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Resoconto dell'Assemblea

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XVII LEGISLATURA

Allegato B

Seduta di Venerdì 13 giugno 2014

ATTI DI INDIRIZZO

Risoluzione in Commissione:


   L'XI Commissione,
   premesso che:
    la direttiva 2000/78/CE, recepita nell'ordinamento nazionale dal decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, ha stabilito un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, prescrivendo per gli Stati membri l'adozione di soluzioni ragionevoli per garantire la parità di trattamento per i lavoratori disabili;
    nello specifico l'articolo 5 della direttiva citata precisa che il datore di lavoro debba prendere i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione, di ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano un onere finanziario sproporzionato. Non si ritiene sproporzionata la soluzione i cui costi sono compensati in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili;
    la Corte di Giustizia dell'Unione europea, II sezione, con sentenza sulle cause riunite C-355/11 e C-337/11 dell'11 aprile 2013 ha stabilito che le soluzioni ragionevoli stabilite dall'articolo 5 della direttiva 2000/78/CE debbano intendersi in riferimento all'eliminazione delle barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione delle persone disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori;
    con la sentenza del 4 luglio 2013, in relazione alla causa C-312/11, la Corte di Giustizia dell'Unione europea, IV sezione, ha emesso sentenza di condanna nei confronti della Repubblica Italiana per il mancato recepimento di quanto sancito dall'articolo 5 della direttiva 2000/78/CE. L'Italia quindi è venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente la disciplina comunitaria;
    dalla sentenza citata si evince come le disposizioni italiane per l'inserimento professionale dei disabili non prevedano l'obbligo per tutti i datori di lavoro di adottare provvedimenti efficaci che consentano a questi ultimi l'accesso e lo svolgimento di un'attività lavorativa nelle modalità e nei termini prescritti dall'articolo 5 della direttiva 2000/78/CE;
    occorre ricordare come un primo ammonimento da parte della Commissione europea sulle lacune nel recepimento della direttiva 2000/78/CE da parte dell'Italia sia datato 15 dicembre 2006. Nelle successive repliche da parte della Repubblica italiana venivano contestate le censure relative alla trasposizione dell'articolo 5 della direttiva, facendo valere le soluzioni previste in favore dei disabili dalle legge n. 68 del 1999. La Commissione europea ha ritenuto le disposizioni contenute nella legge citata insufficienti ad attuare l'articolo 5 più volte menzionato, considerando come il sistema italiano di promozione dell'integrazione lavorativa dei disabili sia essenzialmente fondato su un insieme di incentivi, agevolazioni e iniziative a carico delle autorità pubbliche e solo in minima parte preveda obblighi per i datori di lavoro;
    la sentenza del 4 luglio 2013 che ha condannato l'Italia afferma chiaramente come: «per trasporre correttamente e completamente l'articolo 5 della direttiva 2000/78/CE non è sufficiente disporre misure pubbliche di incentivo e di sostegno, ma è compito degli Stati membri imporre a tutti i datori di lavoro l'obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell'occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione»;
    in risposta alla sentenza citata il Governo ha adottato la legge 9 agosto 2013, n. 99, con la quale ha convertito con modificazioni il decreto-legge 28 giugno 2013, n. 76. In particolare il comma 4-bis, introdotto dalle legge in questione all'articolo 9, ha ripristinato il finanziamento del fondo per il diritto al lavoro dei disabili di cui al comma 4 dell'articolo 13 della legge n. 68 del 1999 prevedendo uno stanziamento di 10 milioni per l'anno 2013 e di 20 milioni per l'anno 2014. Il comma 4-ter dell'articolo 9 della legge n. 99 del 2013 ha invece inserito una ulteriore disposizione al decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, prevedendo che i datori di lavoro pubblici e privati siano tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli – come definiti dalla Convenzione della Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge n. 18 del 2009 – al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità nei luoghi di lavoro e per garantirne la piena eguaglianza con gli altri lavoratori;
    tali disposizioni sarebbero sotto la lente di ingrandimento della Commissione europea, essendo il nostro Paese ancora sottoposto a procedura di osservazione per verificare l'efficacia delle nuove norme introdotte per garantire la piena inclusione dei disabili nel mondo del lavoro. La disciplina in questione sembrerebbe non adempiere completamente i dettami della direttiva 2000/78/CE, né i rilievi della Corte di Giustizia sopra citati, paventandosi dunque la possibilità concreta che l'Italia venga sottoposta ad una nuova procedura di infrazione;
    occorre ricordare come in Italia solo il 16 per cento delle persone con disabilità fra i 15 e i 74 anni risulti occupato, contro il 49,9 per cento del totale della popolazione. Solo l'11 per cento delle persone con limitazioni funzionali che lavorano ha trovato un'occupazione attraverso un centro pubblico per l'impiego. Le persone con limitazioni funzionali che sono inattive rappresentano una quota quasi doppia rispetto a quella osservata nell'intera popolazione, l'82,1 per cento contro il 45,4 per cento. La percentuale di che non è mai entrato nel mercato del lavoro e non cerca di entrarci (250.000 persone, per la quasi totalità donne) è molto più elevata tra chi ha limitazioni (il 18,5 per cento contro l'8,8 per cento di chi ha limitazioni funzionali lievi);
    i dati della Federazione italiana per il superamento dell'handicap, citati recentemente dal Sottosegretario di Stato al lavoro Franca Biondelli e diffusi da diversi organi di stampa confermano il contesto drammatico sopradescritto sull'occupazione delle persone con disabilità nel nostro Paese. Nel 2013 risultavano oltre 750.000 i disabili iscritti alle liste di collocamento obbligatorio, attestandosi il dato per cui ben l'84 per cento delle persone disabili in età lavorativa è priva di un impiego. Inoltre la situazione perdurante di crisi economica sta contribuendo ad acuire la problematica. Siccome le aziende in crisi possono sospendere gli obblighi di assunzione della legge n. 68 del 1999, circa il 25 per cento dei posti previsti per i disabili rimane non assegnato, tanto nel settore pubblico quanto nel privato;
    alla luce di quanto descritto in premessa si evidenzia un quadro normativo che, sebbene risulti avanzato in relazione all'affermazione del principio di non discriminazione delle persone con disabilità in ambito lavorativo, presenta dei seri limiti nella traduzione in concreto di tale principio e nel garantire effettivamente la possibilità per moltissimi cittadini di accedere a un impiego e conservare lo stesso, ciò dovuta alla evidente possibilità che le norme citate rimangano inapplicate,

impegna il Governo:

   a introdurre nuove norme capaci di attuare pienamente l'articolo 5 della direttiva 2000/78/CE così come chiaramente interpretato dalla Corte di Giustizia e di garantire in concreto, attraverso obblighi più vincolanti per i datori di lavoro, pubblici e privati, il diritto al lavoro delle persone con disabilità;
   ad incrementare le risorse del fondo per il diritto al lavoro dei disabili di cui al comma 4 dell'articolo 13 della legge n. 68 del 1999, per consentire maggiori possibilità occupazionali nel settore pubblico e privato.
(7-00390) «Di Salvo, Piazzoni, Scuvera, Nicchi».

ATTI DI CONTROLLO

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Interpellanza urgente (ex articolo 138-bis del regolamento):


   I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri, per sapere – premesso che:
   i continui delitti commessi a danno delle donne, riportati dalla cronaca, hanno determinato nell'opinione pubblica la percezione diffusa della violenza nei confronti delle donne come un fenomeno in aumento, sebbene la mancanza di dati ufficiali aggiornati a livello nazionale, disaggregati per genere non consenta di misurare adeguatamente la portata del fenomeno;
   la contribuzione finanziaria con fondi europei ha sostenuto sia direttamente (come il progetto Daphne contro la violenza sulle donne datato di 116,85 milioni di euro e che ha finanziato anche una parte importante delle attività dei centri antiviolenza in Italia) che indirettamente (attraverso i piani operativi regionali e la programmazione nazionale) la maggior parte dei progetti regionali e provinciali per il contrasto della violenza sulle donne. Inoltre, l'indagine svolta dall'Agenzia europea per i diritti ha raccolto dati ufficiali che misurano l'impatto del fenomeno nei 28 Stati membri e sottolineato l'importanza di interventi concertati e strutturali;
   la legge 15 febbraio 1996, n. 115, recante «Norme contro la violenza sessuale» e successivamente il decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori» convertito dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, hanno dotato il nostro ordinamento di nuovi strumenti volti a contrastare la violenza di genere;
   il 25 giugno 2012 è stato presentato all'ONU il primo rapporto tematico sul femminicidio, frutto del lavoro realizzato in Italia da Rashida Manjoo. Tale rapporto rileva, tra le altre cose, la mancanza di strumenti adeguati per monitorare le dimensioni del fenomeno nel nostro Paese;
   il 19 giugno 2013 è stata ratificata in Italia la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, approvata dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa il 7 aprile 2011 e aperta alla firma l'11 maggio dello stesso anno a Istanbul;
   tale Convenzione, che introduce il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante volto a creare un quadro normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza, all'articolo 8, dispone che: «Le Parti stanziano le risorse finanziarie e umane appropriate per un'adeguata attuazione di politiche integrate, di misure e di programmi destinati a prevenire e combattere ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione, ivi compresi quelli realizzati dalle ONG e dalla società civile»;
   l'articolo 5 del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province» convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, demanda al Ministro per le pari opportunità il compito di elaborare un piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere, in sinergia con la nuova programmazione dell'Unione europea per il periodo 2014-2020. Il medesimo articolo prevede, inoltre, un finanziamento di 10 milioni di euro per l'anno 2013 per la realizzazione di azioni a sostegno delle donne vittime di violenza;
   il comma 217 dell'articolo 1 della legge 27 dicembre 2013, n. 14, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014) incrementa di 10 milioni di euro, per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016, la dotazione del Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità allo scopo di finanziare il «Piano di azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere»;
   per effetto del combinato disposto dalla predetta disposizione con gli articoli 5 e 5-bis del decreto-legge n. 93 del 2013, nonché in virtù del cosiddetto istituto del «riporto» che prevede la facoltà per la Presidenza del Consiglio dei ministri diversamente dalle altre amministrazioni, di mantenere in bilancio anche le risorse non utilizzate nell'anno precedente, nel 2014 risulta disponibile per il già citato piano straordinario la somma di 18 milioni di euro;
   tale somma, secondo quanto si legge nella nota preliminare al bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio dei ministri, adottato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri il 20 dicembre 2013, tripartita destinando: 10 milioni di euro per il miglioramento degli interventi delle istituzioni nel contrasto alla violenza sulle donne attraverso l'elaborazione di un piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere; 7 milioni di euro all'attuazione dell'articolo 5-bis del decreto-legge n. 93 del 2013, relativo ad interventi di assistenza e sostegno territoriale a donne vittime di violenza e ai loro figli; 300.000 euro per la stipula di convenzioni o accordi finalizzati all'aggiornamento di statistiche sulla criminalità contro le donne nonché all'istituzione di una banca dati sui servizi offerti attraverso la rete collegata al numero di pubblica utilità 1522 e infine 700.000 euro per la prosecuzione delle attività del servizio 1522 per il contrasto alla violenza di genere e allo stalking –:
   se il Governo non ritenga opportuno, alla luce dei moniti espressi a più riprese dall'Unione europea e vista la drammaticità dei dati esposti in premessa, di procedere con la massima urgenza all'erogazione delle somme predette;
   se non ritenga altresì di doversi attivare con la massima sollecitudine, anche alla luce del ruolo chiave ricoperto dal nostro Paese in occasione della ratifica della Convenzione di Istanbul, convocando i necessari gruppi di lavoro, per dare un impulso concreto allo sviluppo del piano di azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, di cruciale importanza per la piena attuazione degli strumenti giudici già citati.
(2-00579) «Giuliani, Terrosi, Mazzoli, Rotta, Giorgis, Rossomando, Incerti, Boccuzzi, Misiani, Moscatt, Tartaglione, Pollastrini, Gribaudo, Scuvera, Gasparini, Ginefra, Bergamini, Ferranti, Carnevali, Cimbro, Mariano, Simoni, Piccoli Nardelli, Laforgia, Giulietti, Giuditta Pini, Berretta, Giuseppe Guerini, Manzi, Ghizzoni, Greco, Mariastella Bianchi, Tidei, Manfredi, Bray, Guerra, Marzano, Rostan, Gregori, Rampi, Mura, Zampa, Moretto, Ginoble, Paris, Iori, Locatelli, Centemero, Amoddio, Covello, Sbrollini, Chaouki, Berlinghieri, Marantelli, Mattiello, Petitti, Carlo Galli, Albini, Bonafè».

Interpellanza:


   I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, per sapere – premesso che:
   nel campo della gestione dei rifiuti, l'Italia, al pari degli altri Stati membri, è tenuta a dare attuazione alle disposizioni contenute nelle seguenti direttive dell'Unione europea che regolano alcune parti della materia: la n. 75/442/CEE, la n. 91/689/CE relativa alla gestione controllata dei rifiuti pericolosi, e la n. 1999/31/CE concernente la gestione delle discariche;
   la direttiva 75/442/CEE, all'articolo 4, prevede che: «Gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all'ambiente (...) Gli Stati membri adottano inoltre le misure necessarie per vietare l'abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti»;
   la stessa direttiva 75/442/CEE, all'articolo 8, impone agli Stati membri di adottare le disposizioni necessarie affinché ogni detentore di rifiuti li consegni ad un raccoglitore privato o pubblico, o ad un'impresa che effettua le operazioni previste nell'allegato II A o II B di tale direttiva, oppure provveda egli stesso al recupero o allo smaltimento, conformandosi alle disposizioni di detta direttiva;
   secondo l'articolo 9, della direttiva sopracitata – ai fini dell'applicazione, in particolare, del richiamato articolo 4, tutti gli stabilimenti o le imprese che effettuano le operazioni di smaltimento di rifiuti debbono ottenere da parte dell'autorità competente incaricata di attuare le disposizioni di tale direttiva l'autorizzazione, che può essere concessa e rinnovata per un periodo determinato subordinatamente al rispetto di condizioni e obblighi specifici, ovvero essere rifiutata segnatamente quando il metodo di smaltimento previsto non è accettabile dal punto di vista della protezione dell'ambiente;
   la direttiva 91/689/CEE, all'articolo 2, dispone «Gli Stati membri prendono le misure necessarie per esigere che in ogni luogo in cui siano depositati (messi in discarica) rifiuti pericolosi, questi ultimi siano catalogati e identificati. (...)»;
   per quel che concerne la gestione delle discariche autorizzate o già in funzione alla data di entrata in vigore della direttiva 1999/31/CE, la stessa direttiva, all'articolo 14, ne subordina il mantenimento in esercizio alle seguenti condizioni:
    a) entro un anno dalla data prevista nell'articolo 18, paragrafo 1 (vale a dire entro il 16 luglio 2002), il gestore della discarica elabora e presenta all'approvazione dell'autorità competente un piano di riassetto della discarica comprendente le informazioni menzionate nell'articolo 8 e le misure correttive che ritenga eventualmente necessarie al fine di soddisfare i requisiti previsti dalla presente direttiva, fatti salvi i requisiti di cui all'allegato I, punto 1;
    b) in seguito alla presentazione del piano di riassetto, le autorità competenti adottano una decisione definitiva sull'eventuale proseguimento delle operazioni in base a detto piano e alla presente direttiva. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per far chiudere al più presto, a norma dell'articolo 7, lettera g), e dell'articolo 13, le discariche che, in forza dell'articolo 8, non ottengono l'autorizzazione a continuare a funzionare;
    c) sulla base del piano approvato, le autorità competenti autorizzano i necessari lavori e stabiliscono un periodo di transizione per l'attuazione del piano;
    d) tutte le discariche preesistenti devono conformarsi ai requisiti previsti dalla presente direttiva, fatti salvi i requisiti di cui all'allegato I, punto 1, entro otto anni dalla data prevista nell'articolo 18, paragrafo 1 (ossia entro il 16 luglio 2009);
   la direttiva 1999/31/CE, all'articolo 18 comma 1, impone agli Stati membri di adottare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla stessa entro due anni a decorrere dalla sua entrata in vigore (vale a dire, entro il 16 luglio 2001) e ne informano immediatamente la Commissione;
   il Corpo forestale dello Stato, negli anni, ha condotto tre censimenti delle discariche abusive. Il primo è stato effettuato nel 1986, ed ha riguardato 6.890 comuni italiani, evidenziando l'esistenza di 5.978 discariche abusive. Il secondo è stato redatto nel 1996, ha riguardato 6.802 comuni ed ha evidenziato l'esistenza di 5.422 discariche abusive. Il terzo, pubblicato il 22 ottobre del 2002 – a seguito della riforma della regolamentazione in materia di gestione dei rifiuti (decreto legislativo n. 22 del 1997) – ha identificato 4866 discariche abusive, per una superficie totale di 19.017.157 m2, ed ha inoltre evidenziato l'esistenza di 1.765 discariche che non risultavano nei censimenti precedenti. L'ultimo rapporto del Corpo forestale dello Stato, inoltre, ha chiarito come 1.654 discariche abusive erano ancora in attività, e 3.212 sembravano essere invece non essere più utilizzate. Pur tuttavia, come sottolinea il suindicato studio, l'impatto ambientale delle discariche abusive non più utilizzate è ugualmente significativo, spesso perfino più impattante, di quello delle discariche in attività. Occorre sottolineare come i dati contenuti nel terzo censimento siano stati raccolti unicamente in relazione alle 15 regioni a statuto ordinario, la situazione nelle regioni a statuto speciale non sembrava diversa. Inoltre, secondo tale rapporto, i risultati erano sicuramente sottostimati in quanto le competenze del Corpo forestale dello Stato coprono essenzialmente il territorio extra urbano, il che esclude le numerose discariche abusive localizzate in aree urbane; v’è da segnalare, infine, come 705 discariche riguardino rifiuti pericolosi;
   la Commissione europea è venuta a conoscenza – in particolare attraverso il 3o censimento delle discariche abusive, tramite reclami, interrogazioni di parlamentari europei ed articoli di stampa – del funzionamento di un vasto numero di discariche abusive ed incontrollate in Italia. Motivi per cui la stessa Commissione, in data in data 11 luglio 2003, ha inviato all'Italia una costituzione di messa in mora, aprendo così una procedura di infrazione (2003/2077) contro il nostro Paese per la cattiva applicazione degli articoli 4, 8 e 9 della direttiva 75/442/CEE, modificata dalla direttiva 91/156/CEE, dell'articolo 2, comma 1, della direttiva 91/689/CEE e dell'articolo 14, lettere a)-c), della direttiva 1999/31/CE;
   la Commissione europea, in data 19 dicembre 2003, ha trasmesso all'Italia il parere motivato C(2003) 5104 in forza dell'articolo 226 del trattato che istituisce la Comunità europea, per la non corretta applicazione degli articoli citati nel precedente punto riguardanti le direttive 75/442/CEE, 91/689/CEE, 1999/31/CE;
   la Commissione europea, nel parere motivato C(2003) 5104, sulla base delle informazioni in suo possesso, evidenzia quanto segue:
    a) in Italia, nonostante l'esistenza di un apposito quadro normativo, esiste ancora un grande numero di discariche abusive, senza alcuna autorizzazione, né controllo;
    b) l'esistenza e il funzionamento di queste discariche abusive o incontrollate dimostrano che le autorità italiane ne tollerano la presenza e che non hanno preso tutte le misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano smaltiti senza pericolo per la salute dell'uomo e senza recare pregiudizio all'ambiente;
    c) le autorità italiane non hanno preso tutte le misure necessarie per vietare l'abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti, e per assicurare che gli stabilimenti o imprese che effettuano lo smaltimento dei rifiuti siano soggetti ad autorizzazione;
    d) la persistenza della situazione denunciata – che è all'origine di un degrado significativo dell'ambiente per un periodo di tempo prolungato – senza l'adozione di interventi da parte delle autorità competenti, rileva che l'Italia ha oltrepassato il potere discrezionale che l'articolo 4 comma 1 della direttiva 75/442/CEE conferisce agli Stati membri;
    e) non risulta che le autorità italiane abbiano preso tutte le misure necessarie affinché i rifiuti contenuti nelle discariche abusive o incontrollate siano consegnati ad un raccoglitore privato o pubblico, o ad un'impresa autorizzata ad effettuare le operazioni di smaltimento o recupero, oppure affinché il detentore provveda egli stesso al recupero o allo smaltimento in conformità della direttiva, come previsto dall'articolo 8 della direttiva 75/442/CEE come interpretato dalla Corte;
    f) per quanto riguarda le discariche abusive di rifiuti pericolosi, si deve dedurre che tali rifiuti non sono stati catalogati e identificati;
    g) relativamente agli stabilimenti o imprese, che effettuano lo smaltimento dei rifiuti in assenza di qualsiasi autorizzazione, non risulta che, prima del 16 luglio 2002, i piani di riassetto di ciascuna discarica abusiva o incontrollata, comprendenti le informazioni relative alle condizioni autorizzative e le misure correttive eventualmente necessarie, siano stati elaborati e presentati all'approvazione dell'autorità competente, come previsto all'articolo 14 della direttiva 1999/31/CE;
   il 23 marzo 2005, la Commissione delle Comunità europee ha proposto dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee un ricorso contro la Repubblica italiana perché venisse constatata l'inadempienza della Repubblica italiana agli obblighi di cui agli articoli 4, 8 e 9 della direttiva 75/442/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE, agli articoli 2, paragrafo 1, della direttiva 1/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti pericolosi e all'articolo 14, lettere a), b) e c), della direttiva 1999/31/CE del Consiglio relativa alle discariche di rifiuti;
   il 26 aprile 2007, la Corte di giustizia delle Comunità europee (causa C-135/05) ha condannato la Repubblica italiana per non aver adottato tutti i provvedimenti necessari ad adempiere agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli articoli 4, 8 e 9 della direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE, dell'articolo 2, n. 1, della direttiva del Consiglio 12 dicembre 1991, 91/689/CEE, relativa ai rifiuti pericolosi, e dell'articolo 14, lettere a)-c), della direttiva del Consiglio 26 aprile 1999, 1999/31/CE, relativa alle discariche di rifiuti, imponendo all'Italia il pagamento delle spese processuali;
   la situazione delle discariche, oggetto della citata procedura di infrazione 2003/2077 – in relazione alla quale l'Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia con la citata sentenza del 2007 – nel dicembre del 2012 era tale per cui si registrava, ancora, la presenza di 252 invasi irregolari così suddivisi per regioni di ubicazione: Abruzzo 37, Basilicata 5, Calabria 43, Campania 49, Emilia-Romagna 3, Friuli Venezia Giulia 2, Lazio 32, Liguria 6, Lombardia 4, Marche 2, Molise 2, Piemonte 1, Puglia 15, Sardegna 10, Sicilia 24, Toscana 6, Umbria 1, Veneto 10;
   in relazione a ciò, il 16 aprile 2013, la Commissione europea ha presentato un nuovo ricorso contro l'Italia (causa C-196/13) per non aver adottato tutte le misure necessarie per conformarsi alla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 26 aprile 2007, nella causa C-135/05. In particolare, la violazione degli articoli 4, 8 e 9 della direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE, e dell'articolo 2, n. 1, della direttiva 91/689/CEE, relativa ai rifiuti pericolosi, è comprovata dal fatto che, in base alle informazioni trasmesse dalle autorità italiane, esisterebbero nel territorio italiano ancora almeno 218 discariche illegali di rifiuti, dislocate in tutte le regioni italiane. La violazione dell'articolo 14 della direttiva 1999/31/CE, relativa alle discariche di rifiuti è dimostrata dall'esistenza di 5 discariche che, nonostante i relativi piani di riassetto non siano stati presentati o approvati, non sono state chiuse dall'autorità competente;
   al termine del contenzioso, la Commissione ha chiesto alla Corte di ordinare alla Repubblica italiana di: 1) versare alla Commissione una penalità giornaliera pari a euro 256.819,2 per il ritardo nell'esecuzione della sentenza nella causa C-135/05 dal giorno in cui sarà pronunciata la sentenza nella presente causa fino al giorno in cui sarà stata eseguita la sentenza nella causa C-135/05; 2) versare alla Commissione una somma forfettaria il cui importo risulta dalla moltiplicazione di un importo giornaliero pari a euro 28.089,6 per il numero di giorni di persistenza dell'infrazione dal giorno della pronunzia della sentenza nella causa C-135/05 alla data alla quale sarà pronunziata la sentenza nella presente causa;
   il 3 giugno del 2014, si è svolta la prima udienza della Corte di giustizia dell'Unione europea in merito alla causa C-196/13 per la pronuncia sulle discariche abusive. L'avvocato generale della Corte presenterà le sue conclusioni sulla causa che contrappone la Commissione dell'Unione europea all'Italia per l'inadempienza sulla gestione dei rifiuti il prossimo 4 settembre;
   con riferimento alla Programmazione dei cosiddetti Fondi strutturali relativi al periodo 2014-2020, il Regolamento (UE) n. 1303/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio ha individuato tra le priorità di investimento relative al Fondo FESR e al Fondo di coesione l'investimento «nel settore dei rifiuti per rispondere agli obblighi imposti dall’aquis dell'Unione in materia ambientale e soddisfare le esigenze, individuate dagli Stati membri, di investimenti che vadano oltre tali obblighi» e, nello stesso tempo, tra le condizionalità previste ha inserito la «6.1 Settore dei rifiuti: promuovere investimenti economicamente ed ecologicamente sostenibili nel settore dei rifiuti, in particolare, attraverso la definizione di piani di gestione dei rifiuti conformi alla direttiva 2008/98/CE ai rifiuti e alla gerarchia dei rifiuti»;
   la condanna richiesta dalla Commissione europea, con la conseguente applicazione di sanzione pecuniarie, appare, dunque, l'inevitabile conseguenza di una perdurante incapacità dello Stato italiano, e delle amministrazioni a diverso livello e titolo coinvolte, di dare piena attuazione alle disposizioni comunitarie in materia di gestione dei rifiuti –:
   quali iniziative straordinarie e urgenti intendano adottare per giungere, il più rapidamente possibile, alla rimozione di tutte le situazioni giuridiche e/o di fatto che sono causa della condanna inflitta al nostro paese nell'aprile del 2007, in considerazione del fatto che il permanere delle stesse situazioni è all'origine di una probabile seconda condanna, da parte della Corte europea, con la conseguente applicazione di sanzioni pecuniarie il cui importo – stando alla richiesta avanzata dalla Commissione – potrebbe essere calcolato in funzione del numero dei giorni che trascorreranno tra il 26 aprile 2007, data della prima condanna, e il giorno nel quale il nostro paese darà prova del pieno rispetto di tutti gli obblighi comunitari violati;
   quali azioni intendano adottare perché si dia piena attuazione alla normativa in materia di trattamento di rifiuti e di gestione delle discariche, eliminando le gravi, diffuse e documentate minacce alla salute dei cittadini e alla qualità dell'ambiente rappresentate dalle discariche illegali di rifiuti e dagli invasi operativi privi del prescritto piano di riassetto;
   se nell'Accordo di Partenariato trasmesso alla Commissione europea, e in particolare nel documento contenente una valutazione sintetica dell'adempimento, da parte dello Stato membro, delle condizionalità ex ante fissate, sia stato fornito – con riferimento alla mancata ottemperanza alla citata condizionalità ex ante 6.1 – un quadro delle azioni da adottare, degli organismi responsabili e delle tempistiche di attuazione di tali azioni, conformemente a quanto stabilito nell'articolo 19 del citato Regolamento (UE) n. 1303/2013;
   se e quali iniziative siano state inserite nel quadro delle azioni relativo alla condizionalità ex ante 6.1 con lo scopo di ridurre e/o annullare il numero di discariche illegali di rifiuti e di invasi operativi privi del piano di riassetto prescritto, alla base del ricorso alla Corte europea di giustizia da parte della Commissione europea.
(2-00578) «Mannino, Busto, Daga, De Rosa, Micillo, Segoni, Terzoni, Vignaroli, Zolezzi».

Interrogazioni a risposta scritta:


   PILI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   è già esaurito il grande annuncio sul patto di stabilità della regione Sardegna messo in scena 15 giorni fa dal Governo Renzi con la giunta Pigliaru/Soru;
   la pompa magna di quella giornata rievoca i fatti storici che diventano bluff in pochissimo tempo;
   nel comunicato ufficiale di Palazzo Chigi con la solennità di chi prende impegni veri avevano persino scritto i tempi: entro dieci (10) verrà definito l'adeguamento dello spazio finanziario per il 2014. Con un inciso: in armonia con gli obiettivi di finanza pubblica;
   sono passati 15 giorni e di quell'impegno solenne non se n’è saputo più nulla. Solo comunicati per cercare qualche scappatoia;
   la nota di palazzo Chigi, il Governo e la regione Sardegna aveva annunciato di aver concordato di:
    «avviare un percorso per superare l'attuale impianto di regole che consenta di giungere già nel 2015 al sistema di pareggio di bilancio, che rappresenta la soluzione strutturale al problema della regione Sardegna, all'interno di un progetto più ampio che riguardi tutte le regioni a statuto speciale;
    accordare in ragione della specificità della regione Sardegna, così come definito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 118 del 2012, e nelle more della transizione verso il nuovo regime di pareggio di bilancio un adeguato ampliamento dello spazio finanziario per il 2014 che verrà definito, in armonia con gli obiettivi di finanza pubblica, entro 10 giorni»;
   partendo dal comunicato ufficiale occorre scindere i due problemi:
    «accordare in ragione della specificità della regione Sardegna, così come definito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 118 del 2012, e nelle more della transizione verso il nuovo regime di pareggio di bilancio un adeguato ampliamento dello spazio finanziario per il 2014 che verrà definito, in armonia con gli obiettivi di finanza pubblica, entro 10 giorni».
    «avviare un percorso per superare l'attuale impianto di regole che consenta di giungere già nel 2015 al sistema di pareggio di bilancio, che rappresenta la soluzione strutturale al problema della regione Sardegna, all'interno di un progetto più ampio che riguardi tutte le regioni a statuto speciali»;
   la legge costituzionale n. 1 del 20 aprile 2012, il legislatore nazionale ha modificato gli articoli 81, 97, 117 e 119 della Costituzione, introducendo nell'ordinamento un principio di carattere generale, secondo il quale tutte le amministrazioni pubbliche devono assicurare l'equilibrio tra entrate e spese del bilancio e la sostenibilità del debito, nell'osservanza delle regole dell'Unione europea in materia economico-finanziaria;
   con la modifica dell'articolo 81 della Costituzione, lo Stato deve assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle diverse fasi – avverse o favorevoli – del ciclo economico e delle misure una tantum, in linea con quanto previsto dall'ordinamento europeo;
   il principio dell'equilibrio dei bilanci e l'obbligo di concorrere ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'Unione europea è introdotto anche per i livelli di governo decentrati con la modifica dei commi primo e sesto dell'articolo 119 della Costituzione. Per gli enti territoriali è prevista la possibilità di ricorrere all'indebitamento per le sole spese di investimento previa predisposizione di piani di ammortamento e con il vincolo di assicurare il rispetto dell'equilibrio per il complesso degli enti di ciascuna regione, compresa la regione medesima;
   con la legge 24 dicembre 2012, n. 243 vengono disciplinati, tra l'altro, il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci pubblici e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni;
   il capo II della legge n. 243 del 2012 disciplina i principi e le regole di bilancio riferite al complesso delle amministrazioni pubbliche: definizione dell'equilibrio di bilancio, introduzione di una regola sull'evoluzione della spesa e regole in materia di sostenibilità del debito pubblico;
   il principio dell'equilibrio di bilancio per le pubbliche amministrazioni è definito, all'articolo 3, in relazione all'obiettivo di medio termine (MTO) stabilito dall'ordinamento dell'Unione europea quale parametro di riferimento per la valutazione della posizione fiscale di ciascuno Stato membro. Una deroga al principio dell'equilibrio di bilancio è prevista qualora si verifichino eventi eccezionali, che la stessa legge indica;
   è previsto inoltre, un principio generale per la sostenibilità del debito pubblico (articolo 4) in coerenza con quanto stabilito dall'ordinamento europeo. Gli obiettivi relativi al rapporto debito/PIL dovranno essere indicati nei documenti di programmazione e, nell'ipotesi in cui sia superata la soglia di riferimento europea, in sede di definizione degli obiettivi di bilancio si dovrà tenere conto della necessità di garantire una riduzione dell'eccedenza rispetto a tale valore secondo quanto previsto dal medesimo ordinamento europeo;
   il principio dell'equilibrio dei bilanci per le regioni e gli enti locali è declinato dall'articolo 9 in relazione al conseguimento, sia in fase di programmazione che di rendiconto, di un valore non negativo, in termini di competenza di cassa, del:
    saldo tra le entrate finali e le spese finali;
    saldo tra le entrate correnti e le spese correnti, incluse le quote di capitale delle rate di ammortamento dei prestiti;
   nell'ipotesi in cui, a consuntivo, si registri uno scostamento dall'obiettivo, ciascun ente provvede ad assicurare il recupero del disavanzo entro il triennio successivo. Nell'ipotesi in cui si registrassero avanzi di bilancio, tali risorse saranno destinate al ripiano del debito o al finanziamento delle spese di investimento. Con legge dello Stato sono definite le sanzioni da applicare alle regioni e agli enti locali che non conseguono l'equilibrio nonché gli ulteriori obblighi in materia di concorso al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, sulla base di criteri analoghi a quelli dello Stato e tenendo conto di parametri di virtuosità;
   l'indebitamento per gli enti territoriali è consentito solo per finanziare spese di investimento e contestualmente all'adozione di piani di ammortamento di durata non superiore alla vita utile dell'investimento stesso. In ogni caso, il ricorso all'indebitamento potrà essere effettuato sulla base di apposite intese concluse in ambito regionale che garantiscano, per l'anno di riferimento, l'equilibrio della gestione di cassa finale del complesso degli enti della regione interessata, compresa la medesima regione. In caso di complessivo scostamento dall'equilibrio, il disavanzo concorre alla determinazione dell'equilibrio di cassa dell'esercizio successivo ed è ripartito tra gli enti che non hanno rispettato il saldo previsto;
   l'articolo 11 prevede che nelle fasi sfavorevoli del ciclo economico e in caso di eventi eccezionali, lo Stato contribuisca al finanziamento dei servizi essenziali e delle prestazioni fondamentali inerenti i diritti civili e sociali, tenendo conto della quota di entrate proprie delle regioni, dei comuni, delle province, delle città metropolitane e delle province autonome di Trento e di Bolzano influenzata da ciclo economico. A tal fine è costituito un fondo presso il Ministero dell'economia e delle finanze, la cui dotazione è stabilita nei documenti di programmazione finanziaria e di bilancio e alla cui ripartizione si provvede, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentita la Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica, tenuto conto della quota di entrate proprie di ciascun ente, influenzata dall'andamento del ciclo economico. Di contro, è richiesto, nelle fasi favorevoli, agli stessi enti un contributo da destinare al Fondo ammortamento titoli di Stato, definito e ripartito, tra gli enti stessi, tenendo conto della quota di entrate proprie influenzata dal ciclo economico. In ogni caso, gli enti devono concorrere alla sostenibilità del debito pubblico, secondo modalità da definire con legge dello Stato;
   l'applicazione dell'equilibrio dei bilanci delle regioni e degli enti locali è prevista a decorrere dal l gennaio 2016;
   è necessaria una seria riflessione sui contenuti e sulle conseguenze della anticipazione circa l'introduzione del pareggio di bilancio nella regione e conseguentemente negli enti territoriali facenti parte della regione stessa;
   il nuovo articolo 97 della Costituzione stabilisce che tutte le «pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico». Si tratta di un duplice principio: da un lato quello dell'equilibrio di bilancio, dall'altro quello della sostenibilità del debito, entrambi da assicurare in maniera corrispondente alle norme dell'ordinamento europeo;
   tanto l'equilibrio di bilancio quanto la sostenibilità del debito, appartengono a quelle decisioni che lo Stato Italiano deve condividere con le istituzioni europee e, in particolare, che devono essere assunte in modo idoneo ad assicurare l'effettività delle prescrizioni europee;
   le autonomie territoriali vedono ridefinite le proprie competenze, sono state infatti riportate a livello statale, a titolo esclusivo, la «armonizzazione dei bilanci pubblici», competenza questa che a seguito della revisione del Titolo V della Costituzione era stata regionalizzata, nel quadro delle materie di legislazione concorrente. Il nuovo articolo 119 della Costituzione, condiziona ora le politiche degli enti territoriali al vincolo di «rispetto dell'equilibrio di bilancio», con la previsione aggiuntiva che gli enti regionali e locali «concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea». A differenza dello Stato, che può assumere decisioni d'indebitamento tenendo conto del ciclo economico e in ragione di eventi eccezionali, le regioni ed enti locali non possono ricorrere al mercato finanziario se non per la copertura di spese per investimento, e che, in tali circostanze, siano «contestualmente» definiti «piani di ammortamento», e sempreché «per il complesso degli enti di ciascuna regione sia rispettato l'equilibrio di bilancio»;
   la disciplina dell'equilibrio di bilancio e dell'indebitamento di regioni ed enti locali sarà sviluppata ulteriormente con «legge dello Stato». Gli enti territoriali sono sottoposti al vincolo dell'equilibrio di bilancio due volte: singolarmente (articolo 9) e, con specifico riguardo alle decisioni d'indebitamento, come parti di un sottosistema il cui ambito è la regione (articolo 10). Il ricorso al mercato finanziario è, rispetto allo Stato, sottratto a qualunque considerazione concernente e l'andamento del ciclo economico e eventuali;
   il patto di stabilità deve essere modificato subito senza ulteriori imposizioni di pareggio di bilancio, tantomeno anticipato;
   alla verifica più attenta delle conseguenze di quello che ha scritto il comunicato ufficiale di Palazzo Chigi tutti i comuni della Sardegna sarebbero messi in un colpo solo tutti in ginocchio;
   mentre il Governo chiede all'Europa una proroga di un ulteriore anno per il raggiungimento del pareggio con l'accettazione del pareggio di bilancio già dal 2015 il dramma non riguarderà solo l'ente regione, ma l'eventuale stipula di un accordo simile riguarderà automaticamente tutti i comuni sardi, chiamati al pareggio del bilancio di competenza e peggio ancora quello di cassa;
   la modifica costituzionale impone in modo secondo l'interrogante suicida il pareggio di bilancio non solo per la Regione ma anche per tutti gli enti locali. Per la Sardegna, dunque, non solo la regione ma anche tutti i 377 comuni dell'isola saranno chiamati ad un pareggio anticipato di almeno un anno sia per il bilancio di competenza che quello di cassa. Per i comuni sardi si rischia il fallimento. Un'operazione maldestra e suicida alla pari di quella del 2006 che scaricò sulla Sardegna sanità e trasporti. Secondo l'interrogante si è davanti ad una vera e propria follia di cui solo in queste ore questi luminari stanno mettendo a fuoco. Che quel comunicato di Palazzo Chigi nascondesse insidie e imbrogli lo si era capito sin da subito ma l'enfasi dell'annuncio aveva chiuso gli occhi a tutti, o quasi;
   quel che è più grave è che l'applicazione dell'equilibrio dei bilanci delle regioni e degli enti locali è prevista a decorrere dal l gennaio 2016. Per la Sardegna, se dovesse essere confermato il suicidio già dal 2015, con tutte le conseguenze drammatiche sia per la Regione che per i comuni, significherebbe un salto nel vuoto senza precedenti. Vuol dire nuove tasse, nuove entrate, e più tagli di servizi, minori uscite. Insomma quel patto fantomatico ha sostanzialmente detto: se volete uscire dal patto di stabilità dovete entrare nella morsa del pareggio di bilancio. E farlo in un periodo come questo significa strozzare imprese e cittadini;
   il nuovo articolo 119 della Costituzione, condizionerebbe la Sardegna e i suoi enti territoriali sin dal 2015 al vincolo di «rispetto dell'equilibrio di bilancio», con la previsione aggiuntiva che gli enti regionali e locali «concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea». A differenza dello Stato, che può assumere decisioni d'indebitamento tenendo conto del ciclo economico e in ragione di eventi eccezionali, le regioni e enti locali non possono ricorrere al mercato finanziario se non per la copertura di spese per investimento, e che, in tali circostanze, siano «contestualmente» definiti «piani di ammortamento», e sempreché «per il complesso degli enti di ciascuna regione sia rispettato l'equilibrio di bilancio». Quindi un suicidio. Una morsa incontrollabile;
   al mese di gennaio del 2015 mancano 6 mesi;
   i comuni sardi saranno sono sottoposti al vincolo dell'equilibrio di bilancio due volte: singolarmente e, con specifico riguardo alle decisioni d'indebitamento, come parti di un sottosistema il cui ambito è la regione. Il ricorso al mercato finanziario è, rispetto allo Stato, sottratto a qualunque considerazione concernente e l'andamento del ciclo economico e eventuali calamità –:
   se non intenda assumere iniziative per concedere alla Sardegna un urgente allentamento del patto di stabilità senza imporre condizioni di alcun genere;
   se non intenda assumere iniziative per esentare le regioni insulari dal patto di stabilità;
   se non ritenga di dover assumere iniziative per modificare tutti i parametri dei trasferimenti alla Sardegna in virtù del mancato riequilibrio insulare;
   se non ritenga di dover attivare per definire un sistema fiscale (zona franca) al fine di favorire il riequilibrio insulare. (4-05136)


   NUTI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'interno, al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   in una intervista rilasciata il 10 giugno 2014 al quotidiano «Il Messaggero», Paola Severino, già Ministro della giustizia nel Governo Monti, ha dichiarato che già esistono efficaci norme per contrastare la corruzione, come quelle introdotte nel corso del suo mandato;
   tuttavia, tali norme risulterebbero inefficaci in quanto inapplicate, ciò anche a causa di decreti attuativi mancanti;
   anche il Vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Michele Vietti, ha dichiarato il giorno 10 giugno 2014, fra le altre cose, che per contrastare la corruzione è necessario applicare le norme contenute nella cosiddetta legge Severino per la parte relativa alla prevenzione;
   la Corte dei Conti ha recentemente stimato il costo della corruzione in Italia in circa 60 miliardi di euro all'anno;
   i recenti scandali relativi alla costruzione di opere legate ad EXPO 2015 nel milanese e al sistema Mose a Venezia, hanno da tempo rimarcato come l'attuale classe dirigente di questo Paese non sia ancora in grado, o non voglia, contrastare adeguatamente la corruzione –:
   se siano a conoscenza di quanto dichiarato dal Ministro della giustizia pro tempore, Paola Severino;
   quali siano le parti della cosiddetta legge Severino che ancora giacciono inapplicate e per quali ragioni;
   cosa intende fare al fine di rendere effettive le norme già esistenti introdotte per contrastare la corruzione. (4-05137)


   SCOTTO. — Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
   il trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, stabilisce che l'elezione del Presidente della Commissione avvenga ad opera del Parlamento europeo su proposta del Consiglio europeo e tenendo conto dei risultati delle elezioni europee;
   in occasione delle elezioni europee del 25 maggio 2014, le maggiori famiglie politiche europee avevano annunciato le loro candidature al ruolo di Presidente della Commissione;
   in particolare, il Partito socialista europeo ha fatto il nome di Martin Schulz, il Partito popolare europeo quello di Jean Claude Juncker, la Sinistra europea ha candidato Alexis Tsipras, l'Alleanza liberali democratici europei Guy Verhofstadt ed i Verdi europei hanno espresso ben due candidature, ovvero José Bove e Ska Keller;
   alcune liste, anche in Italia, avevano anche inserito il nome del candidato alla Presidenza della Commissione europea nel simbolo elettorale;
   al termine degli spogli è risultato con estrema chiarezza che nessun gruppo del Parlamento europeo ha la maggioranza semplice necessaria per eleggere il Presidente della Commissione (sarebbero necessari 376 voti);
   in tale contesto aumenta esponenzialmente il ruolo dei Governi dei Paesi dell'Unione europea nelle trattative e nella scelta;
   negli ultimi giorni il dibattito internazionale ha mostrato chiaramente come i nomi su cui si sviluppano le trattative in atto siano ben diversi da quelli proposti agli elettori pochi giorni fa;
   proprio per questo rischia di perdere valore il ruolo del Parlamento europeo, unico organismo dell'Unione europea direttamente eletto dalle popolazioni dei Paesi membri –:
   quale sia l'orientamento del Governo in merito all'elezione del Presidente della Commissione europea, sia dal punto di vista delle opzioni che si ritiene di voler sostenere nel corso delle trattative sia dal punto di vista delle modalità da utilizzare per pervenire a tale scelta;
   se il Governo ritenga preferibile una scelta basata su dinamiche intergovernative oppure più aderente all'espressione di volontà popolare rappresentata dal voto del 25 maggio 2014. (4-05142)


   DI VITA, CECCONI, DALL'OSSO, LOREFICE, SILVIA GIORDANO, MANTERO, GRILLO, BARONI, CHIMIENTI, LUIGI DI MAIO, BUSINAROLO, MUCCI, DI BENEDETTO, LUPO e LOMBARDI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
   sulla base delle indicazioni provenienti dalla Convenzione del Consiglio d'Europa, fatta ad Istanbul l'11 maggio 2011, concernente la lotta contro la violenza contro le donne e in ambito domestico di Istanbul, recentemente ratificata dal Parlamento, il decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito in legge 15 ottobre 2013, n. 119, e pubblicato in Gazzetta Ufficiale 15 ottobre 2013, n. 242, recante il titolo «Nuove norme per il contrasto della violenza di genere che hanno l'obiettivo di prevenire il femminicidio e proteggere le vittime», mira a rendere più incisivi gli strumenti della repressione penale dei fenomeni di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e di atti persecutori (stalking);
   l'articolo 5 del decreto, in particolare, dispone un nuovo piano straordinario di protezione delle vittime di violenza sessuale e di genere che prevede azioni di intervento multidisciplinari, a carattere trasversale, per prevenire il fenomeno, potenziare i centri antiviolenza e i servizi di assistenza, formare gli operatori;
   in particolare, il comma 1 dell'articolo 5 prevede che «Il Ministro delegato per le pari opportunità, anche avvalendosi del Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità di cui all'articolo 19, comma 3, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, elabora, con il contributo delle amministrazioni interessate, e adotta, previa acquisizione del parere in sede di conferenza unificata, un «Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere», di seguito denominato «Piano», che deve essere predisposto in sinergia con la nuova programmazione comunitaria per il periodo 2014-2020;
   ebbene, nonostante le risorse di cui alla citata norma siano state allocate nel 2013 – 10 milioni in 4 anni il finanziamento, compreso il 2013 – e che il lavoro delle Commissioni interministeriali di redazione del Piano nazionale risulti ad uno stadio avanzato, si è purtroppo registrato un netto rallentamento procedurale a causa del cambio di Governo;
   in merito alla chiusura dei lavori preparatori del Piano previsto dal decreto femminicidio, il 6 febbraio 2014 l'onorevole Maria Cecilia Guerra, al tempo ancora Viceministro con delega alle pari opportunità, dichiarava alla stampa: «La chiusura è molto vicina, due settimane “per comporre il mosaico” del lavoro dei diversi gruppi, due mesi per l'approvazione, con un passaggio in Conferenza unificata»;
   in seguito all'avvicendamento con il Governo Renzi, in data 30 aprile 2014, la stessa Maria Cecilia Guerra, non più Viceministro, rilasciava una nuova intervista nella quale, contrastando con quanto entusiasticamente prospettato nella sua precedente dichiarazione pubblica in merito, dichiarava che il Piano antiviolenza non era tuttavia ancora stato completato, non mancando di attribuire specifiche responsabilità all'attuale premier: «[..] in parte questo timore c’è proprio per la complessità del piano, che richiede una guida politica forte che in questi quasi due mesi di Governo Renzi non ha avuto. Prima con l'abolizione del Ministero e ora per via di questa delega ancora in capo al Presidente del Consiglio. Mi permetto di dubitare non certo delle buone intenzioni di Renzi nei confronti di questo problema, ma semplicemente del fatto che i compiti del suo ufficio gli lascino lo spazio per occuparsene. Per ora, appunto è tutto fermo. Chi ha l'autorità politica per convocare i gruppi di lavoro del piano? Ci vuole anche una riconferma delle responsabilità dal momento che il Governo è cambiato e non c’è più il Ministero. In teoria i gruppi li dovrebbe convocare Renzi stesso, ma faccio fatica a credere che con il mestiere che fa possa assumere un ruolo operativo nei confronti del piano»;
   a parere degli interroganti l'importanza del Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri non può non ritenersi cruciale, giacché competente del coordinamento dette iniziative normative e amministrative in tutte le materie attinenti in particolare la promozione dei diritti della persona, delle pari opportunità e della parità di trattamento, la prevenzione e rimozione di ogni forma e causa di discriminazione;
   ad oggi la Presidenza del Consiglio dei ministri non ha dunque ancora provveduto all'assegnazione della delega concernente le pari opportunità ad alcun membro del Governo, risultando quindi nelle mani del Presidente del Consiglio stesso che per evidenti ragioni, innanzitutto di ordine pratico, non riesce ad esercitare in maniera efficace tale competenza;
   l'ultima assegnazione di tale delega, infatti, risale al 10 luglio 2013, quando con proprio decreto l'allora Presidente del Consiglio dei ministri, onorevole Enrico Letta, conferì all'ex Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Enrico Giovannini, la delega in materia. Funzioni in materia, come detto, esercitate per il tramite dell’ex Viceministro Maria Cecilia Guerra;
   la delega alle pari opportunità riguarda competenze ed argomenti importantissimi e centrali nel welfare, tendenti a garantire l'assenza di ostacoli alla partecipazione economica, politica e sociale di un qualsiasi individuo, soprattutto dei soggetti più deboli, per ragioni connesse in particolare al genere, religione e convinzioni personali, razza e origine etnica, disabilità, età, orientamento sessuale. Per tali ragioni, a parere degli interroganti, la stessa meriterebbe di essere oggetto di una assegnazione specifica;
   in tale direzione, con rispettivi atti di indirizzo e controllo, i deputati del Movimento 5 Stelle in Commissione affari sociali e in Commissione bicamerale infanzia e adolescenza hanno chiesto, fin dalle dimissioni dell'ex Ministro per le pari opportunità del Governo Letta, Josefa Idem, che il Governo si impegnasse a propone la nomina di un nuovo Ministro senza portafoglio con delega alle pari opportunità; ciò nonostante si continua a registrare negativamente un generale disinteresse politico in merito da parte dei colleghi delle commissioni anzidette, non avendo questi dato seguito alla questione sollevata né attraverso un concreto atto di impulso, né, men che meno, di semplice adesione alle richieste avanzate, rendendosi in tal modo complici della descritta situazione di impasse;
   la mancata assegnazione della delega in questione genera altresì forti perplessità e preoccupazioni relativamente al corretto funzionamento di uffici facenti capo alla Presidenza del Consiglio dei ministri, cooperanti stabilmente con il dipartimento per le pari opportunità;
   l'UNAR (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), ad esempio, svolge l'importante funzione di garantire, in piena autonomia di giudizio e in condizioni di imparzialità, l'effettività del principio di parità di trattamento fra le persone, anche in un'ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse discriminazioni possono avere su donne e uomini, nonché dell'esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso, ai sensi dell'articolo 7, comma 2, del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215 e del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri dell'11 dicembre 2003;
   a tal proposito si ricorda lo scalpore che destò la notizia del 14 febbraio 2014, la quale riportava dell'invio di una nota formale di demerito al direttore dell'UNAR da parte dell'allora Viceministro del lavoro e delle politiche sociali con delega alle pari opportunità, onorevole Maria Cecilia Guerra, relativamente alla diffusione di materiale didattico dell'UNAR per l'educazione alle diversità nelle scuole, elaborato dall'istituto Beck;
   ad aggravare il quadro vi e anche il nodo relativo ai Comitati unici di garanzia, costituiti ormai da tre anni con la finalità di prevenire ogni forma di discriminazione nei luoghi di lavoro, la cui effettività del funzionamento resta tuttora un punto interrogativo;
   forti dubbi permangono altresì riguardo il rinnovo del Gruppo di monitoraggio e supporto alla costituzione e sperimentazione dei Comitati unici di garanzia per le pari opportunità, istituito il 18 aprile 2012 con decreto della Presidenza del Consiglio del ministri, la cui durata in carica biennale, stando alla lettera dell'articolo 4 del decreto, sarebbe cessata lo scorso aprile, salvo il caso di eventuale proroga dei componenti uscenti. Tale ultima circostanza, però, non è ad oggi riscontrabile documentalmente da questa interrogante;
   anche tali specifiche questioni, che quotidianamente destano numerose polemiche nell'opinione pubblica, restano dunque tutt'oggi aperte a causa della perdurante mancanza, reiterata anche dalla neo Presidenza del Consiglio dei ministri, di una nomina alle pari opportunità –:
   se sia a conoscenza dei fatti citati in premessa;
   se intenda fornire al Parlamento elementi circa l'attuale stato di elaborazione ed attuazione del Piano antiviolenza di cui al citato articolo 5, comma 1, del decreto femminicidio;
   se sia stata stabilita una data ufficiale di emanazione del Piano antiviolenza o, in caso contrario, quando si preveda che ciò potrà verosimilmente accadere;
   se intenda proporre nel più breve tempo possibile la nomina di un Ministro senza portafoglio cui affidare la delega relativa alle politiche delle pari opportunità, individuando così un nuovo membro del Governo, che possa rappresentare un solido punto di riferimento, operativo ed efficace, nel dispiego delle necessarie iniziative sociali che ai temi citati fanno riferimento. (4-05144)

AMBIENTE E TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   DAGA, BUSTO, DE ROSA, MANNINO, SEGONI, TERZONI e ZOLEZZI. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   come riportato dalla stampa locale e nazionale, nella giornata di mercoledì 11 giugno, si è verificato un grave incendio presso la discarica di Colleferro, a Colle Fagiolara. Le fiamme sono divampate sul fronte nord della discarica interessando un'ampia area, suscitando nella popolazione residente, soprattutto negli abitanti della antistante di via Pallianese, allarme e preoccupazione;
   la discarica ove sono conferiti da anni rifiuti indifferenziati è divenuta una vera «bomba ecologica» destinata ad aggravare la sua pericolosità giorno dopo giorno, come testimoniato dall'incendio di cui sopra;
   il perdurante ricorso al conferimento di rifiuto tal quale nel sito della citata discarica è il risultato di una gestione inaccettabile del ciclo dei rifiuti nell'intera area, a dispetto di ogni indicazione comunitaria; basti considerare al riguardo che nella risoluzione del Parlamento europeo del 20 aprile 2012 viene espressamente indicato come il settimo programma di azione ambientale preveda l'obiettivo di alimentare il mercato dei materiali riciclato e di eliminare lo sversamento in discarica;
   l'incendio, come si legge nelle cronache e nei racconti dei cittadini dell'area in questione, ha sprigionato fumi e immissioni in atmosfera tossiche, al punto da rendere irrespirabile l'aria e costringere i residenti a barricarsi in casa e ha aggravato, se possibile, la già allarmante criticità ambientale dell'area;
   come noto, la discarica si colloca in un'area quella relativa alla Valle del fiume Sacco già ampiamente compromessa nelle sue matrici ambientali (aria, suolo, acqua);
   dai primi del Novecento, infatti, la zona della Valle del Sacco ha registrato uno sviluppo industriale non adeguatamente controllato, sollecitato a partire dagli anni ’50 dal suo inserimento nelle aree finanziate dalla Cassa per il Mezzogiorno. Il risultato è stato un grave stato di contaminazione causato dai rifiuti tossici degli insediamenti industriali esistenti nella Valle del Sacco anche con interramento di rifiuti contenenti materiali liquidi tossici, nonché una devastante pressione antropica sul fiume Sacco, per quel che riguarda gli scarichi idrici, segnatamente quelli industriali (in ogni caso, complessivamente, più della metà degli scarichi non sono trattati): il fenomeno della «schiuma bianca» ne è una allarmante e pressoché continua testimonianza;
   come, altresì, noto, nel dicembre del 2005 l'area della Valle del Sacco colpita dall'emergenza venne inserita nel piano delle bonifiche di interesse nazionale (SIN). Con decreto del Presidente del consiglio dei ministri del 19 maggio 2005 venne anche nominato un commissario straordinario per la Valle del Sacco ai sensi e per gli effetti dell'articolo 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225. In seguito, in forza del decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, datato 11 gennaio 2013, le bonifiche della Valle del Sacco sono passate di competenza regionale, trasferendo l'azione ai comuni interessati dalla precedente perimetrazione –:
   se non ritenga il Ministro interrogato di promuovere al riguardo ogni verifica e attività ispettiva di competenza, anche da parte del personale appartenente al Comando carabinieri tutela ambiente (C.C.T.A.), ai sensi dell'articolo 197, comma 4 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, per verificare lo stato di inquinamento delle falde e delle acque nonché del suolo sulle zone adiacenti al sito in oggetto interessato ai conferimenti di cui in premessa e se già compiuta di renderne pubblici gli esiti alla popolazione locale interessata senza ritardo;
   di quali elementi disponga il Ministro sui risultati ottenuti dalle procedure di bonifica in costanza di mandato al commissario di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 19 maggio 2005 e in relazione allo status di sito di interesse nazionale, indicando come siano state investite le risorse destinate all'area;
   se non intenda valutare l'opportunità di reinserire la Valle del Sacco nei siti inquinati di interesse nazionale;
   se risulti che si sia proceduto alla completa rimozione dei fusti interrati illegalmente e del terreno contaminato nella discarica in questione e nelle altre limitrofe alla luce del rischio di combustione dei rifiuti ivi esistenti come all'evidenza dimostrato dal rogo occorso mercoledì 11 giugno 2014;
   se, per quanto di competenza, intenda comunicare alle legioni e agli enti locali gli esiti, accertati in costanza di commissariamento o status di sito di interesse nazionale, dell'impatto dei molti fattori antropici sul territorio della Valle del Sacco tra cui l'inceneritore di Colleferro, indicando separatamente la tipologia di rifiuto storicamente conferito nella discarica di Colle Fagiolara, alla luce del grave rischio di incendi esistente, così da scongiurare l'ipotesi di realizzazione di nuova impiantistica impattante sul territorio;
   se, infine, non ritenga di dover intervenire, anche attraverso un'iniziativa normativa a carattere di urgenza, al fine di prevedere ove fosse possibile in considerazione del riparto di competenza stabilito a livello costituzionale una moratoria nell'intera area della Valle del Sacco, onde impedire la realizzazione di nuovi impianti potenzialmente inquinanti in una zona già così fortemente penalizzata dalle inaccettabili scelte di politica industriale dei decenni passati. (5-02987)


   PILI. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, al Ministro della difesa, al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   nel compendio naturalistico ambientale denominato «Isola Rossa – Capo Teulada», circoscritto nell'ambito del Sito di interesse comunitario (codice ITB040024), protetto da convenzioni internazionali, da leggi dello Stato italiano e della regione Sardegna, caratterizzato da rilevanti emergenze archeologiche, nuragiche e puniche, si svolgono attività vietate e in contrasto totale con le norme e disposizioni nazionali e comunitarie;
   si tratta di attività che hanno generato e generano «distruzione e deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto», con la «distruzione e il deturpamento di bellezze naturali» e «danneggiamento al patrimonio archeologico e storico»;
   tali attività sono svolte, in concorso tra loro, dalla Nato e dall'Esercito italiano, su disposizioni del Ministero della difesa e con l'omissione di tutela e controllo in capo ai Ministeri dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e dei beni e delle attività culturali e del turismo e della Commissione europea. La gravità della distruzione in atto costituisce, secondo l'interrogante, presupposto per richiedere il sequestro preventivo dell'area oggetto del disastro, l'accertamento del danno, l'individuazione dei responsabili e il risarcimento del danno materiale, economico e morale compreso il ripristino dei luoghi;
   a parere dell'interrogante risultano manifesti i seguenti reati:
    articolo 733-bis codice penale (Distruzione o deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto);
   chiunque, fuori dai casi consentiti, distrugge un habitat all'interno di un sito protetto o comunque lo deteriora compromettendone lo stato di conservazione, è punito con l'arresto fino a diciotto mesi e con l'ammenda non inferiore a 3.000 euro;
    articolo 733 codice penale (Danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale);
   chiunque distrugge, deteriora o comunque danneggia un monumento o un'altra cosa propria di cui gli sia noto il rilevante pregio, è punito, se dal fatto deriva un nocumento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale, con l'arresto fino ad un anno o con l'ammenda non inferiore a euro 2.065. Può essere ordinata la confisca della cosa deteriorata o comunque danneggiata;
    articolo 734 codice penale (Distruzione o deturpamento di bellezze naturali);
   chiunque, mediante costruzioni, demolizioni, o in qualsiasi altro modo, distrugge o altera le bellezze naturali dei luoghi soggetti alla speciale protezione dell'autorità, è punito con l'ammenda da euro 1.032 a euro 6.197;
   relativamente ai reati di cui: articolo 733-bis codice penale (Distruzione o deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto) e articolo 734 codice penale (Distruzione o deturpamento di bellezze naturali) si richiama l'attenzione sul fatto che tale compendio è a tutti gli effetti «habitat all'interno di un sito protetto», ovvero pienamente coincidente nella fattispecie definita dall'articolo 733-bis codice penale;
   il Sito di Importanza comunitaria denominato «ISOLA ROSSA – CAPO TEULADA» oggetto della «distruzione e deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto», «distruzione o deturpamento di bellezze naturali», «danneggiamento al patrimonio archeologico», storico o artistico nazionale costituisce parte integrante del decreto 3 luglio 2008 – Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare – Primo elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica mediterranea in Italia, ai sensi della direttiva 92/43/CEE (GU Serie Generale n. 184 del 7 agosto 2008);
   tale decreto dispone l'attuazione e il recepimento della direttiva 92/43/CEE del Consiglio del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, in particolare l'articolo 4, paragrafo 2, terzo comma;
   il decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, ha disposto il regolamento di attuazione della direttiva 92/43/CEE, come modificato dal decreto del Presidente della Repubblica 12 marzo 2003, n. 120;
   la Commissione europea ha ritenuto necessario l'aggiornamento dell'elenco iniziale di siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica mediterranea sia per includervi i siti proposti dagli Stati membri a partire dal marzo 2006 come siti di importanza comunitaria per la regione biogeografia mediterranea ai sensi dell'articolo 1 della direttiva 92/43/CEE sia per tener conto di eventuali modifiche nelle informazioni relative ai siti trasmesse dagli Stati membri a seguito dell'adozione dell'elenco comunitario; in tal senso il primo elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica mediterranea costituisce una versione consolidata dell'elenco iniziale dei siti per la regione biogeografica mediterranea;
   ai sensi dell'articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 92/43/CEE, Cipro, Francia, Grecia, Italia, Malta, Portogallo, Spagna e Regno Unito hanno trasmesso alla Commissione gli elenchi di siti proposti quali siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica mediterranea tra gennaio 2003 e settembre 2006;
   gli elenchi dei siti proposti sono stati corredati di informazioni su ciascun sito, fornite nel formato fissato dalla decisione 97/266/CE della Commissione, del 18 dicembre 1996, concernente un formulario informativo sui siti proposti per l'inserimento nella rete Natura 2000;
   sulla base dell'elenco proposto, redatto dalla Commissione con l'accordo di ciascuno degli Stati membri interessati, che identifica anche i siti che ospitano tipi di habitat naturale prioritari o specie prioritarie, è stato adottato un primo elenco aggiornato di siti selezionati quali siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica mediterranea;
   la decisione della Commissione europea n. C(2008) 1148 def. del 28 marzo 2008 stabilisce, ai sensi della direttiva 92/43/CEE del Consiglio, un primo elenco aggiornato di siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica mediterranea e abroga la decisione 2006/613/CE;
   il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare con proprio decreto ha stabilito che i siti di importanza comunitaria per la regione biogeografia mediterranea in Italia, sono individuati ai sensi dell'articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 92/43/CEE, e sono elencati nell'allegato A che costituisce parte integrante del decreto stesso;
   con il codice di riferimento ITB040024 è parte integrante di tale elenco il compendio denominato Sito Importanza Comunitaria «Isola Rossa e Capo Teulada» di superficie complessiva di ha 3713 e individuato dalle coordinate E 839 N 3854;
   il Sito importanza comunitaria – SIC «Isola Rossa e Capo Teulada è un compendio naturalistico di primaria importanza, considerato che tutte le prescrizioni ambientali regionali, nazionali ed europee hanno circoscritto quel territorio con la massima tutela ambientale e naturalistica;
   il responsabile del sito risulta il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare – direzione conservazione della Natura, Via Capitan Bavastro 174, 00147 Roma;
   l'area è così descritta nell'atto di individuazione del Sito di Importanza Comunitaria:
    Promontorio calcareo collegato all'isola da uno strettissimo istmo sabbioso che forma ad ovest «Cala Piombo» e ad est Porto Zafferano la quale, attualmente sotto il Demanio Militare, ha una lunghezza massima di 88 metri e una superficie complessiva di 375 Ha. Le sue dune, con quote non superiori a 13 metri sul livello del mare, non presentano tracce di disturbo antropico e delimitano una stretta spiaggia con un gradino a mare a tratti anche di 2 metri;
    nella spiaggia di Porto Zafferano, l'erosione marina e gli scarsi apporti sabbiosi limitano la formazione dell'Agropyretum mediterraneum, mentre l'Ammophiletum arundinaceae è ben rappresentato anche se discontinuo. Il Crucianelletum maritimae è presente nelle interdune in via di stabilizzazione, mentre il Pistacio – Juniperetum macrocarpae, con esemplari di Quercus calliprinos, occupa le dune stabilizzate e le retrostanti depressioni più riparate. Nel sito si rinviene inoltre un'altra specie arbustiva di alto significato fitogeografico: il Rhamnus oleoides a gravitazione occidentale localizzato esclusivamente in questo biotopo. Tra le specie perenni suffruticose viene segnalato il Polygonum robertii segnalato di recente, e rappresenta la seconda località per la Sardegna. Si segnalano inoltre la presenza delle endemiche: Silene corsica DC., Genista morisii Colla, Genista corsica (Loisel.) DC: Mercurialis corsica Cosson, Euphorbia cupanii Guss. ex Bertol., Stachys glutinosa L, Bellium bellidioides L, Bellium crassifolium Moris, Hyoseris taurina Martinoli, Ornithogalum excapum Ten. ssp. sandalioticum Tornadore et Garbari, Pancratium illyricum L, Crocus minimus DC., Romulea requienii Pari., Arum pictum L, Limonium tigulianum Arrigoni et Diana, Limonium sulcitanum Arrigoni. Dal punto di vista floristico questo sito risulta molto ricco di specie ad alto interesse fitogeografico e tra i più ricchi di endemiche. In tutta la fascia costiera poi si ritrovano le formazioni a Juniperus turbinata ssp. turbinata, che in località Monte Lapanu evidenziano la loro capacità colonizzatrice nella riconquista delle aree abbandonate;
   il sito ha inoltre importanza per la presenza in esso di 22 habitat di interesse comunitario, di cui 5 prioritari (cod. 1120, 2250, 6220, 2270, 3170); di 3 specie di uccelli prioritari, due dei quali in esso riproducentesi (cod.: A181, A392) e 35 specie floristiche di importanza conservazionistica;
   nel capitolo dell'atto di individuazione del sito relativo alla vulnerabilità è scritto: danni da esercitazioni ambientali;
   in tal senso è evidente la persistente azione di «distruzione e deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto» e «distruzione o deturpamento di bellezze naturali» compiuta dalle persistenti esercitazioni militari che si svolgono all'interno del sito protetto con danni gravissimi sia sul piano ambientale, paesaggistico e naturalistico;
   dalla documentazione fotografica in possesso dell'interrogante si evince una devastazione ambientale e naturalistica senza precedenti che colpisce e ha colpito in modo permanente e spregiudicato il patrimonio ambientale e naturalistico della Sardegna e nella fattispecie un sito protetto da convenzioni internazionali, norme nazionali e regionali;
   le esercitazioni militari e il conseguente rilascio di ordigni bellici hanno causato e causano gravissimi danni sia sull'ambiente marino che su quello dunale e retrodunale (inquinamento, frammentazione degli habitat, erosione del suolo, eccessivo calpestio, devastazione paesaggistica e naturalistica);
   nei giorni scorsi un'imponente esercitazione da mare verso terra ha provocato incendi di dimensioni rilevanti che si documentano con foto scattate da mare a dimostrazione di una devastazione ambientale persistente in un'area protetta;
   nella stessa area a causa delle numerose esercitazioni militari e della presenza di rifiuti combustibili nell'area gli incendi sono persistenti e reiterati;
   il poligono permanente per esercitazioni terra-aria-mare affidato all'Esercito e messo a disposizione della Nato rappresenta nella sua attività il più evidente e persistente disastro ambientale e naturalistico dell'intero articolato normativo di tutela ambientale europeo, nazionale e regionale;
   si tratta del secondo poligono d'Italia per estensione, 7.200 ettari di terreno, cui si sommano i 75.000 ettari delle «zone di restrizione dello spazio aereo e le zone interdette alla navigazione» normalmente impiegate per le esercitazioni di tiro contro costa e tiro terra-mare;
   una parte del poligono e dell'area a mare è permanentemente interdetta anche agli stessi militari per motivi di sicurezza;
   relativamente ai reati di cui all'articolo 733 codice penale (Danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale):
   la fondazione di Teulada si perde nella notte dei tempi, probabilmente agli inizi dell'epoca nuragica, come sembrano testimoniare i molti nuraghi sparsi un po’ in tutto il territorio comunale, ed i resti di una fortificazione sull'isola Rossa;
   i fenici e i punici più tardi si stabilirono sulla costa come testimoniato dai resti del tophet punico a Malfatano, nell'isolotto davanti a Tuerredda e il porto di Melqart (ora sommerso), sempre a Malfatano;
   la prima ubicazione dell'abitato va ipotizzata alle spalle dell'antico kersonesus (Chersonesum Promontorium), ovvero l'istmo dell'odierno Capo Teulada, dove sembra sia esistito un insediamento militare romano a presidio delle due baie di Cala Piombo e Porto Zafferano. È probabile che tale ubicazione sia resistita fino all'epoca romana, quando il paese prende il nome di Tegula, che probabilmente documenta la produzione di terracotta in epoca romana. Poi, secoli dopo, probabilmente a causa delle incursioni dal mare, il paese è raccolto attorno alla chiesa di Sant'Isidoro, nella piana di Tuerra, in una zona più interna;
   in quel contesto va inquadrata anche una presenza che riguarda il prenuragico;
   la mancanza di altri dati sulle culture prenuragiche nel territorio di Teulada – del resto variamente e riccamente distribuite in tutta l'isola – va attribuita alle lacune della ricerca scientifica, tanto più gravi quando si pensa all'azione molto più spedita e sicuramente dannosa dei «cercatori di tesori»;
   che l’habitat teuladino fosse congeniale all'insediamento umano preistorico è dimostrato dalla congrua presenza di numerosi nuraghi nel territorio. Un calcolo sulla densità ci da una cifra compresa tra 0.1 e 0.35 per chilometro quadrato. È una cifra che, per quanto approssimativa, ci può dare alcune utili informazioni;
   la disposizione delle torri nuragiche – essendo queste torri di difesa – segue la morfologia dei territorio ed è chiaramente volta a proteggere le vie naturali di penetrazione verso l'interno;
   sembra di vedere una catena difensiva che corre poco più a ovest dell'attuale confine orientale del comune, volta a difendere la vallata che dal valico di Nuraxi de Mesu porta all'attuale paese. Simile è il sistema difensivo occidentale a difesa delle vie di penetrazione dal Sulcis;
   è altrettanto interessante la disposizione dei nuraghi che stanno a Nord del Porto di Teulada e che proteggono la via che, seguendo il corso del Rio Launaxiu, porta verso l'interno. Tra questi, doveva avere una funzione di avamposto il nuraghe S. Isidoro, ormai quasi completamente distrutto: un nuraghe complesso costruito con tecnica veramente «ciclopica»;
   nella regione di Malfatano – già identificato dal Lamarmora come il «Portus Herculis» degli antichi – sono state trovate le tracce di un centro abitato suddiviso nelle sue due parti essenziali: una zona commerciale col porto (da identificare con l'insenatura occidentale) e i ruderi di un tempio; una zona sacra (il «tophet») che, ripetendo la stessa situazione verificata per Bithia nell'isola di Su Cardulinu, fu costruito nella prospiciente isola di Tuerredda;
   più a ovest sono state ritrovate, in località Piscinnì, delle cave puniche per l'estrazione di materiale da costruzione;
   altre rovine sono state localizzate a S. Isidoro pertinenti ad un abitato fenicio-punico. In questa località, ricca di testimonianze che vanno dal periodo nuragico fino a quello pisano, alcuni vi hanno voluto riconoscere il sito dell'antica Tegulae;
   le tracce della civiltà punica proseguono ancora nel Capo Teulada (antico «Chersonesus») e nella regione di Zafferano;
   nei pressi della torre di Porto Scudo sono appena evidenti i resti di una fortezza punica costruita con grossi blocchi, in posizione dominante rispetto al porto ed alla piana di Zafferano. Per questa fortezza è stata proposta una datazione intorno al VI sec. a.C;
   dall'utilizzo di strumenti satellitari, visto il divieto di accesso, emerge che lo Stato italiano, con la complicità della Nato e delle Forze armate di eserciti stranieri bombardano, sparano e devastano un'area nuragica di straordinaria rilevanza, sia per il numero dei nuraghi individuati sia per la dislocazione degli stessi nello scenario costiero;
   da notizie assunte risulterebbe che alcuni di questi compendi sarebbero stati addirittura cancellati con l'utilizzo di mezzi pesanti e altri coperti;
   in quest'area, dunque, si è assiste senza alcun tipo di controllo e di tutela alla distruzione di un compendio archeologico paesaggistico esclusivo in totale dispregio e violazione delle norme richiamate;
   nella sola delimitazione del poligono di Teulada, secondo gli atti e i documenti che si allegano e riscontrabili nel sito Nurnet si è dinanzi ad un vero e proprio attentato alla civiltà nuragica con la distruzione di luoghi e compendi archeologici che avrebbero necessitato di protezione e recupero;
   in particolar modo risultano inglobati nella base militare i seguenti nuraghi catalogati da carte militari e topografiche, da rilievi aerofotogrammetrici e satellitari e censiti dalla rete Nurnet:
    1) Nuraghe Maxinas I – Comune Teulada località lat: 38.92193200458267, lon: 8.66831210120662;
    2) Nuraghe Maxinas II – Comune Teulada località lat: 38.916644004582324, lon: 8.664962001206213;
    3) Nuraghe de Carrogu – Comune Teulada – località Nuraghe de Carrogu lat 38.916925004582495, lon: 8.66106000120563;
    4) Nuraghe Brallisteris – Comune Teulada – località lat: 38.9175330045825, lon: 8.661448401205645;
    5) Nuraghe s'Uracheddu Piudu – Comune Teulada – località lat: 8.90471200458135, lon: 8.641161001202907;
    6) Nuraghe Don Antiogu – Comune Teulada località lat: 38.90735400458154, lon: 8.650137501204105;
    7) Nuraghe Turritta – Comune Teulada – località lat: 38.90684900458174, lon: 8.610368301198532;
    8) Nuraghe Mannu – Comune Teulada – località lat: 38.973001004586486, lon: 8.647734201203802;
    9) Nuraghe de Crabili – Comune Teulada – località Nuraghe de Crabili lat; 38.973399004586305, lon: 8.648087001203834;
    10) Nuraghe Di Monte Arbus – Comune Teulada località lat: 38.97321600458627, lon: 8.694009001210237;
    11) Nuraghe Campu Santeddu – Comune Teulada – località lat: 38.94840700458489, lon: 8.712561801212825;
    12) Nuraghe Merareddu – Comune Teulada – località Merareddu lat; 38.94799600458443, lon: 8.70878500121228;
    13) Nuraghe Monte Idu Comune Teulada – località lat: 38.946134004584195, lon: 8.715556501213165;
    14) Nuraghe Maledetta – Comune Teulada – località lat: 38.990119004587484, lon; 8.665096201206193;
    15) Nuraghe Barussa – Comune Teulada – località lat: 38.995854004587976, lon: 8.641093101202852;
    16) Nuraghe – Comune Teulada località lat: 38.972919004586316, lon: 8.650665001204146;
   tali compendi nuragici sono inaccessibili;
   dalla sovrapposizione dei tracciati del transito dei carri armati cingolati con le coordinate dei siti nuragici si evince che gli stessi risultano coincidenti in numerosi casi e in altri decisamente contigui;
   appare evidente che si tratta di una violazione grave di tutte le norme internazionali, nazionali e regionali di tutela non solo ambientali e naturalistiche ma anche e soprattutto di quelle riguardanti beni archeologici di una civiltà di oltre 3.500 anni fa;
   il patrimonio archeologico della Sardegna è talmente rilevante e unico nel suo genere che non solo non è accettabile la devastazione di cui è fatto oggetto ma necessiterebbe di un sistema di tutela sia nei confronti delle scoperte e del ritrovamenti fino ad oggi rilevati, sia dei siti archeologici nuragici dei quali si ha la presunzione di una presenza in determinati compendi areali come nel caso del sito del poligono di Teulada;
   l'urgenza dell'intervento che si richiede si inquadra nella fattispecie penale di nuova introduzione, relativa alla «distruzione o deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto» e «danneggiamento al patrimonio archeologico e storico»;
   per «habitat all'interno di un sito protetto» si deve intendere qualsiasi habitat di specie per le quali una zona sia classificata come zona a tutela speciale a norma dell'articolo 4, paragrafi 1 o 2, della direttiva 79/409/CE, o qualsiasi habitat naturale o un habitat di specie per cui un sito sia designato come zona speciale di conservazione a norma dell'articolo 4, paragrafo 4, della direttiva 92/43/CE»;
   è stato recentemente introdotto un reato contravvenzionale per reprimere penalmente, qualora sia illecita e posta in essere intenzionalmente o quanto meno per grave negligenza, «qualsiasi azione che provochi il significativo deterioramento di un habitat all'interno di un sito protetto» (articolo 3, lettera h)), direttiva 2008/99/CE). L'illecito penale frutto dell'operazione di trasposizione della direttiva ricalca, pressoché integralmente, la previsione contenuta nell'atto comunitario. Il legislatore delegato ha inteso, in particolare, tradurre la formula «provocare il significativo deterioramento di un habitat all'interno di un sito protetto» nelle due condotte descritte dall'illecito penale: a) la distruzione dell'habitat; b) il deterioramento dell’habitat, che ne comprometta lo stato di conservazione;
   la collocazione sistematica della nuova fattispecie fra «le contravvenzioni concernenti l'attività sociale della P.A.», tutela l'interesse dello Stato al mantenimento dello stato di conservazione di un habitat, ossia quello, di rilevanza costituzionale, relativo alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche sul territorio italiano, che trova il parametro costituzionale di riferimento sia nell'articolo 9 della Costituzione), che nell'articolo 117 della Costituzione, il quale obbliga l'Italia ad esercitare la potestà legislativa nel rispetto dei «vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario...» ed, in particolare, dalle direttive comunitarie che contribuiscono a definire l’habitat oggetto di protezione penale;
   il termine habitat è inteso nell'accezione di condizioni ambientali ideali per la vita di una determinata pianta o animale. In ecologia, la definizione di habitat può avere un'accezione più ampia nel biotopo, un habitat condiviso cioè da più specie. Un bioma è, invece, l'insieme della flora e fauna che vivono in un habitat ed occupano una certa geografia;
   sotto il profilo giuridico, il legislatore delegato, al comma 3 della norma citata, rinvia alle definizioni contenute nelle direttive richiamate, viene anzitutto in ausilio dell'interprete la direttiva «habitat» (direttiva 92/43/CE) che, all'articolo 1, dopo aver definito come «conservazione» il complesso delle misure necessarie per mantenere o ripristinare gli habitat naturali e le popolazioni di specie di fauna e flora selvatiche in uno stato soddisfacente (lettera a)), definisce come «stato di conservazione di un habitat naturale» (articolo 1, lettera e)), l'effetto della somma dei fattori che influiscono sull'habitat naturale in causa, nonché sulle specie tipiche che in esso si trovano, che possono alterare a lunga scadenza la sua ripartizione naturale, la sua struttura e le sue funzioni, nonché la sopravvivenza delle sue specie tipiche nel territorio europeo degli Stati membri al quale si applica il trattato;
   il legislatore delegato, rendendo ancora più chiaro l'ambito di applicazione, richiama (comma 3) una definizione ampia di «habitat», precisando che per habitat all'interno di un sito protetto si intende, da un lato, «qualsiasi habitat di specie per le quali una zona sia classificata come zona a tutela speciale a norma dell'articolo 4, paragrafi 1 o 2, della direttiva 79/409/CE» e, dall'altro, «qualsiasi habitat naturale o un habitat di specie per cui un sito sia designato come zona speciale di conservazione a norma dell'articolo 4, paragrafo 4, della direttiva 92/437CE»;
   la normativa che si richiama alla direttiva «Habitat» individua tre concetti di habitat: a) habitat naturali; b) habitat naturali di interesse comunitario; c) tipi di habitat naturali prioritari;
   quanto alla definizione sub a), sono da considerarsi «habitat naturali» le zone terrestri o acquatiche che si distinguono grazie alle loro caratteristiche geografiche, abiotiche e biotiche, interamente naturali o seminaturali; sono, invece, da considerarsi come «habitat naturali di interesse comunitario» gli habitat che, nel territorio europeo degli Stati membri al quale si applica il trattato: 1) rischiano di scomparire nella loro area di ripartizione naturale; 2) hanno un'area di ripartizione naturale ridotta a seguito della loro regressione o per il fatto che la loro area è intrinsecamente ristretta; 3) costituiscono esempi notevoli di caratteristiche tipiche di una o più delle nove regioni biogeografiche seguenti: alpina, atlantica, del Mar Nero, boreale, continentale, macaronesica, mediterranea, pannonica e steppica; c) infine, sono definiti «tipi di habitat naturali prioritari», i tipi di habitat naturali che rischiano di scomparire nel territorio europeo degli Stati membri al quale si applica il trattato e per la cui conservazione la Comunità ha una responsabilità particolare a causa dell'importanza della parte della loro area di distribuzione naturale compresa nel territorio di cui sopra;
   l'individuazione di tali tipologie di habitat è contenuta nell'allegato I alla direttiva 92/43/CE. Richiamando l'articolo 733-bis, oltre l’habitat naturale, anche l’habitat di specie, è dunque necessario riferirsi alla definizione di «habitat di una specie», contenuta all'articolo 1, lettera f) della citata direttiva «habitat» che definisce come tale l'ambiente definito da fattori abiotici e biotici specifici in cui vive la specie in una delle fasi del suo ciclo biologico;
   la relativa definizione è contenuta all'articolo 1, lettera l), della direttiva 92/43/CE, che individua come tale «un sito di importanza comunitaria designato dagli Stati membri mediante un atto regolamentare, amministrativo e/o contrattuale in cui sono applicate le misure di conservazione necessarie al mantenimento o al ripristino, in uno stato di conservazione soddisfacente, degli habitat naturali e/o delle popolazioni delle specie per cui il sito è designato». Ciò impone, a sua volta, di individuare cosa debba intendersi per «stato di conservazione «soddisfacente»» di un habitat naturale;
   la direttiva 92/43/CEE, che definisce come «soddisfacente» (articolo 1, lettera e), quando: 1) la sua area di ripartizione naturale e le superfici che comprende sono stabili o in estensione; 2) la struttura e le funzioni specifiche necessarie al suo mantenimento a lungo termine esistono e possono continuare ad esistere in un futuro prevedibile; 3) lo stato di conservazione delle specie tipiche è soddisfacente ai sensi della lettera i), lettera il cui contenuto è già stato analizzato a proposito della determinazione dell'oggetto materiale dell'altra fattispecie di cui all'articolo 727-bis codice penale;
   l'ambito applicativo della fattispecie di reato che si intende denunciare richiama la disciplina in tema di danno ambientale (articolo 299 ss. T.U.A.), in particolare ove si prevede (articolo 300, comma 2) che «ai sensi della direttiva 2004/35/CE costituisce danno ambientale il deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato: a) alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e comunitaria di cui alla legge 11 febbraio 1992, n. 157, recante norme per la protezione della fauna selvatica, che recepisce le direttive 79/409/CEE del Consiglio del 2 aprile 1979; 85/411/CEE della Commissione del 25 luglio 1985 e 91/244/CEE della Commissione del 6 marzo 1991 ed attua le convenzioni di Parigi del 18 ottobre 1950 e di Berna del 19 settembre 1979, e di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, recante regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche, nonché alle aree naturali protette di cui alla legge 6 dicembre 1991, n. 394, e successive norme di attuazione»;
   ai fini della configurabilità del reato in esame, dunque, può essere utile parametro normativo di riferimento, oltre il citato articolo 300 del decreto legislativo n. 152/2006, anche la previsione contenuta nell'articolo 301 T.U.A., secondo cui «Lo stato di conservazione di un habitat naturale è considerato favorevole quando: a) la sua area naturale e le zone in essa racchiuse sono stabili o in aumento; b) le strutture e le funzioni specifiche necessarie per il suo mantenimento a lungo termine esistono e continueranno verosimilmente a esistere in un futuro prevedibile; e c) lo stato di conservazione delle sue specie tipiche è favorevole, ai sensi del comma 1», che, come già visto in precedenza, riproduce pedissequamente l'articolo 1, lettera i) della direttiva 92/43/CE;
   ove, infatti, la condotta abbia determinato l'alterazione dello «stato di conservazione dell’habitat naturale», potrà ritenersi che vi sia stato un deterioramento che ne abbia compromesso lo stato di conservazione, tale da integrare la fattispecie penale dell'articolo 733-bis codice penale. Ne consegue, quindi, che ove sia provata la «distruzione» o il «deterioramento che si denuncia e abbia compromesso lo stato di conservazione» dell’habitat così inteso, si avrà: a) l'applicazione della sanzione penale (congiunta) carico del contravventore persona fisica; b) l'eventuale applicazione della sanzione pecuniaria a carico dell'Ente cui è imputabile la responsabilità ai sensi del decreto legislativo n. 231/2001;
   qualora le attività descritte in premessa possono essere responsabili a ipotesi di «distruzione e deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto», «distruzione e il deturpamento di bellezze naturali» e «danneggiamento al patrimonio archeologico e storico» sarebbe indispensabile che le autorità competenti dispongano l'obbligo dell'effettivo ripristino, a spese del contravventore, della precedente situazione e, in mancanza, quello di adottare le misure di riparazione complementare e compensativa di cui alla direttiva 2004/35/CE (articolo 311, comma 2, T.U.A.);
   il predetto articolo 311 prevede che l'obbligazione risarcitoria è posta a carico di «chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte». I presupposti della responsabilità risarcitoria sono dunque assai simili a quelli che determinano la responsabilità penale per la violazione dell'articolo 733-bis –:
   se risultino avviate indagini in ordine ai fatti in premessa;
   se non intendano verificare la sussistenza di responsabilità in relazione ad ipotesi di omissione di atti di controllo a tutela dei patrimoni di pertinenza e competenza dei loro rispettivi Ministeri in quanto informati dei fatti;
   se non intendano comunicare i fatti enunciati in questa interrogazione al Presidente della Commissione europea in relazione al mancato controllo e eventuali violazioni di disposizioni comunitarie.
(5-02994)

 * * *

BENI E ATTIVITÀ CULTURALI E TURISMO

Interrogazione a risposta scritta:


   DAMBRUOSO e QUINTARELLI. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   in data 31 marzo 2014, è entrato in vigore il nuovo regolamento dell'AGCOM in materia di tutela del diritto d'autore sulle reti di comunicazione elettronica, introducendo nel nostro ordinamento una specifica procedura per ottenere la rimozione di contenuti lesivi del diritto stesso su internet e sui servizi di media audiovisivi (di seguito il «regolamento»);
   l'adozione del regolamento ha originato da subito un ampio dibattito pubblico, soprattutto in merito alla legittimazione di AGCOM a regolamentare la materia e il fenomeno della pirateria on-line, all'adeguatezza dei brevissimi termini previsti nel procedimento dinnanzi all'AGCOM, nonché alla difficile concreta attuabilità di esso;
   in particolare, è stato affermato che il regolamento non è in linea con i principi costituzionalmente garantiti nel nostro Paese, ovvero con i principi fondamentali come quelli del contraddittorio e del diritto di difesa;
   tali principi vengono richiamati anche dal Parlamento europeo e dalla Commissione, che al termine di un serrato dibattito con il Consiglio sono riusciti ad introdurre nella direttiva 2009/140/CE (volta a modificare il quadro normativo in materia di comunicazioni elettroniche) una previsione che circoscrive la possibilità per gli Stati membri di adottare norme che limitano l'accesso alla rete degli utenti, subordinando ogni restrizione al principio di proporzionalità, al rispetto delle norme sul trattamento dei dati personali ed alla previsione di un procedimento che garantisca il diritto di difesa e l'intervento del giudice;
   la prima fonte legislativa su cui si basa il regolamento – del quale è appunto discussa la «legittimazione» a disciplinare la suddetta materia – è l'articolo 11 della legge n. 248 del 2000 che ha introdotto due nuovi articoli nella legge speciale sul diritto d'autore n. 633 del 1941 (di seguito «l.d.a.»), cioè gli articoli 182-bis e 182-ter legge sul diritto d'autore in seguito ulteriormente modificati dal decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 68: «Attuazione della direttiva 2001/29 CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 maggio 2001 sull'armonizzazione di taluni aspetti del diritto d'autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione»;
   l'articolo 182-bis prevede, al comma 1, che l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) e la Società degli autori ed editori (SIAE) svolgano compiti di vigilanza, ciascuna nell'ambito delle rispettive competenze previste dalla legge, al fine di prevenire ed accertare eventuali violazioni del diritto d'autore;
   al secondo e al terzo comma del medesimo articolo si prevede un obbligo di coordinamento dei due soggetti AGCOM e SIAE e la possibilità da parte di questi di conferire funzioni ispettive ai propri funzionari ed ispettori;
   l'articolo 182-ter si limita a prevedere che gli ispettori e i funzionari dell'AGCOM e della SIAE, in caso di accertamento di violazione delle norme di legge, compilino processo verbale da trasmettere immediatamente agli organi di polizia giudiziaria per il compimento degli atti previsti dagli articoli 347 e seguenti del codice di procedura penale;
   tale normativa introdotta è indubbiamente molto sintetica e lascia aperti alcuni dubbi interpretativi; prima di tutto, perché non è ben chiarita la ripartizione dei compiti dei due enti (AGCOM e SIAE), con la conseguenza che i poteri dell'AGCOM sembrerebbero limitati alle sole sue aree di competenza (telecomunicazioni, radiotelevisione ed editoria), escludendo pertanto tutti gli altri settori relativi alla contraffazione di DVD, CD, Console, ispezioni nei pubblici esercizi e/o in sale cinematografiche che sembrerebbero di competenza della SIAE, anche per la consolidata esperienza gestionale e per la missione che da sempre la stessa svolge;
   da ciò deriva una sovrapposizione di competenze il cui coordinamento non è disciplinato da alcun atto legislativo;
   in secondo luogo, tale normativa prevede concretamente che i due enti (AGCOM e SIAE) siano incaricati solo di procedere alle ispezioni con il susseguente obbligo di comunicazione alla polizia giudiziaria di eventuali illeciti;
   non si ravvede, pertanto, in tale dettato normativo, alcuna traccia di un potere dell'AGCOM per far cessare l'illecito tramite ordinanze o altri atti di carattere autoritativo dalla stessa emessi;
   la seconda fonte su cui si basa il regolamento è il decreto legislativo n. 70 del 2003, emanato in attuazione della direttiva 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico;
   tale norma prevede negli articoli 14, 15, 16 e 17 la responsabilità del prestatore di un servizio della società dell'informazione per eventuali illeciti compiuti attraverso il servizio (la normativa distingue la posizione del soggetto mero trasportatore, cosiddetto mere conduit, da quella dei soggetti che offrono un servizio di memorizzazione temporanea, cosiddetta caching o permanente cosiddetto hosting); il generico riferimento a fatti illeciti consente di estendere la fattispecie anche agli illeciti in materia di diritto d'autore;
   secondo tale normativa, i prestatori di servizi non sono responsabili degli illeciti fin quando non ne vengono a conoscenza; nel momento in cui ciò accade, la legge prevede che si attivino per rimuovere i contenuti e far cessare l'illecito; è previsto, inoltre, che l'autorità giudiziaria o quella amministrativa avente funzione di vigilanza (cioè si chiama in causa l'AGCOM) possano esigere, anche in via d'urgenza, che il prestatore impedisca o ponga fine alle violazioni commesse;
   il legislatore attribuisce quindi il potere di ordinare al prestatore di un servizio della società dell'informazione di far cessare o di impedire ogni comportamento illecito;
   anche qui non viene però disciplinato il potere di ordinare le cessazioni delle violazioni, sicché esso deve essere ricondotto, non senza difficoltà, nella fattispecie generale di cui all'articolo 1, comma 31, della legge istitutiva dell'AGCOM (n. 249 del 1997) che prevede che «i soggetti che non ottemperano agli ordini e alle diffide dell'autorità, impartiti ai sensi della presente legge, sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria...»;
   la terza fonte su cui si basa il regolamento è il cosiddetto decreto Romani (decreto legislativo n. 44 del 2010). Anche questa normativa non ha principalmente ad oggetto la protezione del diritto d'autore ma è stata adottata per dare attuazione alla direttiva 2007/65/CE che ha come oggetto specifico il coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l'esercizio delle attività televisive;
   l'articolo 6 di tale decreto inserisce nel «Testo unico dei servizi di media audiovisivi» (decreto legislativo n. 77 del 2005) l'articolo 32-bis; questa norma a tutela del diritto d'autore ha ad oggetto i fornitori di servizi di media audiovisivi che sono una particolare categoria dei fornitori di servizi della società dell'informazione. La loro peculiarità, correttamente definita nel decreto delegato, è quella di avere la responsabilità editoriale della scelta del contenuto del servizio di media audiovisivo. Il comma 1 di tale articolo 32-bis prevede, in generale, che i fornitori di servizi di media audiovisivi assicurino il pieno rispetto dei principi e dei diritti in materia di diritto d'autore, indipendentemente dalla piattaforma utilizzata per la trasmissione di contenuti audiovisivi. Il comma 2 lettera a), prevede che i fornitori di servizi di media audiovisivi «trasmettano le opere cinematografiche nel rispetto dei termini temporali e delle condizioni concordate con i titolari dei diritti»; e sempre il comma 2, nella lettera b), prevede che gli stessi fornitori di servizi «si astengono dal trasmettere o ri-trasmettere, o mettere comunque a disposizione degli utenti, su qualsiasi piattaforma e qualunque sia la tipologia di servizio offerto, programmi oggetto di diritti di proprietà intellettuale di terzi, o parti di tali programmi, senza il consenso di titolari dei diritti, e salve le disposizioni in materia di brevi estratti di cronaca». Il comma 3, infine, prevede in modo molto sintetico che l'AGCOM emani «le disposizioni regolamentari necessarie per rendere effettiva l'osservanza dei limiti e divieti di cui al presente articolo»;
   in questo ultimo comma 3 dell'articolo 32-bis del «Testo unico dei servizi di media audiovisivi» è stata introdotta la norma che più di altre e specificamente attribuirebbe una competenza regolamentare all'AGCOM;
   come si può chiaramente riscontrare, la criticità formale di tale regolamento nasce proprio dalle previsioni legislative sopra riportate estremamente sintetiche, così come essenziali sono anche le norme che assegnano all'AGCOM funzioni di vigilanza;
   difatti, l'articolo 32-bis è forse l'unica norma che legittima la delega attribuita all'AGCOM, senza definire precisamente né i principi dell'intervento né i criteri o i limiti dello stesso: il che significa che rimette alla fonte regolamentare il potere di stabilire, in riferimento ai servizi media audiovisivi, le modalità concrete di protezione del diritto d'autore on-line;
   l'AGCOM, pertanto, con il presente regolamento ha definito concretamente un procedimento che ha ad oggetto non solo i contenuti illegalmente diffusi dai fornitori media audiovisivi, come il decreto Romani prevedeva, ma anche i contenuti illegalmente caricati e, quindi, disponibili su siti internet i cui gestori non effettuano alcun controllo editoriale, stando ai giusti principi dettati dalla direttiva 2000/31/CE, e che quindi non sono propriamente configurabili come fornitori di servizi media audiovisivi, con la chiara conseguenza che l'intervento regolamentare proposto oltrepassa gli ambiti della specifica delega;
   nel caso in esame, bisogna riconoscere, innanzitutto, che la materia regolata incide su libertà e diritti costituzionalmente tutelati e garantiti: ciò vale anche per il diritto d'autore, che pur non avendo nella Carta costituzionale un esplicito riconoscimento, trova il suo richiamo negli articoli 19, 21, 35 (per ciò che riguarda il profilo del diritto individuale e morale), negli articoli 41 e 42 (per quanto riguarda il profilo patrimoniale della titolarità e dello sfruttamento dell'opera dell'ingegno), così come nell'articolo 27 della Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo per cui «ogni uomo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da qualsiasi produzione scientifica ed artistica della quale egli sia l'Autore» e nell'articolo 17 della Carta europea dei diritti che esplicitamente prevede che «la proprietà intellettuale è protetta»;
   parimenti, la materia regolata incide su altri diritti costituzionalmente garantiti quali il diritto di accesso alla conoscenza (che giustifica specifici limiti al diritto d'autore), il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero e il diritto alla libertà di comunicazione nonché il diritto alla protezione dei dati personali;
   proprio l'incidenza del Regolamento sui diritti costituzionalmente garantiti di cui sopra, fa si che la criticità sostanziale riguardi il procedimento e le sanzioni previste nel Regolamento stesso. Infatti, i termini della procedura risultano essere talmente stringenti che sorge il legittimo dubbio che non sia possibile, né nella prima fase davanti ai fornitori di servizi (ISP) né nella seconda davanti all'Autorità, l'instaurazione di un effettivo contraddittorio tra i soggetti coinvolti, mettendo così a rischio la compatibilità del procedimento previsto nel Regolamento con l'obbligo posto in capo agli Stati Membri dalla direttiva 2002/21/CE, così come modificata dalla direttiva 2009/140/CE;
   l'essenzialità e sinteticità delle norme su cui si fonda il regolamento caratterizzano solo il modello italiano a differenza di quello francese ed inglese, in cui la fonte legislativa limita chiaramente gli ambiti di azione delle autorità preposte –:
   quali misure intenda adottare per meglio disciplinare la materia, agevolando comunque gli sforzi posti in essere dall'Autorità fino ad oggi, ma garantendo alla società un concreto impegno, al fine di tutelare gli interessi della stessa sotto il profilo dello sviluppo economico, culturale e del lavoro e comunque di tutte quelle parti coinvolte che ruotano intorno allo scambio di informazioni attraverso le nuove tecnologie;
   quali siano i tempi previsti per adottare almeno le linee guida della futura disciplina normativa (così come è avvenuto tanto in Francia quanto in Inghilterra), integrando eventualmente leggi già esistenti (quali ad esempio: la legge sul diritto d'autore n. 633 del 1941, per quanto riguarda le difese e le sanzioni giudiziarie) o solo prendendo spunto da modelli già in atto (come ad esempio: la legge sulla privacy, per quanto riguarda le tempistiche del procedimento di fronte all'Autorità), in modo da orientare il potere secondario attribuito nel caso concreto verso precisi fini dallo stesso prestabiliti, nel rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla nostra Carta costituzionale.
(4-05138)

DIFESA

Interrogazione a risposta scritta:


   RIZZO, ARTINI, PAOLO BERNINI, TOFALO, FRUSONE, CORDA e BASILIO. — Al Ministro della difesa, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   la 1a squadriglia pattugliatori (COMSQUAPAT UNO) ha sede presso la base navale di Augusta;
   la squadriglia dipende dal comando forze da pattugliamento per la sorveglianza e la difesa costiera (COMFORPAT) assieme alla 2a squadriglia (COMSQUAPAT DUE) e alla squadriglia corvette (COMSQUACORV), tutte aventi, sede presso la medesima base navale;
   compiti del comando sono quelli di presenza e sorveglianza costiera, vigilanza pesca, controllo dei flussi migratori nonché supporto alla lotta contro l'inquinamento marino;
   risulta agli interroganti che sarebbe in avanzata fase di definizione un provvedimento di trasferimento di COMSQUAPAT UNO, comprendente quattro unità della classe costellazioni – «Cassiopea», «Libra», «Spica» e «Vega» – con i relativi equipaggi nella sede di Messina;
   sino all'inizio degli anni Duemila fa questi pattugliatori erano già stati di base a Messina, ma successivamente trasferiti ad Augusta per ragioni di costo e di funzionalità
   recentemente la sede di Messina ha visto ulteriormente diminuita la presenza della Marina militare, tra l'altro con la cessione dell'Arsenale militare all'Agenzia industrie difesa, e attualmente vi hanno sede soltanto alcuni enti minori;
   parte delle infrastrutture già utilizzate dalla Marina militare del porto messinese sono nel frattempo state cedute in uso al Corpo delle capitanerie di porto/Guardia Costiera che, anche a seguito di estesi lavori infrastrutturali a suo carico, le utilizza come sede del reparto supporto navale e della 6a squadriglia GC che raggruppa gran parte delle unità maggiori attualmente in servizio, in particolare sei navi della classe 900;
   il trasferimento delle navi da Augusta a Messina comporterebbe evidentemente dei costi enormi, considerando che si tratterebbe di creare nuove infrastrutture, e spostare le oltre 240 persone di equipaggio con le relative famiglie, con evidenti costi diretti (indennità di trasferimento, spese di traslochi) e sociali non indifferenti, senza tener conto del fatto che la Guardia costiera dovrebbe a sua volta riorganizzare la presenza in quanto le infrastrutture sono ancora formalmente di proprietà della Marina militare;
   un eventuale trasferimento, inoltre, contrasterebbe con l'asserita volontà di ridurre per ragioni di efficienza e di economia a tre sole le basi della Marina militare in esecuzione anche del disposto della legge 244 del 2012 e dei discendenti decreti legislativi 7 del 2014 e 8 del 2014 –:
   se trovi conferma che lo Stato maggiore della Marina stia considerando il trasferimento dal porto di Augusta a quello di Messina di una squadriglia pattugliatori e delle relative unità navali dipendenti;
   quali siano, nel caso, le ragioni operative e logistiche che suggeriscono tale trasferimento, attesi gli altissimi costi che ciò comporterebbe;
   quali siano i costi ipotizzati;
   se si siano considerate le conseguenze che tale eventuale trasferimento avrebbe per i reparti del Corpo delle capitanerie di porto/guardia costiera operanti da Messina sulle strutture a suo tempo abbandonate dalla Marina militare per concentrarle ad Augusta. (4-05135)

ECONOMIA E FINANZE

Interrogazione a risposta in Commissione:


   AGOSTINELLI. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   il sistema Mose (Modulo sperimentale elettromeccanico) è un sistema di paratoie mobili a scomparsa per la difesa di Venezia e della laguna dalle acque alte;
   si tratta di lavori la cui esecuzione è stata affidata al Consorzio Venezia Nuova. La realizzazione dell'opera è stata avviata nel 2003 ed ha raggiunto un avanzamento pari a circa l'80 per cento;
   il 4 giugno 2014, su richiesta della procura di Venezia, il Gip veneziano Alberto Scaramuzza ha disposto gli arresti per 35 persone, per una serie di reati legati alla realizzazione del Mose; nella stessa inchiesta risultano indagate un centinaio di persone; i reati ipotizzati vanno dalla corruzione, alla concussione, al riciclaggio;
   da fonti stampa si apprende di una dichiarazione del 14 luglio 2013, resa in sede di interrogatorio da Claudia Minutillo, segretaria di Galan, riguardante una presunta tangente di 500 mila euro pagata dal Presidente del Consorzio Venezia Nuova, il signor Mazzacurati, al signor Milanese, uomo di fiducia di Tremonti, per ottenere lo sblocco dei fondi destinati al Mose (circa 400 milioni di euro). La consegna del denaro sarebbe avvenuta «in una scatola» il 7 giugno 2010, presso gli uffici della Palladio Finanziaria al signor Milanese, collaboratore di Giulio Tremonti, una tangente di 500 mila euro («tra i destinatari delle somme raccolte da Mazzacurati vi erano omissis e Marco Milanese, uomo di fiducia di Tremonti. A quest'ultimo era destinata la somma di 500 mila euro che l'ingegner Neri conservava nel suo ufficio al momento dell'ispezione della Guardia di Finanza»). La consegna dei 500 mila euro sarebbe confermata anche dalle dichiarazioni rese agli inquirenti dallo stesso Mazzacurati («mi dice che si adopererà – ha ricordato Mazzacurati a proposito del collaboratore del Ministro – e che pensa di riuscire... Poi mi ha detto solo grazie, mi ha sorpreso questa cosa, perché è un po’ imbarazzante anche...»), nonché da quelle rilasciate dall'ex presidente della Mantovani Costruzioni, Piergiorgio Baita;
   la suddetta consegna manuale di denaro contante è una condotta che potrebbe aver integrato la violazione delle norme di cui al decreto legislativo n. 231 del 2002, sulla attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione e successive modificazioni e integrazioni;
   in particolare l'articolo 49 del decreto legislativo n. 231 del 2007 pone «limitazioni all'uso del contante e dei titoli al portatore» disponendo che «è vietato il trasferimento di denaro contante o di libretti di deposito bancari o postali al portatore o di titoli al portatore in euro o in valuta estera, effettuato a qualsiasi titolo tra soggetti diversi, quando il valore oggetto di trasferimento è complessivamente pari o superiore a 1.000 euro. Il trasferimento è vietato anche quando è effettuato con più pagamenti inferiori alla soglia che appaiono artificiosamente frazionati. Il trasferimento può tuttavia essere eseguito per il tramite di banche, Poste italiane s.p.a., istituti di moneta elettronica e istituti di pagamento, questi ultimi quando prestano servizi di pagamento diversi da quelli di cui all'articolo 1, comma 1, lettera b), n. 6, del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11103», mentre l'articolo 58, comma 1, del medesimo decreto legislativo prevede che alle violazioni delle disposizioni di cui all'articolo 49, commi 1,1-bis, 5, 6 e 7, si applica una sanzione amministrativa pecuniaria dall'1 per cento al 40 per cento dell'importo trasferito”;
   la sanzione di cui all'articolo 58, comma 1, del decreto legislativo n. 231 del 2007 è, cioè, una sanzione amministrativa pecuniaria irrogabile attraverso gli uffici territoriali del Ministero dell'economia e delle finanze (MEF), all'esito di un procedimento amministrativo ex lege n. 689 del 1981 (cfr circolare del Ministero dell'economia e delle finanze n. 2 del 16 gennaio 2012, «disposizioni in materia di procedimenti sanzionatori antiriciclaggio»);
   la violazione del limite di cui all'articolo 49 del decreto legislativo n. 231 del 2007 integra, quindi, un illecito amministrativo;
   il sistema dei controlli sull'osservanza delle disposizioni del decreto legislativo n. 231 del 2007, ivi comprese le disposizioni di cui agli articolo 49 e 58, comma 1, del citato decreto legislativo è delineato dall'articolo 53 che così dispone:
    «1. le autorità di vigilanza di settore nell'ambito delle rispettive competenze verificano l'adeguatezza degli assetti organizzativi e procedurali e il rispetto degli obblighi previsti dal presente decreto e dalle relative disposizioni di attuazione da parte dei soggetti indicati nell'articolo 10, comma 2, dalla lettera a) alla lettera d), e lettera f), degli intermediari finanziari indicati nell'articolo 11, comma 1, degli altri soggetti esercenti attività finanziaria indicati all'articolo 11, comma 3, lettere a) e b), e delle società di revisione di cui all'articolo 13, comma 1, lettera a). I controlli nei confronti degli intermediari finanziari di cui all'articolo 11, comma 1, lettera m), possono essere eseguiti, previe intese con l'Autorità di vigilanza di riferimento, anche dal Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza.
    2. I controlli sul rispetto degli obblighi previsti dal presente decreto e dalle relative disposizioni di attuazione da parte dei soggetti elencati nell'articolo 10, comma 2, lettere e) e g), degli intermediari di cui all'articolo 11, comma 2, degli altri soggetti esercenti attività finanziaria di cui all'articolo 11, comma 3, lettere c) e d), dei professionisti di cui all'articolo 12, comma 1, lettera b) e d), e degli altri soggetti di cui all'articolo 14 sono effettuati dal Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza.
    3. Gli ordini professionali di cui all'articolo 8, comma 1, svolgono l'attività ivi prevista fermo restando il potere di eseguire controlli da parte del Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza.
    4. La UIF verifica il rispetto delle disposizioni in tema di prevenzione e contrasto del riciclaggio o del finanziamento del terrorismo con riguardo alle segnalazioni di operazioni sospette e ai casi di omessa segnalazione di operazione sospetta. A tal fine può chiedere la collaborazione del Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza.
    5. Le autorità di vigilanza, il Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza possono effettuare ispezioni e richiedere l'esibizione o la trasmissione di documenti, atti, nonché di ogni altra informazione utile. A fini di economia dell'azione amministrativa e di contenimento degli oneri gravanti sugli intermediari vigilati, le autorità di vigilanza e il Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza programmano le rispettive attività di controllo e concordano le modalità per l'effettuazione degli accertamenti» –:
   quali azioni intenda intraprendere in relazione alla presunta consegna della tangente di 500 mila euro da parte del Mazzacurati in favore del Milanese;
   se in particolare, ritenga opportuno sollecitare il Ministero dell'economia e delle finanze all'esercizio dei poteri ispettivi di cui, rispettivamente, agli articoli 53, comma 5, e 58 del decreto legislativo n. 231 del 2007, anche attraverso l'ausilio investigativo del Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza, nonché dell'Unità di informazione finanziaria presso la Banca d'Italia, affinché venga accertato il possibile coinvolgimento di istituti di credito ed operatori bancari nella vicenda de quo e, se del caso, irrogare le eventuali sanzioni. (5-02992)

Interrogazioni a risposta scritta:


   D'AMBROSIO. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   recentemente, per concorso in usura bancaria sono indagati presso la procura della Repubblica di Trani i vertici di Bnl, Unicredit, Mps e di Banca Popolare di Bari. Tra le 62 persone alle quali la Guardia di finanza di Bari ha notificato ravviso di fine indagine ci sono anche ex dirigenti di Bankitalia ed anche dello stesso Ministero dell'economia e delle finanze;
   tale situazione, ancora una volta, dimostra la necessità di vigilare a tutti i livelli con la massima attenzione, adottando iniziative finalizzate alla trasparenza a partire dagli uffici ministeriali;
   quali azioni si intendano porre in essere sulla tematica della usura bancaria, stante il pubblicizzato coinvolgimento anche di personale dello stesso Ministero. (4-05128)


   SORIAL. — Al Ministro dell'economia e delle finanze, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   nel nostro Paese la prima vittima della crisi è l'infanzia: la povertà infantile è in forte e preoccupante aumento con quasi un terzo dei bambini fino a 6 anni a rischio povertà o esclusione sociale (maggiore rispetto alla media europea del 26 per cento), valore che dal 2007 sarebbe cresciuto di ben 5,6 punti percentuali fino a raggiungere il 31,9 per cento del 2012 (contro un incremento Ue dell'1,5 per cento, Eurostat), e su 4,8 milioni di poveri assoluti, più di un milione sono minori;
   i dati sono stati presentati nell'ambito delle celebrazioni per i 50 anni della Fondazione Zancan, osservatore privilegiato del welfare italiano dal 1964 con uno sguardo costante sulla tutela dei diritti dell'infanzia, che ha organizzato il confronto internazionale dal titolo «L'impatto della povertà e del maltrattamento nel futuro dei bambini», con esperti provenienti da Europa, Nord America, Medio Oriente, Australia, Cina;
   durante la conferenza non si è parlato solo di cifre ma delle loro conseguenze a breve e a lungo termine: «Vivere in condizioni precarie e deprivate rende possibili, e anche più probabili, forme di maltrattamento – ha spiegato Tiziano Vecchiato, direttore della fondazione Zancan –. L'infanzia è maggiormente a rischio quando c’è deprivazione, dipendenza e quando gli adulti non sono in grado di fare i genitori»; anche Gill Main, University di York, Regno Unito, ha sottolineato che «molti studi dimostrano gli effetti della povertà sui bambini, sotto vari aspetti: salute più a rischio, minore frequenza scolastica e risultati più scarsi, difficoltà dei rapporti sociali»;
   l'investimento nei primi anni di vita ha effetti molto positivi, soprattutto verso bambini in contesti svantaggiati, provenienti ad esempio da famiglie in difficoltà economiche: «Un euro investito nella prima infanzia viene trasformato, secondo molti studi, in sette euro di rendita, un investimento sul futuro» ha evidenziato Marzia Sica della Compagnia di San Paolo, partner italiano in collaborazione con la Fondazione Zancan;
   nonostante questo e nonostante la situazione in Italia sia significativamente peggiore rispetto all'Unione europea, come precedentemente sottolineato, le risorse stanziate in Italia per contrastare la povertà infantile sono ancora nettamente insufficienti e comunque, molto ignori rispetto alla media europea: la quota destinata a bambini e famiglia nel 2010 era il 4,6 per cento sul totale della spesa per protezione sociale, contro l'8 per cento medio europeo; le poche risorse hanno determinato uno sparso impatto delle politiche contro la povertà: i trasferimenti economici riescono a ridurre del 6,7 per cento la quota di minori poveri, mentre in Europa il calo è di 14,2 punti percentuali nel 2011 (Eurostat);
   l'insufficienza delle politiche minorili sarebbe confermata anche da altri due dati: da un lato, la nuova forma di povertà che investe chi ancora tenta di mettere su famiglia e fare figli: nei nuclei famigliari con il capofamiglia che ha meno di 35 anni, 1 figlio su 2 è a rischio povertà; dall'altro, il dato principale evidenziato dal rapporto Istat 2014, ovvero il nuovo minimo storico per le nascite da quasi vent'anni: nel 2013 sono stati iscritti all'anagrafe poco meno di 515 mila bambini, 12mila in meno «rispetto al minimo storico registrato nel 1995»;
   anche secondo gli studi e le rilevazioni dell'Unicef si è di fronte ad una vera e propria «emergenza infanzia» che rischia di generare una nuova e gravissima forma di povertà futura, perché bambini e adolescenti privati di opportunità, prospettive e competenze saranno preda di bassa produttività e bassa occupazionalità, con ricadute anche sulla spesa pubblica in maggiori costi sociali;
   con la Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza approvata dall'Assemblea generale dell'Onu il 20 novembre del 1989 e ratificata con la legge n. 176 del 1991, l'Italia si è impegnata a livello internazionale e nei confronti dei cittadini alla piena realizzazione dei diritti delle persone di minore età, ma, nonostante l'impegno assunto, nel nostro Paese è ancora lontana l'attuazione effettiva ed efficace dei diritti sanciti dalla Convenzione e si è assistito al continuo venire meno del sostegno concreto economico ai piani nazionali destinati ai minori mentre la stessa legislazione vigente resta insufficiente, inoltre, ad oltre 20 anni dalla ratifica, si assiste ancora a sperequazioni inammissibili tra le varie regioni d'Italia;
   l'Italia risulta agli ultimi posti in Europa dei 27 per quanto riguarda gli indicatori sulla condizione dell'infanzia;
   a novembre 2013 l'allora Sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali durante una discussione alla Camera dei deputati su diverse mozioni a favore dell'infanzia aveva dichiarato che per quanto attiene al tema del disagio economico, al fine di contrastare le diverse manifestazioni di povertà, il Governo aveva previsto una pluralità di misure, anche sfruttando appieno gli strumenti finanziari che l'Unione europea mette a disposizione, menzionando più che altro l'introduzione della social card come avvio del più ampio programma di promozione dell'inclusione sociale, misura criticata da più parti come ghettizzante e insufficiente; inoltre, aveva spiegato che per gli obiettivi strategici del PAC, vi era una dotazione finanziaria complessiva di 730 milioni di euro, dei quali 400 milioni previsti per lo sviluppo dei servizi di cura all'infanzia ;
   il sottosegretario aveva parlato anche di un programma nazionale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, cofinanziato dal fondo sociale, sull'attuazione di tre linee di attività: la sperimentazione di misure di contrasto alla povertà basate sui principi dell'inclusione attiva, la promozione dell'innovazione in ambito sociale e il rafforzamento del confronto interistituzionale, finalizzato alla definizione di livelli e standard comuni;
   il tema della fragilità dei nuclei familiari doveva essere affrontato anche nel terzo piano nazionale d'azione a favore dell'infanzia e dell'adolescenza approvato con decreto del Presidente della Repubblica del 31 gennaio 2011;
   con la sua mozione parlamentare sull'infanzia n. 1-00250 approvata a novembre del 2013 il MoVimento 5 Stelle aveva impegnato il Governo pro tempore:
    ad evitare la riduzione delle risorse finalizzate a rendere effettivi i diritti sanciti dalla Convezione internazionale sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza ed, in particolare, a dare esecuzione con adeguati stanziamenti alla legge n. 285 del 1977;
    a ridefinire le priorità dell'agenda programmatica del Governo, ponendo al centro di questa l'applicazione integrale della Convenzione internazionale sui diritti dei minori e del Patto internazionale sui diritti economici sociali e culturali, in particolare per quanto riguarda i servizi sociali, la lotta all'abbandono scolastico, il contrasto alla povertà, l'accesso alla prevenzione e alle cure sanitarie soprattutto per i minori che vivono in un contesto di povertà relativa e assoluta, il superamento delle profonde sperequazioni esistenti tra le regioni, il diritto all'alloggio e il diritto al passaggio da casa a casa per minori appartenenti a famiglie in disagio abitativo soggette a sfratti esecutivi;
    ad aumentare il sostegno finanziario a favore delle famiglie a basso reddito con figli minori assicurando che questo sia esteso anche alle famiglie straniere –:
   se i Ministri interrogati siano a conoscenza della grave situazione dei minori italiani e dunque del futuro del Paese, esposta in premessa, e in quale modo si sia dato seguito agli impegni derivanti dall'approvazione della mozione citata, nonché quali e di quali entità siano le risorse disponibili per l'attuazione delle varie iniziative messe in campo per combattere la povertà infantile;
   se i Ministri interrogati non intendano necessario e urgente attivarsi per porre al centro dell'agenda programmatica l'esecuzione di politiche di contrasto alla povertà infantile e la tutela di minori appartenenti a famiglie in disagio economico e abitativo, per rendere effettivi i diritti sanciti dalla Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza. (4-05139)

GIUSTIZIA

Interrogazione a risposta in Commissione:


   SORIAL. — Al Ministro della giustizia, al Ministro dell'interno, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   la corruzione in Italia sta dilagando o forse sarebbe il caso di dire che era una consuetudine generalizzata che sta emergendo sempre più grazie a numerose inchieste giudiziarie, che in questi giorni stanno riempiendo le prime pagine di tutti i giornali;
   questo fenomeno è un'emergenza civile, etica e sociale ma anche e prima di tutto una vera e propria piaga economica per il Paese: tale sistema conviene infatti solo alla ristretta cerchia dei corrotti che si arricchisce alle spalle di tutti gli altri, ovvero dei cittadini onesti, vessati già dalla grave crisi economica in atto;
   il costo della corruzione è altissimo: secondo uno studio di Unimpresa sui costi dell'illegalità, in dieci anni la corruzione avrebbe «mangiato» ben 100 miliardi di prodotto interno lordo in Italia, facendo diminuire gli investimenti esteri del 16 per cento è facendo al contempo aumentare del 20 per cento il costo complessivo degli appalti;
   particolarmente pesante, poi, è l'impatto di questi costi sulla crescita del Paese, perché la corruzione diffusa altera, innanzi tutto, la libera concorrenza e favorisce la concentrazione della ricchezza in mano a coloro che accettano e beneficiano del mercato della tangente a scapito di coloro che invece si rifiutano di accettarne le condizioni; le aziende che operano in un contesto corrotto infatti crescono in media del 25 per cento in meno rispetto alle concorrenti che operano in un'area di legalità, e, in particolare, le piccole e medie imprese hanno un tasso di crescita delle vendite di oltre il 40 per cento inferiore rispetto a quelle grandi;
   come segnalato in una precedente interrogazione, la n. 4-03613, presentata a febbraio 2014 dall'interrogante e ancora senza risposta, secondo una ricerca dell'Adnkronos ripresa da molti quotidiani, il nostro sta diventando un mondo imprenditoriale quasi o del tutto rassegnato, che non vede altra strada che la tangente per poter fare il proprio mestiere, a causa di una corruzione dilagante soprattutto nell'ambito delle piccole e media imprese: il 20 per cento di queste paga tangenti, sotto una qualsiasi forma; 5 su 10 hanno rifiutato almeno una richiesta di denaro per concludere un affare nel corso dell'ultimo anno; 4 su 10 pensano che in futuro possano essere costrette a farlo, mentre soltanto 1 su 10 ha denunciato perché in tanti pensano che «da solo non puoi cambiare nulla, ottieni un solo risultato, spesso irreversibile: non lavori più»;
   il 3 febbraio 2014 il commissario europeo per gli affari interni, Cecilia Malmstrom, ha presentato il primo rapporto della Commissione europea sulla corruzione negli Stati membri, che ha messo in luce che tale fenomeno costa all'economia europea circa 120 miliardi di euro l'anno, di cui 60 miliardi riguardano l'Italia, pari a circa il 4 per cento del prodotto interno lordo;
   nel rapporto vengono suggerite all'Italia alcune azioni da intraprendere: anzitutto il rafforzamento del regime di integrità per le cariche elettive e di governo nazionali, regionali e locali, anche con l'adozione di codici di comportamento e sanzioni dissuasive in caso di violazione; si sottolinea, inoltre, la necessità di bloccare l'adozione di leggi ad personam e rafforzare il regime giuridico e attuativo sul finanziamento ai partiti politici, con regole più severe sulle donazioni; inoltre, l'Italia dovrebbe colmare le lacune della disciplina della prescrizione, in alcuni casi troppo breve, e rendere più trasparenti gli appalti pubblici, prima e dopo l'aggiudicazione –:
   se i Ministri interrogati siano a conoscenza della delicata situazione descritta in premessa e se non considerino urgente attivarsi con le iniziative di competenza al fine di porre in essere tutte le misure idonee, non solo di controllo e repressione del fenomeno, ma anche e soprattutto di prevenzione e di carattere normativo, per dare davvero il senso di un cambiamento, al fine di evitare che i recenti accadimenti portino al tracollo della fiducia, già messa a dura prova, degli investitori stranieri e degli stessi imprenditori italiani;
   quali iniziative siano state intraprese in relazione ai suggerimenti dati al nostro Paese dal rapporto della Commissione europea sulla corruzione negli Stati membri;
   se i Ministri interrogati non intendano intervenire al fine di rafforzare, per quanto di competenza, l'azione di contrasto al crimine organizzato a cominciare dalle regioni di più recente presenza mafiosa, con particolare attenzione alla Lombardia, dove l'incidenza del fenomeno rappresenta già una vera e propria emergenza, come le recenti vicende legate all'evento Expo 2015 hanno portato alla luce. (5-02991)

INFRASTRUTTURE E TRASPORTI

Interrogazione a risposta in Commissione:


   OLIVERIO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   il 18 dicembre 2012, tra il Ministero per la coesione territoriale, le regioni Campania, Calabria, Basilicata e l'amministratore delegato della società RFI, è stato sottoscritto il «contratto istituzionale di sviluppo (CIS)» per la velocizzazione della direttrice ferroviaria «Salerno-Reggio Calabria»;
   il contratto prevedeva 5 macro interventi e 14 sottoprogetti, per un valore complessivo di 504 milioni di euro interamente finanziati, oggetto della delibera CIPE dell'8 marzo 2013 recante l'approvazione definitiva degli interventi di adeguamento tecnologico e infrastrutturale per l'incremento delle prestazioni e dell'affidabilità della linea Battipaglia-Reggio Calabria;
   tra i sottoprogetti, ben 10, per un valore di oltre 200 milioni di euro, riguardano interventi da realizzarsi sul territorio calabrese, in particolare, il sottoprogetto «SP07» che prevede la realizzazione di un «posto centrale unico DCO-DOTE a Reggio Calabria» con un investimento finanziato pari a 11 milioni di euro;
   si tratta, nello specifico, di un'aggregazione d'impianti di tecnologia avanzata destinata al controllo della circolazione dei treni per tutta la direttrice Salerno-Reggio Calabria che, a regime, potrebbe impiegare almeno 80 unità lavorative di alta professionalità;
   l'opera, di grande rilevanza per il territorio calabrese, tarda ad essere appaltata e si comincia a temere che possa non essere realizzata a causa dei consistenti ritardi realizzativi, a seguito dei quali RFI avrebbe manifestato l'intenzione di realizzare il progetto a Roma;
   l'eventualità della mancata realizzazione, in Calabria, del DCO unico e il ritardo delle restanti opere programmate, comporterebbe un pesante arretramento dell'insieme dei processi di crescita e di sviluppo economico e sociale dell'area, all'interno della quale, il sistema ferroviario, rappresenta l'asse portante per il futuro completamento di un efficiente sistema intermodale dei trasporti e per combattere il continuo degrado infrastrutturale;
   il segretario confederale della Cisl, responsabile per il Mezzogiorno e le politiche di sviluppo territoriali, Luigi Sbarra, anche su indicazione delle strutture territoriali e categoriali, ha espresso con una lettera del giugno 2014 al Ministro interrogato la forte preoccupazione per il rischio concreto che non venga realizzato il sottoprogetto «SP07» relativo alla realizzazione di un posto centrale unico DCO-DOTE a Reggio Calabria, ovvero un'aggregazione d'impianti di avanzata tecnologia, finalizzata al controllo della circolazione dei treni per tutta la direttrice Salerno-Reggio Calabria;
   la Calabria, e le regioni confinanti, non possono permettersi di perdere l'importante occasione di sviluppo e di crescita economica ed occupazionale, rappresentata dalla realizzazione del «posto centrale unico DCO-DOTE a Reggio Calabria», funzionale alla realizzazione degli alti progetti infrastrutturali ad esso connessi –:
   quali iniziative urgenti intenda assumere per scongiurare la concreta eventualità che il sottoprogetto «SP07», e con esso la delibera CIPE dell'8 marzo 2013, siano disattesi e se intenda far sì che società RFI garantisca il rispetto del programma e del cronoprogramma degli interventi previsti dal contratto istituzionale di sviluppo, condivisi e già finanziati con delibera dal Cipe ormai da più di un anno (marzo 2013), tenuto conto che il progetto rientra tra i 111 progetti recentissimamente (29 maggio 2014) ammessi a finanziamento da parte dell'autorità di gestione del programma operativo nazionale reti e mobilità 2007-2013. (5-02988)

Interrogazione a risposta scritta:


   SCOTTO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   negli scorsi giorni la polizia stradale di Alessandria Ovest ha scoperto una serie di frodi attuate da un'impresa di autotrasporto torinese per non pagare i pedaggi autostradali;
   l'indagine è iniziata dopo una querela giunta da una società concessionaria, che segnalava diverse irregolarità provenienti da veicoli della stessa impresa di autotrasporto con sede nella provincia di Torino;
   ad esempio, gli autisti sceglievano una pista con pagamento con carte o con Telepass e chiedevano l'intervento dell'operatore, affermando di avere smarrito il biglietto d'entrata;
   in questo modo ricevevano modulo per il pagamento ritardato, che però non era mai eseguito;
   altro sistema utilizzato consiste nel far accodare i camion ad altri veicoli sul casello Telepass, approfittando della scia per passare con la barra alzata;
   ciò crea un'evidente situazione di pericolo per gli altri utenti della strada e per gli operatori;
   le frodi sono avvenute sui tracciati autostradali Torino-Milano e Torino-Piacenza;
   la polizia stradale ha calcolato ben 3.500 transiti senza pagamento, per complessiva di 41.683 euro;
   a ciò va aggiunto il danno subito dall'erario per il mancato pagamento delle imposte relative ai pedaggi;
   i titolari dell'impresa sono stati denunciati ed è già stato disposto dalla magistratura il sequestro preventivo di quattordici automezzi pesanti;
   la truffa andava avanti dal 2011, quindi da circa tre anni;
   fenomeni del genere non sono, purtroppo, una novità, e sono anzi in evidente crescita;
   i fatti sono narrati, tra l'altro, anche dall'articolo intitolato «Truffa sui pedaggi autostradali non pagati, sequestrati auto e camion» e pubblicato dall'edizione online de La Stampa il 26 maggio 2014 –:
   se i Ministri siano a conoscenza dei fatti esposti in premessa;
   quali iniziative intendano intraprendere al fine impedire il ripetersi di atti del genere. (4-05143)

 * * *

INTERNO

Interpellanza:


   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell'interno, per sapere – premesso che:
   nei giorni scorsi, anche per le condizioni favorevoli del mare e del clima estivo, l'area jonica, in particolare Taranto, ha dovuto gestire l'accoglienza di numerosi profughi, quasi 3000 persone, tra uomini, donne e minori, provenienti per lo più dalla Siria, Somalia Africa Sub-Sahariana;
   gli arrivi, tramite la nave San Giorgio – concentratisi, peraltro, in pochissimi giorni sono ricollegati all'operazione «Mare Nostrum», e hanno visto la mobilitazione di volontari impegnati ad ospitare, sfamare e curare persone disperate che fuggono da miseria e povertà, con tutte le difficoltà connesse all'elevato numero di profughi e alla carenza di strutture per gestirlo;
   non solo Taranto, ma anche Grottaglie e Martina Franca, hanno offerto un'immediata risposta solidale per assicurare un'accoglienza più degna possibile – nonostante le difficoltà nelle quali si son trovati ad operare – con particolare impegno non solo dell'amministrazione, ma soprattutto dei volontari di associazioni presenti sul luogo;
   la situazione è particolarmente delicata in primis in relazione all'aspetto sanitario: sono numerosi: casi di scabbia, malaria, varicella. In aiuto ai medici ed infermieri del 118, si son resi disponibili colleghi in turno di riposo e volontari;
   l'emergenza cui è chiamato il territorio pugliese, lungi dall'avere i caratteri dell'eccezionalità, pare aver assunto un carattere «strutturale», cui il territorio non può continuare a far fronte, paventandosi un vero e proprio collasso del sistema di accoglienza;
   basti pensare che sarebbero presenti circa 60 minori non accompagnati rispetto ai quali, a causa del collasso delle strutture di accoglienza per minori le misure previste dalla normativa in tema sono state avviate con notevole ritardo, mentre la loro custodia è stata garantita con standard molto al di sotto di quella prevista dalla normativa vigente;
   inoltre, si diffondono voci, non verificate in città, tese a creare allarme su atti di violenza commessi all'interno di strutture non adeguatamente vigilate, situazione rispetto alla quale la polizia del luogo, in assenza di direttive specifiche, non può garantire presenza e intervento;
   in tale ottica appare particolarmente preoccupante l'ipotesi, che il Governo starebbe valutando, di fare del porto di Taranto l'unico «hub» di accoglienza, tanto più in considerazione della grave carenza di strutture che consentano un'assistenza adeguata;
   la gestione dell'arrivo e dall'accoglienza di così tanti migranti parrebbe quindi solo a carico delle istituzioni locali, nonché delle strutture del volontariato – seppur con un supporto del sistema della protezione civile regionale e del servizio sanitario regionale – che stanno mettendo in campo uno slancio solidale senza limiti;
   come evidente, la situazione richiede un immediato ripensamento della strategia nazionale intrapresa, soprattutto se il fenomeno dovesse prolungarsi ancora per molto tempo;
   ferma restando la generosa disponibilità dei tarantini, e più in generale dei pugliesi, sarebbe quindi necessario individuare immediatamente, prima del collasso, altri porti-hub che consentano una gestione sostenibile e distribuita degli arrivi, come anche supportare il territorio di risorse umane e finanziarie decisamente più idonee rispetto a quelle oggi disponibili;
   al fine di assicurare il rispetto delle condizioni di dignità umana, vi è in particolare anche la necessità di rendere disponibili strutture in grado di ospitare un alto numero di persone e pronte all'utilizzo, quali ad esempio strutture militari usate per l'addestramento dei militari di leva, oggi in disuso;
   ad avviso degli interpellanti, il Governo non può rimanere indifferente rispetto alla necessità di interventi connessi alle operazioni di salvataggio e, più in generale, al rispetto delle convenzioni internazionali sul tema dell'accoglienza –:
   quali siano le informazioni e gli orientamenti del Ministro circa quanto riferito in premessa e, in particolare, rispetto ad interventi urgenti e indispensabili, anche a seguito di quanto ha avuto luogo negli ultimi giorni nel tarantino rispetto alla gestione dei massicci arrivi di profughi, ai fini di un'accoglienza degli stessi che sia dignitosa e rispettosa dei diritti umani;
   se il Ministro interpellato sia realmente intenzionato a rendere il porto di Taranto un hub di accoglienza e, in caso affermativo, come ritenga di riorganizzare l'intero sistema di gestione dell'accoglienza sul territorio per renderlo adeguato all'emergenza in corso.
(2-00577) «Duranti, Pannarale, Migliore, Fratoianni, Matarrelli, Costantino, Di Salvo, Melilla, Palazzotto, Piras, Ricciatti».

Interrogazioni a risposta scritta:


   PALAZZOTTO. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   il «pocket money» è quella modesta somma di denaro (2,5 euro pro die) che gli enti gestori dei centri di accoglienza per migranti, da capitolato di appalto, devono corrispondere agli ospiti per tutto il periodo di soggiorno;
   nelle ultime settimane sono numerose le inchieste giornalistiche che danno notizia di presunte irregolarità sistematiche, portate avanti in diversi centri, nell'erogazione di tale contributo;
   la mancata, o irregolare, erogazione del contributo è alla base di molti dei disordini e delle rivolte nei centri per migranti;
   le irregolarità riscontrate da inchieste giornalistiche e da visite ispettive riguardano il ritardo nell'erogazione del contributo, la pretesa ad avviso dell'interrogante illegittima, presso alcuni centri, che esso non venga accumulato ma speso entro pochi giorni o, presso altri centri, la fornitura del contributo in beni (sigarette, carte telefoniche, buoni pasto) anziché cash come previsto dai capitolati di appalto;
   i centri per migranti oggetto di tali contestazioni sono: il Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Castelnuovo Di Porto (Roma), Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Capo Rizzuto (Crotone), Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Mineo (Catania), CDA/CARA di Restinico (Brindisi), Centro di identificazione ed espulsione di Caltanissetta (Caltanissetta), Centro di identificazione di Milo (Trapani) –:
   se, come riportato da alcuni organi di stampa, il Ministro sia già in possesso di un dossier sulle irregolarità nella corresponsione del pocket money nei centri per migranti;
   quali iniziative intenda assumere il Governo nei confronti degli enti di gestione che si siano resi responsabili di prolungate inadempienze contrattuali.
(4-05129)


   NUTI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   il decreto-legge 29 ottobre 1991, n. 345, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 1991, n. 410, contenente «Disposizioni urgenti per il coordinamento delle attività informative e investigative nella lotta contro la criminalità organizzata», istituì la direzione investigativa antimafia, fortemente voluta dal magistrato Giovanni Falcone, nel corso dell'intensificazione del contrasto alla criminalità organizzata di tipo mafioso;
   tale legge, modificata nel corso degli anni e in alcune parti sostituita dal decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, codice delle leggi antimafia, tuttavia non ha trovato fino ad oggi completa attuazioni sotto certi aspetti;
   in particolare, l'articolo 4, comma 5, del decreto-legge 29 ottobre 1991, n. 345, prendeva l'istituzione di appositi ruoli unici e indipendenti dalle altre forze di polizia per il personale della direzione investigativa antimafia: tuttavia, all'interrogante non risulta che tale previsione normativa sia stata effettivamente compiutamente attuata;
   secondo le disposizioni contenute all'interno dell'articolo 4 del citato decreto-legge, al fine di assicurare l'accesso alla direzione investigativa antimafia di personale altamente qualificato e competente, era stato previsto l'accesso tramite bando unico nazionale per titoli di servizio, riservato agli appartenenti alla polizia di Stato, all'arma dei carabinieri e al Corpo della guardia di finanza, mentre, esclusivamente in maniera marginale, specificatamente in misura non superiore al 5 per cento della dotazione complessiva del personale, era stata prevista la mera possibilità di richiedere l'assegnazione nominativa di funzionari ed ufficiali;
   all'interrogante risulta invece che attualmente il personale della direzione investigativa antimafia sia assicurato tramite l'assegnazione nominativa, mentre vi è una perdurante situazione di evidente carenza di personale;
   inoltre, all'articolo 3, commi 3 e 4, del citato decreto-legge, poi recepiti interamente dall'articolo 108, commi 3 e 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, è stato disposto il trasferimento alla direzione investigativa antimafia del personale dei servizi centrali e interprovinciali della polizia di Stato, dell'Arma dei carabinieri e del Corpo della Guardia di finanza, a decorrere dal 1o gennaio 1993, oltre a disporre la completa cooperazione tra le forze di polizia e la direzione investigativa antimafia;
   all'interrogante risulta che il citato trasferimento, al fine di accentrare in seno alla direzione investigativa antimafia il personale competente in materia di lotta alla criminalità organizzata di tipo mafioso, non è mai stato effettuato compiutamente, mentre la cooperazione tra le varie forze di polizia e la direzione investigativa antimafia, seppure presente, presenta ancora alcune criticità ed inefficienze;
   si ricorda come i fondi destinati alla direzione investigativa antimafia, sia nel suo complesso sia in relazione ai fondi destinati al personale, sono significativamente diminuiti nel corso degli ultimi anni, rischiando di compromettere in questo modo il prezioso lavoro svolto nel contrasto alla criminalità organizzata di tipo mafioso;
   si ricorda, infine, che l'attività della direzione investigativa antimafia ha consentito il sequestro e la confisca di beni nel corso degli ultimi anni che ammonta a svariati miliardi di euro: se da una parte l'eventuale depotenziamento di questa struttura potrebbe comportare conseguenze economiche negative per le casse pubbliche, inopportune in questo difficile momento per il bilancio dello Stato, dall'altra parte la concreta applicazione degli aspetti normativi sopra citati potrebbe, invece, consentire un'azione più efficace della direzione investigativa antimafia e quindi maggiori benefici economici per lo Stato –:
   se sia a conoscenza dei fatti esposti in premessa e se tali fatti trovino conferma;
   quali iniziative intenda intraprendere per dare attuazione agli aspetti normativi esposti in premessa che ancora oggi non trovano completa applicazione;
   cosa intenda fare per assicurare adeguati stanziamenti finanziari al fine di non compromettere il prezioso lavoro svolto dal personale della direzione investigativa antimafia. (4-05130)


   NUTI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 96 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, stabilisce che, presso il Ministero dell'interno, dipartimento per le politiche del personale dell'amministrazione civile e per le risorse strumentali e finanziarie, è istituita la banca dati nazionale unica della documentazione antimafia, collegata telematicamente con il centro elaborazione dati, costituito presso il Ministero dell'interno medesimo;
   tale banca dati, prevista sin dal settembre 2011, era stata concepita per poter facilitare il rilascio della documentazione antimafia e rendere il procedimento più celere e meno farraginoso: tuttavia, ad oggi, dopo quasi 3 anni, tale sistema non è ancora operativo;
   il codice delle leggi antimafia, risalente, appunto, al settembre 2011, ha subito importanti modifiche nel 2012 e l'attuale Governo si appresta a modificare nuovamente la normativa: senza entrare nel merito delle modifiche apportate o che si intendono apportare al testo, che presentano aspetti condivisibili, vi sono dubbi che ulteriori modifiche potrebbero ritardare nuovamente la concreta attivazione della citata banca dati nazionale unica della documentazione antimafia e posticiparne nuovamente gli importanti benefici –:
   cosa intende fare per attivare la banca dati nazionale unica della documentazione antimafia di cui all'articolo 96 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159;
   se e in che modo le nuove norme proposte dal Governo incideranno sul funzionamento e la concreta attivazione della suddetta banca dati. (4-05131)


   NUTI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   negli ultimi mesi numerosi articoli di stampa hanno rappresentato il grave stato in cui versa il parco macchine della polizia di Stato: su circa 24 mila vetture, circa un terzo è in attesa di essere riparato da vari anni, mentre le rimanenti risultano essere in buona parte in uno stato precario o non più adatte per l'elevato chilometraggio percorso;
   inoltre, solo una parte minima di tutto il parco macchine della polizia di Stato è stata assegnata alle squadre volanti, ovvero quei reparti che dovrebbero svolgere una funzione di controllo del territorio e pronto interventi;
   alcune città presentano situazioni paradossali, come ad esempio Catanzaro, città con elevata presenza della criminalità organizzata di tipo mafioso, dove il servizio della squadra volante viene assicurato da una sola autovettura per turno, mentre a Foggia, città con elevata attività criminale, anche mafiosa, le autovetture per turno sono solo 2; a Napoli, altra città che presenta numerosi problemi legati alla criminalità organizzata, su mille autovetture complessive, 300 sono in riparazione; in altre città molto grandi, come Milano e Torino, su circa 500 vetture disponibile, ve ne sono circa 170 in attesa di essere riparate;
   a Roma, vi sono circa una decina di auto per turno destinate alla squadra volanti, mentre vi sono addirittura 120 autovetture utilizzate per il servizio di scorta;
   oltre ai problemi sopra esposti, l'utilizzo delle autovetture della polizia di Stato, così come di altri Corpi di polizia, è altamente condizionato dalla carenza di fondi destinati al rifornimento di carburante, così come alla revisione e alla copertura assicurativa dei mezzi medesimi –:
   se sia a conoscenza del grave stato in cui versa il parco autovetture della polizia di Stato e in generale di tutti i Corpi di polizia;
   se intenda attivarsi, per le parti di propria competenza, al fine di garantire ulteriori fondi destinati all'acquisto di nuove autovetture destinate alla polizia di Stato e, in generale, ai Corpi di polizia, ovvero alla loro manutenzione. (4-05132)


   D'AMBROSIO. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   nel dossier nazionale del Sap (sindacato autonomo di polizia) si evidenzia il «caso Foggia». Una situazione disastrosa dei mezzi della polizia, con due sole volanti per turno in una città di quasi 160 mila abitanti, con una media di 10 mila reati all'anno, 16 furti ogni 24 ore, e un esercito di mafiosi intorno alle 300 unità tra affiliati e contigui;
   lo stesso dossier sindacale riporta la carenza di mezzi a livello nazionale, e parla di un'auto su tre ferma dal meccanico e senza fondi per ripararla. Tra le città simbolo di questi problemi c’è Foggia;
   organi di stampa, sempre in riferimento al «caso Foggia», riportano le dichiarazioni di un sindacalista del SAP che afferma «Se in passato di solito dopo due/tre giorni in officina, l'auto veniva riparata e rimessa su strada, ora bisogna attendere mesi perché non ci sono fondi. La situazione riguarda non solo il parco auto della Questura: un paio d'anni fa fece scalpore il fatto che i colleghi della sezione di polizia giudiziaria del Tribunale rimasero appiedati perché non c'erano soldi per riparare le auto in loro dotazione finite in officina: per risolvere la situazione e farle aggiustare si dovette attendere l'intervento dell'allora procuratore capo che disse che avrebbe pagato di tasca propria le spese»;
   nel dossier del Sap si accenna anche ai commissariati della provincia di Foggia: «La situazione è difficile anche a Cerignola, dove non sempre si riesce a mettere in strada una volante per turno, ma problemi si registrano anche nelle sedi di Lucera, San Severo e Manfredonia sempre per gli stessi motivi: carenza di mezzi e organici, eppure la Capitanata è una delle più grandi province italiane per estensione» –:
   quali iniziative urgenti si intendano adottare per rimediare alle gravissime problematiche evidenziate. (4-05133)


   LUIGI DI MAIO. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   all'interrogante sono giunte numerose segnalazioni da parte della cittadinanza, suffragate anche da una serie di inchieste di stampa, circa la indecorosa situazione di degrado dei campi nomadi nella città di Napoli e nell’hinterland partenopeo;
   in seguito a tali segnalazioni, concernenti in particolare le allarmanti condizioni dei minori, il 13 dicembre 2013, l'interrogante ha depositato una prima interrogazione, la n. 4-02933, alla quale purtroppo ad oggi non è stata data risposta;
   l'inerzia delle istituzioni centrale e locale non ha risolto i problemi che continuano a persistere nella loro gravità;
   negli ultimi mesi si sono verificate ulteriori inquietanti vicende nei campi rom che rendono sempre più preoccupante la situazione e necessario un intervento dello Stato;
   l'11 marzo 2014, infatti, si è diffusa la voce secondo cui una ragazza di Napoli sarebbe stata oggetto di molestie sessuali. A seguito del diffondersi di tale voce, si è creata una situazione di grande tensione, sfociata poi in una rissa tra napoletani e rom, secondo alcune fonti di informazione caratterizzata addirittura dal lancio di sassi e bombe carta da parte della popolazione locale. La conseguenza di tali vicende sarebbe stata – secondo quanto segnalato all'interrogante – la «migrazione» di circa 350 rom in altri campi, in particolare localizzati presso Gianturco che già si trova in una situazione di forte criticità per la presenza di tre campi nomadi, due dei quali di grandissime dimensioni e molto vicini ai depositi della Q8;
   ad avviso dell'interrogante è molto probabile il rischio che la criminalità organizzata sia pericolosamente coinvolta in questo tipo di dinamiche per cui l'intervento della pubblica autorità appare di assoluta urgenza;
   tutte queste vicende vedono quella che all'interrogante appare la sostanziale inerzia delle istituzioni locali –:
   se il Ministro interrogato, per il tramite dei suoi uffici, stia seguendo le vicende segnalate in premessa e quale sia il suo orientamento in merito;
   quali decisioni intenda assumere il Governo per fronteggiare una simile situazione che rischia di diventare un problema molto serio sia dal punto di vista dell'ordine pubblico che dal punto di vista della salute, stante il sovraffollamento dei campi nomadi, con particolare riferimento a quello di Gianturco. (4-05134)


   NUTI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   il Governo pro tempore nella seduta della Camera dei deputati del 20 dicembre 2013, ha accolto l'ordine del giorno n. 9/1865-A/249, lo si impegna a valutare l'opportunità di destinare parte dello stanziamento di 100 milioni di euro previsto dall'articolo 1, comma 103, della legge di stabilità per il 2014, per incrementare il trattamento economico accessorio del personale appartenente alla direzione investigativa antimafia;
   nell'interrogazione a risposta scritta n. 4-04461, l'interrogante già aveva rappresentato il problema della mancanza di fondi adeguati per la direzione investigativa antimafia, nello specifico ricordando come i fondi per l'intera struttura erano stati ridotti, dai 28 milioni di euro per l'anno 2001 ai 13,5 milioni di euro per il 2014, proprio durante le delicate ricostruzioni post-terremoto in Emilia e in Abruzzo e nell'anno decisivo per il completamento delle opere che gravitano attorno a EXPO Milano 2015, tristemente famose per la contiguità con la criminalità organizzata di tipo mafioso e i numerosi casi di corruzione;
   all'interrogante risulta che, relativamente al trattamento economico accessorio del personale della direzione investigativa antimafia, gli stanziamenti sono stati ridotti da quasi 12 milioni di euro del 2011 a 4,3 milioni per il 2012, a circa 5,2 milioni per il 2013 e a 5,6 milioni per il 2014;
   in altre parole, il Ministero dell'interno ha deciso di aumentare, rispetto al 2013, gli stanziamenti per il trattamento economico accessorio del personale della direzione investigativa antimafia di circa 0,4 milioni di euro, pari allo 0,4 per cento dello stanziamento citato previsto all'interno della legge di stabilità per il 2014, e comunque ben distante dai 12 milioni stanziati per il 2011;
   inoltre, all'interrogante risulta che persino l'incremento di circa 400 mila euro già deciso per l'anno 2014 non sia stato effettivamente liquidato al personale della direzione investigativa antimafia;
   i tagli alle retribuzioni, anche accessorie, hanno colpito un elevato numero di appartenenti ai Corpi di polizia e i 100 milioni di euro previsti dalla legge di stabilità per il 2014 risultano comunque essere ancora non sufficienti per ripristinare l'ammontare complessivo delle retribuzioni ai livelli precedenti i tagli;
   non risultano, infine, rintracciabili eventuali ripartizioni dello stanziamento di cui all'articolo 1, comma 103, della legge di stabilità per il 2014, da parte del Ministero dell'interno tra i vari Corpi di polizia né, tantomeno, tra i vari gradi in cui il personale di questi Corpi è strutturato –:
   se quanto esposto in premessa corrisponda al vero, con particolare riguardo alla effettiva liquidazione dell'incremento del trattamento economico accessorio al personale della direzione investigativa antimafia;
   come sia stato ripartito tra i vari Corpi di polizia, e tra i vari gradi in cui il personale di questi Corpi e strutturato, lo stanziamento di 100 milioni di euro di cui all'articolo 1, comma 103, della legge di stabilità per il 2014, anche fornendo la relativa documentazione. (4-05140)

ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ E RICERCA

Interrogazione a risposta in Commissione:


   ASCANI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   il 28 febbraio 2013, 48 progetti di innovazione sociale sono stati ammessi a finanziamento nell'ambito del bando del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca «Smart Cities and Communities and Social Innovation», indetto nel luglio 2012;
   da oltre un anno tali progetti attendono sia lo sblocco delle risorse economiche (pari a complessivi 25 milioni di euro) che le linee guida per l'avvio delle attività;
   tali risorse, se erogate tempestivamente, produrranno effetti positivi tanto sull'occupazione giovanile quanto sulla sperimentazione ed applicazione di prodotti e servizi altamente innovativi, soprattutto per le pubbliche amministrazioni dei territori interessati, garantendo un impatto positivo immediato e concreto;
   i giovani proponenti, a differenza di altri soggetti promotori quali università, enti di ricerca o pubbliche amministrazioni, non hanno tutele né «cuscinetti» di alcun tipo. Inoltre, i ricercatori indipendenti, in attesa di iniziare a lavorare sul progetto vincitore, non possono impegnarsi in altri lavori;
   i progetti di innovazione sociale basano il proprio successo anche sui tempi veloci con cui le idee, i risultati delle ricerche e dei servizi o prodotti realizzati vengono messi sul mercato. 15 mesi di ritardo provocano un grave handicap, in un periodo in cui molti competitor con idee simili si affacciano sul mercato;
   l'attesa provoca un mancato follow-up dei contatti esplorativi intrapresi dai proponenti con enti locali, università, aziende, comunità e territori che sono legati alle attività progettuali e che potrebbero ricavare dai progetti opportunità di sviluppo locale e generare un utile sociale –:
   se il Ministro sia a conoscenza della situazione sopraesposta e se non ritenga opportuno adottare ogni utile iniziativa di competenza per sbloccare le risorse ai proponenti vincitori del bando del luglio 2012 e facilitare la gestione burocratica dei prossimi passaggi amministrativi, in modo da avviare al più presto i progetti di innovazione sociale utili per migliorare l'occupazione giovanile, la ricerca, l'impresa e il funzionamento delle pubbliche amministrazioni. (5-02990)

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LAVORO E POLITICHE SOCIALI

Interrogazione a risposta scritta:


   TENTORI e FRAGOMELI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   Trafilerie Brambilla spa svolge l'attività di trafilatura a freddo dell'acciaio inossidabile che nel 2013 occupava 95 dipendenti, 73 operai e 22 impiegati;
   il 15 aprile 2013 veniva attivato un contratto di solidarietà difensivo, in quanto la situazione finanziaria dell'azienda è talmente critica, che nonostante un portafogli ordini importante, non riesce acquistare le materie prime per evaderli;
   ad ottobre 2013 l'azienda cambia denominazione e diventa Trafileria Del Lario e viene messa in liquidazione;
   contestualmente viene interrotto il contratto di solidarietà e il 22 ottobre 2013 veniva attivata una cassa integrazione straordinaria per cessazione di attività;
   da ottobre 2013 l'attività lavorativa è ridotta al minimo e viene svolta solo per conto terzi;
   al contempo, l'azienda ha incaricato dei professionisti di raccogliere e valutare le proposte di acquisto dell'azienda, impegnandosi in maniera formale con le parti sociali a garantire che la ricerca e la scelta dell'acquirente, sarà finalizzata, oltre che al recupero delle risorse finanziare per soddisfare la liquidazione dei creditori, ad assicurare che l'acquirente mantenga invariato il livello di occupazione nell'azienda, la sua tipologia produttiva e la localizzazione del sito produttivo in Calolziocorte (Lecco);
   nel mese di dicembre 2013, per far fronte alla situazione debitoria ed evitare il fallimento, è stata presentata al tribunale domanda di ammissione al concordato preventivo in bianco, ovvero dichiarando la volontà di presentare una proposta ed un piano ai creditori, ma riservandosi di depositare i documenti e la attestazione entro il successivo termine assegnato dal tribunale;
   nei primi giorni di aprile 2014 l'azienda ha ricevuto un impegno formale a presentare futura proposta di affitto/acquisto da parte di Celik Halat ve Tel Sanayii A.S., società turca, facente parte del gruppo Dogan, gruppo quotato alla borsa di Istanbul;
   il giorno 9 aprile 2014, l'azienda, in ragione del poco tempo a disposizione per stendere un piano concordatario basato sull'offerta ricevuta da Celik Halat ve Tel Sanayii A.S, non è stata ammessa al concordato;
   Trafilerie Del Lario è ora impegnata a lavorare sull'offerta di Celik Halat ve Tel Sanayii A.S, per poter presentare una nuova domanda di concordato, unica possibilità per evitare il fallimento;
   l'offerta di Celik Halat ve Tel Sanayii A.S, è condizionata all'accordo sindacale, per concludere il quale ha incaricato la Confindustria Bergamo di occuparsi delle trattative riguardanti i lavoratori in forza;
   a maggio 2014, Confindustria Bergamo ha comunicato ufficialmente, ai sensi dell'articolo 47, legge n. 428 del 1990, l'intenzione da parte di Celik Halat ve Tel Sanayii A.S di acquisire Trafileria Del Lario e il 21 maggio si è svolto l'incontro di esame congiunto previsto dalla procedura, finalizzato al raggiungimento di un accordo, che regoli il trasferimento dei lavoratori in forza e le loro condizioni contrattuali;
   durante l'incontro gli advisor incaricati hanno descritto il piano industriale che prevede una graduale crescita dell'attività lavorativa se pur modesta, da giugno 2014 a dicembre 2014, e una crescita più sostanziale da gennaio 2015 fino ad arrivare al 2018, avendo come obiettivo il fatturato che Trafilerie Brambilla spa aveva prima della crisi;
   l'operazione di acquisizione vede un impegno finanziario totale, da parte di Celik Halat ve Tel Sanayii A.S, di circa di 20 milioni di euro nel triennio, ma è stato dichiarato che il piano presentato reggerà solo con l'abbattimento del 30 per cento del costo del lavoro;
   per quanto riguarda i lavoratori, Confindustria Bergamo ha comunicato che Celik Halat ve Tel Sanayii A.S
    acquisirà da giugno a dicembre 2014, circa 50 dei dipendenti in forza (che oggi sono 75);
    ai 50 dipendenti riconoscerà il livello di inquadramento, gli scatti di anzianità e il minimo tabellare previsto dal Ccnl Federmeccanica, azzerando ogni altro trattamento retributivo di natura individuale o collettiva acquisto in Trafilerie Brambilla;
    gli altri 25 lavoratori rimarranno in carico a Trafilerie Del Lario e usufruiranno della cassa integrazione straordinaria fino ad ottobre 2014 e per eventuali ulteriori periodi che potranno essere riconosciuti in base alle normative vigenti, e di un incentivo all'esodo non quantificato;
   il sindacato ha dichiarato inaccettabile la proposta e ha proposto l'applicazione del contratto di solidarietà, che permetterebbe di non licenziare nessuno e di conservare la professionalità, che poi potrà essere riassorbita nell'arco dei tre anni, visto che si intende raggiungere l'obiettivo di tornare ai livelli produttivi pre-crisi;
   per quanto concerne il taglio delle retribuzioni, la Fiom si dice disponibile a trovare una strada che risponda alle esigenze aziendali, ma che conservi anche i diritti acquisiti dai lavoratori in anni di trattative, ma Confindustria Bergamo e gli advisor hanno dichiarato che non ci sono spazi di trattativa;
   il giorno 22 maggio 2014, Celik Halat ve Tel Sanayii A.S, tramite Confindustria Bergamo, ha intrapreso un'azione unilaterale, inviando 52 raccomandate ad altrettanti lavoratori, invitandoli lunedì 26 maggio 2014 presso Trafilerie Del Lario per ascoltare la proposta di assunzione;
   a parere degli interroganti, e come si evince dalle dichiarazioni di alcune organizzazioni di categoria datoriali e sindacali comparse sulla stampa locale il fatto che si siano utilizzate strutture di un interlocutore fuori provincia ha comportato il venir meno di una buona pratica consolidata nel territorio dove le organizzazioni di categoria – datoriali e sindacali – da sempre conducono trattative riguardanti ristrutturazioni aziendali con spirito collaborativo e costruttivo affinché si raggiungano i migliori obiettivi comuni;
   in un momento di grave crisi economica e occupazionale sarebbe ancora più deleterio il tentativo di spezzare il positivo dialogo che quotidianamente le realtà locali che rappresentano le diverse parti portano avanti;
   la Fiom in data 27 maggio 2014 ha depositato presso il tribunale di Lecco un ricorso contro Celik Halat ve Tel Sanayii A.S, per atteggiamento antisindacale ai sensi dell'articolo 28, legge n. 300 del 1970, avente come oggetto, la violazione della procedura ex articolo 47 della legge n. 429 del 1990;
   i lavoratori sono tuttora in presidio e assemblea permanente, anche se purtroppo i 52 lavoratori hanno sottoscritto e sono disponibili ad accettare le condizioni poste dalla società Celik Halat pur di avere un posto di lavoro. Le altre maestranze continueranno ad attivare, tutte le iniziative che saranno necessarie per difendere il loro posto di lavoro –:
   se non ritenga urgente convocare un tavolo di trattative con tutte le parti sociali interessate al fine di salvaguardare i livelli occupazionali ma anche il futuro del sito produttivo in questione;
   se non reputi opportuno favorire, per quanto di competenza, l'applicazione del contratto di solidarietà, che permetterebbe di salvaguardare gli attuali livelli occupazionali e di conservare le professionalità, che poi potranno essere riassorbite nell'arco dei tre anni. (4-05141)

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POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI

Interrogazione a risposta in Commissione:


   TERROSI, OLIVERIO, CARRA, COVA, ZANIN, CENNI, SBROLLINI, ANTEZZA, COVELLO, TENTORI, ALBINI e VENITTELLI. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   secondo le notizie emerse sulla stampa nazionale in data 10 giugno 2014, i prodotti animali dal marchio di qualità sarebbero in pericolo, con potenziali gravi ripercussioni sia sulla salute dei consumatori sia sull'immagine del Paese;
   stando infatti all'indagine che ha visto impegnati oltre 300 carabinieri dei Nas di Perugia e dell'Arma territoriale coordinati dalla procura umbra, gli indagati dell'operazione «Lio» partita nel 2011 che ha portato al sequestro di oltre 4 milioni di euro di carni bovine, con marchi auricolari contraffatti e dichiarati falsamente di razza pregiata, sarebbero 65, distribuiti in almeno 21 province italiane, nelle regioni: Umbria, Toscana, Lazio, Campania, Puglia, Lombardia, Abruzzo, Marche, Basilicata, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte;
   la prima fase dell'indagine (2011) ha portato alla scoperta di un traffico illecito di bovini colpiti da malattie infettive, tra cui tubercolosi, brucellosi e blue tongue, alcune delle quali trasmissibili all'uomo. Sembrerebbe che gli animali, nati in aziende dell'Italia meridionale e insulare, fossero tuttavia avviati alla macellazione grazie all'intermediazione di due aziende, una perugina e una aretina, nonché di allevatori e medici veterinari che sarebbero riusciti a fare eludere i controlli sanitari facendo apparire sani i bovini. Nella recente seconda fase delle indagini, i militari hanno ricostruito la vasta organizzazione criminale in cui erano a vario titolo coinvolti allevatori, autotrasportatori e medici veterinari delle Asl del Centro-Sud (Perugia, Arezzo, L'Aquila, Foggia, Potenza e Matera), dediti alla falsificazione di passaporti e marchi auricolari che avrebbero permesso di introdurre sul mercato bovini di razza ed età diverse da quelle certificate dai documenti. Sarebbero in corso sequestri di allevamenti di bovini vivi per un valore inestimabile –:
   se trovi conferma quanto riportato sulla stampa e quali misure di contenimento siano state adottate e quali interventi siano stati pianificati per evitare il ripetersi della pericolosa situazione esposta in premessa;
   se corrisponda al vero la notizia che dei 500 capi sequestrati nel 2011, in cui furono riscontrate carni infette (ad esempio, da tubercolosi o brucellosi o blue tongue), il ritiro sia avvenuto prima della commercializzazione e che nessun capo sia realmente giunto al consumatore;
   se non si reputi opportuno, al fine di tutelare sia la salute dei cittadini sia l'economia del settore, già gravemente depressa, assumere iniziative per inasprire ed applicare la normativa circa la tracciabilità dei prodotti alimentari in tutte le fasi al fine di tutelare sia il consumatore che il produttore e preservare il marchio «made in Italy» da contaminazioni.
(5-02989)

Interrogazione a risposta scritta:


   ALBERTI. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   la Franciacorta è una zona collinare che comprende numerosi comuni, tutti della provincia di Brescia e si estende tra l'estremità meridionale del Lago d'Iseo e la città capoluogo;
   la Franciacorta è soprattutto una delle più importanti zone viti-vinicole del mondo con prevalente vocazione spumanticola, con marchio docg di altissima qualità, già riconosciuta dal 1967 con Decreto del Presidente della Repubblica, come zona a «Denominazione di Origine»;
   l'articolo 21 del decreto legislativo n. 228 del 18 maggio 2001, al comma 1 prevede che lo Stato, le regioni e gli enti locali tutelino, la tipicità, la qualità, le caratteristiche alimentari e nutrizionali, nonché le tradizioni rurali di elaborazione dei prodotti agricoli e alimentari a denominazione di origine controllata (DOC), a denominazione di origine controllata e garantita (DOCG), a denominazione di origine protetta (DOP), a indicazione geografica protetta (IGP) e a indicazione geografica tutelata (IGT);
   la tutela di queste aree è realizzata, in particolare, mediante la definizione dei criteri per l'individuazione delle aree non idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti e l'adozione di tutte le misure utili per far sì che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all'ambiente;
   in data 19 luglio 2006, la Società «ASM Brescia s.p.a.» (ora «Aprica s.p.a.», gruppo «a2a s.p.a») ha richiesto alla Regione Lombardia la pronuncia di compatibilità ambientale ai fini dell'ottenimento dell'autorizzazione per la realizzazione e esercizio della «Discarica controllata per rifiuti speciali non pericolosi Bosco Stella» in un'area al confine tra i Comuni di Castegnato (BS) e Pademo Franciacorta (BS), comune della Franciacorta interessato dalla presenza di coltivazioni di pregio (DOC DOCG IGT);
   il nuovo sito verrebbe collocato a poche decine di metri da una discarica dismessa non correttamente impermeabilizzata, che ha già causato l'inquinamento della prima falda acquifera;
   in particolare, in questa zona vi è una concentrazione di numerose criticità ambientali tra cui discariche in esercizio o cessate, attività estrattive, siti inquinati da PCB e cromo VI da bonificare, insediamenti industriali, arterie di grande comunicazione;
   durante l’iter della VIA, TARPA di Brescia, i Comuni interessati e l'ASL Brescia, hanno già espresso diverse valutazioni negative sull'impatto ambientale del progetto segnalando il mancato rispetto della normativa vigente;
   i Comitati «Salute e Ambiente di Ospitaletto e Castegnato», hanno più volte segnalato la netta contrarietà dei cittadini al progetto, raccogliendo più di novemila firme contro questa discarica –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza di quanto sopra esposto;
   se sussistano rischi di compromissione dell'area nella quale insiste la produzione marchio docg di altissima qualità Franciacorta, già riconosciuta dal 1967 con Decreto del Presidente della Repubblica alla luce del progetto della discarica «Bosco Stella»;
   se non ritengano opportuno intervenire al fine di evitare qualunque danno all'immagine della Franciacorta e alla Qualità delle colture viti-vinicole presenti sul territorio e in che forma;
   se non si ritenga opportuno in via generale valutare se la regolamentazione dei fattori di pressione ambientale, degli impatti ambientali dei progetti e dei rischi cumulativi, sulle risorse agricole, ambientali, sugli ecosistemi e sulla salute dei cittadini residenti garantiscano a sufficienza le esigenze di protezione di tali valori. (4-05127)

SVILUPPO ECONOMICO

Interrogazione a risposta in Commissione:


   DURANTI. — Al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   nel 2011, sull'onda del IV Conto energia ed in linea con il piano di riconversione aziendale, il gruppo Marcegaglia dismetteva la produzione di caldaie industriali per accettare la sfida del fotovoltaico, inaugurando la fabbrica di Taranto adibita alla produzione di «laminati fotovoltaici flessibili in silicio amorfo», investendo nel sito pugliese 15 milioni di euro fra fondi privati e pubblici, e contando alla partenza 170 addetti. Obiettivo dichiarato quello di rendere il capoluogo jonico la capitale del fotovoltaico italiano;
   dalla metà del 2013, con la giustificazione della crisi del settore del fotovoltaico, il gruppo Marcegaglia ha mostrato la volontà di procedere con la dismissione del sito di Taranto. Nello specifico, «la sospensione della attività produttiva dello stabilimento è proclamata per il 18 novembre, alla scadenza della cassa ordinaria in corso» (come si-evince dai comunicati dell'azienda stessa, e da organi di stampa). A seguito di questi eventi le organizzazioni sindacali hanno proclamato lo stato di agitazione;
   il giorno 10 dicembre 2013, presso il Ministero dello sviluppo economico in Roma si è tenuto un tavolo di confronto con oggetto la vertenza Marcegaglia Buildtech di Taranto alla presenza del sottosegretario di Stato professor De Vincenti. Nel corso dell'incontro, che seguiva quello tenutosi sempre presso il Ministero dello sviluppo economico in data 22 novembre 2013, la società confermava la mancanza di presupposti per il prosieguo delle attività produttive del sito di Taranto e, prendendo atto delle sollecitazioni provenienti dalle istituzioni e dalle organizzazioni sindacali (dopo aver, in data 2 dicembre 2013 avviato le procedure di Cassa integrazione guadagni straordinaria per crisi), incaricava la società «PRAXI» di ricercare una potenziale soluzione di reindustrializzazione che consentisse ad eventuali soggetti terzi interessati l'avvio di una diversa attività produttiva sul sito in questione;
   durante il 2014 si sono tenuti diversi tavoli di confronto volti a monitorare la situazione della «Buildtech» di Taranto e gli avanzamenti delle operazioni di riqualificazione messe in campo dalla società «PRAXI». Per ultimo, il 20 maggio 2014, si è tenuto un incontro al Ministero dello sviluppo economico a seguito del quale le organizzazioni sindacali tarantine hanno dichiarato che: «la PRAXI, l'azienda incaricata ad effettuare lo scouting per la reindustrializzazione del sito, non ha portato nulla di nuovo rispetto ai contatti in essere con due aziende straniere interessate al fotovoltaico, comunicando di aver allargato la ricerca anche ad altri settori merceologici, tipo la logistica portuale e l'industria aerospaziale, ma di non aver avuto alcun tipo di riscontro ad oggi. Il tempo, sta scorrendo inesorabilmente e l'anno di Cassa integrazione straordinaria per crisi sta scadendo. Pertanto, come organizzazioni sindacali, siamo seriamente preoccupati visto lo stato dell'arte della vertenza, a questo sommiamo l'indifferenza della stessa azienda Marcegaglia che pensa di risolvere i problemi degli stabilimenti al nord Italia, cercando di trasferire una linea di produzione di pannelli coibentati, lasciando a Taranto disoccupati e capannoni vuoti.»;
   il 14 aprile 2014 Emma Marcegaglia viene nominata presidente ENI;
   il 15 aprile 2014 da organi di stampa (fra cui la repubblica.it si viene a conoscenza delle intenzioni di Emma Marcegaglia (tramite la direzione della Marcegaglia Buildtech) di chiudere il sito di Milano di viale Sarca 336, che occupa 169 persone. L'intenzione della azienda, secondo le parole del dirigente Fabrizio Prete, è quella di trasferire la produzione a «Pozzolo Formigaro», in provincia di Alessandria. Decisione, questa, contestata duramente dalle organizzazioni sindacali, che denunciano le problematiche logistiche a cui saranno sottoposti gli operai con spostamenti quotidiani di 400 chilometri fra andata e ritorno. Alla base della decisione, sempre secondo le organizzazioni sindacali, ci potrebbe essere una operazione di speculazione dato che la sede Buildtech di Milano si trova al centro del «Bicocca Village», zona ambita dal punto di vista edilizio;
   allo stato attuale, la situazione dello stabilimento «Buildtech» di Taranto risulta bloccata. Non ci sono reali soluzioni praticabili che permettano la messa in sicurezza dei lavoratori coinvolti, la cui Cassa integrazione straordinaria scadrà fra 6 mesi. Per questo, le segreterie territoriali delle organizzazioni sindacali in data 4 giugno 2014, hanno scritto una lettera aperta alla regione Puglia, al comune di Taranto e ai parlamentari pugliesi e hanno indetto per la mattina del 16 giugno un sit in sotto la sede della prefettura per tenere alta l'attenzione sulla vertenza dei lavoratori dello stabilimento Marcegaglia Buildtech di Taranto. Le organizzazioni sindacali sottolineano: «Dopo gli ultimi incontri romani non è scaturito niente di nuovo, invitiamo oggi tutti i soggetti rappresentativi del territorio ad unirsi con noi nella vertenza drammatica che vede coinvolte 130 famiglie. Chiederemo un intervento del Prefetto per sensibilizzare il Ministero dello Sviluppo Economico in vista della programmata convocazione entro il mese di giugno, in maniera da prospettare con la dovuta attenzione e una possibile ed auspicata soluzione della vertenza» –:
   se non si intendano riconvocare al più presto le parti, e comunque non oltre la fine di giugno 2014, al fine di verificare lo stato delle operazioni di riqualificazione messe in campo dalla società «PRAXI» e di scongiurare il pericolo della scadenza dei termini della cassa integrazione straordinaria senza chi vi siano altre soluzioni praticabili;
   quali iniziative, per quanto di competenza, intendano assumere per garantire il mantenimento degli impegni assunti da «Marcegaglia Buildtech». (5-02993)

Ritiro di una firma da una mozione.

  Mozione De Maria e altri n. 1-00208, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 15 ottobre 2013: è stata ritirata la firma del deputato Mogherini.

Ritiro di una firma da una interrogazione.

  Interrogazione a risposta scritta Tofalo e altri n. 4-02615, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 21 novembre 2013: è stata ritirata la firma del deputato Luigi Di Maio.