieno, dei servizi socio-educativi per l'infanzia e dell'assistenza socio-sanitaria;
    riguardo al mercato del lavoro va sottolineata la pratica delle «dimissioni in bianco» del lavoratore o della lavoratrice, una delle piaghe più sommerse in questo ambito, una clausola nascosta nel 15 per cento dei contratti di lavoro a tempo indeterminato che costituisce un ricatto che vede coinvolto circa il 60 per cento delle lavoratrici donne e il 40 per cento dei lavoratori maschi;
    secondo i dati forniti dagli uffici vertenza della Cgil, ogni anno circa 2 mila donne chiedono assistenza legale per estorsione di finte dimissioni volontarie. Si può essere dimissionati con molti pretesti, ma i motivi più frequenti sono la nascita di un figlio, una malattia, il rapporto con il sindacato ed altro;
    il Governo ha deciso di non porre fine immediatamente a questa pratica, ma piuttosto di rinviare il necessario intervento normativo alla delega del cosiddetto «Jobs act», appena approvato dal Senato della Repubblica, e dunque di «annullare» così, di fatto, la proposta di legge in materia, già approvata in prima lettura alla Camera dei deputati;
    si ricorda che detta proposta di legge approvata dalla Camera dei deputati vincola la validità della dichiarazione di dimissioni volontarie all'utilizzo di appositi moduli usufruibili solo attraverso gli uffici provinciali del lavoro e le amministrazioni comunali, assicurando che gli stessi siano contrassegnati da codici alfanumerici progressivi e da una data di emissione che garantiscano la loro non contraffazione, e, al tempo stesso, la loro utilizzabilità solo in prossimità dell'effettiva manifestazione della volontà del lavoratore di porre termine al rapporto di lavoro in essere. Viene così meno la possibilità di estorcere al momento dell'assunzione la contestuale sottoscrizione di una possibile, postuma lettera di dimissioni volontarie;
    è inoltre necessario intervenire per aumentare gli sgravi fiscali, in particolare per le micro e piccole imprese, sulle quali incidono in misura proporzionalmente maggiore i costi delle misure a favore della maternità delle lavoratrici;
    per favorire le madri lavoratrici occorre intervenire con incentivi a favore della destandardizzazione degli orari, sotto forma di orari flessibili e riduzioni volontarie temporanee o durature dell'impegno lavorativo;
    in considerazione del costo che la maternità ha in termini di salute e di dedizione totale del proprio tempo a favore dei figli, andrebbe riconosciuta a tutte le donne madri la contribuzione figurativa di almeno un anno per ogni figlio, indipendentemente dallo svolgimento di attività lavorativa al momento della gestazione e un'ulteriore integrazione contributiva per i periodi di lavoro part-time legati alla maternità;
    così come andrebbero rivisti i congedi parentali, ancora troppo poco utilizzati dai padri, estendendoli a tutte le tipologie contrattuali;
    l'articolo 24 della legge n. 92 del 2012, cosiddetta legge Fornero, ha introdotto alcune disposizioni volte a sostenere la genitorialità e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;
    in particolare, si prevede la possibilità, in via sperimentale per gli anni 2013-2015, di concedere alla madre lavoratrice, al termine del periodo di congedo di maternità, per gli undici mesi successivi e in alternativa al congedo parentale, la corresponsione di voucher di 300 euro, per l'acquisto di servizi di baby-sitting, ovvero per fare fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati, da richiedere al datore di lavoro;
    in risposta all'interrogazione n. 5-03085 del 25 giugno 2014, in Commissione XII (Affari sociali), a prima firma dell'onorevole. Nicchi, vertente sul suddetto bonus, il Sottosegretario di Stato Franca Biondelli dichiarava che «si sta valutando l'opportunità di aumentare l'importo del voucher da 300 a 600 euro. Tale aumento sembra, infatti, compatibile con lo stanziamento finanziario disponibile e mira a rendere più conveniente tali voucher rispetto ai congedi parentali»,

impegna il Governo:

   a rafforzare, di concerto con le regioni, sia in termini di incremento quantitativo che di crescita qualitativa, le politiche a favore dei servizi socio-educativi, attraverso la previsione di maggiori e più adeguate risorse finanziarie per la messa in sicurezza e l'incremento delle strutture e dei servizi socio-educativi per l'infanzia e, in particolare, per la fascia neonatale e pre-scolastica, con particolare attenzione alla riduzione delle attuali forti disomogeneità territoriali nell'offerta di detti servizi;
   ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per valorizzare, nel contesto sopraindicato, la rete dei nidi intesi non più come «servizi a domanda individuale»;
   a sostenere politiche attive e misure efficaci per ripensare il rapporto tra tempi di lavoro e di cura al fine di promuovere una maggiore condivisione della cura da parte degli uomini, e favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, valorizzandone la differente soggettività e rimuovendo la disparità economica ancora persistente;
   ad assumere iniziative per incrementare, già dal prossimo disegno di legge di stabilità per il 2015, le risorse attualmente assegnate al Fondo per le politiche sociali e al Fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza;
   ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per potenziare – anche attraverso adeguate risorse – la rete dei servizi territoriali e l'assistenza socio-sanitaria;
   ad assumere iniziative per incrementare il bonus attualmente previsto in 300 euro, e introdotto dall'articolo 4 della legge n. 92 del 2012, per l'acquisto di servizi di baby-sitting ovvero per far fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati, dando così seguito all'impegno preso dal Governo in risposta all'interrogazione in Commissione XII (Affari sociali) n. 5-03085 del 25 giugno 2014, a prima firma l'onorevole Nicchi;
   ad adottare iniziative per introdurre incentivi a favore della destandardizzazione degli orari, sotto forma di orari flessibili e riduzioni volontarie temporanee o durature dell'impegno lavorativo, per favorire le madri lavoratrici;
   ad adottare iniziative per stanziare adeguate risorse finanziarie volte ad aumentare gli sgravi fiscali delle misure a favore della maternità delle donne lavoratrici che ricadono sui datori di lavoro, con particolare riguardo alle piccole e micro imprese, sulle quali i costi incidono in misura proporzionalmente maggiore;
   ad assumere iniziative per elevare a diciotto mesi la durata dei congedi parentali incentivandone il ricorso da parte dei padri, con un'aumento della quota indennizzata (almeno al 60 per cento), e prevedendone una maggiore flessibilità e l'estensione graduale a tutte le tipologie contrattuali;
   a considerare le fasi della vita dedicate alla cura, come crediti ai fini pensionistici con il riconoscimento di: contributi figurativi legati al numero dei figli o ad eventuali altri impegni di cura; integrazioni contributive per i periodi di lavoro part-time per ragioni di cura, possibilità di anticipo della pensione per necessità di accudimento di persone non autosufficienti nel quadro di una revisione del sistema pensionistico che contempli flessibilità e libertà di scelta;
   ad adottare, nell'ambito delle proprie competenze, le opportune iniziative volte a favorire la conclusione dell’iter parlamentare della proposta di legge sulle «dimissioni in bianco», già approvata dalla Camera dei deputati.
(1-00613) «Nicchi, Pannarale, Matarrelli, Scotto, Duranti, Costantino, Ricciatti, Pellegrino, Airaudo, Placido».


   La Camera,
   premesso che:
    il periodo di crisi economica avviatosi nel 2008 e tuttora ancora non concluso ha provocato un duro impatto sull'economia meridionale: tra il 2007 e il 2012, il Mezzogiorno ha perso il 10 per cento del prodotto interno lordo per un valore di circa 35 miliardi di euro: in base alle stime tale perdita dovrebbe aumentare a 47,7 miliardi di euro (-13,5 per cento), considerando il periodo 2007-2013; si stima una riduzione ancora più intensa (-34,3 per cento con una perdita di circa 28 miliardi di euro) nel medesimo periodo per quanto riguarda gli investimenti fissi lordi;
    in tale ambito, le analisi che emergono dal Rapporto Svimez per il 2014 sullo stato dell'economia del Mezzogiorno, ribadiscono una situazione di estrema gravità, in cui si evidenzia un quadro nazionale diviso e disuguale tra le due aree del Paese, ove la parte meridionale scivola sempre più nell'arretratezza: nel 2013 il divario del prodotto interno lordo pro capite è tornato ai livelli di dieci anni fa, negli anni di crisi 2008-2013 i consumi delle famiglie sono crollati quasi del 13 per cento, gli investimenti nell'industria addirittura del 53 per cento, i tassi d'iscrizione all'università sono tornanti ai primi anni del 2000 e, per la prima volta, il numero di occupati ha sfondato al ribasso la soglia psicologica dei 6 milioni, il livello più basso dal 1977;
    al rischio di desertificazione industriale e umana per intere aree meridionali (dalla Campania alla Sicilia), connesso al processo emigratorio che risulta essere inarrestabile (dal 2001 al 2011, 1,5 milioni di individui sono emigrati verso il Centro-Nord, di cui 188 mila laureati), si associano elementi socioeconomici di evidente debolezza, determinati dal calo delle nascite (nel 2013 si sono registrate solo 180 mila nascite, un livello che riporta al minimo storico registrato oltre 150 anni fa, durante l'Unità d'Italia), dall'aumento della povertà assoluta (2,3 milioni di individui, pari a circa il 50 per cento del totale delle persone che vivono nella povertà assoluta in Italia, le cui conseguenze hanno determinato un calo generale della domanda interna con ulteriori effetti negativi sull'attività economica delle imprese) nonché dal persistente calo della spesa pubblica e degli investimenti, in particolare quelli infrastrutturali;
    le manovre di finanza pubblica e di politica economica, effettuate in particolare dai Governi Monti e Letta, rapportate al prodotto interno lordo, hanno pesato più nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, (secondo le stime contenute nel medesimo documento di previsione territoriale), considerato che nel 2015 il valore cumulato della spesa pubblica nel Meridione sarà ridotto del doppio rispetto al Centro-Nord: ovvero il 6,2 per cento contro il 2,9 per cento, penalizzando le aree territoriali interessate, in particolare per quanto riguarda le spese in conto capitale, che rappresentano una delle poche variabili in grado di stimolare la crescita dell'economia meridionale, già strutturalmente meno capace di agganciare la ripresa;
    le difficoltà economiche e finanziarie determinate in particolare dagli effetti del credit crunch del sistema delle imprese e della famiglie meridionali e la stretta dei bilanci pubblici hanno avuto riflessi sulla dinamica occupazionale;
    l'emorragia di posti di lavoro rilevata trimestralmente dai principali organismi di rilevazione statistica e di ricerca, evidenzia, nel complesso, che tra il 2007 e il 2013 il Mezzogiorno ha registrato la perdita di 617 mila occupati: un calo del numero di occupati che conferma un quadro allarmante e con pochi precedenti, proseguito anche nel corso del primo trimestre del 2014, quando sono stati registrati oltre 100 mila occupati in meno rispetto alla media del 2013 e addirittura 170 mila occupati in meno rispetto all'anno precedente;
    il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno cresciuto al 19,7 per cento (all'11 per cento nel 2007), superiore sia al valore medio italiano (12,2 per cento) sia a quello dell'Unione Europea a 28 (10,8 per cento), nel corso dei primi tre mesi del 2014 ha fatto segnare un ulteriore peggioramento (21,7 per cento nel Mezzogiorno e 13,6 per cento in Italia); in tale ambito la fascia della popolazione maggiormente colpita dalla crisi occupazionale risulta essere quella giovanile (nel 2007, il tasso di disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno era pari al 32,3 per cento e, a differenza del 2013, è aumentato al 51,6 per cento, interessando un giovane su due) e, considerando i dati relativi al primo trimestre dell'anno che mostrano un ulteriore peggioramento (60,9 per cento per il Mezzogiorno e 46 per cento per l'Italia), emerge nel complesso uno scenario di estrema preoccupazione sia economica, sia relativa ai rischi di destabilizzazione di ogni forma di coesione e tenuta sociale per le aree territoriali del Mezzogiorno;
    il drastico calo di investimenti pubblici, manifestati dall'alleggerimento della spesa in conto capitale ridotta nel Mezzogiorno a 5 miliardi di euro (periodo 2009-2013), tornata ai livelli del 1996, che ha contribuito ad una diminuzione sia degli appalti pubblici che di quelli privati, di oltre il 34 per cento, dal 2007 al 2013, con punte superiori al 45 per cento nell'industria in senso stretto (periodo 2007-2012) secondo il check up di Confindustria-Srm (Studi e ricerche per il Mezzogiorno) sullo stato di salute dell'economia meridionale, configura una situazione paradossale, se si considerano le difficoltà economiche che suggerirebbero l'opportunità di una azione pubblica decisamente anticiclica;
    a tal fine, risulta ancor più grave il ritardo nell'utilizzo delle risorse del complesso della politica di coesione e della mancata incisività dell'Agenzia per la coesione territoriale, la cui leva tecnica utilizzata per monitorare la spesa ed intervenire in casi di inerzia, avviata dal Governo Letta e proseguita dal presente Esecutivo Renzi, prosegue con estrema lentezza ed inefficienza;
    le problematiche concernenti le risorse del Piano d'azione per la coesione e del Fondo per lo sviluppo e la coesione, che ammontano a circa 20 miliardi di euro relative al ciclo dei fondi strutturali 2007-2013 da utilizzare entro il 31 dicembre 2015, di cui 5 miliardi di euro in capo alle amministrazioni centrali, che su alcuni programmi segnano il passo al pari delle regioni Campania, Sicilia e Calabria, rendono evidenti sia le persistenti difficoltà nelle procedure di utilizzo dei fondi, sia, al contempo, l'esigenza e la necessità di introdurre in tempi rapidi misure di accelerazione volte ad utilizzare le risorse non spese a favore dell'economia del Mezzogiorno e del tessuto imprenditoriale e sociale investito da una crisi senza precedenti dopo la seconda guerra mondiale;
    il rischio della perdita di circa 6-7 miliardi di euro, secondo le recenti affermazioni del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega ai fondi comunitari, evidenzia, infatti, come nell'attuale stagione di crescita mancata, la restituzione in sede europea dei fondi non utilizzati comprometterebbe fortemente la credibilità dell'azione del Governo e dell'intero Paese, aumentando il gap di competitività con l'Europa;
    nello scenario consolidato in cui si muove il Mezzogiorno – ampiamente caratterizzato da risultati negativi: ridimensionamento della struttura imprenditoriale; perdita di occupati; ridotta capacità di produrre; ripresa dell'emigrazione (con conseguente invecchiamento della popolazione); peggioramento della qualità della vita, in un'area nella quale la spesa corrente ha ripreso a crescere e quella pubblica per gli investimenti ha proseguito il suo andamento declinante, la politica di coesione riveste un ruolo decisivo e fondamentale, in grado di invertire addirittura la tendenza da negativa a positiva;
    le elaborazioni predisposte dallo Svimez e da altri organismi di ricerca e di analisi delle politiche sociali ed economiche per il Mezzogiorno confermano, infatti, che se, per ipotesi, si riuscissero a spendere tutte le risorse tecnicamente disponibili, l'impatto potenziale sul prodotto interno lordo nelle intere macro-aree del meridione sarebbe pari all'1,3 per cento, determinando 34 mila nuovi posti di lavoro nel 2014, 82.400 nel 2015;
    un utilizzo pieno ed efficace delle risorse per la politica di coesione, comunitarie e nazionali, rappresenta a tal fine, un'occasione unica per promuovere la ripresa degli investimenti, anche e soprattutto nella prospettiva della programmazione 2014-2020, per rilanciare l'economia del Mezzogiorno, le cui regioni sono strutturalmente più legate ai flussi di domanda interna, sia pubblica (investimenti della pubblica amministrazione e consumi collettivi), sia ai consumi delle famiglie, come dimostrato i dati decrescenti in Campania e Sicilia;
    a tal fine, per favorirne l'utilizzo, appare necessario una decisione in ambito europeo, connessa alle criticità derivanti dal vincolo del Patto di stabilità, che escluda il cofinanziamento nazionale dei fondi strutturali e del Fondo per lo sviluppo e la coesione dal calcolo del Patto di stabilità interno, non conteggiando la spesa per investimenti, almeno quelli cofinanziati, nella spesa considerata per gli obiettivi di deficit;
    le pressioni e le titubanze dimostrate dal Governo Renzi, sia in ambito europeo che nazionale, sulla definizione concreta dei meccanismi di flessibilità nell'attuazione del Patto di stabilità e di una più rigorosa programmazione delle risorse del fondo sviluppo e coesione, impongono una più marcata attenzione da parte del Parlamento, affinché non si disperdano le ingenti risorse a disposizione, al fine di garantire che ogni euro speso costituisca un effettivo volano di sviluppo per l'auspicata ripresa economica delle regioni del Mezzogiorno;
    interventi da parte delle amministrazioni centrali e regionali volti ad accelerare la spesa delle risorse residue della programmazione 2007-2013, a cui affiancare, in parallelo, azioni per un rapido avvio della nuova programmazione 2014-2020 che può mobilitare risorse per oltre 60 miliardi di euro, di cui una rilevante parte per le macro-aree meridionali, risultano a tal fine urgenti e prioritari, in considerazione peraltro del semestre italiano di Presidenza del Consiglio europeo, come peraltro ribadito dall'Agenda strategica per l'Unione europea;
    il monitoraggio volto a definire la conclusione dell'accordo di partenariato con la Commissione europea unitamente a tutti i programmi operativi presentati, da parte delle regioni e delle amministrazioni centrali, al fine di avviare, concretamente, la spesa già dal 1o gennaio 2015, appare altresì indifferibile, per rivedere le strategie d'indirizzo e utilizzare il potenziale della politica di coesione in favore delle aree interessate;
    iniziative amministrative e finanziarie, per accelerare l'utilizzo delle risorse vecchie e nuove del Fondo per lo sviluppo e la coesione e del Piano d'azione per la coesione, che integrano e completano, anche dal punto di vista tematico, le risorse dei fondi strutturali, per favorire la competitività del tessuto produttivo e migliorare la dotazione infrastrutturale e di servizi, nonché per sostenere l'istruzione e le competenze dei cittadini meridionali non potranno a tal fine che innescare un processo favorevole, sebbene graduale, in termini di ripresa sociale ed economica dell'Abruzzo, della Campania, del Molise, della Puglia, della Basilicata, della Calabria, della Sicilia e della Sardegna e favorire il recupero e la valorizzazione di un patrimonio naturale, turistico e culturale che costituisce nell'insieme la maggiore risorsa inutilizzata;
    l'azione di intervento dell'Agenzia per la coesione territoriale, attualmente inefficace e ritardata, come in precedenza richiamato, necessita di essere sollecitata, non solo per assicurare la spesa dei fondi non utilizzati, necessari per il riequilibrio territoriale degli investimenti pubblici, ma per favorire la ripresa dell'intero Mezzogiorno;
    il proseguimento della ridefinizione dei programmi comunitari avviato con il Piano di azione per la coesione, concordato negli anni precedenti con la Commissione europea, dal Ministro per gli affari regionali e la coesione territoriale pro tempore, Raffaele Fitto, e proseguito dal Ministro pro tempore Fabrizio Barca, all'interno del quale indicare le priorità d'intervento e soprattutto di revisione dei meccanismi di attribuzione dei fondi, nonché di accorciare i tempi che intercorrono tra decisioni programmatiche ed attuazione degli interventi, rappresenta una linea di continuazione indispensabile per l'impatto che l'utilizzo che i fondi strutturali avrà sull'economia del Mezzogiorno,

impegna il Governo:

   ad intervenire in tempi rapidi al fine di accelerare le procedure di utilizzo dei fondi europei del ciclo 2007-2013, con specifico riferimento ai residui di spesa non utilizzati delle regioni del Mezzogiorno;
   a porre in essere misure più incisive in grado di migliorare l'attività dell'Agenzia per la coesione territoriale, le cui difficoltà operative e di monitoraggio, nell'attività di spesa e soprattutto di esercizio dei poteri sostituivi in caso di inoperosità, si sono dimostrate nel corso del 2014 evidenti;
   ad intervenire in sede comunitaria, affinché nell'ambito del pacchetto legislativo sulla coesione 2014-2020 si confermi l'esclusione dal calcolo del Patto di stabilità e crescita del cofinanziamento nazionale alla politica di coesione, in coerenza peraltro con la risoluzione approvata dal Parlamento europeo dell'8 ottobre 2013, «sugli effetti dei vincoli di bilancio per le autorità regionali e locali con riferimento alla spesa di Fondi strutturali dell'Ue negli Stati membri»;
   ad intervenire altresì in sede comunitaria, al fine di introdurre in favore della Campania e delle altre regioni del Mezzogiorno una serie di misure, anche in via temporanea, di carattere eccezionale, sia di alleggerimento fiscale e contributivo, che finanziarie in grado di rilanciare l'economia reale del meridione, in considerazione della fase socioeconomica di estrema emergenza che investe le macro-aree delle regioni interessate;
   ad adottare ulteriori iniziative, per quanto di competenza, volte a tutelare il tessuto socioeconomico delle famiglie e delle imprese, specie nel Mezzogiorno, dagli effetti del credit crunch, la cui contrazione creditizia ha contribuito a determinare un impatto sul prodotto interno lordo fortemente negativo;
   ad invertire le linee di indirizzo e di programmazione nei confronti del Mezzogiorno, ribadite peraltro dall'assenza di interventi degni d'importanza all'interno della nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, la cui politica economica e industriale, a distanza di quasi nove mesi dall'insediamento del Governo, si sta dimostrando estremamente deludente ed inefficace come dimostrato dai principali indicatori statistici ed economici;
   a prevedere infine interventi ad hoc nell'ambito del disegno di legge di stabilità per il 2015, in coerenza con le disposizioni comunitarie in materia di aiuti di Stato, in favore della Campania e delle altre regioni del Mezzogiorno, per sostenere le famiglie e le imprese, ed evitare che gli effetti derivanti dalle manovre di finanza pubblica degli anni precedenti, che hanno concorso a penalizzare in maniera significativa l'economia meridionale, possano configurarsi anche in questa occasione.
(1-00614) «Palese».


   La Camera,
   premesso che:
    il consolidamento e l'affermazione della cultura di parità, delle pari opportunità e dei diritti delle donne sono entrati, negli ultimi anni, di diritto tra le priorità e tra gli obiettivi strategici per l'azione del Governo italiano e delle istituzioni internazionali ed europee, affermandosi come importante principio trasversale delle politiche pubbliche;
    nel marzo 2011 il Consiglio diritti umani ha approvato all'unanimità la Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla educazione ai diritti umani: un risultato di grande rilievo, per il quale l'Italia ha svolto un ruolo propulsore di primo piano. La dichiarazione costituisce un riferimento importante, poiché fissa in modo chiaro le definizioni, i principi, gli strumenti e gli obiettivi dell'educazione ai diritti umani: il precipitare degli eventi nel quadro internazionale al quale si sta assistendo richiama però, con forza, a rimettere al centro della discussione pubblica, anche in occasione del semestre europeo, la necessità che il nostro Paese si faccia promotore dello sviluppo, da parte dell'Unione europea, di una strategia complessiva sui diritti umani, strategia che può essere meglio applicata attraverso l'azione sinergica di tutti gli attori dell'Unione europea;
    il Consiglio dell'Unione europea, in attuazione della strategia comunitaria «Europa 2020», ha approvato, il 21 ottobre 2010, il cosiddetto «pacchetto occupazione» (decisione sugli orientamenti per le politiche degli Stati membri a favore dell'occupazione, 2010/707/UE), con il quale l'Unione europea invita gli Stati membri ad adottare misure in grado di «aumentare la partecipazione al mercato del lavoro e combattere la segmentazione, l'inattività e la disuguaglianza di genere, riducendo nel contempo la disoccupazione strutturale»;
    il Parlamento europeo, il 19 febbraio 2013, ha inoltre approvato una risoluzione sull'impatto della crisi economica sull'uguaglianza di genere e i diritti della donna (2012/2301(INI)), con la quale si invitano gli Stati membri ad «esaminare con grande serietà la dimensione della parità di genere» nel «gestire la crisi e nell'elaborare soluzioni», nonché «a rivedere e a focalizzarsi sull'impatto immediato e a lungo termine della crisi economica sulle donne, esaminando in particolare se, e in che modo, essa accentua le disuguaglianze di genere esistenti e le relative conseguenze»;
    la risoluzione del Parlamento europeo mette, inoltre, in evidenza il doppio impatto negativo che la crisi sta producendo sulle donne europee: un effetto «diretto», «con la perdita del posto di lavoro, i tagli salariali o la precarizzazione del lavoro» ed un effetto «indiretto», quale conseguenza «dei tagli di bilancio ai servizi pubblici e agli aiuti sociali»;
    il 5 marzo 2010 la Commissione europea ha presentato la «Carta delle donne», un documento con il quale rafforza il suo impegno a favore della parità fra uomini e donne entro i successivi cinque anni;
    è necessario registrare e apprezzare un cambiamento che, nel nostro Paese, ha visto le donne protagoniste di significativi passi in avanti in termini di una sempre maggiore presenza nelle istituzioni, nella vita economica e in quella sociale e politica: tale partecipazione, pur offrendo uno straordinario contributo alla crescita del Paese, è ancora, però, distante dagli obiettivi europei;
    è per questo che appare fondamentale e strategico «approfittare» di questo movimento positivo per contrassegnare il semestre europeo a Presidenza italiana come centrale per il tema della parità e dell'occupazione femminile;
    il programma della Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea prevede, infatti, in materia di pari opportunità, in vista del XX anniversario dell'adozione della Dichiarazione di Pechino e della relativa piattaforma d'azione, una valutazione approfondita dell'attuazione dal 2010 del lavoro volto a conseguire gli obiettivi nelle dodici «aree critiche» della piattaforma d'azione, nel contesto delle priorità e degli obiettivi politici dell'Unione europea, al fine di presentare una situazione aggiornata e indicare i risultati, le lacune e le sfide future per ciascun settore a livello sia europeo che nazionale: da tale valutazione dovrebbero derivare raccomandazioni per ulteriori azioni volte a promuovere la parità di genere nell'Unione europea, che serviranno come base utile per la definizione degli obiettivi per lo sviluppo post-2015;
    per affrontare l'impegnativa sfida ad incrementare l'occupazione femminile è necessaria una valutazione attenta dell'impatto che la crisi economica e sociale in atto sta producendo sulla situazione occupazionale e sulla qualità della vita delle donne italiane: è da tempo noto, infatti, che il sistema economico italiano è caratterizzato da un basso grado di coinvolgimento della popolazione femminile in età attiva nel mercato del lavoro, un dato molto distante da quello dei Paesi dell'Unione europea comparabili all'Italia per livello di sviluppo economico, e gli effetti prodotti dall'andamento marcatamente negativo del ciclo economico, guidato dalla caduta della domanda, si sono riflessi in un peggioramento diffuso delle grandezze più rilevanti del mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione ha toccato il 12,6, con un incremento dello 0,5 per cento nei 12 mesi, e si sono anche fortemente ridotte le possibilità quantitative e qualitative di accesso al mercato del lavoro per gli inattivi, in larga parte giovani e donne;
    secondo il Global gender gap report 2013 stilato dal World economic forum, l'Italia si attesterebbe al 71esimo posto per quanto riguarda la partirà di genere: tale graduatoria, stilata ogni anno, valuta la disparità di genere di ogni Paese in base a quattro criteri principali: partecipazione economica, livello di istruzione, politiche di empowerment e rappresentanza nelle strutture decisionali, salute e sopravvivenza. L'Italia, sebbene abbia ottenuto un miglioramento rispetto al 2012, si attesta ad un livello inferiore rispetto ai principali Paesi europei, come Germania, Francia, Inghilterra ed altri;
    il rapporto 2014 dell'Istat, pubblicato a marzo 2014, inoltre, ha restituito una fotografia a dir poco inquietante dello stato dell'occupazione femminile in Italia: i dati riportati sono, infatti, decisamente allarmanti. Nel 2013 il tasso di occupazione femminile si attesta al 46,5 per cento, segnando un ulteriore calo rispetto al dato 2012 (47,1 per cento), contro il 58,7 per cento della media Ue28 (59,8 Ue15). Il 2013, a differenza della ripresa dell'occupazione femminile registrata nel 2012 rispetto al 2011, evidenzia un calo dell'1,4 per cento rispetto al 2012;
    il tasso di occupazione delle madri è pari al 54,3 per cento, mentre sale al 68,8 per cento per le donne in coppia senza figli. Particolarmente accentuati sono i divari territoriali: nel Mezzogiorno le madri occupate sono il 35,3 per cento contro il 66,4 per cento del Nord e il 61,5 del Centro;
    seppure sia stata rilevata una lieve crescita del tasso complessivo di occupazione femminile, il dato suggerisce preoccupanti dinamiche negative, quali fenomeni di isolamento professionale, incremento di posizioni a bassa qualifica, una ricomposizione a favore di età più anziane quale conseguenza delle riforme pensionistiche: la quota di donne occupate in Italia rimane ancora di gran lunga inferiore a quella dell'Unione europea, si concentra in poche professioni e si associa a fenomeni di sovraistruzione crescenti e più accentuati rispetto agli uomini, anche l'aumento dell'offerta di lavoro femminile che si sta producendo nel periodo più recente è, più che un cambiamento profondo dei modelli di partecipazione, il risultato di nuove e diffuse strategie familiari volte ad affrontare le difficoltà economiche indotte dalla crisi;
    sia dal rapporto Istat 2014 che dal rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile) 2014 presentato il 26 giugno 2014, emergono le gravi difficoltà di conciliazione che incontrano le donne, in particolare quelle che continuano a lavorare dopo il parto, così come le laureate, le donne in età più avanzata, le dirigenti, le imprenditrici e le libere professioniste: la quantità di ore di lavoro, la presenza di turni o di orari disagiati (pomeridiano o serale o nel fine settimana) e la rigidità dell'orario sono indicati da più di un terzo delle occupate come gli ostacoli prevalenti alla conciliazione. Per le donne meno istruite risulta un impedimento anche l'eccessiva fatica fisica, mentre sulle più istruite gravano anche l'eccessiva distanza da casa, l'elevato coinvolgimento e le frequenti riunioni o trasferte. La disponibilità di persone o servizi cui affidare i bambini è un requisito imprescindibile per entrare o restare occupate. Le lavoratrici con figli di circa 2 anni si avvalgono principalmente dell'aiuto dei nonni (poco più della metà nel 2005 e nel 2012) o ricorrono al nido, pubblico o privato, con un deciso incremento rispetto al 2005 (35,2 per cento, contro il 27,4 per cento);
    inoltre, nel 2013, le famiglie sostenute da una sola fonte di reddito da lavoro (famiglie monoreddito) sono in tutto 7 milioni 311 mila (+11,7 per cento rispetto al 2008; di cui 50 mila in più nell'ultimo anno). Nel 2013, quelle sostenute dal solo reddito femminile sono il 12,2 per cento, contro il 9,4 per cento del 2008. Sebbene in due casi su tre l'unico reddito da lavoro provenga ancora da un uomo, nell'ultimo quinquennio la crescita delle famiglie con un solo occupato è imputabile quasi esclusivamente all'aumento delle famiglie in cui l'unica persona occupata è una donna;
    dall'inizio della crisi economica e finanziaria, il ritmo di crescita dell'occupazione femminile nelle professioni non qualificate è più che doppio rispetto a quello degli uomini e più che triplo nell'ambito delle professioni che riguardano le attività commerciali e i servizi: le professioni a cui hanno accesso sono, soprattutto, quelle di commesse alla vendita al minuto, colf e segretarie (1 milione 737 mila unità, 18 per cento del totale dell'occupazione femminile);
    il nostro Paese risulta tra quelli maggiormente segnati da tale «doppio impatto negativo», soprattutto con riferimento alle ripercussioni della riduzione della spesa per i servizi alla persona: solo il 12,7 per cento circa dei bambini italiani frequenta gli asili nido (a fronte di una media superiore al 40 per cento di Belgio, Norvegia, Danimarca, Svezia, Francia, Paesi Bassi); la percentuale di donne che dichiara di lavorare part-time per conciliare lavoro e responsabilità familiari risulta del 33 per cento contro una media Ocse del 24 per cento (dati Ocde); il 40,8 per cento delle lavoratrici donne dichiara di aver abbandonato il lavoro dopo la nascita del primogenito, mentre il 5,6 per cento ammette di aver rinunciato alla propria vita professionale per dedicarsi alla famiglia o alla cura di parenti non autosufficienti (dati Isfol);
    va considerata, inoltre, un'elevata sperequazione salariale legata alla differenza di genere: in media, la retribuzione netta mensile delle dipendenti resta inferiore di circa il 20 per cento di quella degli uomini (nel 2012, 1.103 contro 1.396 euro). In una carriera spesso contraddistinta, oltre che dalla maggiore presenza dei fenomeni di sovraistruzione, anche da episodi di discontinuità dovuti alla nascita dei figli, il differenziale salariale a sfavore delle donne aumenta con l'età, soprattutto per le laureate, svantaggio che si riduce solo nei casi di istruzione post laurea fino a rendere la differenza retributiva tra donne e uomini non più significativa;
    il riconoscimento della parità di genere non è solo una questione diritti, ma soprattutto un investimento per il sistema Paese: l'occupazione femminile rappresenta un fattore produttivo che può fortemente contribuire alla crescita e allo sviluppo economico del Paese. Infatti, le ultime proiezioni della Banca d'Italia confermano che se fosse possibile aumentare il tasso di occupazione femminile al 60 per cento ciò comporterebbe un aumento del 9,2 per cento del prodotto interno lordo, a produttività invariata, e del 6,5 per cento se si considera l'effetto depressivo sulla produttività (minore qualificazione forza lavoro, rendimenti decrescenti): sulla stessa linea sono i dati pubblicati da Goldman Sachs, che evidenziano come il raggiungimento della parità di genere porterebbe a un aumento del prodotto interno lordo del 13 per cento nell'Eurozona e del 22 per cento in Italia; nella relazione della Commissione europea, pubblicata ad aprile 2012, sulla parità di genere, si asserisce che un maturo progresso verso la parità tra uomini e donne stimola la crescita economica: «per raggiungere l'obiettivo Europa 2020, di un tasso occupazionale del 75 per cento della popolazione adulta entro il 2020, i Paesi membri devono promuovere maggiormente la presenza delle donne nel mercato del lavoro. Un modo per accrescere la competitività dell'Europa consiste nel conseguire un migliore equilibrio tra uomini e donne nei posti di responsabilità in ambito economico. Vari studi hanno dimostrato che la diversità di genere apporta notevoli benefici e le aziende con una percentuale più alta di donne nei consigli di amministrazione sono più performanti rispetto a quelle guidate da soli uomini»;
    è necessario che il nostro Paese si doti al più presto delle misure necessarie in materia di conciliazione familiare: asili nido, servizi per gli anziani, incentivi per lo sviluppo del settore privato dei servizi alla famiglia, promuovendo un'offerta di qualità a prezzi contenuti (il modello dei voucher sperimentato in Francia, Belgio e Regno Unito), incentivi al lavoro femminile, superamento delle discriminazioni e degli ostacoli, sia per quanto concerne l'accesso al mondo del lavoro delle donne, sia per quanto riguarda la loro crescita professionale e l'avanzamento in carriera;
    con il decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, «Codice delle pari opportunità tra uomo e donna», venivano istituite le consigliere di parità, con qualificazione di pubblici ufficiali nell'esercizio delle proprie funzioni e con il ruolo esclusivo di contrasto e rimozione delle discriminazioni di genere nell'ambito lavorativo, attraverso la ricerca di una conciliazione tra le parti in via stragiudiziale o anche attraverso l'azione in giudizio, ai sensi degli articoli 36 e 37 del medesimo codice: nel corso degli ultimi anni si è registrata una forte riduzione degli stanziamenti per il fondo nazionale destinato all'attività delle consigliere di parità;
    i 27 Paesi dell'Unione europea hanno approvato, a Bruxelles il 28 giugno 2013, un pacchetto di sostegno all'economia a favore dell'occupazione giovanile, che prevede otto miliardi di euro nei prossimi sette anni, di cui sei nel solo biennio 2014-2015, in modo da offrire alle persone con meno di 25 anni un lavoro, uno stage o un periodo di apprendistato entro quattro mesi dalla fine degli studi o dalla perdita del lavoro. La strategia è una risposta all'elevata disoccupazione di alcune regioni europee e all'emergere di partiti estremisti in numerosi Paesi membri;
    l'Italia è stato il primo Paese europeo a dotarsi di una legislazione intervenuta per conciliare i tempi di vita con i tempi del lavoro, contribuendo così in modo sostanziale ad alimentare il dibattito europeo intorno alle politiche temporali, sia in ambito accademico sia in ambito politico ed amministrativo, avvenuto nel nostro Paese con un notevole anticipo rispetto alle altre realtà europee,

impegna il Governo:

   a promuovere l'istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Ministero dell'economia e delle finanze, il Ministero dello sviluppo economico e il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di una task force con l'obiettivo di rendere coerenti e coordinati tutti gli strumenti vigenti, anche supportando il lavoro di attuazione delle legge delega (jobs act), oltre che di programmare interventi per l'occupazione femminile e misure in favore della conciliazione vita-lavoro per uomini e donne;
   a promuovere, nell'ambito del programma del Governo, la realizzazione di una conferenza nazionale finalizzata ad individuare gli obiettivi e le azioni che il Governo, le amministrazioni pubbliche, gli attori economici e sociali devono condividere e realizzare per la crescita dell'occupazione femminile, tenendo conto dei seguenti concetti chiave:
    a) analisi della realtà anche attraverso la messa a punto di indagini che supportino la valutazione dell'impatto delle politiche sulle reali condizioni di vita di donne e di uomini, sapendo che tra loro sono diverse e disuguali;
    b) empowerment, inteso nel senso della promozione delle donne nei centri decisionali della società, della politica e dell'economia, posto che la consapevolezza dell'aver maggior potere è uno stimolo per le donne per aumentare la propria autostima, autovalorizzarsi e far crescere le competenze e le abilità;
    c) prospettiva di genere intesa come promozione della persona per tutto il ciclo della vita, tenendo conto delle differenze di ogni fase dell'esistenza e della naturale diversità tra i sessi e del fatto che praticare la prospettiva di genere richiede a tutti un grande cambiamento culturale che metta al centro dell'agenda politica i temi della valorizzazione delle risorse umane, del contrasto alle disuguaglianze, delle grandi riforme sociali;
   a realizzare azioni di cooperazione internazionale per promuovere la tutela dei diritti delle donne nei Paesi del sud del mondo ed in via di sviluppo, con il fine di contribuire ad una crescita equa e sostenibile;
   a promuovere un approfondimento sulla strategia a sostegno dell'occupazione femminile nell'ambito dell'azione di lungo periodo dell'Unione europea in materia di pari opportunità, che vada nella direzione di rafforzare la convinzione che il necessario rinnovo del modello socio-economico europeo in un'ottica di genere è fondamentale per il futuro dell'Unione europea;
   ad assumere iniziative per prevedere incentivi per le imprese che assumono a tempo indeterminato manodopera femminile, per mezzo, anche, di una detassazione del lavoro femminile, misura di immediato impatto sul mercato del lavoro, poiché domanda e offerta di lavoro femminile risultano molto più elastiche, mediamente, di domanda e offerta di lavoro maschile, nonché incentivi fiscali per facilitare l'instaurazione di nuovi rapporti di lavoro per l'assunzione delle lavoratrici divenute madri che rientrano, almeno nei tre anni successivi al parto, al fine di controbilanciare la minore spendibilità nel mercato del lavoro delle neo mamme, aumentandone le possibilità di occupabilità, nonché l'implementazione degli incentivi fiscali, oltre alla riduzione del 50 per cento sui contributi previdenziali già in vigore, per le imprese che fanno assunzioni in sostituzione di personale in astensione dal lavoro per maternità obbligatoria e facoltativa nonché per malattia del bambino;
   ad incoraggiare le iniziative, pubbliche e private, volte all'innovazione di modelli sociali, economici, culturali e organizzativi per rendere compatibili sfera privata e sfera lavorativa, così da migliorare la qualità della vita, consentire alle lavoratrici ed ai lavoratori di conciliare le proprie responsabilità professionali con quelle familiari, di educazione e cura dei figli e consolidare la sperimentazione di azioni positive per la conciliazione famiglia-lavoro, come stabilito dall'articolo 9 della legge 8 marzo 2000, n. 53, in modo tale da intercettare i nuovi bisogni di conciliazione emersi, ampliando la platea dei potenziali beneficiari ed aggiornando il novero degli interventi meritevoli di accesso ai finanziamenti, ottimizzandone l'investimento in termini di progettualità, evitando un eccessivo gap tra progetti candidati ed ammessi, e rendendone le regole semplici e chiare anche attraverso un raccordo con altri strumenti di supporto alle imprese, quali gli incentivi ai contratti di rete, e ad incentivare fiscalmente le imprese ad attivare e/o implementare nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori, iniziative innovative di organizzazione del lavoro family friendly e di welfare aziendale ed interaziendale e la conciliazione famiglia-lavoro, anche prevedendo incentivi fiscali per rafforzare il ricorso al congedo di maternità-paternità nella gestione aziendale delle imprese;
   a prevedere, in sede di semplificazione della normativa sul lavoro, la possibilità di adottare modalità di flessibilità organizzativa che consentano una più elastica articolazione spazio-temporale della prestazione lavorativa, prevedendone la contrattazione e la regolazione a livello di contrattazione sia nazionale che territoriale o aziendale e che includano una semplificazione del ricorso all'utilizzo del telelavoro, coerentemente con quanto previsto dal disegno di legge sul cosiddetto smart working;
   a promuovere il fondo nazionale per lo sviluppo dell'imprenditoria femminile istituito dall'articolo 3 della legge n. 215 del 1992, adesso disciplinato dall'articolo 54 del decreto legislativo n. 198 del 2006;
   a monitorare la piena attuazione del decreto del Presidente della Repubblica 30 novembre 2012, n. 251, sulla parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo nelle società pubbliche, affinché sia garantita la presenza delle donne nella pubblica amministrazione e nelle società pubbliche.
(1-00615) «Speranza, De Micheli, Pollastrini, Martella, Roberta Agostini, Fregolent, Garavini, Martelli, Gnecchi, Valeria Valente, Gregori, Villecco Calipari, Iacono, Pes, Cimbro, Iori, Campana, Albanella, Narduolo, Marzano, Cenni, Cominelli, Coscia, D'Incecco, Murer, Carocci, Scuvera, Carnevali, Morani, Sgambato, Giacobbe, Amoddio, Malpezzi, Coccia, Giuliani, Cinzia Maria Fontana, Manzi, Malisani, Maestri, Ascani».


   La Camera,
   premesso che:
    i dati forniti da Eurostat sulle richieste di asilo presentate in Europa fotografano un fenomeno, quello dei rifugiati e richiedenti asilo, di imponenti dimensioni e che necessita di una forte politica comune dell'Unione europea;
    secondo il rapporto fornito dall'istituto europeo di statistica, le persone che nei primi tre mesi del 2014 hanno chiesto asilo sul territorio dell'Unione europea sono state circa 108.300, con un aumento di circa il 30 per cento rispetto al dato dello stesso periodo del 2013, che ha registrato nell'anno circa 450 mila richieste di asilo presentate ai 28 Stati dell'Unione europea, con un aumento di circa 100 mila richieste rispetto al 2012;
    l'Italia nel 2013 ha ricevuto 27.800 domande di asilo. Erano state 31.723 nel 2008, 19.090 nel 2009, 12.121 nel 2010, 37.350 nel 2011 e 17.323 nel 2012;
    nel 2013 il più alto numero di richieste d'asilo è stato registrato in Germania (127 mila), seguito da Francia (6 5mila), Svezia (54 mila), Regno Unito (30 mila). Complessivamente, sommato al dato italiano, questi numeri compongono il circa il 70 per cento del totale delle richieste d'asilo presentate nell'Unione europea;
    tra i Paesi di provenienza, la Siria occupa il primo posto (16.770 richieste), seguita da Afghanistan (7.895) e Serbia (5.960);
    secondo l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il numero totale di persone arrivate via mare in Italia, sempre nei primi mesi del 2014, è di oltre 18.500 e quasi 43.000 persone sono arrivate via mare nel 2013;
    l'operazione di soccorso in mare denominata Mare Nostrum ha salvato in mare, in questi mesi, migliaia di vite umane. Tuttavia, ha dimostrato più volte i suoi limiti, come, ad esempio, nella tragedia del 12 maggio 2014 al largo di Lampedusa e nelle centinaia di morti nei pressi delle coste libiche;
    Mare Nostrum è stata una risposta emergenziale ad una questione strutturale, quale è quella relativa ai flussi migratori. Inadeguata e insufficiente e che, in ogni caso, non previene in alcun modo l'esposizione dei potenziali rifugiati ai rischi delle traversate per mare e che, se pure ha permesso di fermare molti dei cosiddetti scafisti, certo non è in grado di intervenire sull'emergenza della tratta di esseri umani, che ha luogo principalmente in Libia e che vede negli scafisti solo l'ultimo anello della catena;
    le navi dell'operazione Mare Nostrum, se, da un lato, svolgono un'importante opera di pattugliamento e di soccorso, come prescritto dalle convenzioni internazionali in vigore, dall'altro, tuttavia, nulla può rispetto all'altra grande emergenza che l'Unione europea si trova ad affrontare: la gestione dell'accoglienza e l'assistenza ai richiedenti asilo negli Stati europei e, in particolare, nel nostro Paese, specificatamente interessato dalla pressione migratoria;
    la gestione dell'accoglienza, la «presa in carico» e l'assistenza da parte di molti Paesi dell'Unione europea presenta numerose criticità, data la consistenza del fenomeno e considerate le talvolta difficili condizioni sociali ed economiche dei Paesi riceventi, difficoltà che si riflettono sia sulle popolazioni accoglienti che sui rifugiati e richiedenti asilo;
    con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le materie concernenti l'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea); pertanto, la concreta regolamentazione di tali materie risulta un'applicazione del Trattato;
    la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che con il Trattato di Lisbona ha acquisito la stessa portata e rilevanza giuridica del Trattato stesso, riconosce e garantisce il diritto di asilo nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal Protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, del Trattato sull'Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (articolo 18); vieta le espulsioni collettive e le espulsioni ed estradizioni verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti (articolo 19);
    le richieste di asilo nei Paesi dell'Unione europea sono disciplinate dal regolamento n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 (cosiddetto regolamento «Dublino III»), che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di Paese terzo o da un apolide;
    il regolamento «Dublino III» intende assicurare il pieno rispetto del diritto d'asilo garantito dall'articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché dei diritti riconosciuti ai sensi degli articoli 1, 4, 7, 24 e 47 della Carta medesima (diritto alla dignità umana, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, rispetto della vita privata e familiare, diritto del bambino e diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale);
    l'obiettivo del regolamento «Dublino III» è quello di realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto d'asilo dei richiedenti, sul rispetto dei diritti umani nei Paesi d'accoglienza e sulla solidarietà tra gli Stati membri e di consentire la rapida determinazione ed identificazione dello Stato membro competente, al fine di garantire l'effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale, non pregiudicando l'obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale;
    rispetto al precedente regolamento denominato «Dublino II», in particolare, sono state modificate le definizioni di familiari; è stato introdotto l'effetto sospensivo del ricorso; sono stati inseriti i termini anche per la procedura di ripresa in carico; è possibile il trattenimento del richiedente per pericolo di fuga; è introdotto lo scambio di informazioni sanitarie a tutela del richiedente;
    studi effettuati negli ultimi anni mostravano ancora differenze sostanziali tra i sistemi di protezione dei diversi Paesi, sia per quando riguarda le misure di accoglienza, sia relativamente alle percentuali di riconoscimento, sia rispetto alle procedure di esame della domanda; pertanto, l'Unione europea ha riformato il complesso della normativa in materia, ponendolo, nelle intenzioni, come base uniforme al fine di evitare disparità nel trattamento delle persone e nell'esame delle loro domande, proprio come premessa delle misure previste dal regolamento «Dublino», nella sua versione modificata;
    tuttavia, al di là dei buoni propositi sopra richiamati, diverse disposizioni del regolamento «Dublino III» stanno determinando seri problemi di interpretazione e implementazione negli Stati membri;
    l'obiettivo iniziale di tale sistema era quello di garantire che almeno uno degli Stati membri prendesse in carico il richiedente. Tuttavia, è ormai evidente come in realtà l'applicazione di tale insieme di regole sia diventata un insensato percorso a ostacoli per chi cerca protezione: famiglie separate, persone lasciate senza mezzi di sostentamento o addirittura detenute, lungaggini burocratiche e rimpalli tra Stati e uffici che rendono il diritto d'asilo inesigibile;
    in particolare, il regolamento «Dublino III» limita oltremodo la mobilità dei richiedenti asilo nell'Unione europea, con un impatto fortemente negativo sulla vita dei rifugiati;
    specificatamente all'Italia, il regolamento di Dublino interessa, in particolare, due categorie di migranti: quelli che sono stati rimandati in Italia, in quanto individuata come Stato responsabile per esaminare la loro domanda d'asilo («dublinati») e quelli che devono essere trasferiti dall'Italia a un altro Stato europeo, dove precedentemente sono stati identificati attraverso le impronte digitali (in attesa di trasferimento);
    il rilievo delle impronte digitali assume un'importanza poiché il regolamento prescrive che il migrante sia «preso in carico» dal Paese di primo accesso. Essendo l'Italia un Paese di transito per la maggior parte dei migranti e vista la diffusione delle notizie sulla lentezza delle procedure del nostro Paese nell'evasione delle richieste d'asilo e sulle limitazioni – pur se illegittime – poste alla libera circolazione in territorio europeo anche successivamente al riconoscimento dello status di rifugiato, sono molti i migranti che si oppongono al rilevamento;
    il regolamento (UE) n. 604/2013, nato per contrastare il fenomeno del cosiddetto asylum shopping (la presentazione della richiesta di protezione in più Paesi), appare del tutto inadeguato a gestire i flussi migratori attuali; esso impedisce, di fatto, la necessaria solidarietà europea nella gestione delle domande di protezione e incentiva fenomeni di fughe collettive dai centri di prima accoglienza e, quindi, di «clandestinizzazione» dei migranti;
    un'altra criticità particolarmente vistosa riguarda l'accoglienza. Occorre segnalare come non sia stato organizzato nel nostro Paese un sistema di prima accoglienza idoneo alla portata del fenomeno delle migrazioni e, in particolare con riferimento ai richiedenti asilo, siano state spesso utilizzate strutture di accoglienza del tutto improprie e al limite della dignità umana;
    un ulteriore elemento critico è la mancanza di informazioni esaustive, che ha un forte impatto sull'equità della procedura di asilo. La procedura «Dublino», infatti, può durare molto e il migrante non ha la possibilità di essere aggiornato su come procede il suo caso, né attraverso un apposito ufficio informazioni, né accedendo a un sistema on line o agli sportelli di altri uffici delle autorità competenti, come quelli territoriali dell'immigrazione;
    questo produce frustrazione, depressione e un profondo senso di precarietà, che coinvolge anche le popolazioni locali interessate dalla pressione migratoria;
    la rigidità del «sistema di Dublino», infatti, spinge i richiedenti asilo a muoversi continuamente in Europa in cerca di protezione, piuttosto che fermarsi in un posto solo, nel tentativo di aggirare un sistema percepito come poco sicuro;
    nonostante le criticità del sistema siano note da tempo, l'Unione europea non sembra voler porre rimedio, anzi pare prendere misure che vanno nella direzione opposta a quella della risoluzione dei problemi;
    ne è l'esempio la gigantesca operazione di polizia appena partita in tutta Europa volta a fermare, controllare e identificare tutti i migranti che verranno intercettati sul territorio continentale;
    l'Italia guiderà tale operazione di polizia europea, denominata «Mos Maiorum», un intervento coordinato dalla direzione centrale per l'immigrazione e la polizia di frontiera del Ministero dell'interno italiano, in collaborazione con l'agenzia Frontex, volto a perseguire l’«attraversamento illegale dei confini»; un'operazione più repressiva che di tutela nei confronti di quella moltitudine di individui che approdati in Europa stanno cercando di realizzare un loro nuovo progetto di vita, lontano da guerre, miseria e persecuzioni;
    ventuno parlamentari di Italia, Francia, Spagna, Grecia, Croazia, Serbia, San Marino, appartenenti a gruppi politici diversi (Pse, Ppe, Alde – tra gli italiani Pd, FI, Popolari, Sel, 5Stelle) hanno depositato presso l'Ufficio di Presidenza dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa la richiesta di un rapporto ad hoc sull'applicazione del regolamento «Dublino III», che possa contenere analisi fattuali dei dati e proposte ai Governi per un suo miglioramento, come più volte richiesto dall'Assemblea di Strasburgo;
    sempre l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha raccomandato, nella sua ultima risoluzione, la 2047/2014, una profonda revisione del regolamento «Dublino III»;
    riveste particolare importanza la circostanza che l'Italia è presidente di turno dell'Unione europea ed appare qui opportuno che l'Italia ponga la necessità di aggiungere anche tale punto all'ordine del giorno del Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014,

impegna il Governo:

   a proporre nelle competenti sedi europee un'iniziativa tesa a sospendere l'applicazione del regolamento cosiddetto «Dublino III» e a sostenere la necessità di una sua revisione, che ponga al centro:
    a) il rispetto e la protezione dei diritti umani dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al fine di garantire un ambiente più favorevole a una loro accoglienza, compatibilmente con le possibilità dei Paesi ospitanti, fornendo loro un'adeguata assistenza;
    b) un omogeneo sistema europeo che regoli la concessione del diritto di asilo secondo standard e procedure comuni e il coordinamento nella raccolta delle domande dei richiedenti, anche al di fuori del territorio dei Paesi membri e in collaborazione con l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, per permettere agli aventi diritto di raggiungere i Paesi di accoglienza in modo sicuro e prevenire ogni abuso del sistema con la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona;
    c) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, tale da garantire la libertà di stabilimento del beneficiario in ogni Stato membro, per cui il riconoscimento della protezione internazionale ad un richiedente asilo all'interno di un determinato Stato sia valido nell'intero territorio dell'Unione europea, estendendo a tali soggetti i diritti previsti per i cittadini europei dal trattato di Schengen, permettendo così un'allocazione libera e, dunque, più razionale dei flussi migratori;
    d) l'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione al di fuori del territorio dell'Unione europea, favorendo l'utilizzazione delle sedi diplomatiche già esistenti in alcuni Paesi africani, quali sedi operative nelle zone di maggior transito dei rifugiati, in grado di gestire le domande di protezione internazionale e di contenere il numero dei flussi migratori indistinti;
   a farsi portatore in sede europea di un'iniziativa che porti al definitivo superamento del sistema Frontex, affinché quelle risorse e professionalità siano finalizzate in primis ad organizzare un efficiente sistema di monitoraggio e soccorso;
   a rivedere al più presto gli accordi bilaterali vigenti con l'Egitto, la Nigeria e la Tunisia, che consentono il rimpatrio immediato anche prima che possa essere depositata un'istanza di protezione internazionale, sulla quale dovrebbe decidere l'apposita commissione territoriale e non l'autorità di polizia in frontiera;
   a porre in sede europea la questione dell'indifferibilità dell'apertura di canali di «accesso protetto», che tramite corridoi umanitari garantiscano la possibilità ai migranti di fare richiesta di asilo direttamente nei Paesi di transito, come l'Egitto, per poi poter entrare in Europa in sicurezza.
(1-00616) «Palazzotto, Fratoianni, Scotto, Nicchi, Costantino, Pannarale, Duranti, Piras, Kronbichler, Zaratti».


   La Camera,
   premesso che:
    il tema dell'immigrazione, di per sé particolarmente complesso e delicato, assume un particolare rilievo in questo momento storico a causa della grave instabilità politica dei Paesi africani del Mediterraneo e di quelli dell'Africa subsahariana. Si sta assistendo, infatti, ad una mutazione delle cause storiche del fenomeno migratorio. Se prima povertà e scarsezza dei mezzi economici rappresentavano il motivo principale della spinta alla migrazione, oggi la causa prioritaria e più significativa è costituita dalle guerre e dalle persecuzioni;
    infatti, la ciclicità delle crisi che attraversano quei Paesi, segnati da fragili equilibri politici interni e debolezza degli apparati statuali, determina spesso tumulti, sommosse e vere e proprie rivoluzioni che rendono impossibile ogni forma di civile convivenza;
    ciò cambia il profilo dei flussi migratori che, inizialmente originati dal desiderio di fuggire dalla povertà e da condizioni sociali allarmanti, oggi, per i motivi esposti, sono soprattutto determinati dal desiderio di sfuggire da guerre e devastazioni e spingono i migranti a richiedere all'Europa asilo politico;
    i cosiddetti «viaggi della speranza» partono da Eritrea, Mali, Siria, Libia, Gambia, Somalia, Senegal, Pakistan, Nigeria, Egitto ed altri;
    secondo il rapporto Eurostat sul primo quadrimestre del 2014, le persone che, tra gennaio e marzo 2014, hanno richiesto asilo sul territorio dei 28 Paesi dell'Unione europea sono state circa 108.300, quasi 25.000 in più rispetto allo stesso periodo del 2013, con un aumento del 30 per cento. In particolare, l'Italia ha ricevuto 10.700 domande, risalendo così al quarto posto tra i Paesi dell'Unione europea come meta dei richiedenti asilo;
    per quanto attiene alla politica europea di asilo, si ricorda che il tema è già stato oggetto, da parte delle istituzioni comunitarie, di dibattito e di specifiche valutazioni in relazione anche ai complessi e difficili percorsi di integrazione nei Paesi dell'Unione europea;
    con il Trattato di Amsterdam, la politica migratoria compie un passo decisivo verso la «comunitarizzazione», diventando oggetto di competenza concorrente tra Unione europea e Stati membri;
    nel 2009 il Trattato di Lisbona, confermando l'impegno dell'Europa verso una comune politica migratoria, ha reso vincolante la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea: pertanto, con il Trattato di Lisbona, le materie concernenti l'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea);
    con il regolamento «Dublino III» (regolamento (UE) n. 604/2013) si stabiliscono i criteri ed i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente ad esaminare le domande di protezione internazionale presentate da cittadini di un Paese terzo o da un apolide;
    il nuovo regolamento, che abroga il regolamento (CE) n. 343/2003, detto «Dublino II», modifica alcune disposizioni previste per la determinazione dello Stato membro dell'Unione europea competente per l'esame della domanda di protezione internazionale e le modalità e le tempistiche ad esso correlate. Il nucleo fondamentale di tale regolamento è costituito dai criteri che determinano quale sia lo Stato membro dell'Unione europea competente;
    altro obiettivo del regolamento «Dublino III» è quello di realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto di asilo dei richiedenti: nel pieno rispetto dei diritti umani da parte dei Paesi di accoglienza, della solidarietà degli Stati membri e con l'impegno di pervenire ad una rapida e sicura identificazione;
    il regolamento «Dublino III» (in base al quale lo Stato membro responsabile dell'esame dell'istanza è quello in cui è avvenuto il primo ingresso del richiedente protezione internazionale) risulta ormai superato, essendo già mutato il quadro di riferimento e le stesse condizioni nelle quali esso è stato definito;
    il nostro Paese, ad esempio, risulta essere di gran lunga il primo punto di approdo dei migranti: ma la maggior parte di questi desiderano raggiungere familiari inseriti in comunità già insediate in altre nazioni e rifiutano, pertanto, il riconoscimento considerando l'Italia come un mero Paese di transito;
    il superamento del regolamento «Dublino III» consentirebbe, quindi, il trasferimento legale di questi migranti, ma fino a quando non verrà permesso al richiedente asilo o al rifugiato di muoversi legalmente all'interno dell'Europa, si continuerà ad assistere all'aumento dei flussi migratori considerati illegali verso altri Stati membri, a cui seguono, normalmente, nuovi e costosi trasferimenti nel nostro Paese, punto di prima accoglienza;
    il regolamento «Dublino III» ha, quindi, un grande limite, perché non risponde più alle esigenze attuali e scarica sul nostro Paese, normalmente meta di primo ingresso, l'intero peso dei flussi migratori, con le drammatiche conseguenze economico sociali che tutti possono valutare;
    occorre, pertanto, porre in essere una strategia di ampio respiro che deve potere agire sulle cause e sulla gestione di un tale fenomeno epocale, essendo evidente che non può incombere solo sull'Italia l'immenso peso di questo immane flusso migratorio verso l'Occidente europeo;
    il Consiglio europeo ha presentato il 26 e 27 giugno 2014 il proprio documento programmatico. Nell'agenda strategica trovano spazio le priorità chiave per i prossimi cinque anni, tra cui quelle inerenti alla gestione dei flussi migratori, alla tutela del diritto di asilo e alla libertà di circolazione. Il Consiglio ha, quindi, invitato le istituzioni dell'Unione europea e gli Stati membri ad attuare pienamente tali indicazioni prioritarie;
    l'Unione europea, ad avviso del Consiglio europeo, deve, infatti, dotarsi di una politica efficace e ben gestita in materia di migrazione, asilo e frontiere, guidata dai principi di solidarietà ed equa condivisione delle responsabilità in conformità all'articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e garantendone l'effettiva attuazione;
    il pieno recepimento e l'attuazione del sistema europeo costituiscono una priorità assoluta. In particolare, occorre che ci si avvii verso «norme comuni di livello elevato ed in una maggiore cooperazione, creando condizioni di parità che assicurino ai richiedenti asilo le stesse garanzie di carattere procedurale e la stessa protezione in tutta l'Unione europea»;
    il Governo è già intervenuto incrementando, anche con l'intervento degli enti locali, il sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) e le commissioni territoriali;
    la questione va considerata nel semestre di presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea ed in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014,

impegna il Governo:

   a proporre, nelle sedi europee competenti, la necessità di una revisione del regolamento «Dublino III» che riguardi:
    a) compatibilmente con le possibilità dei Paesi ospitanti, l'impegno a provvedere in modo efficace ad una loro identificazione per evitare che possano finire vittime del traffico clandestino;
    b) un sistema europeo di accoglienza che si basi sulla solidarietà tra i Paesi membri e che distribuisca la presenza dei rifugiati per quote sulla base degli indici demografici ed economici;
    c) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri per la concessione del diritto di asilo in modo tale da garantire che il riconoscimento della protezione internazionale ad un richiedente asilo sia valido per l'intero territorio dell'Unione europea;
   a valutare, insieme ai partner europei, i possibili vantaggi dell'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione che utilizzi le sedi diplomatiche presenti nei Paesi di origine dei flussi migratori, al fine di analizzare e valutare le richieste di protezione internazionale, anche per arginare la consistenza dei flussi migratori.
(1-00617) «Dorina Bianchi, Misuraca».


   La Camera,
   premesso che:
    con il termine «immigrazione» si tende ad indicare fenomeni tra loro molto diversi da un punto di vista sociologico ma, soprattutto, e di conseguenza, normativo e che l'ormai diffuso utilizzo dell'espressione «migranti», senza la necessaria distinzione tra immigrazione regolare, irregolare e asilo, è una palese discriminazione tra chi ha un titolo legittimo e chi invece viola le leggi;
    l'asilo e l'immigrazione, per le loro implicazioni sul governo e controllo delle frontiere e del territorio, è sempre stata di competenza esclusiva dei singoli Stati, finché l'Unione Europea, a partire dagli anni 2000 e poi con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ne ha eroso la potestà, avocando a sé parte sempre più considerevole della disciplina;
    con riguardo all'immigrazione clandestina, la direttiva 2008/115/CE, cosiddetta «rimpatri» pone in capo agli Stati l'obbligo di procedere all'espulsione di chi entra clandestinamente entro lo spazio europeo e la legittimità del trattenimento amministrativo, onde procedere non solo all'identificazione ma ad un effettivo allontanamento del clandestino, anche ricorrendo a misure coercitive;
    attualmente, secondo anche quanto riportato nel rapporto del luglio 2014 sui centri di identificazione ed espulsione (istituti dalla cosiddetta legge Turco-Napolitano e poi ridisciplinati nel 2011) in Italia: degli 11 centri di identificazione ed espulsione solo 5 sono funzionanti, mentre gli altri sono chiusi a causa dei danneggiamenti provocati dagli ospiti ed altri ancora, snaturandone la funzione, sono stati convertiti in centri di accoglienza per richiedenti asilo; al 4 febbraio 2014, su una capienza complessiva di 1.791 posti, risultava una capienza effettiva di 842 posti e 460 presenze, mentre a luglio 2014 il Ministro dell'interno Alfano dichiarò che i posti disponibili erano già scesi a 500;
    le espulsioni sono drasticamente diminuite di numero, come riporta il rapporto appena citato, il che appare una logica ed inevitabile conseguenza della chiusura dei centri a ciò adibiti e della attuale politica di incentivo all'immigrazione;
    della direttiva cosiddetta «rimpatri», l'articolo 2 ha costituito fonte normativa per legittimamente formulare il cosiddetto reato di clandestinità, mentre l'articolo 15, al comma 6, prevede il trattenimento fino a 18 mesi al fine di procedere all’ «allontanamento»;
    invece, in materia di protezione internazionale le direttive comunitarie attualmente di riferimento sono la direttiva 2013/33/UE cosiddetta «accoglienza», la direttiva 2013/32/UE cosiddetta «procedure», direttiva 2011/95/UE cosiddetta «qualifiche»; tuttavia, nonostante le nuove disposizioni in materia di accoglienza e procedure l'obiettivo di creare un sistema europeo comune di asilo (Ceas) è ormai palesemente fallito per le prassi e le legislazioni ancora molto differenziate tra i diversi Stati membri;
    proprio in virtù di tali obblighi di controllo dei confini e di una crescente legislazione comunitaria in materia è in vigore il cosiddetto regolamento «Dublino III» (riformulato nel 2013): nato come convenzione ma diventato regolamento, pone il principio del Paese di ingresso quale criterio per la gestione degli arrivi anche per «responsabilizzare» gli Stati membri e obbligarli al controllo dei confini nazionali facenti parte di quelli comunitari;
    tali direttive, in forza dei Trattati europei, pongono dei vincoli in materia, tuttavia, come da consolidata giurisprudenza, la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato è «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l'ordine pubblico» (sentenze n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994 della Corte costituzionale), cui lo Stato non può rinunciare nell'assicurare la pacifica convivenza sociale;
    mancando un'azione comune a livello comunitario, occorre, infatti, da parte dei Governi una rigorosa legislazione di contrasto all'immigrazione clandestina, una continua cooperazione internazionale con i Paesi di origine per la stipula o il rinnovo di accordi sia con riguardo alle operazioni di controllo dei confini, soprattutto di quelli costieri, sia per velocizzare e agevolare le operazioni di rimpatrio dei clandestini; anche in questo caso, sono i numeri a dimostrare la validità di tale sistema: ad esempio, dal maggio 2009, a seguito dell'accordo stipulato dal Ministro dell'interno pro tempore Maroni tra l'Italia e la Libia, prima della guerra, il flusso di sbarchi di immigrati era quasi cessato, passando da 39.000 persone nel 2008 a 450 nel 2009;
    sicuramente il regolamento «Dublino III» ha particolarmente penalizzato l'Italia, quale Paese di confine marittimo; tuttavia l'Italia è ancora più penalizzata, rispetto agli altri Stati nelle medesime condizioni geografiche, quali, ad esempio, Spagna o Grecia, dalle politiche dell'attuale e del precedente Governo in materia di immigrazione, in totale controtendenza rispetto a quelle degli altri Paesi europei: l'abrogazione del reato di immigrazione clandestina e la missione Mare Nostrum hanno costituito un incentivo per un flusso incontrollato di ingressi nel nostro Paese e per la tratta degli esseri umani;
    in particolare, il fallimento della missione «militare-umanitaria» denominata Mare Nostrum, autorizzata dal Governo italiano ad ottobre 2013, è attestato dai più di 130.000 arrivi attraverso il Mediterraneo solo dall'inizio del 2014, da 2.600 persone annegate o disperse e da un costo complessivo di 1,2 miliardi di euro in anno;
    per il momento di grave crisi economica che stanno attraversando i nostri cittadini è impossibile farsi carico degli ingenti costi diretti e conseguenti all'operazione Mare Nostrum, stante i numeri degli sbarchi, i continui arrivi e il numero di immigrati in attesa di salpare dalle coste libiche e africane (pare 800.000);
    secondo gli ultimi dati pubblicati sul sito del Ministero dell'interno in merito alle richieste di asilo, tra le principali nazionalità dei richiedenti asilo, sia per il 2013 che per il 2014, non compare né la Siria né l'Eritrea, mentre da agosto 2013 a settembre 2014 le variazioni percentuali più consistenti, ossia l'aumento delle richieste di asilo, sono state registrate da Bangladesh (+615 per cento), Senegal (+556 per cento), Gambia (+508 per cento), mentre la Siria ha avuto un calo delle domande del 17 per cento e l'Eritrea del 76 per cento; con riguardo agli esiti delle domande, a luglio 2014, su 4.135 domande esaminate a 376 è stato riconosciuto lo status di rifugiato;
    a fronte dell'emergenza del virus Ebola, ormai arrivato in Europa, e del grave problema costituito dal rischio di infiltrazioni terroristiche, confermato dal Ministro dell'interno e aggravato anche dalle continue dichiarazioni dell'Isis, mentre gli altri Stati europei stanno attuando misure di controllo sempre più stringenti sugli ingressi nel proprio territorio, l'Italia è in totale controtendenza, poiché addirittura va a prendere in acque territoriali di altri Stati chiunque tenti di raggiungere l'Europa via mare e non ha più alcun controllo sul proprio territorio per le continue fughe dai centri di accoglienza e le tendopoli abusive che stanno sorgendo in numerose città;
    la Marina militare e le forze dell'ordine dovrebbero essere impiegate per proteggere i confini italiani e garantire il necessario controllo del territorio, e i cittadini devono essere tutelati dai rischi sanitari a cui vengono oggi esposti;
    anche il Ministro della salute, Beatrice Lorenzin, a fronte dei dati riportati dall'Organizzazione mondiale della sanità (secondo cui «dal dicembre 2013, quando l'epidemia è iniziata alla data di ieri 8 ottobre, sono 8.011 casi probabili, confermati e sospetti, e 3.877 decessi, con un tasso di letalità del 46 per cento nei Paesi dell'africa occidentale») ha dichiarato che «sono necessari più controlli alle frontiere»,

impegna il Governo:

   nelle more o in assenza di un intervento strutturale e strategico, coordinato a livello dell'Unione europea o a livello internazionale, per far fronte a condizioni di pericolo per la sicurezza del territorio nazionale, dovute all'eccezionale pressione migratoria verso l'Italia, anche attraverso l'utilizzo della normativa d'urgenza, ad adottare qualsiasi provvedimento o iniziativa idonea a:
    a) cessare immediatamente l'operazione cosiddetta Mare Nostrum, garantire il pattugliamento e il controllo dei confini, in particolare marittimi, anche mediante il rifiuto a partecipare alla missione Triton o a qualsiasi operazione o missione se non aventi tali finalità di disincentivo e divieto all'ingresso illegale nel nostro Paese;
    b) farsi promotore nelle più opportune sedi comunitarie della revisione del regolamento «Dublino III», senza rinunciare al principio di responsabilità degli Stati in materia di controllo dei flussi di ingresso, e contestualmente ripristinare le politiche di controllo dei confini, anche marittimi, e di contrasto all'immigrazione clandestina adottati dal Ministro dell'interno pro tempore Maroni, nonché, con riguardo al reato di cui all'articolo 10-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998, assicurare per quanto di competenza la piena applicazione;
   c) assicurare la piena e immediata operatività dei già esistenti 13 centri di identificazione ed espulsione, prevedendone, nel caso, uno in ogni regione, e l'effettivo allontanamento o rimpatrio dei clandestini dal territorio nazionale, utilizzando le risorse del fondo per i rimpatri solo ed esclusivamente per le finalità stabilite dalla legge;
    d) tutela della sicurezza e della salute dei cittadini, adottare qualsiasi altra iniziativa o promuovere l'adozione di norme speciali per contrastare la pressione migratoria verso il nostro Paese anche in deroga ai trattati comunitari, internazionali e ad ogni disposizione vigente;
    e) concordare strategie comuni con i Paesi dell'Unione europea che si affacciano nel Mediterraneo, impiegando gli stessi strumenti di disincentivo dei flussi migratori via mare;
    f) farsi promotore in tutte le sedi competenti di una strategia europea comune per il contrasto del fenomeno emergenziale degli sbarchi di immigrati sulle coste del Mediterraneo europeo e, altresì, per la gestione di emergenze dovute ad eventi bellici, in coordinamento con le organizzazioni internazionali al fine di predisporre gli interventi più idonei e tempestivi nelle aree confinanti alle zone colpite dai conflitti armati.
(1-00618) «Matteo Bragantini, Molteni, Invernizzi, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Marcolin, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini, Simonetti».


   La Camera,
   premesso che:
    secondo i dati Eurostat, 108.300 persone hanno chiesto asilo nei 28 Paesi dell'Unione europea nel primo trimestre del 2014, 24.320 in più rispetto allo stesso periodo del 2013 (+ 29 per cento). Nei primi 3 mesi del 2014, l'Italia ha avuto 10.700 richieste d'asilo, un dato molto superiore (+ 129 per cento) alle richieste registrate nel primo semestre del 2013;
    in particolare, secondo gli ultimi dati elaborati dall'Ufficio europeo di sostegno all'asilo (Easo, ottobre 2014), riguardanti i richiedenti asilo nel territorio dell’«UE+», cioè nei 28 Paesi dell'Unione europea più Svizzera e Norvegia, si conterebbero circa 50 mila richieste di asilo a giugno 2014, 60 mila a luglio 2014 e 58.500 ad agosto 2014, essendo Germania, Svezia, Italia e Francia, i Paesi che registrano il maggior numero di richiedenti (tali Paesi totalizzando insieme, ad agosto, il 62 per cento delle domande di protezione, praticamente due sue tre);
    solo ad agosto 2014, i richiedenti asilo siriani (circa 12.800) sono aumentati del 6 per cento rispetto a luglio 2014, quelli eritrei (6.350) del 21 per cento, mentre quelli ucraini (1.700 persone) del 32 per cento, con l'aumento percentualmente più elevato, i richiedenti fuggiti da questo Paese in Polonia, avendo per la prima volta dall'inizio della crisi in Ucraina superato quelli in Italia;
    secondo il rapporto annuale Global trends pubblicato dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), si assiste per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale ad un enorme aumento di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni, che in tutto il mondo sono circa 51 milioni di persone. E solo nel 2013 sono aumentati di sei milioni, passando dai 45,2 milioni del 2012 ai 51,2 milioni del 2013; sempre secondo lo stesso Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, questo rapido e significativo aumento è stato causato in larga misura dalla guerra civile in Siria, un disastro umanitario che da solo ha prodotto 6,5 milioni di sfollati interni e 2,5 milioni di rifugiati all'estero, e in secondo luogo dagli esodi forzati avvenuti nella Repubblica Centrafricana e in Sud Sudan;
    del totale di 51,2 milioni di persone sradicate a forza a livello globale, ci sono circa 33,3 milioni di sfollati interni, 16,7 milioni di rifugiati (i principali Paesi che li hanno accolti e se ne fanno carico come possono sono il Pakistan, 1,6 milioni, l'Iran, 857.000, e il Libano, 856.000) e infine 1,2 milioni di richiedenti asilo (il Paese che ha ricevuto il maggior numero di nuove domande d'asilo è la Germania);
    secondo stime dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel mondo sono circa un milione i rifugiati che avrebbero bisogno di reinsediamento, perché nei Paesi ospitanti, in genere confinanti con quelli d'origine, non trovano condizioni che rispettino il loro diritto a ricostruirsi una vita accettabile, o sono sopravvissuti a torture e violenze;
    l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, pur non costituendo obbligo internazionale, incoraggia fortemente i Paesi ricchi e le democrazie occidentali a farsi carico stabilmente di queste situazioni con quote annuali di reinsediati, ad oggi, su scala globale, trovando posto in questi programmi di accoglienza solo un decimo dei rifugiati che ne avrebbero diritto;
    attualmente l'Europa non riveste un ruolo significativo tra i Paesi attivi nei programmi di reinsediamento dei rifugiati. In particolare, l'Unione europea, per parte sua, offre appena cinquemila posti l'anno, l'8 per cento del totale mondiale; gli sforzi maggiori in questo campo sono compiuti da parte di Paesi, come Stati Uniti, Canada e Australia, che reinsediano annualmente nel proprio territorio circa 60 mila rifugiati, a fronte di un numero di soggetti in Europa che sfiora a malapena le cinquemila unità;
    il regolamento «Dublino III» – che sostituisce il cosiddetto regolamento «Dublino II» (regolamento n. 343 del 2003), che a sua volta innovava la Convenzione di Dublino del 1990 – contiene i criteri e i meccanismi per individuare lo Stato membro che è competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o apolide;
    all'interno del sistema europeo comune di asilo, il regolamento «Dublino III» è stato ampiamente discusso e criticato, non solo dal punto di vista delle conseguenze negative sulla vita dei richiedenti asilo, ma anche per la scarsa efficienza del sistema (COM 2008/820, 3 dicembre 2008); sono state evidenziate una serie di carenze per lo più connesse con il livello di protezione garantito ai richiedenti protezione internazionale soggetti alla «procedura Dublino», e con l'efficienza del sistema istituito dall'attuale quadro normativo, dal momento che appena il 25 per cento circa delle richieste di trasferimento in un altro Stato è stato poi seguito da un trasferimento effettivo;
    il principio generale alla base del regolamento «Dublino III» è lo stesso della vecchia Convenzione di Dublino del 1990 e di «Dublino II»: ogni domanda di asilo deve essere esaminata da un solo Stato membro e la competenza per l'esame di una domanda di protezione internazionale ricade in primis sullo Stato che ha svolto il maggior ruolo in relazione all'ingresso e al soggiorno del richiedente nel territorio degli Stati membri, salvo eccezioni (COM 2008/820, 3 dicembre 2008); la competenza è individuata attraverso i criteri «obiettivi» del regolamento, che lasciano uno spazio ridottissimo alle preferenze dei singoli e, quindi, molti dubbi in merito alla tutela dei diritti umani dei richiedenti asilo, laddove l'esercizio di un loro diritto fondamentale – quello a fare domanda di protezione internazionale – è subordinato ad un regolamento, che, in questo caso, non terrebbe pienamente conto di un principio generale universalmente garantito e sovraordinato nella gerarchia delle fonti del diritto, quale quello del rispetto dei diritti umani;
    pur non intaccando tale principio, «Dublino III» apporta comunque una serie di novità importanti e certamente apprezzabili (molte derivanti in realtà dalla giurisprudenza), in quanto in grado di attenuare parzialmente gli effetti negativi del sistema; è necessario, però, porre rimedio ai problemi alla base del «sistema Dublino», il cui impianto si regge su un presupposto non corrispondente al vero, ovvero che gli Stati membri costituiscano un'area con un livello di protezione omogeneo; le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo e i tassi di accoglimento di domande di protezione cambiano drammaticamente da un Paese all'altro;
    chi ottiene la protezione internazionale non ha poi la possibilità di lavorare regolarmente in un altro Stato dell'Unione europea; ciò significa che, salvo eccezioni, lo Stato che viene individuato dal «sistema Dublino» come competente ad esaminare la domanda, sarà poi anche lo Stato in cui l'interessato dovrà rimanere una volta ottenuta la protezione, non tenendo conto né delle aspirazioni dei singoli, né delle concrete prospettive di trovare un'occupazione nei diversi Paesi europei;
    il Governo italiano, per fronteggiare l'eccezionale afflusso di migranti, ha avviato nel 2013 l'operazione Mare Nostrum per il controllo e il pattugliamento del Canale di Sicilia;
    negli ultimi tempi si è verificata una consistente ripresa degli sbarchi di cittadini stranieri nelle coste italiane, nonché diversi incidenti culminati in tragici naufragi con centinaia di vittime tra i migranti;
    l'attuazione di Mare Nostrum comporta una spesa di oltre 9 milioni di euro al mese, con l'evidente necessità di un interessamento dell'Unione europea, per farsi carico in maniera più decisa della questione migratoria, sia ampliando e rafforzando il ruolo di Frontex, sia intervenendo affinché si assuma un impegno più diretto nelle operazioni volte al controllo della frontiera marittima;
    il 16 aprile 2014 il Ministro dell'interno ha svolto un'informativa urgente sull'ingente incremento del flusso di migranti e sulle misure da adottare per farvi fronte, evidenziando che l'azione di Frontex, l'agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne, costituirà un tema centrale nel semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea (luglio-dicembre 2014);
    l'intenzione è quella di fare in modo che l'agenzia Frontex assuma la regia ed il coordinamento non solo delle attività di pattugliamento del Mediterraneo, ma anche delle attività di cooperazione operativa con i Paesi di origine e di transito dei flussi;
    è evidente la necessità di rendere più efficace il sistema di accoglienza, che ha comportato l'incremento da dieci a venti del numero delle commissioni territoriali destinate alla funzione di velocizzazione dell'esame della decisione delle istanze di protezione internazionale;
    è stato di recente annunciato l'avvio dell'operazione Triton, che avrà inizio a novembre 2014 e che avrà un budget iniziale di 2,9 milioni di euro al mese (a fronte dei 9 milioni mensili spesi per Mare Nostrum);
    la Commissaria per gli affari interni Cecilia Malmström ha lanciato l'appello affinché gli altri Stati membri ascoltino la richiesta di Frontex per avere più attrezzature e ufficiali stranieri, dal momento che l'operazione Triton si estenderà 30 miglia oltre le acque territoriali, coprendo 18 miglia di acque internazionali, con l'obiettivo di unire le due operazioni di Frontex (l'agenzia dell'Unione europea per il controllo delle frontiere con sede a Varsavia) nel Mediterraneo, denominate Hermes (area di intervento: il Canale di Sicilia) e Aeneas (che interviene sul Mar Jonio davanti alle coste di Calabria e Puglia);
    il decreto-legge n. 119 del 2014, da ultimo approvato dalla Camera dei deputati e ora all'esame del Senato della Repubblica, sembra, tuttavia, seguire l'ottica di una prosecuzione dell'operazione italiana, dal momento che dispone nuovi finanziamenti per fronteggiare l’«eccezionale afflusso di stranieri sul territorio nazionale»;
    il decreto-legge n. 119 del 2014 provvede ad incrementare il fondo per i richiedenti asilo di 51 milioni di euro, mentre 9 milioni vengono destinati alle commissioni che devono vigilare sulle richieste d'asilo. Viene, inoltre, istituito ex novo un fondo di 62 milioni di euro per «fronteggiare la nuova emergenza», cioè, si suppone, rifinanziare Mare Nostrum o Frontex. I soldi vengono prelevati dal fondo per i rimpatri, ovvero quel capitolo di spesa creato per rimpatriare gli stranieri giunti illegalmente nel nostro territorio, rendendo, quindi, ancora più difficile espellere dal nostro Paese i clandestini;
    non è credibile la sostituzione di Mare Nostrum da parte di Triton, ma è evidente che questa svolgerà piuttosto un intervento di supporto all'operazione italiana, in quanto dispone di un numero più esiguo di mezzi navali rispetto alla Marina militare italiana e la sua «autonomia» si ferma a 30 miglia dalle coste italiane; non potranno, quindi, essere garantite le operazioni di salvataggio come fino ad ora gestite da Mare Nostrum, considerando, inoltre, che il personale della Marina militare italiana opera anche screening sanitari a bordo, che rappresentano un valido deterrente contro la diffusione delle epidemie (ebola e tubercolosi);
    il 23 ottobre 2013 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sui flussi migratori diretta a realizzare un approccio coordinato basato sulla solidarietà e sulla responsabilità e sostenuto da strumenti comuni a livello di Unione europea, anche al fine di evitare il ripetersi dei tragici eventi di Lampedusa;
    in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014, è opportuno che il nostro Paese metta in evidenza l'urgenza di definire una politica condivisa in materia di immigrazione e diritto d'asilo;
    l'individuazione di misure auspicabili volte a migliorare il sistema dell'accoglienza e di gestione dei richiedenti asilo in arrivo non può essere disgiunta dall'obiettivo ultimo di garantire agli stessi condizioni di vita dignitose, nell'auspicio che essi possano costruire in Europa un futuro alternativo in tutta sicurezza rispetto alle realtà da cui fuggono;
    in tal senso, vi è la ferma convinzione che si debba separare il problema dell'asilo da quello dell'immigrazione economica, per evitare che il sistema costruito dagli Stati membri per proteggere chi chiede asilo crolli sotto la pressione, comprensibile, di persone in cerca di accettabili livelli di benessere, ma non bisognose, in senso stretto, di protezione;
    alla luce del «sistema Dublino», per il quale, come già ricordato, risulta competente lo Stato membro attraverso il quale il richiedente ha fatto ingresso nel territorio dell'Unione europea, si pone con forza l'esigenza di equilibrare gli sforzi da parte di tutti i Paesi membri proprio nell'accoglienza dei profughi, cioè di coloro che fuggono da situazioni di violenza, auspicando, in tal senso, una revisione dei criteri per la determinazione dello Stato competente per l'esame della domanda di asilo, che non necessariamente coincide con quello nel cui territorio la domanda è stata presentata;
    alla prova dei fatti, tale sistema presenta almeno due innegabili difetti, rischiando, da un lato, di sovraccaricare gli Stati membri geograficamente più esposti al flusso di profughi (al momento, gli Stati meridionali dell'Unione europea), dall'altro, di ostacolare un'allocazione efficiente dei profughi, quale quella che invece si otterrebbe selezionando lo Stato membro competente in base alla ricettività del suo mercato del lavoro o delle reti di sostegno (parenti, amici) di cui un dato profugo potrebbe soggettivamente godere, nonché dell'effettiva volontà di integrarsi del rifugiato in un Paese che sia stato da lui/lei scelto e non imposto;
    ogni tentativo di riforma che intendesse correggere questi difetti dovrebbe essere accompagnato da una periodica determinazione della percentuale di profughi che ciascuno Stato membro sarebbe tenuto ad accogliere in base alla propria situazione economica e da meccanismi di compensazione (burden sharing) per quegli Stati membri che si trovino ad accogliere una percentuale di profughi superiore a quella loro spettante;
    secondo l'esperienza che in primis l'Italia continua a vivere, appare non più procrastinabile da parte dell'Unione europea la necessità di un cambio di strategia nel rispondere ai fenomeni in atto, caratterizzati da afflussi contingenti di profughi di intensità straordinaria, che seppure generalmente associati a situazioni di guerra o violenza generalizzata, chiamano in causa la capacità di intervento e di mobilitare risorse da parte di tutta l'Unione europea, non solo dei territori più esposti come Lampedusa o Malta;
    rispetto a questo obiettivo, la normativa europea già prevede, con la direttiva 2001/55/CE, che il Consiglio dell'Unione europea possa concedere protezione temporanea a determinati gruppi di persone, con distribuzione dei profughi tra i vari Stati membri in base alla disponibilità accordata da ciascuno Stato;
    l'istituzione di un regime di questo tipo potrebbe essere accompagnata (anche in base alle disposizioni della direttiva stessa) dalla creazione di corridoi umanitari, ossia da misure di evacuazione dei destinatari della protezione, senza che essi debbano affidarsi a trafficanti e scafisti per raggiungere il territorio dell'Unione europea;
    l'istituzione del regime di protezione temporanea non si pone affatto come una modalità emergenziale per il riconoscimento del diritto alla protezione, che resta invece regolato dalle norme a regime, essendo piuttosto da considerarsi come una misura complementare a quanto già previsto in relazione al riconoscimento del diritto a ottenere protezione quando si fugge da un conflitto o da una situazione di violenza generalizzata, un elemento fondamentale della normativa dell'Unione europea, la quale riconosce tale diritto come soggettivamente esigibile (senza che, quindi, gli Stati membri possano opporre alle corrispondenti richieste dinieghi fondati su considerazioni di sostenibilità economica), prevedendo che la richiesta di protezione possa essere presentata solo sul territorio di uno Stato membro;
    drammatiche notizie giungono dal continente africano riguardo all'espandersi del virus ebola, in considerazione del flusso continuo di decine di profughi i quali, raccolti in mare in condizioni disperate mediante operazioni di salvataggio, vengono, quindi, accolti sul territorio senza che i tempi e i mezzi a disposizione permettano uno screening efficace per accertare la presenza o meno del virus;
    la tutela della salute verso i nostri concittadini è da porre su un piano che non può essere considerato di livello inferiore rispetto a quello teso a garantire la tutela e l'accoglienza dei soggetti migranti in arrivo, e quindi debbono espletarsi tutte le procedure, gli sforzi e le iniziative necessarie a garantire che il territorio nazionale possa essere protetto dal rischio di un'epidemia del virus per via dell'accoglienza prestata ai migranti accolti, che attualmente risulta priva di garanzie in tal senso,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative a livello europeo per una rapida revisione del regolamento «Dublino III» affinché si preveda la compartecipazione di tutti gli Stati membri nelle attività di accoglienza e di identificazione dei migranti, superando l'attuale principio del «Paese di primo arrivo», anche al fine di garantire il diritto fondamentale dei richiedenti asilo di presentare domanda di protezione alle autorità del loro Paese di elezione;
   ad adoperarsi affinché il Consiglio europeo del 24 e 25 ottobre 2014 preveda l'applicazione di quanto previsto in caso di «afflusso massiccio di sfollati nell'Unione europea», con le modalità di concessione della protezione temporanea, secondo quanto previsto dalla direttiva 2001/55/CE, definendo quote di accoglienza per ciascuno Stato membro, anche al fine di garantire ai richiedenti asilo e protezione internazionale il diritto costituzionalmente garantito della libertà di circolazione;
   ad assumere iniziative per individuare modalità di identificazione dei beneficiari della protezione temporanea da parte dell'Unione europea anche con il concorso diretto dei Paesi di transito, per esempio, attraverso le delegazioni diplomatiche del servizio europeo per l'azione esterna e/o la rete diplomatico-consolare degli Stati membri, con il coinvolgimento delle organizzazioni internazionali e delle associazioni umanitarie;
   ad assumere iniziative per prevedere la possibilità di introdurre clausole politiche più flessibili per quel che attiene all'identificazione dello Stato membro competente per una domanda di asilo, permettendo anche ad altri Paesi membri, privi di tale competenza, di decidere di assumere comunque titolarità in tal senso, in presenza di condizioni specifiche (una clausola che è costantemente applicata dall'Italia per i minori non accompagnati richiedenti asilo provenienti da altri Paesi);
   a favorire uno sforzo europeo coordinato a beneficio di un maggior utilizzo delle politiche di reinsediamento (resettlement), nonché la promozione di strumenti volti ad assicurare meccanismi di maggiore solidarietà tra gli Stati e di migliore condivisione delle responsabilità fra tutti i Paesi membri, stante il contributo che un più diffuso utilizzo del resettlement potrebbe offrire in termini di soluzione durevole alle problematiche incontrate dai rifugiati (sia quelli presenti sul territorio dell'Unione europea, sia quelli posti al di fuori dei confini europei), garantendo loro piena libertà di circolazione e accesso a tutta l'Europa;
   ad assumere iniziative per individuare chiare modalità e costi dei trasferimenti, prevedendo l'obbligo, prima di un trasferimento, di scambiarsi dati (soprattutto sanitari) necessari a garantire assistenza adeguata, continuità della protezione e soddisfazione di esigenze specifiche, in particolare mediche;
   a promuovere un sistema che regoli la concessione del diritto di asilo secondo standard e procedure comuni in tutti i Paesi e il coordinamento nella raccolta delle domande dei richiedenti, per permettere agli aventi diritto di raggiungere i Paesi di accoglienza in modo sicuro, prevenendo ogni abuso del sistema con la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona;
   ad assumere iniziative volte ad assicurare un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, tale da garantire la libertà di stabilimento del beneficiario in ogni Stato membro, prodromico all'istituzione del sistema europeo di accoglienza;
   a prevedere, al fine di garantire il diritto costituzionale alla salute dei cittadini, che non può essere certamente considerato inferiore al diritto di libertà di circolazione dei migranti, misure di controllo sanitario più stringenti nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo provenienti dai Paesi attualmente focolaio del virus ebola, quali Liberia, Sierra Leone e Nuova Guinea.
(1-00619) «Brunetta, Ravetto, Bergamini, Centemero».


   La Camera,
   premesso che:
    la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo evidenzia come è indispensabile promuovere l'uguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna;
    la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1979, ratificata dall'Italia nel 1985, rappresenta uno degli strumenti di diritto internazionale più importanti in materia di tutela dei diritti umani delle donne. La Convenzione impegna gli Stati che l'hanno sottoscritta ad eliminare tutte le forme di discriminazione contro le donne, nell'esercizio dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali, indicando una serie di misure cui gli Stati devono attenersi per il raggiungimento di una piena e sostanziale uguaglianza fra donne e uomini;
    i diritti delle donne costituiscono parte integrante ed inalienabile di quel patrimonio di diritti universali in cui si riconoscono le moderne società democratiche;
    nonostante la dichiarazione e il riconoscimento di fondamentali diritti civili, sociali e culturali a favore delle donne, la discriminazione sessuale, la negazione di una particolare tutela volta alla presa in carico della donna madre finalizzata a riconsiderare le politiche del lavoro, partendo dal presupposto basilare del riconoscimento del ruolo della famiglia nella società, la violenza fisica e sessuale rappresentano ancora oggi le forme di violazione dei diritti umani più grave e diffusa nel mondo;
    la violenza contro le donne è il primo problema da affrontare per il raggiungimento degli obiettivi di libertà, eguaglianza, non discriminazione e difesa dei diritti umani delle donne;
    la violenza contro le donne, quale risulta caratterizzata a seconda della sua dislocazione geo-politica, assume molteplici manifestazioni, quali la violenza domestica, non solo fisica ma anche intesa come forma di coercizione della libertà personale; la violenza sulla salute, che vede le donne quali soggetti più esposti ai rischi di contagio o alla morte per parto a causa della mancanza di assistenza medica elementare; la violenza contro le bambine, che si manifesta anche attraverso il turpe fenomeno della prostituzione minorile; la violenza nei conflitti armati, che provoca proprio tra le donne un enorme numero di vittime, anche di reati commessi in occasione di conflitti, che vedono le donne assenti ai tavoli negoziali ove si trattino i temi della guerra e della pace; la violenza nel lavoro, che si realizza attraverso le discriminazioni estreme o multiple che possono sommarsi agli ostacoli nell'accesso al mercato del lavoro ed alla disparità di trattamento nelle condizioni di occupazione; ulteriori forme di discriminazione connesse alla condizione di donna immigrata o disabile;
    la crisi economica internazionale, con l'aumento della disoccupazione e della responsabilità delle donne sul luogo di lavoro e della famiglia, induce insieme con la diminuzione del reddito un potenziale aumento della violenza domestica e sociale contro le donne ed una loro maggiore vulnerabilità nelle condizioni di mercato del lavoro;
    è necessario che gli Stati, sotto la Presidenza italiana del semestre europeo, si pongano come obiettivo la promozione della libertà della donna da ogni forma di violenza ed il rispetto della dignità umana delle donne;
    la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica dell'11 maggio 2011 ad Istanbul, per la quale è stata di recente autorizzata la ratifica dal Parlamento, si pone l'obiettivo di proteggere le donne da ogni forma di violenza e di contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione, promuovendo la concreta parità tra i sessi, ivi compreso il rafforzamento dell'autonomia e dell'autodeterminazione delle donne. Inoltre, la Convenzione mira a predisporre un quadro globale, politiche e misure di protezione e di assistenza a favore di tutte le donne vittime di violenza, anche sostenendo e assistendo le organizzazioni e le autorità incaricate dell'applicazione della legge in modo che possano collaborare efficacemente, al fine di adottare un approccio integrato per l'eliminazione della violenza contro le donne e la violenza domestica;
    nel nostro Paese, i primi veri accenni di libertà per le donne possono essere cronologicamente inquadrati nei primi anni Sessanta, il periodo del boom economico e, in particolare, dal Sessantotto in poi, anno celebre non solo per i movimenti studenteschi ma anche per le più aspre rivendicazioni femministe. Come in qualsiasi cambiamento radicale si assunsero presto posizioni talmente estremizzate da travisare il significato originale di quelle che nascevano come giuste rivendicazioni femminili. La libertà si trasformò in liberismo più sfrenato che sfociava, il più delle volte, nel pensiero anarchico. Il nostro tempo porta con sé retaggi non trascurabili di una libertà impropria. Oggi, infatti, le donne hanno una parvenza di maggiore libertà di scelta, ma quasi sempre si tratta di un'illusione. Ad esempio, negli anni l'attuazione della legge sull'interruzione volontaria di gravidanza ha rappresentato l'esempio lampante dell'illusione basata sulla proporzione: maggiore è il diritto di scelta, maggiore è la libertà. La donna, infatti, non è veramente libera di scegliere se le istituzioni non operano per rimuovere quelle condizioni che vincolano la sua reale libertà; Molte donne, di fronte alla mancanza di tutele da parte dello Stato, in caso di gravidanza, compiono una scelta quasi obbligata, in nome di una «libertà» che trascura il valore della vita;
    al contrario di quanto oggi sembra ispirare la linea politico programmatica dell'Esecutivo, basti pensare al disegno di legge delega sulla riforma del lavoro attualmente all'esame del Parlamento; è necessario sviluppare delle politiche a sostegno della donna capaci, da un lato, di creare le stesse condizioni di parità con gli uomini per l'accesso al mondo del lavoro e, dall'altro lato, in grado di valorizzare il ruolo della donna madre all'interno del nucleo familiare, sviluppando, di conseguenza, interventi atti a migliorare i servizi a sostegno della famiglia, a riconsiderare l'imposizione fiscale tenendo conto del fattore famiglia e a sviluppare progetti volti alla ricollocazione nel mondo del lavoro delle donne madri;
    l'introduzione del federalismo fiscale rappresenta un cambiamento epocale che segna finalmente una netta inversione di rotta in merito alle politiche a tutela della famiglia. I firmatari della presente mozione sono convinti, infatti, che l'autonomia impositiva regionale e locale disegnata dalla legge delega sul federalismo fiscale, che tarda ingiustificatamente a trovare la sua piena applicazione, diretta a superare la logica dei trasferimenti vincolati ad alto tasso di burocrazia e a basso tasso d'incidenza sullo sviluppo reale, apra una nuova stagione anche per le politiche fiscali a tutela della famiglia. Questa nuova autonomia regionale e locale sarà, infatti, guidata in base ai principi di coordinamento che sono elencati nella legge delega. Tra questi, quello del favor familiae: «individuazione di strumenti idonei a favorire la piena attuazione degli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, con riguardo ai diritti e alla formazione della famiglia e all'adempimento dei relativi compiti». Si tratta di principi altamente innovativi che connotano la riforma del federalismo fiscale nella direzione di un maggiore riconoscimento fiscale dei carichi familiari e, quindi, nella direzione di una maggiore attuazione di quel favor familiae che orienta il dettato costituzionale;
    in Italia, il sistema fiscale si ostina ad operare come se la capacità contributiva delle famiglie non sia influenzata dalla presenza di figli e dall'eventuale scelta di uno dei due coniugi di dedicare parte del proprio tempo a curare, crescere ed educare i figli. Mentre di norma in tutti gli altri Paesi europei a parità di reddito la differenza tra chi ha e chi non ha figli a carico è consistente. Il sistema di tassazione deve essere riformulato in modo tale da lasciare a disposizione del nucleo familiare una maggiore disponibilità di reddito, ponendo fine all'iniqua penalizzazione a cui è sottoposta dall'attuale sistema fiscale;
    un'emancipazione matura trova compimento nella sinergia tra la donna madre, sostegno alla crescita dei figli e punto di riferimento nel cammino della vita e della famiglia e la donna lavoratrice, impegnata in tutti gli ambiti della vita sociale, economica, culturale, artistica e politica. Oggi, più che nel passato, le donne sono chiamate ad affrontare nuove sfide. La presenza sociale delle donne è indispensabile per contribuire a far esplodere le contraddizioni di una società organizzata quasi esclusivamente su criteri di produttività;
    in questi anni l'Italia ha visto aumentare progressivamente gli ingressi legali e illegali di immigrati sul proprio territorio nazionale. Il fenomeno dell'immigrazione, inevitabilmente, ha portato il nostro paese a confrontarsi con differenti modi di pensare e stili di vita completamente alieni alle radici culturali e religiose italiane. Si deve necessariamente fare i conti anche con l'islam che, favorito dal diffuso atteggiamento multiculturale e buonista, si sta radicando anche nel nostro Paese;
    secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, l'Islam umilia e offende la donna, la considera sottomessa all'uomo dal quale può essere ripudiata (e non viceversa), la obbliga a celare il viso e il corpo, le impone l'infibulazione;
    ma la differenza sostanziale, più che nelle caratterizzazioni esteriori, sta nella concezione stessa che la donna ha di sé. Come l'Islam in quanto sistema rifiuta ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo la mediazione, l'integrazione, la modernità, così la donna islamica, sottomessa, velata, rinchiusa, privata di potestà genitoriale e di qualsiasi autonomia, giustifica ed addirittura difende questo stato. Non può esserci alcuna evoluzione se le principali protagoniste non vogliono modificare la propria condizione;
    a tutto ciò occorre rispondere con la forza generata dall'identità e dai valori di eguaglianza del nostro Paese, che nascono da tutta la tradizione storica italiana, con la consapevolezza che dignità e diritti sono elementi su cui non è possibile scendere a patti,

impegna il Governo:

   a sostenere, nel contesto del semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea, la promozione della libertà della donna da ogni forma di violenza ed il rispetto della dignità umana delle donne;
   a mettere in campo gli strumenti necessari per incentivare le politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro attraverso il potenziamento delle politiche attive per l'occupabilità femminile e dei servizi per il welfare;
   a promuovere reali politiche incentrate sul riconoscimento della famiglia quale nucleo fondamentale della società, dando attuazione al favor familiae declinato nella legge delega sul federalismo fiscale;
   a promuovere un programma di educazione e formazione ai diritti umani per tutti, anche a partire da tutti gli ordini di scuole, dato che il fenomeno della violenza contro le donne rappresenta un problema culturale che investe l'intero Paese, soprattutto in ragione del fenomeno migratorio che comporta il coacervo di culture portatrici di valori profondamente diversificati rispetto alle tradizioni italiane;
   a lanciare iniziative pubbliche di sensibilizzazione e a promuovere codici etici per l'informazione riguardo all'immagine femminile, anche attraverso i siti istituzionali e il servizio di radio-diffusione pubblico nazionale;
   a lanciare iniziative pubbliche di sensibilizzazione affinché tutte le donne utilizzino le strutture pubbliche esistenti, quali i centri di ascolto preposti ad affrontare realtà di sopraffazione e violenza, anche motivate da convinzioni culturali e religiose;
   ad assumere iniziative normative dirette a definire nuove fattispecie di reato connotate da maggior rigore sanzionatorio nei confronti di chi, se pur per motivi di appartenenza culturale o religiosa, istiga a mettere in atto comportamenti compromettenti il principio della parità di genere e della libertà personale.
(1-00620) «Rondini, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Simonetti».


   La Camera,
   premesso che:
    la crisi economica ha inciso e sta incidendo in misura significativa sulla produzione, sui consumi, sull'attività delle piccole e medie imprese, soprattutto allocate nel Mezzogiorno d'Italia;
    la crisi economica evidenzia ogni giorno di più l'esigenza di una rinnovata e prioritaria attenzione in particolare per il Sud ai problemi dell'occupazione, del lavoro, dei redditi e dell'impresa;
    ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, l'attuale politica governativa, per molti aspetti sembra non abbia ancora una strategia indirizzata al miglioramento e all'innovazione del contesto, con un evidente vuoto d'iniziativa che emerge come grave di fronte ad una crisi che colpisce particolarmente l'economia meridionale dispiegando effetti drammatici, anche se talvolta meno visibili a causa della frammentazione del tessuto imprenditoriale e del peso dell'economia cosiddetta a-legale, sospesa tra sommerso e illegalità;
    a fronte di questa situazione disastrosa l'impegno del Governo per il Mezzogiorno sembrerebbe racchiuso nell'unica promessa del raccordo dei fondi strutturali, cosa di per sé positiva ma del tutto insufficiente a risolvere l'enorme problema;
    v’è sovente inefficienza o vero e proprio spreco, nel mancato utilizzo delle risorse europee per le regioni del Sud. Ma è noto anche che non basta mettere in elenco le risorse dei fondi europei per risolvere la questione perché i dati che sono sotto i nostri occhi non possono essere modificati con le semplici buone intenzioni, né con la sola stigmatizzazione delle regioni inadempienti. Occorre viceversa comprendere che la crisi del Mezzogiorno è la crisi dell'intero Paese e occorre agire di conseguenza con interventi urgenti e prioritari;
    al Sud vi è un gap infrastrutturale, in termini di trasporti, logistica, ricerca e innovazione, rispetto al resto del Paese; le conseguenze della presenza delle associazioni mafiose nel Mezzogiorno si intrecciano in modo complesso con l'economia del Sud, stravolgendo le regole del «fare impresa» e scoraggiando gli investimenti stranieri, oltre che creando un grave e indiscusso disagio sociale. Tutto ciò appare paradossale se solo si pensa che ogni iniziativa di carattere pubblico adottata nella storia repubblicana in favore del Sud va regolarmente a patire gli effetti della corruzione e dello sperpero. A tal proposito è opportuno fare appena cenno a quanto accaduto negli ultimi decenni: il Sud ha fruito, infatti, dapprima dei fondi della Cassa per il Mezzogiorno, durata dal 1950 al 1992, la quale dal 1957 in avanti erogò contributi a fondo perduto e crediti agevolati. Nel primo ventennio circa di attività la Cassa per il Mezzogiorno sembrò funzionare, ma la qualità del suo servizio andò progressivamente declinando mano a mano che i partiti invadevano e inquinavano la vita pubblica. La Cassa per il Mezzogiorno tramontò malinconicamente, abbandonata agli scandali e rappresentò uno dei più gravi esempi di corruzione e di interrelazione fra affari, politica e malavita nel Sud;
    poi fu la volta dei fondi della legge n. 488 del 1992, oggetto di frodi e di truffe fino alla sua conclusione avvenuta nel 2008. La legge n. 488 del 1992 è stata lo strumento attraverso il quale il Ministero delle attività produttive aveva messo a disposizione delle imprese che intendevano promuovere programmi di investimento, nelle aree depresse, agevolazioni sotto forma di contributi in conto capitale («a fondo perduto»);
    nel frattempo si erano aggiunti i fondi europei, destinati dall'Unione europea alle politiche di coesione, ma anche questi non hanno fatto una fine migliore. La sintesi migliore la offrì il Governatore della Banca d'Italia pro tempore Draghi nelle «considerazioni finali» di una delle sue relazioni in Banca d'Italia: «Il Mezzogiorno ha goduto in questo decennio (1998-2008) di fondi paragonabili per entità a quelli dell'intervento straordinario e che equivalevano a circa 45 miliardi di euro o a quasi tre punti di PIL». E tuttavia non esiste evidenza di vantaggi visibili;
    un esempio su tutti è quello legato al capitolo di spesa privilegiato dalla riprogrammazione dei programmi della convergenza, ossia dell'Agenda digitale europea: 1.140 milioni di euro destinati agli investimenti nel Sud per la banda ultralarga, 118,9 milioni di euro per la banda larga fino a 2 mega, 320 milioni di euro per i data center;
    allo stesso modo si rammentano i 1.242 milioni di euro destinati esclusivamente alle quattro regioni obiettivo convergenza (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), o i 142 milioni di euro per il credito di imposta per l'occupazione, o ancora le risorse per la rete dei trasporti, cui erano stati assegnati 1,2 miliardi di euro: per strade (866 milioni di euro) e aeroporti (28 milioni di euro);
    ma la sequenza di interventi che tardano a dispiegare effetti non finisce qui: si pensi alla legge n. 191 del 2009 che ha previsto la nascita di una banca con l'obiettivo di finanziare progetti di investimento nel Mezzogiorno, di erogare credito alle piccole e medie imprese, di favorire la nascita di nuove imprese e l'imprenditorialità giovanile e femminile, nonché di promuovere l'aumento dimensionale e l'internazionalizzazione di tali imprese, di finanziare attività di ricerca e innovazione, il tutto come detto, nelle regioni del Sud Italia. Per questo motivo, il 1o agosto 2011 Poste Italiane spa aveva acquisito, per 136 milioni di euro, il 100 per cento di Unicredit Mediocredito Centrale e, pertanto, da settembre 2011, la nuova denominazione societaria è Banca del Mezzogiorno-Mediocredito Centrale spa operativa dal 2 febbraio 2012;
    tuttavia anche in questo caso, nonostante siano i soldi pubblici a sostenere l'impresa, non pare che detto strumento abbia dato respiro alle piccole e medie imprese del Sud. Nel corso della XVII legislatura sono state già presentate diversi atti di sindacato ispettivo nei quali vengono richiesti i dettagli delle erogazioni della Banca del Mezzogiorno perché sovente destinati a gruppi industriali estranei alla «mission» meridionalista dell'istituto finanziario;
    da tali esperienze consegue che, per uscire dall'angolino dove la storia lo ha confinato, il Mezzogiorno ha bisogno di buona amministrazione, di correttezza, di lungimiranza e non di farsesche vicende di comuni, di municipalizzate e di privilegi regionali;
    è fondamentale che lo Stato rafforzi la propria presenza in tali territori, consolidando i tribunali, presidio di legalità e freno alla criminalità; occorre un intervento capace di promuovere sviluppo ed occupazione nel Mezzogiorno, al fine di favorire la ripresa dell'economia meridionale, come base per la crescita e lo sviluppo dell'intero Paese anche favorendo, sin dall'età scolare, percorsi educativi volti a stimolare un cambio culturale che determini già in età giovanile l'educazione all'impresa. In questo momento di crisi molte imprese sono costrette alla chiusura, non rientrando nei parametri degli studi di settore e il complesso scenario economico italiano, aggravato dalle conseguenze della crisi finanziaria, pone ancora una volta in primo piano la questione di un Paese con due differenti velocità di sviluppo: nel Mezzogiorno si produce solo un quarto del prodotto interno e si genera soltanto un decimo delle esportazioni italiane;
    il Mezzogiorno italiano è ancora privo di quella rete di infrastrutture essenziale per lo sviluppo e negli ultimi anni si è avvertita l'assenza, nei programmi di Governo, di un respiro strategico, volto a ridurre il gap economico, infrastrutturale e sociale del Sud;
    come già descritto nel presente atto di indirizzo, per lungo tempo si è assistito alla distorsione delle risorse destinate al Sud perché oggetto ora di dissennati tagli operati sulla dotazione del fondo per aree sottoutilizzate per finanziare interventi di diversa natura o fatti oggetto di corruttela o non sempre corrispondenti a finalità di sviluppo e quasi sempre non localizzati nel Mezzogiorno. Ed invece il Meridione, grazie alla posizione geografica ed alla dotazione di porti e aeroporti, potrebbe svolgere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa, Mediterraneo e Paesi del far east e raccogliere le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale;
    altresì si consideri che oltre un terzo dei laureati del Mezzogiorno under 34 è inattivo e la differenza con le regioni settentrionali diventa enorme se si considera il tasso di inattività dei diplomati under 34; i tassi di scolarizzazione in Italia presentano divari sfavorevoli al Meridione e sono accompagnati da un parallelo aumento del tasso di abbandono, dovuto alle condizioni di degrado sociale e familiare. Negative sono anche le evidenze in termini di «qualità» della formazione, dal momento che gli studenti meridionali che terminano la loro carriera accademica hanno maggiori difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro. Si genera così un ampio fenomeno migratorio dei «cervelli» che lasciano le regioni del Sud, provocando un depauperamento del capitale umano disponibile;
    il sistema produttivo del Mezzogiorno è legato a fattori strutturali di debolezza che riguardano le dimensioni piccole o piccolissime delle imprese di quest'area, spesso a gestione familiare, operanti prevalentemente in settori a basso valore aggiunto e con una conseguente scarsa propensione a investire nell'innovazione e in ricerca e sviluppo; inoltre, come già detto, permane una forte presenza della criminalità organizzata, che tenta di infiltrarsi nei grandi appalti per opere pubbliche e tenta di condizionare l'attività di impresa, e della microcriminalità che peggiora la qualità della vita nei centri urbani, aumentando il disagio sociale;
    eppure il Sud avrebbe modo di risollevare le sorti occupazionali già solo attraverso l'industria del turismo, tuttavia i dati relativi al turismo nel Meridione sono paradossali: su 100 stranieri che visitano l'Italia, meno di 1 va in Calabria (0,9 per cento per chi ama l'esattezza), ancora meno in Molise. In Basilicata si raggiunge lo 0,1 per cento e in Abruzzo lo 0,6 per cento. Sommando le otto regioni meridionali, includendo Sicilia e Sardegna, si arriva al 13,2 per cento. Fa di più il solo Trentino Alto Adige, con il 14,2 per cento. Le politiche del turismo sono pertanto fallimentari;
    vari studi hanno tentato di quantificare, in termini di ritorno economico e occupazionale, lo sviluppo turistico del Sud anche per sollecitare un cambiamento culturale in tal senso ma nulla sembra essersi modificato in questi anni e la causa non è la mancanza di fondi (le recenti difficoltà del Programma operativo interregionale «Attrattori culturali, naturali e turismo» confermano che le criticità sono spesso politiche): i contributi europei arrivati al Sud non hanno generato virtuose sinergie tra destinazioni, operatori e investitori esterni, né hanno dato vita a poli di eccellenza che potessero «contaminare» positivamente i territori;
    è necessario promuovere lo sviluppo sostenibile del territorio e coniugare il tutto alle imprescindibili logiche di mercato del turismo che impongono prodotti, servizi e infrastrutture in grado di far fronte a una domanda che ha sempre più alternative a disposizione. Occorre selezionare, previa individuazione, le strutture, i siti, i beni di più grande interesse siti nel Meridione e abbandonati a sé stessi – ve ne sono di innumerevoli – e procedere per la loro valorizzazione sul piano nazionale,

impegna il Governo:

   ad assegnare al tema dello sviluppo economico e sociale del Mezzogiorno una valenza prioritaria nell'ambito della politica economica nazionale e di quella comunitaria di coesione;
   ad assumere politiche in grado di favorire la localizzazione delle attività produttive nelle aree del Sud, rafforzando così il tessuto produttivo e favorendo i processi di agglomerazione produttiva, i cui benefici ricadranno anche sulle imprese del Centro-Nord che non riescono a reperire aree industriali e manodopera qualificata;
   a portare la dotazione infrastrutturale del Mezzogiorno ai livelli del resto del Paese;
   a promuovere una politica di sviluppo che, sulla base della rilevata inefficacia degli interventi effettuati per il Mezzogiorno nell'ultimo decennio, tenda a privilegiare interventi infrastrutturali in una logica di concentrazione settoriale delle risorse;
   ad assumere un impegno straordinario per sconfiggere la criminalità organizzata e tutti quei fenomeni di illegalità, dal lavoro sommerso alla microcriminalità, che determinano un ambiente sfavorevole agli investimenti ed allo sviluppo;
   a favorire lo sviluppo nelle regioni meridionali di un sistema creditizio e finanziario che sia in grado di accompagnare e promuovere la crescita dimensionale, l'innovazione e l'internazionalizzazione delle imprese, anche con particolare riferimento alle iniziative in essere, quali quelle della Banca del Mezzogiorno, attraverso un chiaro utilizzo delle risorse, espressamente diretto al soccorso delle piccole e medie imprese meridionali;
   a valutare l'opportunità di definire progetti finalizzati al rientro nelle regioni di provenienza dei giovani ad alta e altissima qualificazione universitaria e post-universitaria, contribuendo in tal modo ad invertire i consistenti flussi di emigrazione che coinvolgono in modo preoccupante le migliori energie intellettuali del Mezzogiorno;
   a valutare l'opportunità di porre in essere iniziative che favoriscano e incentivino il consolidamento di un tessuto imprenditoriale meridionale, creando un contesto favorevole allo sviluppo economico ed alla crescita dell'occupazione;
   a valutare l'opportunità di operare, partendo dall'esigenza di tutelare e valorizzare le produzioni tipiche del Mezzogiorno, per l'affermazione di una filiera agricola tutta italiana, che parta proprio dalla specifica vocazione del territorio e che voglia investire sulle positività, per garantire i livelli occupazionali e dare ai produttori la giusta remunerazione;
   ad avviare con estrema urgenza un piano di interventi strutturali e infrastrutturali a sostegno della crescita e dello sviluppo dell'intera regione meridionale incentivando e promuovendo le tematiche ambientali;
   ad avviare ogni iniziativa utile a promuovere la raccolta differenziata, il riciclo e la trasformazione dei rifiuti, cogliendo tali opportunità anche a fini occupazionali;
   a valorizzare, d'intesa con le regioni, processi di infrastrutturazione sociale che stimolino – in particolare nel Mezzogiorno – il protagonismo dei soggetti locali, forme di cooperazione tra soggetti privati e pubblici, la mutualità, il microcredito, prestiti d'onore ai giovani, la realizzazione di imprese no profit e di cooperative di produzione e lavoro, l'espansione delle forme di economia civile, anche sostenendo la realizzazione di fondazioni di comunità o istituendo fondi di distretto, con una particolare attenzione alla piccola e media impresa;
   a promuovere iniziative volte a selezionare, previa individuazione, le strutture, i siti, i beni di più grande interesse ubicati nel Meridione e abbandonati e procedere alla loro valorizzazione sul piano nazionale;
   a promuovere iniziative volte a favorire, sin dall'età scolare, percorsi educativi finalizzati a stimolare un cambio culturale che determini già in età giovanile l'educazione all'impresa con particolare riferimento a quella legata alle risorse dei luoghi;
   a promuovere interventi urgenti di contrasto al lavoro nero attraverso controlli stratificati sul territorio e, nello specifico, nelle aree meridionali;
   ad utilizzare, nell'ambito delle politiche nazionali, la leva fiscale e contributiva in favore delle piccole imprese e della famiglia;
    a definire un piano nazionale di contrasto alla povertà che presti una particolare attenzione alle regioni del Mezzogiorno.
(1-00621) «Baldassarre, Currò, Rostellato, Barbanti, Tripiedi, Bechis, Chimienti, Ciprini, Cominardi, Rizzetto».


   La Camera,
   premesso che:
    «La pratica dell'educazione fisica e dello sport è un diritto fondamentale per tutti. Ogni essere umano ha il diritto fondamentale di accedere all'educazione fisica e allo sport, che sono indispensabili allo sviluppo della sua personalità», così recita l'articolo 1 della Carta internazionale per l'educazione e lo sport dell'UNESCO approvata il 21 novembre 1978;
    il 26 per cento delle persone disabili in Italia pratica un'attività sportiva ed il 60 per cento di questi ha un'età compresa tra i 6 e i 44 anni. Il motivo prevalente della pratica sportiva rimane fino ai 44 anni lo svago, soltanto dopo subentra lo scopo terapeutico dell'attività;
    fino a non molto tempo fa un disabile (fisico o mentale) era impossibilitato a svolgere attività sportive, sia amatoriali che agonistiche. Adesso, gradualmente, la situazione sta cambiando, grazie anche al decadimento di certi radicati ed insensati pregiudizi che hanno lasciato il posto allo spirito d'eguaglianza, che ormai la fa sempre più da padrone, nelle istituzioni ma pian piano anche nella società in generale, che evita di giudicare con sufficienza i disabili rispetto ai normodotati;
    fare sport o assistere ad avvenimenti sportivi più o meno importanti non è più prerogativa solo dei fisicamente integri; oggi tutti possono e devono cimentarsi in varie discipline, magari le più congeniali alle loro patologie;
    l'attività fisica non produce esclusivamente un benessere fisico, ma, rispetto ad alcune disabilità, come quella mentale favorisce lo sviluppo delle capacità logiche ed intellettive, diventando un importante strumento educativo per il processo evolutivo;
    lo sviluppo di potenzialità individuali, l'incremento di capacità e l'acquisizione di abilità, integrazione in contesti di vita ricchi di relazioni significative rendono il ruolo dell'attività motoria e sportiva fondamentale nell'intervento rivolto a soggetti disabili che, in questo modo, hanno la possibilità di trovare elementi di successo e valorizzazione personale, praticando, con alta motivazione e divertimento, un'attività particolarmente benefica;
    la possibilità, dunque, di rendere effettivo il diritto della persona diversamente abile di, fare sport o di essere spettatore attivo di avvenimenti sportivi locali o nazionali passa anche attraverso l'abbattimento delle barriere architettoniche negli impianti sportivi, primi fra tutti quelli destinati alla pratica di discipline regolamentate dalle Federazioni nazionali e dalle loro affiliate,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative volte a controllare e migliorare gli accessi e gli stessi impianti sportivi, garantendo un completo abbattimento delle barriere architettoniche, al fine di consentire una reale e vera fruizione sia da parte degli atleti che degli spettatori diversamente abili;
   a predisporre un piano nazionale, in collaborazione con le regioni e nel rispetto delle competenze di ciascun soggetto istituzionale interessato, al fine di incrementare le strutture ricettive atte a colmare la domanda sportiva dei disabili;
   a predispone tutte le iniziative necessarie, sia economiche che normative, volte a incentivare la pratica sportiva tra le persone diversamente abili;
   ad assumere iniziative per attribuire adeguati finanziamenti al Comitato italiano paraolimpico, visto il suo ruolo indispensabile nell'attività di promozione sul territorio dello sport per i diversamente abili.
(1-00622) «Argentin, Albanella, Amoddio, Arlotti, Bargero, Becattini, Brandolin, Capodicasa, Carloni, Carnevali, Carra, Carrozza, Casellato, Coccia, D'Incecco, De Maria, De Menech, De Micheli, Famiglietti, Fanucci, Fedi, Giacobbe, Giulietti, Gribaudo, Guerra, Iacono, La Marca, Magorno, Marantelli, Marchetti, Marchi, Mazzoli, Minnucci, Nicoletti, Patriarca, Piccione, Salvatore Piccolo, Pollastrini, Realacci, Romanini, Paolo Rossi, Rostan, Sbrollini, Scuvera, Senaldi, Sgambato, Terrosi, Valiante, Verini, Zardini».


   La Camera,
   premesso che:
    la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, nella seduta del 16 aprile 2014 (verbale n. 6/2014), ha espresso intesa favorevole all'inserimento del progetto del canale Contorta-Sant'Angelo nella legge obiettivo (11o Allegato Infrastrutture) con la seguente formulazione: «nel corso della Seduta è stata chiarita, tra il comune di Venezia, la regione Veneto e il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti la questione relativa al Canale Contorta del comune di Venezia, prendendo atto che la formulazione individuata dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, che indica l'opera come “Interventi per la sicurezza dei traffici delle grandi navi nella laguna di Venezia”, appare rispettosa di quanto stabilito in proposito anche in sede di discussione parlamentare»;
    il summenzionato atto, citato come «intesa della Conferenza unificata» dall'articolo 1 della legge n. 443 del 2001 e successive modificazioni, è da considerarsi componente endoprocedurale dell’iter di definizione delle infrastrutture strategiche, ma non vincola il Governo né tanto meno sostituisce gli atti appropriati a definire il programma delle infrastrutture strategiche ex legge obiettivo n. 443 del 2001, di seguito sunteggiati;
    l'unico atto che, in base alla legge n. 443 del 2001, consente di qualificare una infrastruttura come inserita nel programma delle infrastrutture strategiche è la sua esplicita e diretta individuazione come tale nel Documento di economia e finanza, per la precisione negli opportuni allegati al Documento di economia e finanza o alla nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza;
    il progetto «Adeguamento via acquea di accesso alla stazione marittima di Venezia e riqualificazione delle aree limitrofe al Canale Contorta-Sant'Angelo» non risulta, allo stato, inserito nel Programma delle infrastrutture strategiche vigente, in quanto non menzionato nei sopra accennati: allegato V al Documento di economia e finanza trasmesso dal Governo alla presidenza delle Camere il 19 aprile 2003; allegato III alla Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, trasmesso dal Governo alla presidenza delle Camere il 30 settembre 2013; allegato V al Documento di economia e finanza, trasmesso dal Governo alla presidenza delle Camere il 9 aprile 2014; allegato III alla Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza trasmesso dal Governo alla presidenza delle Camere il 3 ottobre 2014;
    una deliberazione del comitato interministeriale per la Programmazione economica con cui, il primo agosto 2014, la citata opera («Adeguamento via acquea di accesso alla stazione marittima di Venezia e riqualificazione delle aree limitrofe al Canale Contorta-Sant'Angelo») sarebbe stata inserita in un «Elenco delle Opere e Interventi Strategici (legge 443/2001)» (sic), non può secondo i firmatari del presente atto avere efficacia ai fini del suo diretto inserimento nel programma di infrastrutture strategiche previsto in base alla legge n. 443/2001, configurandosi siffatta deliberazione CIPE come mero parere (articolo 1, comma 1 legge n. 443 del 2001), eventualmente prodromico all'assunzione di successivo provvedimento formalmente valido per inserire l'opera nel programma di infrastrutture strategiche, ma certo non sufficiente per tale fine;
    una formulazione che, riferendosi all'opera citata non come «Adeguamento via acquea di accesso alla stazione marittima di Venezia e riqualificazione delle aree limitrofe al Canale Contorta-Sant'Angelo», ma come uno dei possibili «Interventi per la sicurezza dei traffici delle grandi navi nella laguna di Venezia», come riportato a pagina 224 dell'Allegato III alla Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza 2014, sia ritenuta valida per l'inserimento nel programma delle infrastrutture strategiche, ad avviso dei firmatari proponenti configurerebbe una deduzione indebita, in quanto la legge n. 443 del 2001, all'articolo 1 commi 1 e 1-bis, prevede che le infrastrutture strategiche in oggetto siano individuate in apposito elenco e non desunte implicitamente da generiche enunciazioni di finalità, località o tipologie di intervento;
    per le ragioni sopra dette, il Progetto «Adeguamento via acquea di accesso alla stazione marittima di Venezia e riqualificazione delle aree limitrofe al Canale Contorta Sant'Angelo – C.P.ID VIP 2842», con cui il l'autorità portuale di Venezia ha indicato l'opera nella istanza di verifica di ammissibilità nella modalità di valutazione di impatto ambientale speciale da infrastruttura strategica ex legge n. 443 del 2001, manca del presupposto per essere esaminato o ammesso in sede di valutazione di impatto ambientale con la procedura riservata ai progetti inseriti nel programma delle infrastrutture strategiche di cui alla legge obiettivo n. 443 del 2001, giacché l'infrastruttura non possiede lo status attribuitole, non essendo allo stato individuata in alcun documento valido all'uopo;
    come risulta chiaramente dalle cartografie ufficiali recentemente prodotte dall'autorità portuale di Venezia (in risposta ad alcune osservazioni da parte dell'amministrazione comunale di Venezia), né il Canale Contorta Sant'Angelo (variamente in adiacenza, sovrapposizione e intersezione al quale si pone il tracciato del nuovo canale oggetto della proposta di realizzazione), né alcun altro canale con quella localizzazione e tracciato, attualmente costituiscono «via acquea di accesso alla stazione marittima»; né esiste attualmente alcun canale, associabile o assimilabile per dislocazione e tracciato a quello indicato nel citato progetto, che sia percorribile dalle navi per raggiungere la stazione marittima, e costituisca quindi «via acquea di accesso alla stazione marittima»;
    la dicitura «Adeguamento via acquea di accesso alla stazione marittima di Venezia e riqualificazione delle aree limitrofe al Canale Contorta Sant'Angelo – C.P.ID VIP 2842» risulta ingannevole in quanto, con la parola «adeguamento», intende riferirsi a una condizione non sussistente, poiché l'attuale canale lagunare, che sarebbe oggetto di adeguamento, non è in alcun modo riconosciuto come canale utilizzabile dalle navi per l'accesso alla stazione marittima, né risulta nemmeno formalmente classificato quale canale portuale. Ne consegue che l'intervento proposto non può essere definito quale «adeguamento di via acquea alla stazione marittima», e invece deve essere correttamente qualificato come «realizzazione di una nuova via acquea portuale di accesso alla stazione marittima»;
    dalle citate cartografie dell'autorità portuale si evince altresì che il piccolo canale lagunare (non portuale) Contorta-Sant'Angelo, come tutto il suo circostante ambito, entro cui si inscriverebbe il nuovo canale portuale indicato nel progetto per cui l'autorità portuale di Venezia ha presentato istanza di verifica di ammissibilità nella modalità di valutazione di impatto ambientale speciale da infrastruttura strategica ex legge n. 443/2001, non ricade in alcuna sua parte entro le attuali aree demaniali portuali, né entro l'ambito portuale oggetto dei Piani regolatori portuali vigenti;
    per le ragioni sopra esposte, l'autorità portuale di Venezia non è, a giudizio dei firmatari, competente a proporre, finanziare o realizzare un intervento come quello proposto, né può essere riconosciuta come Autorità aggiudicatrice e proponente alla valutazione di impatto ambientale dell'opera in oggetto, pertanto la sua istanza di ammissione del progetto «Adeguamento via acquea di accesso alla stazione marittima di Venezia e riqualificazione delle aree limitrofe al Canale Contorta Sant'Angelo – C.P.ID VIP 2842» non dovrebbe neppure essere ammessa all'esame in sede di valutazione di impatto ambientale con la procedura riservata ai progetti inseriti nel programma delle infrastrutture strategiche di cui alla legge n. 443 del 2001, e men che meno approvata come tale;
    l'ordine del giorno del Senato del 6 febbraio 2014 G1 (testo corretto) impegnava invece Governo: 1) ad assicurare che tutte le soluzioni presentate dai vari soggetti, pubblici e privati, siano preliminarmente e contemporaneamente comparate e considerate in sede di, valutazione ambientale, a prescindere dallo stato di avanzamento progettuale, con le normali modalità di cui alla normativa VIA e VAS, opportunamente potenziata, attraverso un processo trasparente e partecipato e sentita la Commissione per la salvaguardia di Venezia; 2) a porre al centro della valutazione comparativa la rispondenza degli scenari prospettati alle condizioni progettuali: a) compatibilità ed impatto ambientale; b) rapidità di esecuzione; c) gradualità e reversibilità; d) impatto sull'economia di settore nella fase transitoria e continuità dell'offerta crocieristica; e) entità delle risorse da impiegare; f) sostenibilità economica e ambientale di lungo periodo; g) rispetto delle normative vigenti; 3) ad avviare le valutazioni comparative delle soluzioni presentate entro 30 giorni e a concluderle entro tre mesi, tenuto conto della necessità di garantire i livelli occupazionali; 4) una volta operata la scelta con le modalità, le garanzie e i tempi di cui sopra, ad effettuare nel più breve tempo possibile i lavori conseguenti rispettando la normativa vigente;
    si ritiene necessario segnalare un evidente travisamento dell'ultimo punto dell'ordine del giorno del Senato che, invitando ad eseguire i lavori nel più breve tempo possibile, non prevede certamente di eludere o semplificare le procedure di controllo e verifica della compatibilità e sostenibilità del progetto, oggetto anch'esse di impegno;
    l'interpretazione contenuta nell'intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata, e riproposta nella sua inadeguatamente generica formulazione nell'allegato III all'ultima Nota di aggiornamento al DEF, è pertanto secondo gli interroganti di segno opposto agli intendimenti del Senato ed oltremodo contraria alla volontà espressa dalla Camera alta, nella sua preoccupante formulazione che fa riferimento a «interventi per la sicurezza dei traffici delle grandi navi nella laguna di Venezia», con cui si assoggetta alla legge obiettivo – con scelta noncurante della lettera della legge n. 443/2001, per le ragioni anzi esposte in premessa – ogni intervento che riguardi i traffici portuali del bacino lagunare. Vengono così eluse, inoltre, le indicazioni date dal Parlamento in merito al rispetto delle «normali modalità di cui alla normativa VIA e VAS, opportunamente potenziata, attraverso un processo trasparente e partecipato e sentita la Commissione per la salvaguardia di Venezia», come sottolineato nel primo punto dello stesso ordine del giorno approvato. A seguito del citato voto del Senato del 6 febbraio 2014, peraltro, non risulta sia stata realmente effettuata una valutazione comparativa tra le diverse alternative progettuali secondo i parametri indicati, ma una discutibile valutazione affidata ad organi non competenti in materia di tutela ambientale e paesaggistica;
    secondo quanto riferito nell'atto di sindacato ispettivo 4-02186, presentato in Senato il 13 maggio 2014, la Commissione tecnica di verifica dell'impatto ambientale del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, con parere n. 1346 del 27 settembre 2013, aveva già evidenziato importanti criticità sul progetto preliminare del canale Contorta, sottolineando che il progetto preliminare proposto dall'autorità portuale di Venezia «risulta di particolare complessità progettuale, sia con riferimento ai significativi impatti ambientali sull'intero ecosistema lagunare in fase di cantiere e in fase di esercizio, sia con riferimento ai previsti tempi di realizzazione, pari ad almeno 4 anni, elementi che suggeriscono un diverso approccio per l'individuazione di una soluzione temporale, progettuale e ambientale sostenibile al fine di dare attuazione al decreto ministeriale 2 marzo 2012»;
    alla riunione presso palazzo Chigi dell'8 agosto 2014 del Comitato per Venezia, a cui hanno preso parte i Ministri delle infrastrutture e dei trasporti, dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e dei beni e delle attività culturali e del turismo, oltre all'autorità portuale e al magistrato alle acque, è stato deciso di avviare da subito il progetto del canale Contorta-Sant'Angelo alla valutazione di impatto ambientale, ignorando, quindi, le indicazioni approvate dal Senato e le criticità già evidenziate dalla commissione tecnica del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare;
    cosiddetto decreto Clini-Passera, decreto ministeriale 2 marzo 2012, prevede all'articolo 2, comma 1, lettera b), punto 1) che nella laguna di Venezia sia vietato il transito nel canale di San Marco e nel canale della Giudecca delle navi adibite al trasporto di merci e passeggeri superiori a 40.000 tonnellate di stazza lorda. Ai sensi dell'articolo 3 del medesimo provvedimento, tale divieto si applica a partire dalla disponibilità di vie di navigazione praticabili alternative a quelle vietate, come individuate dall'autorità marittima con proprio provvedimento. Nelle more di tale disponibilità, l'autorità marittima, d'intesa con il magistrato alle acque di Venezia e l'autorità portuale, adotta misure finalizzate a mitigare i rischi connessi al regime transitorio perseguendo il massimo livello di tutela dell'ambiente lagunare;
    nel corso del dibattito degli ultimi 2 anni sono emerse proposte che individuano non solo vie di navigazione praticabili alternative a quelle vietate, bensì anche più sostenibili scali alternativi lungo vie di navigazione esistenti e praticabili;
    la mobilitazione locale, nazionale e internazionale a difesa della laguna di Venezia, a cui si assiste in queste settimane, nonché le raccomandazioni dell'Unesco, dovrebbero indurre ad una riflessione più attenta su progetti devastanti sotto il profilo ambientale e paesaggistico, come quello della realizzazione del canale Contorta-Sant'Angelo, e sulla reale necessità del transito delle navi attraverso la bocca di porto di Lido;
    lo studio per la valutazione di incidenza ambientale (VINCA) ex direttiva 92/43/CE (cosiddetta «Habitat»), commissionato dalla stessa autorità portuale di Venezia e da poco presentato, nella sua relazione ha espresso valutazione negativa sul progetto di scavo del canale, in quanto esso comporterebbe la perdita di 44 ettari di habitat protetto tra siti di importanza comunitari (SIC) e zone di protezione speciale (ZPS);
    il contributo pari allo 0,5 per mille del valore delle opere da realizzare, gravante in capo al richiedente la valutazione di impatto ambientale, che sia ordinaria o per legge obiettivo, rende di fatto questo strumento incompatibile con l'istanza di una valutazione comparata di proposte alternative;
    le valutazioni comparate che l'autorità portuale ha dichiarato di aver svolto non hanno avuto alcuna pubblicità, né l'ha avuta il supposto confronto tra soluzioni alternative, al quale non risulta che abbiano preso parte i comuni della zona interessata; non è inoltre noto con quali criteri sia stata svolta la comparazione, né se siano stati ammessi progetti alternativi con pari dignità a prescindere dallo stadio di approfondimento progettuale, né se siano stati presi in considerazione i criteri raccomandati nell'ordine del giorno del Senato del 6 febbraio 2014 G1 (testo corretto); infine, non sfugge a nessuno l'imbarazzante conflitto di ruoli insito nel fatto che l'autorità portuale proponente coincida con quella che valuta le proposte e promuove la propria;
    è evidente, anche alla luce delle risultanze delle recenti inchieste della magistratura che hanno interessato il sistema Mose di Venezia, che estrema attenzione e maggiore cautela dovrebbero essere usate nella valutazione e realizzazione di opere caratterizzate da elevata complessità tecnico-scientifica, rilevante valenza ambientale degli obiettivi perseguiti e ingente quantità di denaro pubblico utilizzato per i lavori connessi,

impegna il Governo:

   a garantire che tutti gli atti adottati e gli interventi promossi relativamente alla portualità lagunare siano sempre coerenti con l'ordine del giorno n. 9/1-00199/1 del Senato approvato il 6 febbraio 014;
   ad adottare ogni necessaria iniziativa idonea a difendere la laguna di Venezia dallo scavo di nuovi canali portuali quali il Contorta-Sant'Angelo, il «retro» Giudecca, nonché dall'allargamento del canale Malamocco-Marghera, che nei decenni ha causato danni ambientali incalcolabili per la laguna centrale di Venezia;
   a valutare le proposte progettuali di un nuovo scalo navi passeggeri in bocca di porto di Lido, anche provvedendo ad avviare, attraverso strutture pubbliche, studi, indagini ed eventuali verifiche tecniche;
   a subordinare l'applicazione dell'articolo 3 del decreto «Clini-Passera» (decreto ministeriale 2 marzo 2012) alla disponibilità di nuovi scali alle bocche di porto lagunari, prevedendo sin da subito una graduale estromissione dalla laguna di Venezia delle navi con essa incompatibili;
   a rivedere il progetto del Mose in bocca di porto di Lido, in funzione delle limitazioni della navigazione disposte dal decreto Clini-Passera, riducendo la profondità della soglia di San Nicolò;
   a rivedere l'intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata il 16 aprile 2014, escludendo, tenuto conto delle peculiarità della laguna di Venezia, il ricorso alle procedure speciali previste dalla legge 21 dicembre 2001, n. 443, cosiddetta legge obiettivo;
   a vigilare nelle forme consone acciocché un'opera non venga ammessa alla verifica di ammissibilità qualora il soggetto che ha presentato istanza della procedura di valutazione di impatto ambientale in relazione a tale opera non risulti competente sull'oggetto della stessa;
   ad adoperarsi presso l'autorità portuale di Venezia affinché attivi con la massima celerità il percorso verso l'adozione di un Piano regolatore portuale, nell'ambito della cui elaborazione siano contemplate e sottoposte a valutazione strategica le proposte alternative, in regime di codecisione coi comuni coinvolti.
(1-00623) «Da Villa, Benedetti, Brugnerotto, Businarolo, Cozzolino, D'Incà, Fantinati, Rostellato, Spessotto, Turco, Tofalo, Zolezzi, Busto, Liuzzi, Daga, Vignaroli, Pesco, Alberti, Chimienti, Fraccaro, Nuti, Dadone, Crippa, Micillo, Nesci, De Lorenzis, Nicola Bianchi, Vacca».

Risoluzioni in Commissione:


   La VII Commissione,
   premesso che:
    il decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306, regolamenta la disciplina in materia di contributi universitari;
    tale regolamento prevede che ogni università abbia piena autonomia nella determinazione dell'entità e delle regole della contribuzione studentesca ma debba rispettare i criteri di equità, solidarietà e progressività tenendo in considerazione la condizione economica dello studente in base alla natura e all'ammontare del reddito e del patrimonio, nonché dell'ampiezza del suo nucleo familiare;
    oltre ai contributi universitari, ogni studente è tenuto a versare all'università anche la tassa di iscrizione, fissata inizialmente in trecentomila lire e poi da aggiornare annualmente con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. L'importo della tassa di iscrizione è identica per tutti gli atenei italiani;
    la contribuzione totale versata dallo studente universitario è la risultante della somma tra la tassa di iscrizione definita annualmente dal Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca e i contributi universitari decisi autonomamente da ogni singola università;
    come contrappeso all'autonomia delle università, per evitare che queste possano stabilire importi contributivi troppo alti, il regolamento stabilisce che la somma delle contribuzioni versate da ogni singolo studente ogni anno alla propria università non possa eccedere il 20 per cento del finanziamento ordinario dello Stato all'ateneo;
    il citato regolamento stabilisce alcuni princìpi, seguendo criteri più specifici, che prevedono anche la garanzia dell'accesso ai capaci e ai meritevoli privi di mezzi e la riduzione del tasso di abbandono degli studi;
    tale disciplina in materia di contributi universitari è rimasta inalterata fino alle modifiche apportate dalla normativa sulla spending review (decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135), che ha disposto (con l'articolo 7, comma 42) l'introduzione dei commi 1-bis, 1-ter, 1-quater e 1-quinquies dell'articolo 5 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 306 del 1997;
    le modifiche apportate dal citato decreto-legge n. 95 del 2012 entrano nel merito dei limiti della contribuzione studentesca modificando i criteri per individuare la tassazione massima a carico dello studente. In sostanza, viene modificato il calcolo del limite del 20 per cento dell'ammontare della contribuzione studentesca totale (la somma di tutte le tasse pagate dagli studenti in un singolo ateneo) rispetto al finanziamento ordinario assegnato dallo Stato alla singola università;
    con le novelle introdotte dal decreto-legge n. 95 del 2012, ai fini del calcolo della contribuzione studentesca totale, è stata scorporata la contribuzione degli studenti fuori corso. Come conseguenza non sono più considerate, ai fini del calcolo della contribuzione totale versata dagli studenti alle università, le somme pagate dagli studenti fuori corso che, in media, rappresentano il 40 per cento degli iscritti;
    tale novità comporta, di fatto, un aumento del limite massimo di contribuzione sia per gli studenti in corso che per quelli fuori corso; inoltre, è eliminato qualsiasi limite alla determinazione dell'importo della contribuzione studentesca per gli studenti fuori corso;
    il citato decreto-legge n. 95 del 2012 prevede, inoltre, entro tre anni dalla entrata in vigore, un aumento significativo della tassazione per tutti gli studenti;
    il fondo per il finanziamento ordinario delle università (FFO) è relativo alla quota a carico del bilancio statale delle spese per il funzionamento e le attività istituzionali delle università, comprese le spese per il personale docente, ricercatore e non docente, per l'ordinaria manutenzione delle strutture universitarie e per la ricerca scientifica e della spesa per le attività sportive universitarie;
    negli ultimi anni il fondo per il finanziamento ordinario è fortemente diminuito (-21,5 per cento dal 2008 al 2013):  per conseguenza, le università che si sono trovate a superare il limite del 20 per cento sono numerose: ben due delle università statali su tre nell'anno accademico 2011/2012;
    alcune università (Insubria, Milano statale, Milano Bicocca, Napoli Partenope, Urbino, Venezia Ca’ Foscari, Venezia IUAV) hanno supera anche il 30 per cento e una (Bergamo) addirittura il 40 per cento;
    di fatto le modifiche apportate dal decreto-legge n. 95 del 2012 al decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306, scaricano sull'utenza studentesca i tagli apportati al fondo per il finanziamento ordinario nel corso degli anni dai vari governi alla guida del nostro Paese;
    le modifiche apportate dal decreto-legge n. 95 del 2012 hanno reso il regolamento più farraginoso, andando in una direzione opposta rispetto alla razionalizzazione e alla semplificazione apportate originariamente dal medesimo regolamento;
    come conseguenza principale lo studente fuori corso, che di fatto usufruisce in maniera occasionale dei servizi e delle strutture universitari, ha una tassazione più alta dello studente in corso che, invece, si avvale a tempo pieno di tutti i servizi e le strutture delle università;
    gli atenei che, fino al 2013, non hanno rispettato il tetto massimo degli introiti derivanti da tasse e contribuzione studentesche previste dal decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306, sono stati avvantaggiati dal reclutamento e dalle quote premiali, nonostante fossero in difetto fino all'entrata in vigore delle disposizioni normative introdotte dal decreto-legge n. 95 del 2012;
    dal 2007 alcune associazioni studentesche universitarie hanno avviato una serie di ricorsi amministrativi contro quegli atenei che superavano il limite del 20 per cento stabilito dall'articolo 5, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306;
    dopo l'accoglimento, nel marzo del 2011, del primo ricorso sulla contribuzione studentesca presentato nel 2007 (registro generale 599) al Tar Abruzzo contro l'università di Chieti Pescara, si sono moltiplicati i ricorsi in vari atenei italiani;
    di fatto le disposizioni normative introdotte dal decreto-legge n. 95 del 2012 sono una sanatoria per le università che fino al 2012 non rispettavano quanto stabilito dal decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306;
    a parere dei firmatari del presente atto di indirizzo – oltre a prevedere l'esonero dal pagamento della contribuzione studentesca per gli studenti meno abbienti introducendo una no tax area per situazione economica equivalente – è indispensabile garantire gradualità e progressività nella contribuzione almeno per gli studenti appartenenti a famiglie situate nella fascia tra 21.000 e 30.000 euro di ISEE familiare;
    secondo dati forniti dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca l'ammontare Fondo di finanziamento ordinario 2013 si attesta intorno ai 6.656 milioni di euro, mentre il gettito complessivo della contribuzione studentesca intorno ai 1.695 mila euro;
    secondo i dati presenti sull'area statistica del portale del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca il gettito totale della contribuzione studentesca nel 2013 è di circa 1.550 mila euro;
    allo stato attuale non sono disponibili le informazioni relative alle condizioni reddituali dei singoli studenti, necessarie per poter effettuare delle stime sull'impatto finanziario che deriverebbe dalle proposte normative sulla contribuzione studentesca;
    per poter effettuare delle stime sull'impatto finanziario che deriverebbe dalle proposte normative sulla contribuzione studentesca è necessario rendere operativa la banca dati prevista dall'articolo 20 del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68;
    secondo i firmatari del presente atto di indirizzo è necessario rimborsare alle università il mancato introito dovuto all'introduzione della no-tax area tramite un incremento dedicato del Fondo di finanziamento ordinario,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative volte a modificare la disciplina attualmente vigente sulla contribuzione studentesca alle università statali stabilendo un'area di reddito entro cui lo studente, non inattivo nel percorso universitario, sia esente dal pagamento della contribuzione (fascia no-tax) per tutti gli ISEE al di sotto dei 21.000 euro;
   ad assumere iniziative per garantire gradualità e progressività nella contribuzione almeno per gli studenti appartenenti a famiglie situate nella fascia reddituale compresa tra 21.000 e 30.000 euro di ISEE familiare;
   a rendere operativa la banca dati prevista dall'articolo 20 del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68.
(7-00490) «Vacca, Luigi Gallo, Simone Valente, Marzana, Brescia, Di Benedetto, D'Uva».


   La XIII Commissione,
   premesso che:
    in materia di Organizzazione comune del mercato vitivinicolo, la normativa comunitaria ha previsto, tra l'altro, anche specifiche misure di finanziamento per la promozione del vino sui mercati dei Paesi terzi, tecnicamente definita «misura OCM promozione». Fino al 2014 tale regolamentazione faceva capo al Regolamento (CE) n. 1234/2007 nel testo consolidato ed era stata resa esecutiva dal Regolamento (CE) n. 555/2008 della Commissione, del 28 giugno 2008 e successive modificazioni, recante modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 479/2008 del Consiglio relativo all'organizzazione comune del mercato vitivinicolo, in ordine ai programmi di, sostegno, agli scambi con i paesi terzi, al potenziale produttivo e ai controlli nel settore vitivinicolo;
    nello Stato italiano tale disciplina è stata resa esecutiva ai sensi del decreto ministeriale 4123 del 22 luglio 2610 relativo a «OCM Vino – Modalità attuative della misura «Promozione sui mercati dei Paesi terzi» – Campagne 2010-2011 e seguenti e con l'anno 2013 ha concluso il suo primo periodo di programmazione;
    allo stato attuale si è nel regime di applicazione del secondo periodo di programmazione 2014-2018 e presso gli uffici della Commissione europea sono in corso i lavori di approfondimento per mantenere attivo questo fondamentale strumento di agevolazione per le imprese europee fino al 2022;
    la regolamentazione comunitaria di cui trattasi prevede in particolare il cofinanziamento da parte dell'Unione europea di programmi di promozione del vino nei Paesi terzi realizzati dagli Stati membri: la contribuzione è pari al 50 per cento della spesa finanziabile e fin dall'entrata in vigore di tale misura il massimale di risorse annuali riservate all'Italia è stato di circa 102,5 milioni di euro pari a circa 205 milioni di investimenti per le nostre imprese nei paesi extra-Unione europea;
    il 30 per cento del valore totale del predetto importo è gestito a livello nazionale direttamente dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, in collaborazione con l'AGEA;
    la rimanente quota del 70 per cento è trasferita alle regioni sulla base di specifici criteri di ripartizione;
    esiste inoltre una pertinente «riserva nazionale» pari al 10 per cento della quota nazionale (circa 10 milioni di euro) che dal 2014 è stata destinata al finanziamento dei progetti multiregionali;
    al riguardo andrebbe verificato se tale scelta di sottrarre una quota di risorse al monte dei fondi destinati alle misure di ambito nazionale non si configuri come una penalizzazione per il settore di riferimento in quanto i progetti nazionali sono da sempre in tensione finanziaria, mentre le forme di aggregazioni interregionali non di rado si dimostrano poco efficienti;
    e in effetti, il risultato di tale metodo è stato, per la campagna 2014/2015 un mancato impegno di circa 4,2 milioni di euro;
    dalle segnalazioni effettuate dai soggetti associativi del settore vitivinicolo si evincerebbe che annualmente la quota di fondi nazionali sia spesso in «overbooking», ovvero i fabbisogni delle imprese nettamente superiori alle risorse disponibili, contrariamente a quanto avviene per la quota regionale, dove i livelli di spesa raggiunti sono mediamente dell'80 per cento delle risorse disponibili;
    questo metodo di ripartizione delle risorse potrebbe spiegare la causa dell'ultimo mancato utilizzo di circa 15 milioni di euro di contributi europei e quindi di circa 30 milioni di investimenti non effettuati;
    senza voler disconoscere i positivi risultati conseguiti dalla misura «OCM Promozione» sul comparto vitivinicolo nazionale, come di fatto dimostrano i risultati in termini di crescita dell’export, permangono tuttavia alcune forti preoccupazioni e potenziali criticità in ordine a fattori problematici come i contenuti tecnici del bando nazionale proposti dal Ministero (e di conseguenza gli avvisi regionali), e in particolare le griglie dei requisiti di accesso e di valutazione dei programmi, nonché le carenti, spesso assenti, disposizioni fornite dal Ministero e dall'AGEA in merito alle modalità di gestione e rendicontazione delle attività previste dai piani finanziati;
    le procedure scelte dall'Italia per la gestione e la rendicontazione dei programmi in oggetto appaiono essere le più complesse e confuse di tutta l'eurozona. Gli operatori interessati hanno spesso lamentato il peso ingiustificato di questa eccessiva burocraticità che limita non poco la loro competitività nei confronti dei principali concorrenti mondiali come la Francia e la Spagna;
    vale la pena sottolineare come per la gestione di un progetto OCM vino-Promozione, la mole di documentazione richiesta dal Ministero e dall'AGEA è a volte talmente copiosa da far desistere gli operatori dal presentare programmi di promozione e ciò a danno soprattutto delle imprese più piccole e meno strutturate;
    questa evidente criticità richiede la necessità immediata di semplificare le procedure e le linee guida per la gestione dei programmi;
    un mancato intervento su questi due fronti potrebbe compromettere seriamente gli esiti della prossima campagna (2015/2016), e rendere troppo difficoltosa la gestione di questi fondi da parte delle imprese e dei consorzi coinvolti;
    i segnali rilevati – in questo senso – nelle ultime campagne (2013/2014 e 2014/2015) sono stati inequivocabili: a livello regionale circa il 15 per cento delle disponibilità di risorse non è stato impegnato e la graduatoria dei programmi a valere sulla quota nazionale è stata polverizzata in oltre 25 proposte. Anche i criteri di valutazione adottati si sono dimostrati poco chiari e, ancor oggi, si attendono gli esiti delle valutazioni di alcune amministrazioni regionali, un esempio tra tutti la regione Piemonte che rischia di non riconoscere alla proprie imprese vitivinicole circa 7,5 milioni di euro di fondi concessi dalla OCM, vino – promozione, pari a oltre 15 milioni di euro di investimenti per la promozione delle denominazioni nazionali e dei marchi regionali;
    la contraddizione che questi fatti creano è la posizione di retroguardia che assume l'Italia nella classifica europea dell'utilizzo dei fondi della OCM, nonostante il primato mondiale nella produzione di vino, risultato che premia lo sforzo di 650.000 viticoltori. Il nostro Paese infatti nella gestione di questa importante misura di agevolazione finanziaria per la promozione del Made in Italy si colloca addirittura dopo la Francia, la Spagna, la Germania ed il Portogallo;
    tra tutti gli altri membri Unione europea, l'Italia e purtroppo l'unico Stato che nella fase di accesso ai contributi della OCM vino-promozione, ha ancora in vigore un decreto quadro che dal 2010 non si è mai rinnovato a seguito degli aggiornamenti dei rispettivi regolamenti comunitari relativi all'Organizzazioni comuni dei mercati agricoli vino, fatto che crea molti problemi sia alle imprese vitivinicole nazionali e sia alla pubblica amministrazione;
    sarebbe pertanto assolutamente urgente una revisione di tale regolamentazione amministrativa che la metta in coerenza con gli indirizzi fissati dalla Commissione agricoltura europea;
    inoltre, il quadro nazionale relativo alla campagna in corso 2014/2015, vede per le imprese vinicole nazionali una pericolosa situazione di stallo in quanto lo sblocco dei fondi OCM vino-Promozione è subordinato alle decisioni che in questi giorni in Ministero e la Conferenza Stato-regioni dovranno assumere;
    le più importanti regioni per vocazione vitivinicola (Veneto, Toscana e Piemonte) vedono numerosi programmi di promozione esclusi dalle rispettive graduatorie regionali per mancanza di risorse finanziarie. La regione che maggiormente sta rischiando è il Piemonte, che ha effettuato alcune scelte strategiche che stanno compromettendo il buon esito della misura per le imprese vitivinicole piemontesi coinvolte. In presenza di queste indecisioni non sono da escludere la presentazione, da parte di imprese e amministrazioni regionali, di numerosi e motivati ricorsi volti ad evitare scenari peggiori;
    andrebbero intraprese iniziative non più procrastinabili volte a fare in modo che le modalità amministrative con cui si rendono esecutive le misure di finanziamento recate dalla normativa comunitaria in materia di promozione del vino verso l'estero diventino effettivamente uno strumento di supporto alle nostre imprese, informato alla semplicità, alla trasparenza ed alla facilità di accesso da parte di tutti gli operatori, allo scopo ottimizzandone la funzionalità attraverso procedure che consentano alle realtà vinicole di presentare progetti concreti e coerenti; di attendersi un iter chiaro di esamina e di delibera; di poter contare su una pubblica amministrazione «parte attiva», ovvero in grado di esaminare con imparzialità e certezza dei tempi d'esamina i progetti, aiutando le imprese vinicole nelle formulazione di programmi in linea con l'obiettivo più generale perseguito dalla relativa Organizzazione comune dei mercati agricoli;
    nei prossimi mesi le imprese sono chiamate a pianificare nuovamente i propri investimenti per il biennio 2015/2016, pertanto appare necessario conoscere in anticipo la strategia che il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali intende perseguire per la promozione del vino italiano nel mondo,

impegna il Governo:

   ad attivarsi con sollecitudine e con tenore di priorità per provvedere all'aggiornamento della disciplina amministrativa interna volta all'attuazione delle norme comunitarie sulla OCM vino-Promozione sui mercati dei Paesi terzi ed in tale sede ad adottare regolamenti basati su principi di efficienza, trasparenza e soprattutto di meritocrazia in maniera da premiare le imprese che in passato hanno agito in maniera trasparente ed efficiente, con risultati positivi sul mercato;
   a rendere note in tempi brevi le intenzioni dell'amministrazione nazionale per la campagna 2015/2016 ed in tale ambito ad adottare criteri di ripartizione dei fondi nazionali che siano più efficienti rispetto a quanto non sia stato fatto fino ad oggi;
   a provvedere, per l'annualità in corso, alla pubblicazione di linee guida esaustive e definitive per la gestione dei progetti finanziati nell'ambito della misura in oggetto, sottoscritte e validate dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, dall'Agea e dall'Agecontrol.
(7-00489) «Mongiello, Ginefra».

ATTI DI CONTROLLO

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Interrogazione a risposta in Commissione:


   CARLONI, SGAMBATO, TINO IANNUZZI, GIORGIO PICCOLO, SALVATORE PICCOLO, IMPEGNO, TARTAGLIONE, BONAVITACOLA, VALIANTE, BOSSA, AMENDOLA, FAMIGLIETTI, VALERIA VALENTE, MANFREDI, RAGOSTA, PARIS, VACCARO e ROSTAN. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 27 febbraio 1998, adottato in attuazione della legge n. 481 del 1995, recante norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilità, ha individuato nella città di Napoli la sede dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni;
   l'articolo 22 del decreto-legge n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014, è intervenuto in materia di razionalizzazione dell'attività delle autorità indipendenti, prevedendo tra l'altro, nel testo iniziale, che entro il 30 settembre 2014 il Ministero dell'economia e delle finanze individuasse uno o più edifici contigui da adibire a sede comune di diverse autorità indipendenti, tra le quali l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni;
   la disposizione, prefigurando una sede comune per diverse autorità indipendenti aveva suscitato numerose preoccupazioni in ordine alle conseguenze che ciò avrebbe comportato sull'operatività delle Autorità che hanno sede in città diverse da Roma, quali l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, l'Autorità per l'energia elettrica, il gas e il sistema idrico e l'Autorità di regolazione dei trasporti;
   nel corso della conversione del decreto la citata disposizione è stata riformulata nel senso di prevedere che le autorità indipendenti, ivi compresa l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, gestiscano i propri servizi logistici nel rispetto di una serie di criteri volti ad una loro razionalizzazione;
   in particolare, viene richiesto che le autorità indipendenti individuino la loro sede in un edificio di proprietà pubblica o in uso gratuito ovvero in locazione a condizioni più favorevoli rispetto a quelle degli edifici demaniali disponibili; concentrino gli uffici nella sede principale, salvo che per oggettive esigenze di diversa collocazione; abbiano una spesa complessiva per sedi secondarie, rappresentanza, trasferte e missioni non superiore al 20 per cento della spesa complessiva; garantiscano, infine, una presenza effettiva del personale nella sede principale non inferiore al 70 per cento del totale su base annuale;
   nel citato articolo 22 è stato, inoltre inserito un comma aggiuntivo con cui si prevede che le diverse autorità garantiscano il rispetto dei criteri entro un anno dall'entrata in vigore della legge di conversione e quindi entro l'11 agosto 2015;
   appare chiaro che l'intenzione del legislatore, nel modificare, in sede di conversione, il testo dell'articolo 22 del decreto-legge n. 90 del 2014, è stata quella di mantenere la sede delle Autorità indipendenti nelle città in cui tale sede è stata individuata e di richiedere, per condivisibili esigenze di razionalizzazione, il potenziamento della sede principale, contestualmente alla riduzione delle dimensioni delle sedi secondarie e al contenimento delle relative spese;
   per quanto riguarda in modo specifico l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni si è invece assistito ad un progressivo ampliamento della sede secondaria di Roma, sia per quanto concerne il numero del personale in essa operante, sia per quanto riguarda la rilevanza delle attività in essa svolte, a discapito della sede principale di Napoli;
   ancor più in contrasto con le previsioni contenute, dapprima, nella legge n. 481 del 1995, recante la disciplina generale sulle autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, e nella legge n. 249 del 1997, legge istitutiva dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, e, da ultimo, nel decreto-legge n. 90 del 2014, nel testo risultante dalla conversione in legge, un eventuale trasferimento a Roma della sede principale dell'Autorità, come invece, sulla base di indiscrezioni, sembra ipotizzarsi –:
   quale sia lo stato di attuazione delle disposizioni del comma 9 dell'articolo 22 del decreto-legge n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014, con specifico riferimento alla sede principale dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, nella prospettiva di garantire un potenziamento di tale sede, sia per quanto concerne il numero del personale ivi operante, sia per quanto riguarda la rilevanza delle attività in essa svolte, in conformità con i criteri dettati dalle citate disposizioni;
   quali informazioni abbia in ordine a eventuali iniziative dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni finalizzate a trasferire a Roma la sede principale dell'Autorità stessa e, in tal caso, quali comportamenti intenda adottare per assicurare il mantenimento della sede principale dell'Autorità nella città di Napoli. (5-03782)

Interrogazione a risposta scritta:


   NASTRI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   nel corso di un'intervista pubblicata il 12 ottobre 2014, dal quotidiano Il Corriere della Sera, il commissario unico delegato del Governo per l'esposizione universale EXPO 2015, che si terrà a Milano a partire dal prossimo 1o maggio, nominato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, ha evidenziato come, a circa duecento giorni dall'avvio dell'evento i lavori per completare le opere infrastrutturali sono all'80 per cento e l'offerta turistica risulta ancora troppo frammentata;
   il commissario Sala ha inoltre dichiarato che, per quanto riguarda le deleghe attribuite dallo Stato, il comune di Milano ha richiesto fondi aggiuntivi per la gestione delle questioni legate al traffico, alla sicurezza e all'accoglienza, mentre la regione Lombardia, invece, in possesso delle deleghe su infrastrutture e sanità si sta attivando con attenzione e celerità;
   le strutture operative dello Stato in ogni caso sono comunque pronte, ha proseguito il commissario delegato di EXPO 2015, in caso di bisogno, aggiungendo inoltre, che sarà necessario vigilare con molta attenzione, sulle questioni legate alla sicurezza internazionale in particolare nel corso della fase imminente dell'avvio dell'esposizione;
   a giudizio dell'interrogante, l'intervista del commissario Sala, se da un lato non evidenzia rilevanti criticità, dall'altra fa emergere profili non sufficientemente chiari, in ordine alla tempistica della realizzazione delle opere infrastrutturali e alle ulteriori risorse richieste dall'ente locale milanese al Governo –:
   quali informazioni, nell'ambito delle proprie competenze, siano in grado di fornire in ordine all'effettivo stato dei lavori relativamente alle opere infrastrutturali connesse all'evento EXPO 2015;
   a quanto ammontino le ulteriori richieste finanziarie da parte del comune di Milano e se intendano confermare che tali istanze siano da imputare alle questioni legate alla sicurezza, all'accoglienza e al traffico che si determinerà in occasione dell'esposizione;
   quali orientamenti intendano esprimere, nell'ambito delle rispettive competenze, con riferimento allo stato complessivo dell'organizzazione dei lavori a circa duecento giorni dall'avvio dell'evento universale. (4-06377)

AMBIENTE E TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE

Interrogazione a risposta scritta:


   RICCARDO GALLO. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   il nuovo e gravissimo evento alluvionale, verificatosi a Genova la scorsa settimana, ripropone ancora una volta le criticità derivanti dalle caratteristiche morfologiche del territorio nazionale connesse al dissesto idrogeologico, che pur essendo molto conosciute, non trovano riscontro nell'azione delle pubbliche amministrazioni;
   secondo quanto rilevato dall'Istituto di biometeorologia del Consiglio nazionale delle ricerche, in un articolo pubblicato lo scorso 11 ottobre dal quotidiano Il Corriere della Sera, la situazione meteorologica risulta essere abbastanza critica, soprattutto per la sua persistenza, in particolare nel corso dell'attuale stagione normalmente piovosa, da fine settembre a metà novembre e diventa sempre più pericolosa per i problemi irrisolti nel territorio;
   l'area di alta pressione che interessa il Centro-Sud della Penisola, incluse Sicilia e Sardegna, che si estende fino ai Balcani, che si scontra con il flusso di aria fresca e instabile che giunge da Sud-Ovest, generando fenomeni temporaleschi e violenti nubifragi, che hanno interessato la regione ligure ed in particolare la città di Genova, è affiancata dalle temperature del mare particolarmente calde, che generano manifestazioni meteorologiche comunemente chiamate: «bombe d'acqua», con violenti nubifragi concentrati in pochissimo tempo su una determinata area geografica;
   a tal fine il «Piano stralcio di bacino per l'assetto idrogeologico», predisposto per la regione Sicilia, evidenzia come il 70 per cento dell'intero territorio, sia fortemente a rischio di dissesto idrogeologico e idraulico e si contraddistingue negativamente per la carenza di adeguati sistemi di prevenzione e di tutela del territorio, in caso si verificassero, manifestazioni meteorologiche avverse;
   la fragilità del territorio come fattore naturale, unitamente ai fenomeni di abusivismo edilizio, del continuo disboscamento, e dell'uso di tecniche agricole poco rispettose dell'ambiente, a cui si aggiunge la mancata manutenzione dei versanti e dei corsi d'acqua hanno sicuramente aggravato il dissesto e messo ulteriormente in evidenza la fragilità del territorio siciliano, aumentando l'esposizione ai fenomeni e quindi il rischio stesso;
   l'area geografica di Agrigento, che segue quella di Messina, all'interno della mappa degli eventi franosi censiti, rileva infatti persistenti criticità connesse ai rischi di dissesto idrogeologico, che in caso di eventi naturali, particolarmente intensi come i nubifragi accaduti nel 2011 e la scorsa settimana in Liguria o a Messina nel 2009 e nel 2011, solo per citare alcuni dei gravissimi eventi alluvionali accaduti in Italia, possono determinare conseguenze pericolose per la sicurezza della comunità locale, la tutela del suolo agrigentino e più in generale dell'intera area geografica siciliana;
   i temi della manutenzione del territorio, della pianificazione territoriale come strumento di prevenzione e di contrasto del rischio idrogeologico, dell'ammodernamento della legislazione in materia di difesa del suolo e del riordino del relativo sistema di competenze e di responsabilità, non sembrano a giudizio dell'interrogante, aver sortito effetti concreti sui territori, se come l'ultimo evento accaduto a Genova dimostra che esiste un quadro regolatorio ancora inefficiente e lacunoso;
   l'interrogante a tal fine, evidenzia come la mappatura generale dell'area geografica siciliana, in considerazione delle criticità in precedenza riportate, necessiti di essere monitorata stante l'elevata situazione di pericolosità esistente ed evitare in caso di eventi alluvionali, il manifestarsi di nuove situazioni estreme di rischio idrogeologico dalle conseguenze imprevedibili –:
   quali orientamenti nell'ambito delle competenze proprie, intenda esprimere, con riferimento a quanto esposto nella premessa;
   se intenda confermare la situazione di elevato rischio idrogeologico, esistente nella regione siciliana ed in particolare nella provincia agrigentina e in caso affermativo quali iniziative urgenti di competenza intenda assumere, al fine di prevenire e potenziare i sistemi di difesa del suolo;
   se sia in possesso di dati numerici e analisi più aggiornate riferite al Piano stralcio di bacino per l'assetto idrogeologico riferite alla suddetta regione e in caso affermativo se non ritenga opportuno renderli noti al Parlamento;
   se non ritenga opportuno prevedere nel disegno di legge di stabilità per il 2015 stanziamenti pluriennali certi, pari ad almeno 100 milioni annui, per la realizzazione da parte del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con i soggetti istituzionali territorialmente preposti, di un piano organico con obiettivi a breve e medio termine per la difesa del suolo della regione Sicilia, in considerazione delle elevate condizioni di rischio dissesto idrogeologico dell'isola.
(4-06379)

GIUSTIZIA

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   ROSSOMANDO. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   la Corte Costituzionale, con la sentenza 278/2013, ha dichiarato «l'illegittimità costituzionale dell'articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (...), nella parte in cui non prevede — attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza — la possibilità per il giudice di interpellare la madre — che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell'articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (...) su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione»;
   la pronuncia della Consulta non ha censurato quanto disposto all'articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, sulla tutela del parto anonimo, precisando che nel dar corso alle domande di accesso alle origini presentate dagli adottati non riconosciuti alla nascita, si dovrà comunque rispettare scrupolosamente la riservatezza della persona, laddove ha specificato che «sarà compito del legislatore introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all'anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi è detto»;
   a seguito della sentenza n. 278/2013 e considerata la necessità evidenziata di un intervento del legislatore (per costruire un impianto normativo adeguato a conciliare le istanze presentate dagli adottati, mantenendo tuttavia inviolato il diritto della donna all'anonimato), sono state depositate alla Camera diverse proposte di legge di iniziativa parlamentare, il cui iter è in corso presso la Commissione giustizia;
   a quanto è dato sapere alcuni tribunali per i minorenni stanno già dando seguito sic et simpliciter ad alcune istanze di accesso all'identità della donna che si è avvalsa del diritto alla segretezza del parto. In particolare, sembrerebbe che il tribunale per i minorenni di Torino abbia già dato seguito alle istanze presentate da due persone ultraventicinquenni non riconosciute alla nascita di accesso all'identità delle donne che li hanno partoriti;

se tali notizie fossero confermate, tali decisioni potrebbero comportare, in assenza di norme volte a disciplinare la materia con tutte le cautele del caso, il grave rischio di violare il diritto della donna al parto anonimo, così come stabilito all'articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 –:
   se confermato quanto esposto in premessa, quali iniziative intenda assumere per evitare che l'avvio di iniziative giudiziarie per l'accesso all'identità della donna che abbia scelto di non essere nominata al momento del parto in assenza di un quadro normativo chiaro, possano ledere il diritto all'anonimato della persona garantito dalla legge. (5-03780)


   COLLETTI, DEL GROSSO e VACCA. — Al Ministro della giustizia, al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   Antonio Sorgi, dirigente della regione Abruzzo, capo della direzione affari della presidenza, è stato recentemente arrestato per il presunto appalto pilotato relativo all'ampliamento del cimitero di Francavilla;
   da fonti di stampa si è appreso che esistono intercettazioni fra Luciano D'Alfonso, presidente della regione Abruzzo, e Antonio Sorgi, nonché fra Sorgi e la moglie, dalle quali si evince che Luciano D'Alfonso pare fosse già a conoscenza delle intercettazioni relative all'inchiesta «Rimborsopoli» prima che la notizia divenisse pubblica;
   in particolare, secondo alcuni passaggi intercettati, è ormai noto che Sorgi avesse paura dell'Ati concorrente che è stata riammessa alla gara di appalto nonostante incongruenze formali. Gli imprenditori che facevano paura erano Marramiero e De Cesaris. In un passaggio emerge Sorgi che dice chiaramente che «Marramiero è D'Alfonso» per riassumere un connubio di poteri forti, ma nonostante individui la possibilità di avere come avversario proprio D'Alfonso decise di incontrarlo lo stesso. La polizia segna sul calendario le date 25, 27 e 28 ottobre che sono i giorni in cui sicuramente i due si sono incontrati. Il 25 per la polizia l'incontro avviene alla Walter Tosto, poi ancora il 27 mentre per il 28 è D'Alfonso che invita Sorgi a Milano per un convegno pubblico. Secondo la squadra mobile di Pescara i due hanno parlato di molte cose, ma anche dell'appalto di Francavilla perché è lo stesso Sorgi che lo dice alla moglie appena terminata la riunione;
   oltre alla gara però, racconta Sorgi al telefono con la moglie, D'Alfonso gli avrebbe parlato anche di inchieste e di intercettazioni. Nella fattispecie dell'inchiesta «Rimborsopoli» che sarebbe scoppiata di lì a qualche settimana (gennaio 2014) –:
   se i Ministri interrogati siano a conoscenza dei fatti di cui in premessa;
   se i Ministri interrogati non ritengano urgente avviare, ciascuno per quanto di propria competenza, un'indagine amministrativa volta a verificare se la «fuga di notizie» su intercettazioni non ancora rese pubbliche sia riconducibile alla Procura, a dipendenti della Procura o alle società che hanno materialmente eseguito le intercettazioni, adottando eventuali ulteriori iniziative di competenza. (5-03781)

INFRASTRUTTURE E TRASPORTI

Interrogazione a risposta scritta:


   MINARDO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   nel 2004 sono stati appaltati i lavori relativi al raddoppio della linea ferroviaria Palermo-Messina, nel tratto compreso fra le stazioni di Fiumetorto e Cefalù Ogliastrillo, in provincia di Palermo (tratto della lunghezza di 19.700);
   ad oggi, a distanza di oltre dieci anni sono stati eseguiti meno del cinquanta per cento dei lavori previsti nel progetto di cui alla citata convenzione;
   da notizie riportate dalla stampa i lavori risultano sospesi ed esiste il paventato rischio che difficilmente verranno ripresi. Ciò comporterà la perdita del finanziamento e avrà ricadute negative sull'occupazione e sullo sviluppo della zona in un momento di grave crisi occupazionale per il nostro Paese e per la regione siciliana;
   il decreto-legge cosiddetto «Sblocca-Italia» prevede un finanziamento ulteriore per il proseguimento e l'ammodernamento della tratta ferroviaria suddetta (Palermo-Messina), ma se il tratto di lavori citato precedentemente non verrà effettuato, ci si troverà di fronte alla conseguenza che non verrà ammodernata e raddoppiata la ferrovia Messina-Palermo;
   vanno riconosciuti gli «sforzi» del Governo per finanziare un'opera infrastrutturale di importanza fondamentale per lo sviluppo dell'isola –:
   se sia a conoscenza di quanto esposto in premessa;
   quali iniziative di competenza intenda intraprendere al fine di eliminare gli ostacoli che si frappongono alla prosecuzione dei lavori citati in premessa per giungere al completamento dell'opera che costituisce un elemento fondamentale per lo sviluppo della Sicilia. (4-06373)

INTERNO

Interrogazioni a risposta scritta:


   MOLTENI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   nella città di Rovellasca (Co) molti cittadini hanno da tempo segnalato alle competenti autorità che in via XX Settembre alcuni immobili a destinazione residenziale verrebbero in realtà utilizzati quali luoghi di culto islamico;
   la procedura per l'individuazione e l'autorizzazione dei luoghi di culto, di qualsiasi religione, è regolamentata dagli articoli 70 e seguenti della legge regionale n. 12 del 2005;
   la presenza di un luogo di culto «abusivo» e non dichiarato può creare problematiche in diversi ambiti urbanistici (parcheggi rumorosità abitabilità e altro), oltre a non favorire la corretta integrazione tra popolazioni di diversa matrice culturale;
   a seguito della relazione al Parlamento tenutasi in data 9 settembre 2014 da parte del Ministro interrogato, risulta che proprio all'interno di questi luoghi di culto di predicazione estranei a ogni tipo di controllo e monitoraggio, possano trovare terreno fertile gli estremismi prodromici a episodi di violenza;
   la Costituzione garantisce la massima libertà di culto, tuttavia è altrettanto importante che tutti abbiano i medesimi diritti ma anche gli stessi doveri;
   quanto sta accadendo in via XX Settembre a Rovellasca è un fenomeno in esponenziale aumento, interessando molte altre città dove stanno sorgendo luoghi di culto o predicazione islamica non autorizzati e dunque esclusi da ogni controllo da parte delle autorità competenti –:
   se il Ministro sia a conoscenza di quanto segnalato dai residenti in merito all'utilizzo, a quanto consta all'interrogante «abusivo», di immobili residenziali quali luoghi di culto islamico in via XX Settembre a Rovellasca e, alla luce dei rischi di infiltrazioni terroristiche legati al fondamentalismo islamico, quali iniziative intenda adottare al fine di verificare, in generale, il fenomeno sempre più dilagante dei centri di culto islamici abusivi e, in particolare, le attività che vengono poste in essere negli immobili di via XX Settembre e quali iniziative di competenza intenda assumere al riguardo per ripristinare la legalità. (4-06374)


   COSTANTINO, MICCOLI e ZACCAGNINI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   in data 21 maggio 2014, presso il municipio di Cinecittà, si è tenuto un seminario rivolto a docenti, famiglie, psicologi per combattere l'omofobia sin dalle scuole cui hanno aderito associazioni, centri sociali e il mondo delle istituzioni;
   il seminario, rivolto agli insegnanti e agli educatori del territorio, era teso a fornire spunti di riflessione rispetto ad alcune dinamiche ricorrenti nelle relazione fra adolescenti, soprattutto quelle nelle quali si evidenziano atteggiamenti discriminatori relativi all'orientamento sessuale;
   sin dai giorni precedenti il gruppo di «Militia Christi» ha manifestato l'intenzione, attraverso interventi sui social network, di opporsi all'assemblea e, in particolar modo, alla discussione della proposta di legge per l'introduzione dell'educazione sentimentale nelle scuole che sarebbe stata presentata in quell'occasione;
   sulla scia di tale intenzione, nel corso del seminario, due rappresentanti di «Militia Christi» sono entrati nella sala del municipio;
   onde evitare provocazioni, alcuni presenti li hanno accompagnati verso l'uscita;
   all'esterno dell'edificio si trovavano altri soggetti sconosciuti e nell'androne del municipio ha avuto luogo una rissa. Due agenti della Digos, presenti all'esterno del municipio (allertati dai segnali rilevati nei giorni precedenti), sono a quel punto intervenuti, in borghese;
   Nunzio D'Erme è intervenuto anche al fine di calmare gli animi, una condotta che è costata al D'Erme l'imputazione di procurata evasione, resistenza e lesioni;
   nei confronti dello stesso D'Erme, in data 24 settembre 2014, è stata peraltro emessa un'ordinanza di custodia cautelare in carcere, a più di quattro mesi di distanza dalla «commissione del fatto»;
   gli organizzatori dell'incontro/assemblea, tra l'altro, hanno tentato di allontanare i provocatori di propria iniziativa stante un filtro da parte della autorità di polizia, a giudizio degli interroganti inidoneo a tutelare i presenti –:
   di quali elementi disponga il Ministro interrogato sui fatti riferiti in premessa;
   quali siano i motivi per i quali non sia stato assicurato un adeguato filtro da parte delle autorità di polizia nell'ambito di un'iniziativa, quale quella illustrata in premessa, che evidentemente avrebbe potuto avvicinare anche movimenti di destra – come era immaginabile anche nei giorni precedenti il convegno – con conseguenti ed inevitabili tensioni. (4-06378)


   BUSTO e CRIPPA. — Al Ministro dell'interno, al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   la provincia di Biella, commissariata dal novembre 2012 a seguito delle dimissioni del presidente, con delibera consiliare n. 23 del 30 novembre 2013 ha dichiarato il dissesto finanziario;
   con decreto del Presidente della Repubblica in data 19 marzo 2014 è stata nominata la commissione straordinaria di liquidazione per l'amministrazione della gestione dell'indebitamento pregresso, nonché per l'adozione di tutti i provvedimenti per l'estinzione dei debiti dell'ente;
   in data 31 marzo 2014 il citato decreto del Presidente della Repubblica è stato formalmente notificato ai componenti dell'organo straordinario di liquidazione;
   il commissario incaricato prefetto dott. Angelo Ciuni, in carica fino al 12 ottobre data del rinnovo del consiglio provinciale (diventato ente di secondo livello con la «riforma Delrio»), lamenta ormai da mesi la mancanza di risorse per garantire l'assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili quantificabili in almeno 3,2 milioni di euro per l'anno 2014;
   tra le funzioni delegate alla provincia vi è anche la gestione delle scuole pubbliche;
   a causa della mancanza di risorse finanziarie il riscaldamento nelle scuole superiori potrebbe non essere acceso a decorrere dal 15 ottobre come previsto dal decreto del Presidente della Repubblica 4 dicembre 1993 che classifica la provincia di Biella in zona climatica E;
   si apprende da un articolo de La Stampa che l'Alberghiero di Trivero ha potuto accendere il riscaldamento solo grazie ad un po’ di combustibile risparmiato l'anno scorso, con un'autonomia di una decina di giorni;
   l'articolo 3 della Costituzione italiana recita che. «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana [...]» –:
   di quali elementi disponga il Governo circa la situazione finanziaria della provincia di Biella, già in stato di dissesto finanziario, e, in particolare, circa le motivazioni dell'incapacità di far fronte alle spese per il riscaldamento delle scuole. (4-06380)

ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ E RICERCA

Interrogazione a risposta orale:


   SCHIRÒ. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 24 del decreto-legge n. 104 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 128 del 2013, recante «Misure urgenti in materia di istruzione, università e ricerca» ha autorizzato l'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV) ad avviare, già dal 2014, un piano quinquennale di assunzioni suddiviso in scaglioni annuali di 40 unità tra tecnici e ricercatori;
   tale intervento si è reso necessario al fine di fronteggiare gli interventi urgenti connessi all'attività di protezione civile, concernenti la sorveglianza sismica e vulcanica e la manutenzione delle reti strutturali di monitoraggio del territorio;
   l'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV) svolge un lavoro fondamentale per la sicurezza dei cittadini, la prevenzione, l'osservazione e la ricerca sui fenomeni sismici in un Paese ad alto rischio come l'Italia;
   risulterebbe — come riportato da alcuni quotidiani di settore — che l'avvio della prima tranche del succitato piano di assunzioni potrebbe non avvenire in conseguenza delle azioni avviate dal collegio dei revisori dei conti dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia in seguito a presunte incompatibilità riguardanti i membri del consiglio di amministrazione dell'istituto;
   dalle conclusioni della revisione, trasmesse al Ministro dell'istruzione dell'università e della ricerca — con protocollo INGV n. 0015303 del 9 settembre 2014 — risulterebbe che «(...) la quasi totalità dei membri del CDA sia incompatibile e richiede all'ente di assumere le opportune iniziative volte a rimuovere tutte le cause di incompatibilità» e invita il Ministero dell'istruzione e dell'università «(...) a procedere alle opportune valutazioni (...)»;
   il collegio revisore ha, inoltre, invitato il consiglio di amministrazione a «limitare l'esercizio delle proprie funzioni (...) e in particolare quelle in conflitto di interesse rispetto al ruolo istituzionale deliberando su tematiche delicate come in merito al piano straordinario di assunzione (...)»;
   tale situazione, oltre a minare il futuro del personale precario dell'INGV (ricercatori, tecnologi, tecnici e amministrativi) che da circa dieci anni attende la stabilizzazione, metterà in gravissima difficoltà il servizio di sorveglianza sismica e vulcanica del territorio nazionale –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza dei fatti esposti in premessa e, in tal caso, se non ritenga urgente intervenire — nell'ambito delle proprie competenze — affinché si proceda all'avvio della prima tranche del succitato piano di assunzioni di cui all'articolo 24 del decreto-legge n. 104 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 128 del 2013.
(3-01087)

LAVORO E POLITICHE SOCIALI

Interrogazioni a risposta scritta:


   FUCCI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 20 del decreto-legge 1o luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, affida all'INPS funzioni di accertamento in materia di accertamenti sanitari di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità e delle conseguenti ricadute funzionali sull'attività istituzionale dei centri medico legali;
   l'interrogante ha appreso di come il sistema degli accertamenti da parte dell'INPS sia oggi connotato da alcune criticità che, se confermate, sembrerebbero richiedere un'attenta riflessione da parte dei soggetti preposti in termini sia di razionale gestione delle risorse umane che di utilizzo delle risorse economiche;
   la questione sopra posta è a parere dell'interrogante cruciale tenendo conto anche del fatto che, in base all'articolo 1, comma 109, della legge di stabilità per il 2013 (legge 24 dicembre 2012, n. 228), le eventuali risorse derivanti dall'attuazione dei controlli straordinari accertati a consuntivo, nel triennio 2013-2015, sono destinate ad incrementare il fondo per le non autosufficienze di cui all'articolo 1, comma 1264, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, sino alla concorrenza di 40 milioni di euro annui;
   in particolare, sono due i temi quindi che l'interrogante vuole portare all'attenzione dei Ministri interrogati: uno sulla razionalizzazione delle risorse in termini di controlli sui lavoratori in malattia e l'altro sui controlli in materia di invalidità;
   per quanto riguarda la razionalizzazione delle risorse sui controlli ai lavoratori in malattia, si fa riferimento al fatto che nel 2014 l'INPS ha ridotto il budget per le visite fiscali a 18 milioni di euro (l'anno precedente erano stati 50 milioni), portando il numero di quelle eseguite da 900 mila a 100 mila relativamente alla spending review effettuata comunque su una spesa obbligatoria e non di funzionamento;
   il CIV (Consiglio di indirizzo e vigilanza) dell'INPS, nella sua seduta del 23 ottobre 2012, suggerì la necessità di ricorrere all'utilizzo delle risorse destinate ai progetti speciali di cui all'articolo 18 della legge 9 marzo 1989, n. 88, se non fossero stati conseguiti i 300 milioni di euro di risparmi aggiuntivi previsti dall'articolo 1, comma 108, della legge di stabilità per il 2013 (Legge 24 dicembre 2012, n. 228);
   lo stesso CIV, inoltre, indicò che il patrimonio immobiliare avrebbe potuto essere il settore principale che poteva concorrere al conseguimento, prioritariamente, del risparmio di 300 milioni di euro;
   l'INPS, nel contesto sopra descritto, ha avviato la sperimentazione dell’«applicativo Savio», un sistema di «selezione intelligente» del costo complessivo di 170 milioni di euro;
   secondo dati e informazioni ricevuti dall'interrogante, questa sperimentazione ha però avuto esiti poco felici: per esempio in una delle regioni in cui il sistema è stato sperimentato, il Friuli Venezia Giulia, vi è stata una riduzione delle prognosi dello 0,9 per cento, a fronte del 9 per cento riscontrato in media nelle regioni che non hanno utilizzato il nuovo sistema;
   inoltre, le visite si stanno effettuando in prevalenza, nell'ultimo anno, nei Paesi vicini all'abitazione del medico per risparmiare sul rimborso chilometrico e quindi molti lavoratori, per un fattore puramente geografico, sono esentati da mesi dall'essere visitati, a meno che la visita non venga effettuata su esplicita richiesta di un datore di lavoro;
   inoltre, le visite vengono prevalentemente effettuate su certificati con prognosi breve e in particolare negli ultimi giorni di scadenza prognosi, quindi con scarsa possibilità di ridurre prognosi e recuperare risorse;
   il secondo tema segnalato, relativo alla gestione delle risorse umane dedicate al delicato compito di effettuare gli accertamenti, si collega a quanto previsto dall'articolo 4, comma 10-bis, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, in cui si stabilisce che, ai fini della razionalizzazione del servizio, l'INPS, per l'effettuazione delle visite mediche di controllo domiciliari ai lavoratori assenti dal servizio per malattia, debba avvalersi in via prioritaria dei medici inseriti nelle «liste speciali», nelle quali vengono confermati i medici inseriti nelle suddette liste alla data di entrata in vigore della legge di conversione dello stesso decreto-legge n. 101 del 2013 e che risultavano già iscritti nelle liste alla data del 31 dicembre 2007;
   l'INPS ha pubblicato un bando per il reclutamento, nel biennio 2014-15, di 1.191 medici esterni a tempo determinato prioritariamente specialisti in medicina legale e/o in altre branche di interesse istituzionale;
   per quanto riguarda il monte ore previsto e i compensi dei medici, essi passeranno rispettivamente da 20 ore settimanali per 38 euro lorde/ora a 25 ore settimanali per 25 euro lorde/ora;
   essendo un bando rinnovabile ogni anno, i medici in termini di forza lavoro possono essere sempre diversi con problematiche intuibili riguardo alla formazione che ogni centro medico legale si trova ad affrontare, il che comporta un prevedibile rallentamento nello svolgimento dell'attività di accertamento, che è poi una delle criticità evidenziate dalla Corte dei conti nei resoconti INPS degli anni precedenti;
   il combinato degli elementi sopra esposti, se confermato, andrebbe a creare le condizioni perché le funzioni di accertamento non possano essere svolte in modo efficace e valido sia in termini di controlli sui lavoratori in malattia che in tema di invalidità civile –:
   di quali dati e informazioni dispongano i Ministri interrogati in merito ai seguenti elementi:
    a) grado di raggiungimento degli obiettivi del piano straordinario di revisione delle invalidità;
    b) numero di falsi invalidi individuati;
    c) numero di ricorsi contro l'INPS da parte del cittadino andati a buon fine;
    d) risorse utilizzate per finanziare l'immissione in servizio dei medici esterni;
    e) dati sull'assenteismo negli ultimi 17 mesi;
   quali eventuali iniziative di competenza intendano assumere in merito a quanto esposto in premessa e in modo più specifico rispetto a due richieste che da tempo sono state condivise dagli operatori del settore:
    a) creazione di un polo unico dei medici di controllo sulla malattia dei lavoratori;
    b) ricorso a una normale procedura concorsuale per i medici esterni per le commissioni d'invalidità. (4-06375)


   GRILLO e CIPRINI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   Aviation Services (società a carattere nazionale di assistenza a terra per compagnie aeree) ha usufruito di un primo provvedimento di cassa integrazione straordinaria (Cigs) dal marzo 2011 marzo 2013; sembra che la richiesta provasse fondamento nella riduzione dei voli operati su Catania da parte della compagnia aerea Meridiana, che, in quel momento, rappresentava circa l'80 per cento dei voli gestiti su Catania;
   l'operativo dei voli Meridiana è passato da 10/11 voli al giorno a circa 4/5; tale riduzione si evidenziò a ottobre 2011, ma Aviation Services avviò la cassa integrazione straordinaria già a marzo dello stesso anno; inoltre, ad agosto 2012, a causa della cessazione delle attività da parte della compagnia aerea Wind Jet, risulta alle interroganti che Meridiana avrebbe ripristinato interamente l'intero piano operativo voli precedente, anzi, aumentandolo fino a 15/16 voli al giorno;
   allo stesso tempo Aviation Services appariva utilizzare i finanziamenti cassa integrazione straordinaria pur avendo avuto un incremento dei voli da gestire fino alla scadenza del primo accordo ministeriale del marzo 2013;
   nel corso del 2013 Meridiana decideva di cambiare società di handling, assistenza a terra, e firmava un contratto sull'intero territorio nazionale col gruppo GH, che a Catania opera tramite la controllata Katane Handling e a partire da luglio 2013 iniziò a gestire i voli Meridiana;
   a causa della perdita del contratto con Meridiana, Aviation Services avviò la procedura per licenziamenti collettivi che ha avuto termine con l'accordo in sede ministeriale (come da verbale di accordo del 28 ottobre 2013 presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali tra i rappresentanti dell'AVIATION SERVICE SPA e i rappresentanti sindacali) che concedeva la cassa integrazione straordinaria nel periodo novembre 2013-ottobre 2014 per 119 unita lavorative – presso le sedi di Napoli Capodichino, 56 lavoratori e di Catania Fontanarossa 63 lavoratori); nel frattempo, in applicazione della clausola sociale di salvaguardia dell'occupazione prevista dal CCNL, in data 3 agosto 2013 venti lavoratori passavano da Aviation Services a Katane Handling;
   il 18 dicembre 2013 Ryanair, gestita come handling da Aviation Services, decideva di aprire una base a Catania con 10/11 voli al giorno e a maggio 2014 anche la compagnia aerea Vueling, anch'essa gestita da Aviation Services, decideva di aprire una base a Catania operando circa 7/8 voli al giorno; nonostante il grande incremento di ore lavorate ancora oggi Aviation Services usufruisce dei fondi pubblici della cassa integrazione straordinaria –:
   se intenda assumere iniziative per scongiurare i licenziamenti dei 119 lavoratori della Aviation Services, 56 presso Napoli e 63 presso Catania Fontanarossa;
   se ravveda elementi tali da poter avviare gli ispettori del lavoro e gli ispettori ministeriali per appurare se vi sia stato il pieno rispetto delle normative vigenti da parte dell'Aviation Services. (4-06376)

SALUTE

Interrogazione a risposta in Commissione:


   CARNEVALI, LENZI, AMATO, ALBINI, D'INCECCO, PICCIONE, SBROLLINI e VENITTELLI. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   secondo quanto riportato dai principali organi di informazione, i carabinieri dei NAS di Campobasso, Napoli, Bari, Salerno e Foggia con i colleghi dell'Arma territoriale, nelle province di Isernia e Campobasso, facendo irruzione nella residenza sociale assistenziale per anziani e malati psichiatrici, Villa Flora di Montaquila, hanno eseguito 13 arresti domiciliari a carico di un medico titolare e di infermieri e operatori socio-sanitari per maltrattamenti, sequestro di persona, lesioni, percosse ed abbandono di persone incapaci;
   l'operazione è scattata dopo un'approfondita indagine e giorni di riprese effettuate con telecamere nascoste nella struttura, con le quali sono state registrate immagini di pazienti legati ai letti o trascinati per terra o, ancora, abbandonati nella sporcizia, spesso umiliati e trascinati con la forza contro la loro volontà, costretti a dormire direttamente sui materassi oppure sopra sacchi neri di nylon usati a mo’ di protezione per le incontinenze. Sono stati riscontrati vestiti gettati a terra, lenzuola sporche e piene di feci, scarsa igiene e comportamenti autoritari da parte del personale impiegato per fornire ausilio alle persone ospiti e bisognose di aiuto. Dalle prime dichiarazioni del procuratore capo di Isernia, inoltre, si apprende che nella struttura non veniva rispettato il minimo riguardo per la dignità dei pazienti e, ad esempio, era prassi ordinaria la più totale promiscuità tra maschi e femmine che venivano lavati nello stesso bagno e asciugati con le lenzuola sporche;
   le indagini delle forze dell'ordine sulla struttura, in cui sono stati ospitati dai 150 ai 180 pazienti per una retta mensile di 1.200 euro, sono partite a seguito della segnalazione dei familiari di un paziente che presentava insoliti segni di traumi sul corpo;
   tale ultimo e gravissimo episodio di maltrattamenti nei confronti di persone anziane e disabili riporta alla memoria gli analoghi fatti che si registrarono nel giugno 2014 negli «Istituti Polesiani» di Ficarolo, un piccolo comune di Rovigo, o a quanto avvenne nel dicembre 2013 nella casa di riposo di Castel Volturno, in provincia di Caserta;
   la preoccupante recrudescenza di episodi di tale gravità, se, da una parte, potrebbe rappresentare il segnale di un'accresciuta sensibilità e attenzione degli inquirenti e dell'opinione pubblica sul tema del rispetto dei diritti dei malati, dall'altra, apre seri interrogativi sulla qualità dell'assistenza sanitaria in tali particolari strutture e sulla capacità del sistema sanitario e socio-sanitario nazionale di prevenire comportamenti e condizioni inaccettabili per il rispetto della dignità dei pazienti –:
   quali siano gli elementi a disposizione del Ministro interrogato relativamente alle condizioni di assistenza e cura dei ricoverati presso la residenza sociale assistenziale per anziani e malati psichiatrici, Villa Flora di Montaquila;
   quali urgenti iniziative intenda assumere, per quanto di competenza e d'intesa con le regioni, per garantire una attenta e puntuale verifica preventiva circa le reali condizioni in cui è assicurata l'assistenza e la cura delle persone anziane e con disabilità presso le strutture sanitarie e di ricovero dedicate a tali particolari categorie di pazienti, in coerenza con l'obiettivo dell'umanizzazione delle cure, di cui all'articolo 4, del nuovo patto per la salute per gli anni 2014-2016. (5-03779)

Interrogazioni a risposta scritta:


   LOREFICE, SILVIA GIORDANO, GRILLO, DI VITA, CECCONI, DALL'OSSO e MANTERO. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   la normativa sulla trasparenza nelle pubbliche amministrazioni è stata oggetto, in questi anni, di incisivi interventi. La legge 6 novembre 2012, n. 190, ha cristallizzato il principio di trasparenza come fondamentale per il buon andamento della pubblica amministrazione, tanto che, in ottemperanza alla delega ivi contenuta, il Governo ha adottato il decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, intitolato «Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazione da parte delle pubbliche amministrazioni», in cui, nel precisare che la trasparenza è qualificata come accessibilità totale delle informazioni riguardanti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, si puntualizza, all'articolo 1, comma 2, che essa è «finalizzata alla realizzazione di una amministrazione aperta e al servizio del cittadino»;
   con l'emanazione della delibera CiVIT (Comitato per la valutazione e integrità delle amministrazioni pubbliche) n. 2 del 2012 si è sancito l'obbligo per le amministrazioni della pubblicazione, sui propri siti istituzionali, anche dei cosiddetti «dati ulteriori», oltre a quelli espressamente previsti da specifiche norme di legge;
   i «dati ulteriori» sono quelli che ogni singola amministrazione, avendo conoscenza delle proprie caratteristiche organiche, dovrebbe focalizzare avendo riguardo alle richieste e alle necessità degli utenti, anche in coerenza con quanto disposto dal decreto legislativo n. 150 del 2009 e dalla legge n. 190 del 2012;
   il Ministero della salute ha istituito un'apposita sezione dedicata all'amministrazione trasparente. Tra i «dati ulteriori» sono state inserite alcune pagine web dedicate alle transazioni con gli emodanneggiati e all'indennizzo ex legge n. 210 del 1992;
   ad oggi nulla emerge, invece, riguardo all'equa riparazione di cui al decreto-legge n. 90 del 2014;
   inoltre, con post aggiornato solamente alla data del 14 gennaio 2013 rubricato «Transazioni, stipula in via di conclusione» il Ministero informava che «l'operazione finalizzata alla stipula della transazione è in via di conclusione», mentre la realtà a quanto consta agli interroganti, è che ad oggi, si sono sovrapposte due procedure creando confusione e sgomento tra i malati, che non hanno altra fonte per reperire notizie se non il sito, non aggiornato, del Ministero –:
   in quali tempi il Ministro intenda conformarsi effettivamente agli obblighi di trasparenza assunti e rendere fruibile il sito soprattutto in materia di transazione, equa riparazione ed indennizzo ex legge n. 210 del 1992, al fine di garantire la soddisfazione degli utenti e dei loro bisogni informativi. (4-06372)


   PLACIDO. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   il Centro Imid, sorto all'interno del nosocomio «San Pio da Pietralcina» di Campi Salentina, a partire dal 2008, si era accreditato come un importante punto di riferimento, in tutto il sud Italia, per le malattie infiammatorie croniche immunomediate;
   le malattie causate da un cattivo funzionamento del sistema immunitario sono diverse e vanno dal diabete, al lupus, al morbo di Krohn, alla celiachia, all'asma, toccando, dunque, una vasta gamma di pazienti, costretti a notevoli disagi per trovare una soluzione a malattie diverse tra loro e che richiedono un'assistenza multidisciplinare;
   trattando circa 4 mila pazienti ogni anno, il Centro Imid, era diventato una struttura di riferimento per tanti ammalati, che al suo interno avevano trovato competenza, professionalità e la capacità di trattare, con un approccio multidisciplinare, malattie che, nella maggior parte dei casi, condizionano negativamente la qualità della vita;
   il Centro Imid di Campi Salentina ha realizzato, nel corso degli anni di funzionamento, una mobilità attiva per la sanità pugliese, dal momento che tanti pazienti, provenienti soprattutto dalle regioni del sud Italia, hanno scelto la Puglia per curare le loro patologie croniche, accrescendo, di conseguenza, il prestigio della sanità pugliese;
   le dimissioni del direttore responsabile, il dottor Mauro Minelli, punto di riferimento del Centro Imid, hanno portato alla chiusura del suddetto centro, accrescendo il disagio di migliaia di pazienti e delle loro famiglie;
   si apprende di recente, da fonti di stampa, che il dottor Luigi Pepe, Presidente dell'ordine dei medici indagato per abuso d'ufficio, e dovrà rispondere, davanti al tribunale monocratico penale di Lecce nel prossimo febbraio, dell'accusa di diffamazione nei confronti del direttore generale della Asl Valdo Mellone (episodio riconducibile alla chiusura del Centro Imid di Campi salentina);
   dalle medesime fonti di stampa si apprende che gli ufficiali della polizia giudiziaria sono stati negli uffici dell'ordine dei Medici di Lecce per acquisire i documenti relativi alla sospensione del dottor Mauro Minelli e alla chiusura del centro Imid di Campi e porle al vaglio del procuratore Motta e del sostituto Paola Guglielmi;
   il dottor Pepe ha disposto un procedimento disciplinare risoltosi con la sospensione per un mese del dottor Minelli dall'esercizio dell'attività professionale;
   la pretestuosità delle accuse rivolte al dottor Minelli, è consistita nell'attribuzione di condotte dallo stesso mai poste in essere (gli addebiti concernono, infatti, il contenuto di un foglio di carta intestata della ASL e l'uso di qualifiche come quella di «professore» e di «direttore», delle quali il Minelli non si sarebbe mai fregiato e nel frequente ricorso a comunicati e a conferenze stampa;
   l'azione secondo l'interrogante persecutoria nei confronti del dottor Minelli, ha comportato addirittura l'apertura di un procedimento disciplinare attivato successivamente alla rinuncia da parte del dottor Minelli all'iscrizione all'Albo professionale dei medici di Lecce ed al suo trasferimento presso l'Albo dei medici di Potenza –:
   se non ritenga necessario verificare se l'ordine dei medici di Lecce abbia rispettato le vigenti disposizioni di legge nell'affrontare il caso del dottor Minelli, determinando di fatto la chiusura del Centro Imid;
   a quali criteri si sia ispirata la condotta dell'Ordine dei medici di Lecce e più precisamente:
    1) quali prìncipi abbiano regolato il comportamento dell'Ordine dei medici nel momento in cui abbia valutato la posizione di un associato;
    2) se non si ravvisino gli estremi di abusi nell'esercizio delle funzioni disciplinari attribuite all'Ordine dei medici citato.
(4-06381)

Apposizione di firme ad una interrogazione.

  L'interrogazione a risposta in Commissione Ricciatti n. 5-03764, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 9 ottobre 2014, deve intendersi sottoscritta anche dai deputati: Melilla, Pannarale, Duranti, Nicchi, Kronbichler.