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XVII LEGISLATURA

Allegato B

Seduta di Mercoledì 14 maggio 2014

ATTI DI INDIRIZZO

Mozione:


   La Camera,
   premesso che:
    in ambito europeo la fiscalità è uno dei settori rimasti di competenza degli Stati membri, eccezion fatta per le imposte indirette, oggetto di tendenziale armonizzazione. Infatti, spetta ai governi, sulla base del principio di «preservazione dei sistemi nazionali», riscuotere le imposte e fissare le aliquote fiscali;
    nello specifico, la politica fiscale nell'Unione europea è costituita da due componenti: la fiscalità diretta, che rimane di competenza esclusiva degli Stati membri in funzione delle esigenze e degli obiettivi della loro politica interna, e la fiscalità indiretta, che interessa la libera circolazione delle merci e la libera prestazione dei servizi. Per quanto concerne la fiscalità indiretta l'articolo 113 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (Trattato sul funzionamento dell'Unione europea) prevede l'armonizzazione dell'imposta sul valore aggiunto e delle altre imposte indirette in funzione dello sviluppo del mercato interno, evitando di falsare la concorrenza tra gli Stati membri;
    in merito alla fiscalità diretta, di cui all'articolo 115 del (Trattato sul funzionamento dell'Unione europea) si dispone il ravvicinamento (non l’«armonizzazione») delle legislazioni nazionali che direttamente incidono sull'instaurazione o sul funzionamento del mercato interno;
    le politiche fiscali non rientrano, dunque, tra i settori di competenza esclusiva dell'Unione la quale limita le disposizioni fiscali agli articoli 110: «Nessuno Stato membro applica direttamente o indirettamente ai prodotti degli Stati membri imposizioni interne, di qualsivoglia natura, superiori a quelle applicate direttamente o indirettamente ai prodotti nazionali similari. Nessuno Stato membro applica ai prodotti degli altri Stati membri imposizioni interne intese a proteggere indirettamente altre produzioni» e 111: «I prodotti esportati nel territorio di uno degli Stati membri non possono beneficiare di alcun ristorno di imposizioni interne Cfre sia superiore alle imposizioni ad essi applicate direttamente o indirettamente» del (Trattato sul funzionamento dell'Unione europea);
    il ruolo dell'Unione è circoscritto al garantire che le norme fiscali nazionali e le decisioni prese dai Governi in materia di aliquote fiscali siano coerenti con gli obiettivi europei in materia di occupazione; non ostino il principio della libera circolazione di beni, servizi e capitali all'interno dell'Unione; non conferiscano alle imprese di un Paese un indebito vantaggio sui concorrenti di altri Paesi; non costituiscano una discriminazione nei confronti dei consumatori, dei lavoratori e delle imprese di altri Paesi europei;
    tuttavia, la diversità dei sistemi fiscali negli Stati membri dell'Unione è fonte di dumping fiscale, un fenomeno, solo apparentemente nuovo, in forte ascesa che sta generando distorsioni e casi di concorrenza non solo tra le imprese presenti nel territorio dell'Unione europea ma anche tra gli stessi Stati;
    nello specifico, il termine dumping fiscale indica una pratica distorsiva adottata da uno Stato e consistente nel ribasso di aliquote e pressione tributaria al fine di attrarre contribuenti da altre parti del mondo per trarne guadagni supplementari sul fronte delle imposte dirette e sui loro consumi in loco. In tal modo negli ultimi anni alcuni Stati membri dell'Unione hanno attratto imprese e persone fisiche nel proprio territorio a detrimento di altri Paesi dell'Unione che, avendo un regime fiscale meno favorevole, vedono diminuire contribuenti e imprese che delocalizzano l'attività in Paesi che presentano aliquote e pressione tributaria minori. Il fisco diviene un potente strumento per manipolare la competizione economica;
    come premesso il fenomeno non è nuovo. Si era espresso al riguardo il Parlamento europeo che, con una risoluzione approvata il 29 maggio 1997, aveva manifestato preoccupazione e rilevato le dimensioni sempre più vaste e pericolose del dumping fiscale;
    tuttavia, il monito del Parlamento europeo è rimasto inascoltato nonostante inizino a emergere una serie di squilibri in Europa tra i Paesi che presentano un sistema fiscale soft e altri che incominciano a perdere in termini di competitività e vedono la crescente delocalizzazione delle proprie imprese;
    proprio grazie all'assenza di regole fiscali omogenee, le imprese vengono messe nelle condizioni di poter scegliere il sistema fiscale più favorevole, creando o spostando filiali operative nei Paesi dell'eurozona in cui la fiscalità è più conveniente;
    si tratta di Paesi come l'Olanda, l'Austria, il Lussemburgo, l'Irlanda e, fuori dalla Unione europea la Svizzera che, offrendo un regime fiscale e aliquote più convenienti per favorire la permanenza delle imprese ma anche per attirare imprese estere, praticano apertamente una politica di dumping fiscale tanto da aver attirato nei propri confini migliaia e migliaia di sedi legali di imprese con attività reale ovvero profitti raccolti in altri Paesi dell'Unione;
    la Serbia da tempo offre aliquote basse ed incentivi a chi investe su nuove attività o vi trasferisce unità produttive. L'Irlanda presenta tasse particolarmente basse sull'attività delle società (sui redditi da attività commerciale l'aliquota irlandese del 12,5 per cento è di due volte inferiore alla media dell'eurozona), i Paesi Bassi sono specializzati nel fornire particolari facilitazioni alle holding e il Lussemburgo (la cui IVA è inferiore del 7 per cento rispetto a quella italiana), l'Irlanda e la Gran Bretagna (il prelievo sulle società è del 24 per cento) sono meta preferita delle multinazionali specie quelle che operano in internet come Google (quest'ultima società nel 2011 ha pagato in Gran Bretagna 10 milioni di dollari di tasse a fronte di oltre 4 miliardi di dollari di fatturato), Amazon e Starbucks;
    i Paesi del sud-est asiatico così come anche i Paesi dell'Europa dell'est, nuovi membri dell'Unione europea forte è il timore che dietro questa concorrenza sleale ci siano anche le attività di lobbing di molti imprenditori che, se non considerano vantaggiosa la fiscalità in patria, spingono gli Stati ad applicare pratiche di dumping fiscale minacciando la delocalizzazione, con conseguente drastica diminuzione di posti di lavoro;
    la delocalizzazione non riguarda solo le industrie tradizionali ad alta intensità di manodopera (come l'industria tessile o quella calzaturiera), ma anche quelle a prevalenza di capitale (come quella dell'acciaio, dei macchinari, l'industria navale e aeronautica e delle attrezzature elettroniche), nonché importanti aree del settore servizi (come lo sviluppo di software o i servizi di informazione e logistici). Sono evidenti le conseguenze sociali del fenomeno: la delocalizzazione concorre fortemente a creare un deserto industriale che impoverisce il territorio già colpito da crisi occupazionale e in molti Paesi europei è riscontrabile una diffusa tendenza al trasferimento di stabilimenti, che, nell'intento di ottenere guadagni speculativi a breve termine, genera disoccupazione e mette in pericolo la stabilità sociale dell'area interessata;
    anche in Italia si assiste al fenomeno di un numero sempre più elevato di delocalizzazioni di imprese verso l'estero. In data 29 gennaio 2014 il consiglio di amministrazione di Fiat spa deliberava il definitivo abbandono dell'Italia da parte del gruppo attraverso la fusione con Chrysler Group nella società Fiat Chrysler Automobiles N.V. (FCA), stabilendone, contestualmente, sede legale in Olanda e residenza fiscale in Gran Bretagna. La precedente Newco nascente dalla fusione con la CNH sarebbe stata costituita nei Paesi Bassi;
    la diversità dei sistemi fiscali all'interno dell'area euro e la mancanza di regole crea una tax competition piena e senza limiti, dannosa non solo economicamente ma anche socialmente e politicamente perché produce l'effetto negativo di indebolire il collegamento tra prelievo fiscale e spesa sociale;
    si corre il rischio che la competizione fiscale sia utilizzata strumentalmente al ribasso dagli Stati più ricchi per raggiungere non solo l'obiettivo economico di attirare investimenti nei loro territori, ma anche quello politico di appiattire la spesa sociale dei Paesi meno prosperi che sono costretti ad aumentare il carico fiscale per i lavoratori dipendenti e per le imprese residenti o a tagliare la spesa pubblica, determinando un peggioramento delle prestazioni sociali, per fare fronte alla diminuzione di entrate tributarie derivanti dall'espandersi dell'esodo di attività produttive presenti sul territorio verso altri Paesi a fiscalità privilegiata;
    anche le materie delle politiche sociali e di impiego, per lo più rimesse alle politiche dei singoli Stati, sono diversificate tali da creare anche fenomeni di cosiddetto dumping sociale che ha per effetto la delocalizzazione di imprese al di fuori dell'Italia o addirittura al di fuori dei confini europei verso economie come quelle dei Paesi dell'est Europa o asiatiche dove il costo del lavoro, gli standard normativi e di tutela del lavoro è mantenuto più basso a discapito sia delle condizioni di vita e salariali dei lavoratori sia delle imprese che mantengono i centri di produzione nel territorio italiano o europeo;
    i diversi livelli di tutela e di standard sociali nei diversi Paesi membri anziché condurre ad un innalzamento delle tutele genererebbe una concorrenza al ribasso e una riduzione dei diritti dei lavoratori;
    l'articolo 9 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea recita «Nella definizione e nella attuazione delle sue politiche ed azioni, l'Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato di fuori dei confini europei verso economie come Europa o livello di occupazione, la garanzia di un'adeguata protezione sociale, la lotta contro l'esclusione sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana». Tale disposizione ha introdotto la cosiddetta «clausola sociale orizzontale» che impone alle istituzioni europee, così come agli Stati membri, di attuare le proprie politiche e azioni tenendo conto delle esigenze occupazionali e sociali;
    allo stesso modo, il Trattato afferma di rafforzare «il pilastro economico dell'Unione europea al fine di realizzare gli obiettivi in materia di crescita duratura, occupazione, competitività e coesione sociale»;
    dunque, un'Unione e una Comunità autenticamente europee non possono prescindere dalla garanzia dei diritti sociali e dall'attuazione di una strategia concreta contro l'aumento delle disuguaglianze, della precarietà e della disoccupazione;
    occorre, pertanto, prevedere norme di contrasto alle pratiche di dumping fiscale che presentano conseguenze sociali e occupazionali negative in molti Paesi europei e in particolare in Italia,

impegna il Governo:

   a promuovere a livello europeo, alla luce del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dei ministri dell'Unione europea, il dibattito sul tema del rafforzamento della cooperazione amministrativa in materia fiscale e sociale tra gli Stati membri;
   ad avviare e sostenere in ogni possibile sede europea e internazionale, anche a livello bilaterale, interventi finalizzati all'introduzione di misure volte a prevenire, superare e contrastare le pratiche di dumping fiscale e sociale fra gli Stati membri dell'Unione per contrastare la concorrenza al ribasso e i conseguenti fenomeni di delocalizzazione di attività produttive presenti sul territorio italiano verso altri Paesi europei che presentano regimi fiscali privilegiati o più favorevoli.
(1-00464) «Ciprini, Baldassarre, Bechis, Chimienti, Cominardi, Rizzetto, Tripiedi, Gallinella, Pinna, Colonnese, Carinelli».

Risoluzione in Commissione:


   La I Commissione,
   premesso che:
    lo scorso 9 aprile 2014 l'Autorità Nazionale Anti Corruzione e per la valutazione e la trasformazione delle amministrazioni pubbliche ha trasmesso all'indirizzo del Ministro per la semplificazione e la Pubblica Amministrazione una serie di considerazioni contenute nel documento «Problemi aperti in materia di prevenzione della corruzione, trasparenza e performance e proposte di semplificazione»;
    in particolare, il documento segnalava alcune problematiche in materia di corruzione e trasparenza che i tre dirigenti hanno inteso sottoporre all'attenzione del Ministro affinché quest'ultimo si adoperasse per risolverli;
    in primo luogo si sottolinea come, con il decreto legislativo n. 39 del 2013 convertito, con modificazione, dalla legge n. 98 del 2013 che trasferisce funzioni consultive dall'Autorità al Ministero stesso, quest'ultimo debba ancora far fronte e risolvere con direttive o circolari ministeriali le «numerose questioni sollevate da pubbliche amministrazioni ed enti in ordine all'applicazione dell'articolo 3 in tema di inconferibilità di incarichi in caso di condanna per reati contro la pubblica amministrazione»;
    si riporta la rilevazione, peraltro già presente nel «Rapporto sul primo anno di attuazione della legge n. 190/2012», della opportunità di intervenire legislativamente per risolvere «l'asimmetria tra le situazioni di inconferibilità e incompatibilità previste per i dirigenti statali e quelli di amministrazioni regionali e locali di società in controllo pubblico presenti del decreto legislativo n. 39 del 2013»;
    secondo quanto sostenuto dai tre dirigenti «in generale, vanno chiariti i profili di applicazione della legge n. 190 del 2012, stante la genericità delle previsioni normative al riguardo, e i continui tentativi, promossi da più parti, per rimanere al di fuori dell'ambito di applicazione» e si riporta il caso esemplare della SEA spa che in un ricorso avrebbe richiesto l'annullamento del piano nazionale anticorruzione;
    secondo quanto riportato nel documento in oggetto, l'Autorità avrebbe segnalato inoltre le preoccupazioni relative all'ambito di riferimento degli enti economici e delle società controllate e partecipate per il quale sussistono interpretazioni (come quelle riportate nella circolare ministeriale n. 1/2014) che «limitano l'ambito soggettivo di applicazione delle norme sulla trasparenza a un settore che, come testimoniato anche da recenti fatti di cronaca, dovrebbe essere, invece, oggetto di particolare attenzione nelle politiche di prevenzione»;
    la stessa Autorità avrebbe quindi deciso, di fronte a interpretazioni dello stesso Ministero risultate essere difformi o limitative dell'applicazione della normativa, di sospendere i riscontri e i controlli in merito agli obblighi di trasparenza da parte delle società partecipate al fine di «non ingenerare ulteriori incertezze applicative»;
    circolare, quella citata, che peraltro l'Autorità avrebbe conosciuto solo attraverso la pubblicazione on line sul sito del Ministero cosa che dimostra una evidente mancanza di quel necessario coordinamento che dovrebbe sussistere tra le attività dello stesso Ministero e quelle dell'ANAC. Coordinamento che dall'Autorità ritengono fondamentale non solo per «l'efficace attuazione della normativa anticorruzione» e per «evitare condizioni di incertezza» ma soprattutto per «facilitare i flussi informativi senza pregiudicare l'attività di vigilanza»;
    l'Authority ha definito una proposta di interventi di semplificazione della normativa in materia di trasparenza e prevenzione della corruzione, rinvenibili alla pagina http://www.anticorruzione.it, inerente all'applicazione del decreto legislativo n. 150 del 2009 e della legge n. 190 del 2012 al fine di individuare un percorso coerente con l'obiettivo di assicurare efficienza, efficacia ed economicità all'azione pubblica;
    si sottolinea che valutazione dei dirigenti è divenuta una prassi generalizzata in tutte le amministrazioni, ma che è «preoccupante» come, la quasi totalità dei dirigenti abbia conseguito una valutazione non inferiore al 90 per cento del livello massimo atteso. Si delinea, secondo l'Authority un legame fortemente critico tra i risultati della valutazione individuale e il sistema di incentivi (premi in denaro);
    il  neo designato presidente dell'Autorità, Raffaele Cantone, dichiarava in una intervista a La Repubblica,  il 20 aprile 2014, che «l'obiettivo dell'Authority non è quello di combattere la corruzione già avvenuta, ma di provare a prevenirla. Questa è la grande scommessa della legge del 2012», corroborando quanto ritenuto di importanza fondamentale da chi lo ha preceduto e sostenendo quindi la necessità di risolvere le condizioni di debolezza e inefficacia insite nella normativa vigente e nel dna dell'Anac,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative affinché il documento trasmesso al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione riguardante le problematiche in materia di trasparenza e di prevenzione della corruzione sia opportunamente considerato e si traduca in un intervento diretto da parte del Ministero competente per quanto riguarda le funzioni consultive così come richiamate ai sensi della legge n. 98 del 2013 e più in generale, siano trasposte in un intervento di più ampio respiro indirizzato a migliorare il complesso normativo a disposizione dell'Autorità anticorruzione;
   a individuare una chiave interpretativa utile e non difforme da quella dell'Authority, a differenza di quanto accaduto con la circolare n. 1/2014 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione;
   ad assumere iniziative per rafforzare, efficientare e concretizzare quindi l'attività dell'Anac salvaguardandone il mandato e quella capacità di azione preventiva che lo stesso presidente Cantone ha sottolineato nel corso dell'intervista del 20 aprile 2014.
(7-00370) «Dadone, Toninelli, Cozzolino».

ATTI DI CONTROLLO

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Interrogazione a risposta orale:


   FAUTTILLI. – Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 11 della legge 6 marzo 2001, n. 64, che ha istituito il servizio civile nazionale, ha istituito il Fondo nazionale per il servizio civile in cui confluisce «specifica assegnazione annuale iscritta nel bilancio dello Stato»;
   con la legge di stabilità 2014 è stato assegnato al capitolo previsto dallo stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze (21.3.3 Presidenza del Consiglio dei ministri – Fondo occorrente per il servizio civile – Cap. 2185), la somma di euro 106.051.000;
   nei primi tre mesi del corrente anno il fondo nazionale di cui all'articolo 11 della legge 6 marzo 2001, n. 64, è stato fatto oggetto di tre accantonamenti per un totale di euro 18.394.000;
   uno dei provvedimenti che ha generato questi accantonamenti è stato il decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, concernente «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini», convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, per un ammontare di euro 9.559.081;
   il predetto fondo viene impiegato, in forza del comma 3 dell'articolo 7 della legge 6 marzo 2011, n. 64, fino ad un massimo del 5 per cento per le spese di funzionamento dell'Ufficio nazionale per il servizio civile e per gli uffici regionali;
   poiché il costo lordo sostenuto dallo Stato per il servizio civile di un anno per ogni giovane è di euro 5.900, considerato che con la deduzione del 5 per cento dal totale dell'accantonamento residuano euro 9.081.127,00, sarebbero scoperte circa 1.540 posizioni di servizio civile nazionale;
   l'effetto concreto di questo accantonamento, pertanto, è la impossibilità per l'Ufficio nazionale di disporre risorse finanziare per inserire nel contingente annuale 2014, 1.540 opportunità per i giovani di svolgere il servizio civile nazionale –:
   se non ritenga necessario assumere iniziative per reperire le risorse per ripianare questo accantonamento da altri capitoli della Presidenza del Consiglio dei ministri e dare concreta attuazione al titolo della legge 7 agosto 2012, n. 135, ridando la possibilità all'Ufficio nazionale del servizio civile di usare questi fondi per ampliare il contingente annuale 2014 di avvii al servizio. (3-00829)

AFFARI REGIONALI E AUTONOMIE

Interrogazione a risposta scritta:


   ATTAGUILE. — Al Ministro per gli affari regionali e le autonomie. — Per sapere – premesso che:
   FareAmbiente è un'associazione ambientalista, nata nel 2006, che si ispira al liberalismo solidaristico. L'associazione è impegnata da anni in campagne di sensibilizzazione per promuovere lo sviluppo sostenibile, il riutilizzo dei materiali a fine ciclo di vita, il recupero di rifiuti e l'uso di energie rinnovabili;
   da comunicazione ufficiale del Dipartimento per gli affari regionali, le autonomie e lo sport è noto che il 29 aprile 2014 il Ministro interrogato ha incontrato i rappresentanti delle associazioni ambientaliste;
   le associazioni ambientaliste invitate all'incontro sono state il WWF, Legambiente, ANPANA (Associazione nazionale protezione animali natura e ambiente), LAC (Lega abolizione caccia) e OIPA (organizzazione internazionale protezione animali);
   tema dell'incontro, a cui ha preso parte anche l'Associazione italiana di agenti e ufficiali della polizia provinciale, è stato un migliore coordinamento tra la rete di volontariato e l'attività di vigilanza del territorio da parte della polizia provinciale alla luce della nuova «legge Delrio» –:
   quali siano le ragioni per il cui il Ministro interrogato non abbia ritenuto di coinvolgere nell'incontro l'associazione FareAmbiente che pure profonde il suo impegno sull'intero territorio nazionale e il cui contributo sarebbe stato rilevante nella programmazione e coordinamento tra la rete di volontariato e l'attività di vigilanza del territorio da parte della polizia provinciale. (4-04807)

AMBIENTE E TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE

Interrogazione a risposta in Commissione:


   SCUVERA e BRAGA. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   il 17 marzo 2014 la regione Lombardia ha approvato il decreto di compatibilità ambientale per la discarica di amianto-cemento di Ferrera Erbognone, in provincia di Pavia, la cui realizzazione è osteggiata dalia popolazione e per la quale varie amministrazioni locali si sono dichiarate fortemente contrarie;
   tale contrarietà è determinata dalla condizione che la discarica progettata è localizzata in un'area già fortemente compromessa dal punto di vista del rischio industriale e dell'inquinamento ambientale essendo ubicata a pochi metri dalia raffineria ENI di Sannazzaro de'Burgondi, stabilimento a rischio di incidente rilevante (RIR) e dall'inceneritore di Parona, oltre ad avere la presenza di un ossigenodotto, un gasdotto e un oleodotto che definiscono i confini di scavo della futura discarica;
   l'area in questione è un territorio a forte vocazione agricola in particolare ad uso seminativo irriguo e quindi vocata alla coltivazione del riso, condizione ritenuta escludente dal piano di gestione dei rifiuti ed è interessata da un significativo numero di colture biologiche; che risultano numerosi i corsi d'acqua e la falda acquifera è soggetta a un livello non naturale dato da un costante e significativo emungimento da parte della vicina raffineria e delle relative operazioni di bonifica;
   sulla rete stradale presente nell'area transitano anche mezzi che trasportano sostanze pericolose e infiammabili diretti e in partenza dagli stabilimenti a rischio di incidente rilevante e che tali transiti sono stati già causa di una serie di incidenti, pertanto la localizzazione della discarica appesantirebbe il traffico veicolare aggravando ulteriormente la situazione di rischio per il sistema infrastrutturale e per la popolazione;
   la realizzazione della discarica di cemento amianto aggraverebbe ulteriormente lo stato di vulnerabilità ambientale contravvenendo a quei «principio di precauzione» cui devono ispirarsi le autorità locali nei programmare l'espansione e la realizzazione di nuove attività antropiche ad elevato impatto ambientale;
   il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare si è recentemente espresso in occasione di ampliamenti di attività già presenti nell'area imponendo interventi di mitigazione/compensazione ambientale al fine di proteggere il territorio da una ulteriore grave compromissione dello stesso da parte di attività antropiche;
   la normativa della regione Lombardia che regolamenta la materia dei rifiuti contenti cemento-amianto e delle discariche monodedicate per il loro smaltimento nel territorio, prevede deroghe che riducono le condizioni di sicurezza rispetto alla normativa nazionale;
   con la delibera di giunta della regione Lombardia n. 8/1266 dei 30 novembre 2005 sono state emanate le «Linee guida per la realizzazione e la gestione delle discariche per rifiuti costituiti da materiale da costruzione contenenti amianto» che fissano le caratteristiche costruttive minime per questo tipo di discariche, ai sensi dell'articolo 6, comma 6, lettera c), applicando una deroga puntuale alla generalità dei casi. Queste linee guida introducono deroghe significative alle caratteristiche di permeabilità e spessore dei terreni previste dal decreto legislativo n. 36 del 2003 ai punti 2.4.2 e 2.4.3 dell'All. 1; inoltre elimina la necessità del rivestimento impermeabile del fondo e delle sponde della discarica;
   la risoluzione del Parlamento europeo del 14 marzo 2013 sulle minacce per la salute sul luogo di lavoro legate all'amianto e le prospettive di eliminazione di tutto l'amianto esistente (2012/2065(INI) «invita la Commissione a promuovere in tutto il territorio dell'Unione la realizzazione di centri di trattamento e inertizzazione dei rifiuti contenenti amianto, prevedendo la graduale cessazione di ogni conferimento in discarica di questi rifiuti»;
   al punto 33 la risoluzione recita: «invita la Commissione e gli Stati membri a rafforzare i controlli necessari per imporre a tutte le parti interessate, in particolare ai soggetti coinvolti nel trattamento dei rifiuti di amianto nelle discariche, il rispetto di tutte le disposizioni in materia di salute di cui alla direttiva 2009/148/CE, e a garantire che qualsiasi rifiuto contenente amianto, indipendentemente dal contenuto di fibre, sia classificato come rifiuto pericoloso ai sensi della decisione 2000/532/CE aggiornata; sottolinea che tali rifiuti devono essere smaltiti esclusivamente in specifiche discariche per rifiuti pericolosi, in conformità della direttiva 1999/31/CE, o, previa autorizzazione, essere trattati in appositi impianti, testati e sicuri, di trattamento e inertizzazione, e che la popolazione interessata deve essere informata al riguardo –:
   se il Ministro interrogato ritenga opportuno acquisire elementi in merito alla realizzazione degli interventi di istigazione e compensazione ambientale e si intenda in particolare verificare se la realizzazione di quanto descritto in premessa sia compatibile con le prescrizioni del Ministero. (5-02813)

BENI E ATTIVITÀ CULTURALI E TURISMO

Interrogazione a risposta scritta:


   SIMONE VALENTE, D'UVA, MARZANA, CARINELLI, BRESCIA, VACCA e MANLIO DI STEFANO. —Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   poche settimane fa il presidente della Casa Museo di Alessandro Manzoni, sita in Milano in via Gerolamo Morone, n. 1, ha denunciato lo stato di profondo degrado in cui versa l'abitazione dove il celebre scrittore della letteratura italiana ha vissuto per quasi 60 anni, dal 1814 al 1873;
   la casa del Manzoni, ubicata all'interno di un quartiere ricco di cultura e arte, dopo alterne vicende fu acquisita dalla Cassa di Risparmio delle provincie lombarde che la donò successivamente al comune di Milano con il vincolo di riconoscerne l'uso perpetuo ed esclusivo al Centro nazionale studi manzoniani, istituito con regio decreto legge l'8 luglio 1937. A causa della guerra, l'inaugurazione del Museo manzoniano, avvenne solo il 15 dicembre 1965;
   oggi la casa è un museo che svolge diverse attività culturali, organizza convegni, mostre e conferenze; essa dispone al suo interno di una ricca biblioteca che conserva la maggior parte delle opere relative a Manzoni e alla sua epoca. Qui vi giungono e lavorano studiosi e appassionati da ogni parte del mondo;
   allo stato attuale, purtroppo, la struttura versa in uno stato di profonda incuria. Le tristi condizioni di degrado sono facilmente visibili a chiunque (crepe nei muri, decori in cattivo stato, presenza di muffa, giardino inaccessibile) e bisognerebbe, pertanto, effettuare un'azione di riqualificazione e pensare ad un'accoglienza diversa per i visitatori. Senza alcun dubbio si ritiene indispensabile effettuare una serie di interventi strutturali tramite la creazione di un sistema di climatizzazione che preservi la biblioteca dall'umidità, un nuovo impianto di illuminazione, un piano per la sicurezza ed infine una serie di interventi di recupero per i fregi ed i soffitti, misure tutte rivolte a tenere viva una memoria storica importante. Da notizie riportate dalla stampa locale e nazionale pare che il presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo abbia annunciato qualche mese fa l'intenzione della banca di intervenire con un contributo consistente per realizzare un progetto collettivo per il quale si riterrebbe opportuno un coinvolgimento di altri soggetti istituzionali a più livelli;
   recuperare e valorizzare una figura simbolo di un periodo luminoso della nostra storia significherebbe incoraggiare l'Italia a credere nuovamente nelle proprie potenzialità;
   un tale intervento di restauro risulta urgente, oltreché strategico, nell'ottica di un ripensamento urbanistico della zona che crei attorno al museo un autentico centro culturale;
   in una recente visita il Ministro interrogato ha condiviso con l'assessore Del Corno l'idea di promuovere, da subito e per i prossimi cinque anni progetti culturali strettamente legati all'obbiettivo statutario della Fondazione recentemente costituita –:
   quali interventi il Ministro interrogante intenda porre in essere anche alla luce delle dichiarazioni al fine di recuperare questo vecchio tesoro di alto valore storico e culturale italiano al fine di renderlo una sede preziosa di visite per le scuole, per gli italiani e per i turisti di tutto il mondo, contribuendo così ad aumentare il potere di attrazione non solo di Milano ma dell'Italia tutta;
   quali misure intenda applicare per diffondere la conoscenza di questo luogo e promuovere iniziative rivolte a favorire lo studio dell'opera e del pensiero di uno dei più grandi padri della letteratura italiana. (4-04820)

ECONOMIA E FINANZE

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   COVELLO. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   la città di Corigliano Calabro importantissimo centro del cosentino, dal 30 maggio 2014, vedrà soppressa la sezione distaccata dell'Agenzia delle entrate;
   il dispositivo rientra nell'ambito del piano di razionalizzazione posto in essere dal Ministero dell'economia e delle finanze in materia di personale e di sedi logistiche;
   il comprensorio in questione ha visto in questi anni un progressivo depauperamento delle presenze istituzionali e di uffici;
   negli ultimi anni si è assistito al depotenziamento degli ospedali, delle poste, al declassamento di uffici come INAIL e INPS, fino alla soppressione del tribunale di Rossano e ora anche il ridimensionamento dell'Agenzia delle entrate;
   in quest'ultimo caso, anche in considerazione della lotta all'evasione e all'elusione fiscale in un contesto territoriali nel quale molto pervasiva è la presenza della criminalità organizzata, appare davvero molto discutibile la scelta di sopprimere la sezione staccata di tale ufficio –:
   se e quali iniziative il Governo intenda adottare per scongiurare la chiusura dell'ufficio dell'Agenzia delle entrate di Corigliano e consentirne la piena operatività anche per il futuro. (5-02792)


   PISANO e BARBANTI. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   al fine di collocare i titoli di Stato nel mercato primario, il Ministero dell'economia e delle finanze ricorre a due tipi di asta:
    a) asta competitiva in termini di rendimento per i BOT;
    b) asta marginale senza prezzo base per i titoli a medio-lungo termine (BTP, CCT, CTZ);
   l'asta competitiva, in uso per i titoli a breve scadenza, prevede che ogni richiesta degli operatori abilitati venga aggiudicata al rendimento proposto dai medesimi. Ogni partecipante può formulare fino ad un massimo di 3 richieste, purché differenziate nel rendimento di almeno un centesimo di punto. Non sono ammesse richieste prive dell'indicazione del rendimento ovvero con rendimento negativo o nullo. La richiesta minima deve essere pari a 1,5 milioni di euro, mentre quella massima è pari al quantitativo offerto in asta;
   l'asta di tipo competitivo prevede che le richieste di ciascun partecipante vengano aggiudicate al rendimento da quest'ultimo proposto fino ad esaurimento del quantitativo offerto in asta. In primo luogo, vengono soddisfatte le domande ai rendimenti più bassi e poi in ordine crescente le altre. Una volta aggiudicati i quantitativi, secondo quanto stabilito con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, ciascun intermediario deve garantire alla clientela privata che sottoscrive i titoli in asta l'applicazione del prezzo medio ponderato risultante dalla stessa asta. Tale prezzo medio ponderato di sottoscrizione in asta, affinché non si scosti dai rendimenti in linea con il mercato, viene calcolato all'interno di un range compreso fra un rendimento minimo accoglibile, mai negativo, (o rendimento di salvaguardia) e un rendimento massimo accoglibile (o rendimento di esclusione) che, calcolati durante l'asta stessa in base a formule predefinite, impediscono così l'immissione di richieste speculative;
   l'asta marginale è la modalità d'asta utilizzata per il collocamento dei titoli a medio-lungo termine. Essa prevede che i richiedenti siano aggiudicatari tutti allo stesso prezzo, detto «prezzo marginale» che viene determinato soddisfacendo le offerte partendo dal prezzo più alto fino a quando la quantità domandata non è pari a quella offerta. Il prezzo dell'ultima domanda che rimane aggiudicataria – ossia il prezzo meno elevato tra quelli offerti dai partecipanti rimasti aggiudicatari – determina il prezzo marginale e rappresenta il prezzo di aggiudicazione valido per tutti gli operatori assegnatari. Dal 2008 la determinazione del prezzo d'aggiudicazione e della quantità avviene secondo un meccanismo discrezionale in base al quale la quantità emessa di titoli non è stabilità a priori, ma è compresa tra un ammontare minimo ed un massimo annunciati con comunicato stampa alcuni giorni prima dell'asta. In particolare le nuove modalità sono entrate in vigore, per ciascuna tipologia di titoli, secondo le seguenti scadenze: dall'ottobre 2008 per i BTP e i CCT, dal gennaio 2010 per i BTP euro e dal dicembre 2011 per i CTZ. L'ammontare collocato è determinato escludendo le offerte formulate a prezzi ritenuti non convenienti sulla base delle condizioni di mercato. Ciascun operatore può formulare sino ad un massimo di 5 offerte, ciascuna ad un prezzo diverso e per un importo non inferiore a 500.000 euro di capitale nominale. Ciascuna offerta non deve essere superiore all'importo in emissione; eventuali offerte di ammontare superiore verranno accettate limitatamente all'importo medesimo. Nel caso in cui le offerte al prezzo marginale non possano essere totalmente accolte, si procede al riparto pro-quota, con i necessari arrotondamenti;
   prima delle riforma del meccanismo d'asta marginale, il sistema previgente prevedeva – al fine di evitare che il prezzo di aggiudicazione risultasse influenzato negativamente da domande non in linea con i prezzi di mercato – che venisse calcolato il prezzo di esclusione (PE), al di sotto del quale le domande non venivano prese in considerazione. Tale PE corrisponde al prezzo medio ponderato della prima 1o metà del quantitativo in emissione nell'asta diminuito di 200 punti base;
   l'esame dei meccanismi di asta – soprattutto quelli a carattere non competitivo – in uso presso le principali economie dell'Unione europea, evidenziano l'utilizzo di sistemi differenti rispetto a quelli attualmente vigenti nel nostro Paese. Nel caso della Germania, ed esempio, le aste per i Bund, Bobls, Schaetze e Bubills sono regolate dal Governo federale tedesco ai prezzi offerti da ciascun intermediario abilitato e non ad un prezzo uniforme. Le offerte a prezzi al di sopra del prezzo più basso accettato vengono assegnate in pieno, mentre le offerte a prezzi al di sotto del prezzo accettato più basso non sono accolte. Le offerte proposte nelle aste non competitive sono assegnate al valore medio dei prezzi offerti ponderato con le relative quantità e non al prezzo marginale più basso. In Austria un ammontare pari al 15 per cento del valore dell'emissione di titoli negoziata nelle aste competitive è messo a disposizione dei partecipanti per la presentazione delle offerte non competitive. L'assegnazione dei titoli viene eseguita al valore medio dei prezzi vincenti nelle aste competitive. Nel sistema francese, gli operatori abilitati possono partecipare ad aste non competitive ove vengono negoziati titoli per un ammontare limitato che sono sistematicamente ceduti a un prezzo uniforme pari al valore medio dei prezzi scontati nelle aste a carattere competitivo;
   se si adotta un'ottica più allargata, analizzando la diversa composizione dei meccanismi di asta in uso nei Paesi OCSE, si evince, come evidenziato dal rapporto dell'OECD (Blommestein, Hans J. (2009), New Challenges in the Use of Government Debt Issurance Procedures, Techniques and Policies in OECD Markets, Financial Market Trends – OECD, vol. 2009/1.), la prevalenza dei sistemi basati sui prezzi multipli o misti rispetto a quelli basati sui prezzi uniformi. Desueto resta, tuttavia, il ricorso al meccanismo dell'asta marginale su cui si basa il sistema italiano delle aste non competitive;
   i Paesi Osce che utilizzano il sistema a prezzi multipli sono: Australia, Austria, Belgio, Francia, Germania, Ungheria, Irlanda, Portogallo, Spagna, Svezia; i Paesi che utilizzano il sistema a prezzi uniformi sono: Danimarca, Finlandia, Grecia, Italia, Corea, Norvegia, Regno Unito, Stati Uniti; i Paesi che utilizzano entrambe i sistemi sono: Canada, Repubblica Ceca, Islanda, Giappone, Messico, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Polonia, Repubblica Slovacca, Turchia (fonte: Blommestein, 2009 – OECD). Il meccanismo dell'asta spagnola comprende elementi sia uniforme che prezzi aerei –:
   quale sia la serie storica delle quantità e dei prezzi, espressi in valuta corrente, dei titoli allocati, con le due differenti tipologie di asta – competitiva e marginale – con dettaglio delle singole offerte ricevute ed aggiudicate, a partire dall'anno 2008, evidenziando, relativamente alla seconda tipologia, le eventuali minori entrate sofferte dallo Stato a causa dell'utilizzo del sistema del prezzo marginale rispetto a quello del prezzo medio ponderato, anche al fine di comprendere le motivazioni che sono alla base del peculiare metodo di allocazione non competitiva in uso presso il nostro Paese. (5-02794)

Interrogazione a risposta scritta:


   PASTORELLI, DI LELLO, ZACCAGNINI, LOCATELLI, LABRIOLA, D'AGOSTINO, DI GIOIA e PELLEGRINO. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   con la circolare 36/E/2013 l'Agenzia delle entrate ha interpretato la disciplina fiscale vigente in relazione agli impianti, anche di tipo domestico, per la produzione di energia fotovoltaica, chiarendo alcuni dubbi sorti nella prassi;
   secondo tale circolare nella determinazione della rendita catastale degli immobili devono essere inclusi i pannelli fotovoltaici, in quanto ne determinano il carattere sostanziale di centrale elettrica e, quindi, di «opificio» (cat. D/1);
   sempre in detta circolare si chiarisce che, nel caso in cui un'unità immobiliare ospiti un impianto per la produzione di energia fotovoltaica, è necessario procedere, con dichiarazione di variazione da parte del soggetto interessato, alla rideterminazione della rendita dell'unità immobiliare, allorquando l'impianto fotovoltaico ne incrementi il valore capitale (o la relativa redditività ordinaria) di una percentuale pari al 15 per cento o superiore;
   tale ultima percentuale, estremamente esigua, ha come conseguenza quella di dover rideterminare la rendita di molte unità immobiliari dotate di simili impianti, venendo così ad aumentare – inevitabilmente – la pressione fiscale, in particolare quella locale, su questi cespiti;
   un simile risultato vanificherebbe l'obiettivo, perseguito con numerose misure anche da questo Governo, di incentivare e promuovere l'utilizzo di fonti alternative di energia, specie per usi domestici;
   alla luce della difficile congiuntura economica che sta attraversando il Paese, una simile evenienza, determinando altresì la contrazione della domanda di fonti alternative di energia, non può essere tollerata e deve essere, al contrario, assolutamente scongiurata –:
   se il Ministro interrogato non reputi necessario, data la gravità della situazione, adottare, nell'ambito delle proprie competenze, le opportune iniziative, anche di carattere normativo, al fine di ridefinire l'impatto di tali sistemi di produzione di energia elettrica, specie per uso domestico, sulla fiscalità nazionale e locale. (4-04811)

GIUSTIZIA

Interrogazione a risposta in Commissione:


   ZAMPA, VERINI, D'INCECCO, IORI, ANTEZZA e GULLO. — Al Ministro della giustizia, al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione. — Per sapere – premesso che:
   il Ministero della giustizia ha recentemente trasmesso per il concerto al Ministro per la semplificazione e pubblica amministrazione lo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri su proposta del Ministro della giustizia recante «regolamento di organizzazione del ministero della giustizia e riduzione degli uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche del ministero della giustizia»;
   il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri dà attuazione alla riduzione degli uffici del Ministero della giustizia e delle relative dotazioni organiche di personale dirigenziale e non dirigenziale previste dalle disposizioni legislative succedutesi dal 2006 al 2012 e prevede, al tempo stesso, la riorganizzazione del Ministero della giustizia e la razionalizzazione delle relative strutture, rese necessarie dalla riduzione degli uffici e delle relative dotazioni organiche di personale;
   il regolamento dà inoltre attuazione al decentramento delle funzioni amministrative del Ministero della giustizia previsto dal decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240, introducendo le necessarie modificazioni del previgente assetto organizzativo e operando una rideterminazione delle articolazioni periferiche dirigenziali di livello generale dell'amministrazione giudiziaria;
   pur comprendendo la ratio insita nella riorganizzazione nell'ottica di un contenimento dei costi nella più ampia politica di spending review, va tuttavia rilevato che – a meno che non si voglia rispolverare la scure dei tagli lineari – il contenimento dei costi va fatto senz'altro rispettando una logica di snellimento e razionalizzazione delle progressività, avendo tuttavia cura di mantenere – se non rafforzare – quelle funzioni, direzioni o gli uffici preposti o delegati alla trattazione di materie delicate e complesse, difficilmente accorpabili con altre direzioni;
   in particolare, tale decreto del Presidente del Consiglio dei ministri prelude ad una riorganizzazione del dipartimento per la giustizia minorile oggetto di una profonda ristrutturazione attraverso la soppressione di due direzioni generali e il trasferimento alla direzione generale degli affari giuridici e legali del dipartimento per gli affari di giustizia della funzione di gestione del contenzioso nelle materie di competenza del dipartimento per la giustizia minorile. Per effetto di tale riorganizzazione il dipartimento per la giustizia minorile continuerà ad esercitare le funzioni e i compiti attualmente attribuiti dal decreto del Presidente della Repubblica n. 55 del 2001 ma attraverso una sola direzione generale: la direzione generale del personale, dei beni e servizi e per l'attuazione dei provvedimenti giudiziari;
   il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri dà inoltre attuazione al decentramento delle funzioni amministrative del Ministero della Giustizia previsto dal decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240, operando una rideterminazione delle articolazioni periferiche dirigenziali di livello generale dell'amministrazione giudiziaria (come, consentito dall'articolo 6 del decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240). Nello specifico il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri stabilisce che l'azione ministeriale si attui mediante le articolazioni di decentramento su base regionale costituite dai provveditorati dell'amministrazione penitenziaria (legge 15 dicembre 1990, n. 395), dalle direzioni regionali dell'organizzazione giudiziaria (decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240), che sono uffici dirigenziali di livello generale, e dai centri per la giustizia minorile (decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272) che sono uffici dirigenziali di livello non generale;
   risulta, dunque, evidente che da tale riorganizzazione scaturirebbe la soppressione a livello territoriale dell'autonomia dei centri per la giustizia minorile, trasferendone le funzioni alle direzioni regionali dell'organizzazione giudiziaria;
   la questione della riorganizzazione del dipartimento per la giustizia minorile non è nuova. Già in passato il dipartimento è stato oggetto di attenzione e ciò ha più volte sollevato la contrarietà degli operatori e degli enti che si occupano di giustizia minorile, palesando il rischio di una sottovalutazione della specificità del settore e di iniziative in controtendenza rispetto agli orientamenti emersi, atteso che da tempo gli addetti ai lavori discutono circa la necessità di istituire un apposito «tribunale della famiglia, dei minori e delle persone» che avochi a sé ogni competenza in materia. In questa logica, il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri contrasterebbe anche con la prospettiva di riforma del processo minorile e di famiglia (di cui lo stesso Ministero della giustizia pare sia intenzionato ad occuparsi) che va nella direzione del rafforzamento della specializzazione e non del suo «smantellamento»;
   in questo contesto, il timore è che tale riorganizzazione possa causare l'abbandono – di fatto – della formazione e della specializzazione del personale addetto ai servizi minorili, il trasferimento di funzioni e compiti del settore penale minorile a strutture normalmente utilizzate per gli adulti e la sostanziale soppressione, a livello territoriale, dei centri per la giustizia minorile (da cui dipendono: centri di prima accoglienza, istituti penali per minorenni, comunità pubbliche e uffici di servizio sociale per i minorenni, dotate di personale altamente specializzato);
   pertanto, parrebbe che la modalità utilizzata per procedere alla riorganizzazione del Ministero della giustizia e alla riduzione degli uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche del Ministero non tenga sufficientemente in conto la specificità dell'intervento, che deve attuarsi in favore dei minorenni autori di reato, atteso che detta specificità necessita di essere garantita sia sul versante giudiziario che sul versante organizzativo –:
   se i Ministri interrogati – per quanto di propria competenza – non intendano assicurare che tale riorganizzazione prevista dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri non leda in alcun modo i principi fondamentali sanciti in materia minorile dalla Carta Costituzionale, dalla normativa nazionale e internazionale, dalla Convenzione O.N.U. sui diritti dell'infanzia e dalle raccomandazioni del Consiglio d'Europa in tema di giustizia minorile;
   quali iniziative il Ministro della giustizia intenda porre in essere per rafforzare la specificità del tema afferente ai minori presenti nel circuito penale e del loro diritto ad un trattamento che ne comprenda e ne valorizzi appieno la specificità, tenuto conto della loro «personalità in evoluzione». (5-02803)

INFRASTRUTTURE E TRASPORTI

Interrogazioni a risposta scritta:


   DEL GROSSO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   la regione Abruzzo rischia di perdere la piena operatività dell'aeroporto di Pescara;
   appare infatti chiara l'intenzione del Governo tramite Enav (Ente nazionale assistenza al volo) di inserire l'aeroporto tra quelli di scarsa rilevanza nazionale, ovvero inseriti in una lista di cosiddetti «aeroporti minori» che vedranno la diminuzione dei servizi offerti dall'Enav in termini di orario di apertura dello scalo, di infrastrutture atte all'assistenza al volo nonché alla riduzione dei servizi di manutenzione tecnica degli impianti;
   tale inserimento nella classe di aeroporti minori contrasta in maniera incomprensibile con lo sbandierato successo da parte della regione che pensava di aver ottenuto dal Governo il riconoscimento di «Aeroporto di interesse nazionale» nel Piano nazionale aeroporti, sia nella sua attuale versione del Ministro Lupi che in quella precedente del Ministro Passera;
   questo ridimensionamento potrebbe avere delle ripercussioni sulla capacità del gestore aeroportuale Saga di attrarre nuove compagnie o di riuscire a trattenere gli attuali operatori;
   siamo certi che un'infrastruttura aeroportuale rappresenta una risorsa per tutta la regione ed è senza dubbio positivo il bilancio in termini di benefici economici apportati sia agli operatori del settore «diretto» (imprese del settore trasporto) che a quelli del settore «indiretto» (imprese dei servizi e del turismo);
   infine, ma forse più importante, va considerato anche il ruolo di pubblico servizio che l'aeroporto d'Abruzzo svolge sul territorio: risulta infatti sede del nucleo operativo della guardia costiera, unico nell'adriatico, e operativo H24 con i suoi velivoli ATR42 come addetto alla ricerca e soccorso a mare in caso di emergenze, quali ad esempio ricerca e salvataggio di naufraghi o imbarcazioni alla deriva. Oltre ad ospitare le sedi dei reparti operativi della polizia di Stato, della Guardia di finanza, dei vigili del fuoco e del Corpo forestale, ed il servizio di emergenza medica elicotteri del 118 –:
   come sia possibile che la regione Abruzzo rischi il ridimensionamento del proprio unico scalo operativo (inserito nella classe «E» tra gli scali serviti da Enav, le cui classi E ed F sono oggetto delle riduzione dei servizi) mentre la regione Sardegna, ad esempio, riesce ad inserire ben 3 aeroporti tra quelli di classi di servizio superiori ( classe da «A» a «D»), compreso l'aeroporto di Alghero che non era nemmeno incluso tra quelli di interesse nazionale del Piano nazionale aeroporti. (4-04808)


   VILLAROSA, CANCELLERI, MARZANA, LOREFICE, D'UVA e GRILLO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   la sicurezza delle nostre strade ed autostrade dovrebbe essere una priorità assoluta se consideriamo l'incidenza di taluni eventi sulle aspettative di vita di noi tutti. Alcune strade, ma anche alcuni tratti di autostrade, sono divenute «famose» guadagnandosi il macabro appellativo di «strada della morte»;
   la Sicilia si distingue in questa particolare classifica e non sono pochi i tratti della A20 Me-Pa che presentano un alto indice di incidenti stradali mortali. Uno dei tratti più pericolosi è indubbiamente il tratto della A20 tra lo svincolo di Patti ed il viadotto Montagnareale. Questo tratto di autostrada di poche centinaia di metri in dieci anni ha provocato la morte di otto persone oltre ad un numero abbastanza elevato di feriti;
   il tratto incriminato è molto pericoloso perché presenta una serie di svolte ripetute in sequenza, destra sinistra, dopo un lungo tratto rettilineo e, nonostante la segnaletica ed i segnali di pericolo ben evidenti, spesso avvengono incidenti anche molto gravi e non poche volte i mezzi sono letteralmente volati fuori dal tratto autostradale precipitando dal viadotto;
   a seguito di uno di questi tragici incidenti mortali, nel 2007 il Consorzio autostrade siciliane fece effettuare dei lavori molto importanti sulle barriere laterali per aumentare il grado di sicurezza del tratto autostradale. Durante questi lavori il tratto di autostrada subì un restringimento della carreggiata, obbligando gli utenti ad utilizzare una sola corsia a velocità molto ridotta con il risultato di non aver annullato il verificarsi di incidenti di grave entità;
   da considerare anche l'aumento dei rischi in caso di precipitazioni atmosferiche di importante potenza e durata che nella zona sono abbastanza frequenti e che fanno spesso diventare ancora più pericoloso quel tratto di autostrada –:
   se sia a conoscenza della pericolosità del tratto autostradale oggetto della presente interrogazione e se esistano dati statistici significativi che attestino tale pericolosità sia del tratto autostradale sopra citato sia di tutti gli altri tratti autostradali siciliani dove si osserva una anomala frequenza di incidenti mortali;
   se intenda prendere tutte le misure possibili per garantire un giusto grado di sicurezza, non ultima l'eventualità di sottoporre quel tratto di autostrada a restringimento di carreggiata permanente a corsia singola per un certo periodo di tempo, in modo da verificare l'eventuale probabile differenza sul numero totale di incidenti relativi al tratto preso in considerazione e sulla percentuale di incidenti mortali del tratto autostradale stesso. (4-04817)


   TINO IANNUZZI. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   il collegamento stradale Salerno-Avellino, nel tratto fra Mercato San Severino e Salerno, svolge una funzione di indubbia valenza nazionale; infatti, tale arteria collega le autostrade A30 Caserta ed A3 Salerno-Reggio Calabria, fungendo, quindi, da raccordo autostradale;
   di conseguenza, questa rete stradale è interessata da un enorme volume di traffico che, spesso, determina veri e propri ingorghi con code chilometriche di veicoli che paralizzano per ore la circolazione e che rappresentano un pericolo per gli utenti; il potenziamento e l'adeguamento di tale strada sono necessari per alleggerire e per rendere scorrevoli il traffico e le comunicazioni verso il Sud e dal Sud, attraverso il collegamento fra le autostrade A30 e A3;
   il raccordo Salerno-Avellino, allo stato, presenta condizioni di sicurezza assolutamente inadeguate, proprio per la ristrettezza e l'insufficienza della sede stradale — due sole corsie per ogni senso di marcia — e per l'elevato livello del traffico;
   il potenziamento del raccordo è una priorità assoluta nella politica infrastrutturale del Paese, essendo parte integrante dell'asse autostradale Roma-Caserta-Salerno-Reggio Calabria;
   dopo anni di discussioni in merito alla soluzione progettuale più idonea, l'Anas, ha indetto nel 2002 una gara pubblica per la progettazione dell'adeguamento dell'attuale tracciato stradale, ampliando da due a tre corsie per ogni direzione di marcia, oltre alla striscia dell'emergenza ed alla messa in sicurezza dell'intero raccordo;
   l'incarico di progettazione è stato aggiudicato alla società Bonifici Core di Roma, per il tratto da Salerno fino alla galleria di Solfora, e ad un libero professionista per il tratto ulteriore fino ad Avellino;
   da tempo la società Bonifica ha consegnato gli elaborati del progetto preliminare, unitamente alla valutazione di impatto ambientale;
   l'accelerazione dell’iter progettuale è indispensabile, attesa la rilevanza straordinaria dell'opera;
   il finanziamento del primo lotto del raccordo «Mercato San Severino-Fratte», il cui costo complessivo è stato stimato in 246 milioni di euro, venne inserito dal Governo Prodi nel piano regionale della mobilità 2007-2013 per l'importo di 190 milioni di euro; la quota residua di 56 milioni di euro avrebbe dovuto ricadere sulle risorse della legge obiettivo;
   tale finanziamento è stato tuttavia revocato e cancellato dal Governo Berlusconi con il decreto-legge n. 112 del 2008 promosso dal Ministro pro tempore Tremonti. Il Cipe, solamente nella seduta del 3 agosto 2011, ha riassegnato parzialmente il finanziamento del 1o lotto, destinando all'ammodernamento del tratto Salerno-Fratte-Mercato San Severino 123 milioni di euro; in seguito nessuna ulteriore risorsa è stata assegnata a questa opera di tanta rilevanza strategica per l'intero sistema autostradale italiano; né il Governo ha provveduto a completare il finanziamento del 1o lotto di questa infrastruttura;
   il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, in risposta ad un precedente atto ispettivo dell'interrogante n. 5-00059, nella seduta della VIII Commissione del 30 luglio 2013, ha sollecitato la regione Campania ad attivarsi per la sottoscrizione dell'Accordo di programma quadro (APQ), necessario per la utilizzazione in concreto del predetto finanziamento di 123 milioni di euro che, in caso contrario, potrebbe essere revocato;
   è necessario garantire la conservazione e la utilizzazione di questi fondi, considerando la valenza strategica di assoluto respiro nazionale del raccordo nel tratto Salerno-Fratte-Mercato San Severino;
   è indispensabile una immediata attivazione della regione Campania, senza altri negativi e dannosi ritardi e rinvii;
   occorre, quindi, una intesa urgente fra il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e la regione Campania, per sbloccare questa assurda ed ingiustificata situazione che rischia di produrre, con la revoca del finanziamento, un pregiudizio pesantissimo alle comunità interessate, come più volte evidenziato dall'interrogante in questi mesi;
   è indispensabile, anzi, completare tale finanziamento, tenuto conto che il progetto può e deve essere realizzato in fasi e stadi diversi e graduali, iniziando proprio dal tratto di massima rilevanza nazionale Mercato San Severino-Fratte, la cosiddetta «barriera»;
   è prioritario adeguare il raccordo per garantire che il traffico veicolare dalle tre corsie della A30 raggiunga la A3 con tre corsie nel tratto salernitano, attraverso un collegamento Mercato San Severino-Salerno anche esso dotato delle necessarie tre corsie ed in regola con una moderna e funzionale messa in sicurezza –:
   quali iniziative il Ministero, nel rapporto istituzionale con la regione Campania, intenda assumere con urgenza per la concreta utilizzazione del finanziamento già erogato di 123 milioni di euro per l'ammodernamento e la messa in sicurezza del 1o lotto Salerno-Fratte-Mercato San Severino del Raccordo Salerno-Avellino, che costituisce una sorta di «lotto zero», di «porta di accesso» all'autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, assolvendo alla funzione, così essenziale, di raccordare le autostrade A30 ed A3; in quanto tale, il raccordo è parte integrante del sistema autostradale italiano e provvede a collegare il Nord ed il Centro con il Sud del Paese;
   se il Ministero e l'ANAS intendano autorizzare, come è assolutamente necessario ed urgente, la immediata utilizzazione dei 123 milioni di euro, già assegnati, per appaltare, senza ulteriori e dannosi rinvii e ritardi, i lavori relativi ad una parte, ad un primo stralcio del 1o lotto del raccordo «Mercato San Severino-Fratte». (4-04819)

INTERNO

Interrogazioni a risposta immediata in Commissione:
I Commissione:


   MATTEO BRAGANTINI, CAPARINI, BORGHESI e MOLTENI. —Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   la circolare del Ministero dell'interno del 3 marzo 2014, recante il «Progetto di rimodulazione dei presidi della Polizia di Stato» prevede la chiusura del 15,7 per cento per un totale di 266 presidi territoriali di polizia 11 commissariati di pubblica sicurezza, 4 nuclei artificieri, 74 di polizia ferroviaria, 72 di polizia postale, 27 di polizia stradale, 14 del settore frontiera, 50 della squadra nautica, 9 della squadra a cavallo e 5 della squadra sommozzatori. Entro l'estate, 101 province su 110 conteranno un presidio di sicurezza in meno;
   il 4 marzo 2014, il vice capo della polizia di Stato, prefetto Alessandro Marangoni, ha illustrato le linee guida del progetto di razionalizzazione delle risorse e dei presidi dalla polizia di Stato sul territorio nazionale elaborato dal dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell'interno attraverso due direttrici fondamentali: una, a carattere interno alla polizia di Stato, diretta, sostanzialmente, ad una ottimizzazione dei presidi delle quattro specialità stradale, ferroviaria, postale e di frontiera, un'altra finalizzata ad una rivisitazione sul territorio della dislocazione dei commissariati di pubblica sicurezza, delle compagnie dei carabinieri e dei reparti speciali, a carattere sussidiario concentrati in alcune sedi;
   la razionalizzazione dei presidi stride con la necessità di aumentare e potenziare il livello di sicurezza su tutto il territorio nazionale, soprattutto in quelle province caratterizzate da una forte presenza di criminalità organizzata e con i maggiori indici di crimini consumati. Il progetto, inoltre, non fa alcun riferimento a come sarà garantita la sicurezza dei cittadini laddove saranno soppressi i presidi di polizia;
   già oggi, nonostante l'encomiabile impegno delle forze dell'ordine è evidente una cronica carenza di uomini, mezzi (e non un surplus come erroneamente evidenziato dal rapporto del Ministero dell'interno) che comporta l'aumento di atti vandalici a negozi, automobili e persone proprio nella zona in cui operano i comandi oggetto della rimodulazione, da cui scaturisce, piuttosto, l'esigenza del mantenimento dei massimi livelli di sicurezza del territorio;
   gli investimenti per la sicurezza negli ultimi cinque anni sono stati ridotti di oltre 4 miliardi di euro e gli operatori della polizia di Stato sono passati dai 103 mila del 2003 ai 94 mila del 2013, con i contratti fermi al 2009, gli stipendi più bassi d'Europa e un tetto retributivo che per tutto il 2014 impedisce di guadagnare di più rispetto al 2010;
   gli interroganti esprimono preoccupazione per il fatto che le razionalizzazioni e soppressioni in itinere coincidano con una fase espansiva delle attività della criminalità, che ormai si allargano in tutto il Paese, interessando anche aree che ne erano rimaste libere fino a qualche anno fa, forse anche per effetto della grave crisi economica;
   va stigmatizzata in particolare, la circostanza che, secondo gli ultimi dati ufficiali elaborati dallo stesso Ministero dell'interno e riferiti al 2012, i crimini denunciati complessivamente risultavano aumentati dell'1,3 per cento ed ormai pari a circa 2,8 milioni, ossia 36 mila in più rispetto al 2011, mentre l'analisi per tipologia di reato evidenziava come il peggioramento più pesante si stesse registrando sul versante dei cosiddetti reati predatori, spesso perpetrati con modalità particolarmente violente, senza che il Governo abbia ritenuto di adottare alcuna misura specifica di contrasto;
   oltre la metà delle denunce ha riguardato la sottrazione di beni, ossia i furti: oltre 1,5 milioni, in aumento del 4 per cento rispetto al 2011, in particolare quelli in casa, sia come numero (se ne sono registrati quasi 273 mila) che come incremento (sono stati circa il 16 per cento in più); seguono i borseggi, che si avvicinano a 150 mila, con un aumento dell'11 per cento, le frodi (114 mila, con un aumento dell'8 per cento, le rapine (42 mila, con un incremento del 5 per cento) e gli scippi (20 mila, con una lievitazione del 14 per cento);
   con riguardo all'anno 2013, in assenza di dati ufficiali ed omogenei definitivi, risultano già acquisiti elementi significativi che confermano un trend negativo in continua accentuazione: si è infatti registrato un ulteriore incremento dei furti in abitazione e risulta apprezzabile anche l'impennata di piccoli furti nei negozi, nei supermercati e nei bar denunciata dalla Confesercenti di Padova;
   nella sola Lombardia paiono assolutamente ingiustificate le chiusure di ben 19 presidi di cui 1 commissariato di pubblica sicurezza, 4 di polizia stradale, 4 di polizia ferroviaria, 1 del settore frontiera aerea, 2 della squadra nautica e ben 7 sezioni di polizia postale allorquando la stragrande maggioranza dei reati corrono quasi esclusivamente sulla rete;
   la provincia di Brescia è la più penalizzata in Lombardia con la chiusura di ben tre presidi di polizia: la polizia stradale di Iseo (istituita nel dicembre 1960) e Salò (istituita nel gennaio 1961) e il declassamento del settore polizia di frontiera presso l'aeroporto di Montichiari (Bs). I presidi di polizia di Iseo e Salò sono un punto di riferimento importante per i cittadini, per le aziende e per le scuole, oltre che per i numerosi turisti che affollano nella stagione estiva i laghi, senza dimenticare l'affluenza veicolare che interessa il Sebino bresciano anche nei periodi invernali, a causa di una notevole mole di traffico connesso alle località turistiche sciistiche;
   in Veneto è prevista la chiusura del Commissariato di Porto Tolle che presidia un'area del tutto peculiare che fa capo al secondo Comune d'Italia per estensione. Inoltre la chiusura di tutte le sezioni di polizia postale allocate nei capoluoghi di provincia del Veneto priveranno i cittadini di un autorevole punto di riferimento circa i reati informatici. Programmate anche la soppressione di tutte le squadre nautiche impegnate nei litorali veneti, il taglio di presidi di polizia stradale che toglieranno un adeguato controllo viario ed un pronto intervento infortunistico a vaste ed importanti aree del territorio e di una copiosa riduzione delle sottosezioni e di Posti di Polizia Ferroviaria. Tali tagli potrebbero provocare gravi discrasie in territori del Veneto particolarmente importanti dal punto di vista del contesto sociale e dello sviluppo economico;
   operativa da circa 30 anni, la polizia postale è ormai un indispensabile apporto contro il crimine informatico che registra un crescente aumento di reati quali transazioni finanziarie illecite, gioco d'azzardo illegale, hacking, e-commerce, phishing, stalking, cyber-bullismo e pedopornografia;
   la polizia postale è quella sottoposta a maggior rischio rimodulazione in quanto il dipartimento vorrebbe mantenere gli uffici di specialità soltanto nei capoluoghi di regione, sedi delle corti d'appello;
   la chiusura di tutte le sedi distaccate della polizia postale, quella sezione formata da uomini e donne che contrastano ogni giorno, anche, la pedofilia in internet agenti ultra specializzati nel compito di immergersi quotidianamente in un orrore di difficile comprensione, per la portata ed il dolore che reca in sé. Se si pensa alle immagini sempre più diffuse di neonati, abusati o torturati, o come una recentissima inchiesta ha mostrato, di bimbi uccisi e filmati, i cui video sono stati barattati a caro prezzo, si capisce quanto impegno e quanta forza queste persone debbano avere. Impegno e forza che stanno per essere vanificati, con il loro reinserimento in altri uffici dove questa professionalità andrà purtroppo sprecata;
   in questi anni la polizia postale ha arrestato, spesso addirittura in flagranza di reato, quasi seimila predatori di bambini. Ha sequestrato e bloccato la diffusione di milioni di immagini e video a carattere pedofilo. Un sito pedopornografico può far guadagnare anche 90 mila euro al giorno, garantendo alla criminalità organizzata risorse sulla pelle dei bambini;
   sono numerosi gli appelli di tutte le sigle sindacali afferenti alle forze di polizia di Stato relativamente all'inadeguatezza e all'inopportunità di tale tipo di programmazione che inciderebbe negativamente sulla sicurezza e sull'ordine pubblico, sulla garanzia di sicurezza e, più in generale, di legalità –:
   quali siano i motivi economici e finanziari che hanno spinto al progetto di rimodulazione dei presidi che, a giudizio degli interroganti, colpisce l'attività prettamente operativa di protezione del territorio, d'indagine, di prevenzione e repressione dei crimini e se invece, non sia necessario potenziare il comparto sicurezza in termini di nuove risorse sia strumentali che di personale, anche in vista dell'Expo 2015 e, quindi, rivedere il progetto di razionalizzazione che impone un drastico taglio ai presidi e alle sezioni della polizia di Stato in un momento in cui al contrario andrebbe rafforzata l'attività di controllo e prevenzione per fronteggiare l'emergenza immigrazione e il crescente tasso di criminalità. (5-02807)


   GITTI e SBERNA. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   si è appreso da organi di stampa locale la notizia della possibile chiusura dei presidi di polizia stradale del territorio bresciano e in particolare quello di Salò;
   il risparmio di spesa che si otterrebbe a seguito della soppressione della sede di Salò risulterebbe particolarmente esiguo, senza contare che proprio recentemente l'amministrazione comunale ha investito oltre 40.000 euro per importanti interventi di manutenzione straordinaria nello stabile;
   il distaccamento di Salò, inoltre, operativo dal 1961, è diventato sempre più punto di riferimento per numerose aziende presenti in zona, per le attività turistiche, per i turisti stessi, per la cittadinanza e per gli istituti scolastici, che in maniera crescente richiedono la presenza della polizia stradale per l'educazione stradale;
   è bene ricordare che negli ultimi 5 anni il personale ha operato con 5.000 pattuglie, rilevato 1.000 incidenti stradali, denunciato 800 persone, ne ha controllate 110.000 e sanzionato 1.000 automobilisti in stato di ebbrezza alcolica;
   si sottolinea, da una parte, che la viabilità sia della Gardesana che della Vallesabbia è caratterizzata da arterie con particolari criticità, soprattutto perché interessate da una notevole mole di traffico pesante connesso alla significativa presenza di rilevanti insediamenti industriali; dall'altra è importante rilevare che tutta la zona del Garda per più di sei mesi l'anno conta 100.000 presenze giornaliere e si rende pertanto fondamentale garantire sicurezza e tutela, anche ai turisti –:
   se tali notizie corrispondano al vero ed, in tal caso, se non intenda ritornare su tale decisione mantenendo il presidio di polizia stradale di Salò ed evitando in questo modo azioni che possano compromettere gravemente la sicurezza di tutti i cittadini. (5-02808)


   PLANGGER, GEBHARD, ALFREIDER e SCHULLIAN. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   la polizia postale ha, tra i suoi compiti istituzionali principali, il contrasto alla pedopornografia on line e all'uso illecito dei mezzi di pagamento elettronico;
   nella provincia autonoma di Bolzano, la polizia postale è una sezione che dipende dal compartimento di Trento e in questi giorni la stampa locale ha dato notizia che, in un'ottica di razionalizzazione delle risorse, si prevede un progetto di riorganizzazione della polizia postale che prevedrebbe la chiusura di tutte le sezioni non situate nei distretti di corte d'appello;
   è utile ricordare che in provincia di Bolzano convivono tre gruppi linguistici, italiani, tedeschi e ladini, di cui il 69,41 per cento sono di lingua tedesca, il 26,06 per cento sono di lingua italiana e il 4,53 per cento sono di lingua ladina;
   la lingua tedesca è parificata a quella italiana in base all'articolo 99 dello statuto speciale del Trentino-Alto Adige, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670, e successive modificazioni; inoltre il diritto all'uso del tedesco nei rapporti con la pubblica amministrazione e con gli uffici giudiziari è riconosciuto dal decreto del Presidente della Repubblica 15 luglio 1988, n. 574, e successive modificazioni, recante norme di attuazione dello statuto speciale per la regione Trentino-Alto Adige in materia di uso della lingua tedesca e della lingua ladina nei rapporti dei cittadini con la pubblica amministrazione e nei procedimenti giudiziari;
   se è vero che in presenza di reati quali la pornografia minorile e tutti i reati informatici, la competenza «ratione materiae» è della procura distrettuale di Trento, ciò nonostante, qualora l'indagato o le vittime siano di madrelingua tedesca, la Procura incarica un magistrato della procura di Bolzano in virtù del protocollo organizzativo d'intesa tra le procure della Repubblica del territorio; pertanto, pur non essendo presente sul territorio della provincia autonoma di Bolzano un'apposita sede della procura distrettuale, le peculiarità del territorio richiedono tuttavia una costante applicazione di magistrati di Bolzano con «funzioni distrettuali», nonché la necessaria presenza di personale di polizia giudiziaria qualificato e bilingue in servizio presso la sezione polizia postale di Bolzano;
   considerato che la popolazione complessiva della regione Trentino-Alto Adige è di 1.034.458 abitanti, di cui 509.626 residente in provincia di Bolzano e 524.832 residente in provincia di Trento, ne conseguirebbe che, circa il 34 per cento della popolazione residente nella regione non potrebbe trovare soddisfacimento alla propria richiesta di sicurezza, poiché di «madrelingua tedesca»;
   la sezione della polizia postale di Bolzano, inoltre, svolge un'intensa attività di sensibilizzazione e prevenzione nei confronti della cittadinanza, soprattutto con la presenza nelle scuole, anche attraverso l'informazione sull'uso consapevole della rete e quest'attività è ampiamente riconosciuta sul territorio con attestazioni di stima e di ringraziamento –:
   se corrisponda al vero la riorganizzazione illustrata in premessa con la chiusura di numerose sezioni della polizia postale e, qualora corrispondesse al vero, se in tale riorganizzazione si sia tenuto conto delle specificità della provincia autonoma di Bolzano, eventualmente prevedendo l'ufficio in modo da consentire il rispetto dello statuto speciale del Trentino-Alto Adige e delle relative norme di attuazione in tema di uso della lingua tedesca nei rapporti con la pubblica amministrazione e con gli uffici giudiziari.
(5-02809)


   FIANO e QUARTAPELLE PROCOPIO. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   negli scorsi giorni numerosi profughi giunti dalla Siria, e che transitano nella città di Milano, si stanno nuovamente affollando presso la stazione centrale, in attesa di un'occasione che permetta loro di raggiungere amici e congiunti insediati in alcune città del Nord Europa;
   questo fenomeno, già segnalato in precedenti atti di sindacato ispettivo, si ripete ormai con una drammatica frequenza e si rende necessaria una risposta organica poiché i profughi presenti a Milano vivono una situazione di disagio e difficoltà, aggravate dalla circostanza che tutti questi profughi non dispongono di alcun titolo di viaggio;
   organizzazioni come Unicef hanno ripetutamente denunciato l'esistenza dei cosiddetti «scafisti a quattro ruote», ossia di coloro che dietro il pagamento di cifre esorbitanti organizzano viaggi in treno e macchine per portare i siriani in Germania o in Svezia –:
   come e quando il Ministro interrogato intenda porre, nelle opportune sedi europee, la questione della modifica del regolamento cosiddetto Dublino III al fine di permettere a coloro cui è riconosciuto lo status di rifugiati di muoversi liberamente all'interno dell'Unione europea, nonché quali iniziative intenda adottare al fine di porre in essere le necessarie misure di assistenza per i profughi attualmente accampati presso la stazione di Milano.
(5-02810)


   DADONE, BASILIO, PAOLO BERNINI, RIZZO, ARTINI, CORDA, FRUSONE e TOFALO. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   nelle ultime elezioni europee del maggio 2009, attraverso disposizioni di urgenza, si è consentito ai militari e agli appartenenti a forze di polizia in missione internazionale di votare per i membri del Parlamento Europeo (decreto-legge n. 3 del 2009);
   con riferimento alle prossime elezioni europee del 25 maggio 2014 sembrerebbe invece, che agli appartenenti alle Forze Armate e alle Forze di Polizia impegnati nello svolgimento di missioni internazionali, non sia consentito esercitare il loro diritto di voto –:
   come il Governo intenda garantire il diritto di voto ai nostri militari e appartenenti alle forze di polizia impegnati in missioni internazionali, non essendo stato ancora varato un decreto di urgenza analogo a quello del 2009. (5-02811)


   RAVETTO e GELMINI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   da più parti all'interno del Governo è emersa la volontà di riorganizzare le forze dell'ordine: nel dettaglio si sono espressi favorevolmente il Ministero della Difesa, quello dell'interno, il Consiglio supremo di difesa, il commissario per la spending review Cottarelli;
   sulle modalità e i tempi di realizzazione della suddetta riorganizzazione le posizioni sembrano diversissime, quasi inconciliabili;
   l'ipotesi dell'accorpamento delle due principali forze di polizia – polizia di Stato e carabinieri – ha già creato una doppia spaccatura: tra il Ministero della difesa e quello dell'interno, con il ministro Roberta Pinotti da un lato e il Viceministro dell'interno Filippo Bubbico dall'altro;
   se l'accorpamento è uno scenario accettabile per il Sindacato autonomo di Polizia, pare esserlo meno per l'Arma dei carabinieri, che già a febbraio ha respinto con fermezza, tramite il suo Consiglio centrale di rappresentanza (Cocer), l'idea di una unificazione delle forze di polizia ventilata, ma non inserita nell'ultima spending review;
   il Ministro della difesa Pinotti, in audizione in Commissioni riunite difesa di Camera e Senato ha tenuto a sottolineare con molta cautela che l'accorpamento tra polizia e carabinieri non è assolutamente all'ordine del giorno;
   il Vice Ministro Bubbico, ha invece ipotizzato un accorpamento delle forze dell'ordine in una logica di spending review e di semplificazione spiegando che «non possiamo continuare ad avere tiratori scelti, artificieri, cinofili, squadre nautiche di polizia e di carabinieri e poi della guardia di finanza e poi della guardia costiera... Tutto questo va semplificato per dare certezze e per garantire un impiego delle risorse umane e delle risorse strumentali più efficace»;
   il Ministro dell'interno, Alfano, ha evidenziato che nessuna decisione è stata assunta ad oggi a proposito del progetto di fusione e riorganizzazione delle Forze dell'ordine preannunciato pur avendo comunque incontrato i sindacati –:
   se ci sia realmente la volontà di attuare piani di riorganizzazione o di razionalizzazione delle forze dell'ordine, quali siano le modalità e i tempi concreti di attuazione e come si intenda, nell'eventualità, assicurare, nel rispetto del contenimento della spesa, la piena sicurezza ai cittadini. (5-02812)

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   CAPARINI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   a circa 7 mesi di distanza dalla tragedia di Lampedusa, che costò la vita a 366 migranti, un nuovo barcone con circa 400 immigrati è affondato a circa 40 miglia dalle coste della Libia;
   la conferma che il trend già evidente nel 2013 è in continua crescita viene dal Viminale che fa sapere come il dato sugli sbarchi è di oltre dieci volte maggiore rispetto a quello registrato nello stesso periodo del 2013, un vero e proprio record;
   è un dato che la Libia sia diventata punto di transito per quei migranti del continente che vogliano raggiungere l'Europa;
   una politica di accordi bilaterali con i paesi di origine dei flussi migratori può evitare tragedie come quelle alle quali assistiamo ormai ogni giorno. Per oltre un anno, quando Ministro dell'interno era l'onorevole Maroni, la sua politica di accordi con i Paesi del mediterraneo ha permesso di ridurre drasticamente gli sbarchi e salvare centinaia di vite;
   è di tutta evidenza che solo attraverso azioni di dissuasione, contrasto e intercettazione possono essere ridotti questi «viaggi della speranza» riducendo statisticamente il numero di incidenti;
   il Presidente del Consiglio dei ministri in occasione di questa ennesima tragedia ha ribadito che con ogni probabilità l'immigrazione sarà una delle priorità del semestre italiano di presidenza dell'Ue e chiederà un maggior coinvolgimento dell'Europa. Anche il Ministro dell'interno ha dichiarato che «Le nostre navi sono lì a recuperare morti e a soccorrere i vivi, l'Europa non ci sta aiutando. O l'Europa ci aiuta a presidiare la frontiera o faremo valere il principio che il diritto d'asilo riconosciuto dall'Italia si possa esercitare in tutta Europa». All'Europa si rivolge anche il Ministro della giustizia parlando di un «deficit di cooperazione», e quello degli Esteri definendo «inaccettabili» le stragi di innocenti, che ci sono state mancanze dell'Unione europea e che la gestione del problema «è una responsabilità che dobbiamo portare avanti insieme a tutti gli altri paesi europei perché non sono frontiere italiane, sono frontiere europee»;
   il commissario per gli affari interni Cecilia Malmstrom, aprendo alle richieste dell'Italia, ha dichiarato: «Sono scioccata. Chiedo a tutti gli Stati membri di discutere nel prossimo Consiglio Interni come si può contribuire. È chiaro che la responsabilità è di tutti gli Stati membri dell'Ue, serve solidarietà concreta per ridurre il rischio che tali tragedie si ripetano. È ora che gli Stati passino dalle parole ai fatti». Anche il presidente del Parlamento europeo Martin Schultz invita gli altri paesi a «non lasciare sola l'Italia: l'Europa deve urgentemente prendersi le sue responsabilità per porre fine a questa catastrofe. Non possiamo continuare a girarci dall'altro lato. Dobbiamo condividere in modo più giusto le responsabilità tra i 28 Paesi, accettando una semplice verità: l'Europa è un continente di immigrazione, ma non abbiamo ancora una politica comune di gestione dei flussi»;
   dello stesso tenore furono le dichiarazioni delle istituzioni europee, non più di 7 mesi fa all'indomani della strage al largo di Lampedusa dell'ottobre 2013. Infatti, il portavoce del commissario Ue per gli Affari interni Cecilia Malmstrom sottolineava come «Nessun Paese può affrontare da solo questo problema. È una questione che necessita un impegno a livello europeo». Mentre Martin Schultz dichiarava che «bisogna far sì che l'onere, il peso, delle frontiere europee sia un problema condiviso da tutti i nostri governi». Ancora, il portavoce del Presidente della commissione europea, José Manuel Barroso, ribadiva la volontà dell'esecutivo Ue di fare tutti gli sforzi possibili per evitare il ripetersi di queste tragedie «che sono senza dubbio tragedie che riguardano tutta l'Unione europea.» Infine, il Consiglio d'Europa in una nota sottolineava che «I Paesi del Consiglio d'Europa e dell'Unione europea devono mostrare maggiore solidarietà con l'Italia e con gli altri in prima linea sul fronte degli immigrati irregolari»;
   sono, appunto, passati più di 7 mesi e nulla è cambiato si continua a discutere sugli stessi problemi. Cosa succede invece, riparte, puntuale e sterile il dibattito politico, con l'Italia che rinnova le accuse all'Europa di lasciarla sola e Bruxelles che sembra ammettere le sue responsabilità, ma concretamente continuano a morire persone sulle «carrette del mare» con la falsa illusione di trovare un futuro migliore;
   è necessario che il Governo si faccia realmente promotore di una condivisa, efficace e persistente iniziativa europea per fronteggiare un problema che investe tutta l'Europa;
   il punto cruciale è che, nonostante i proclami, le belle parole ed il cordoglio proferite all'indomani di queste tragedie, ancora una volta, l'Europa lascerà gli Stati membri, da soli di fronte a problemi di portata globale. Un copione già visto stando anche alle dichiarazioni rese all'indomani delle due tragedie di Lampedusa e della Libia;
   sino ad oggi l'Unione europea si è limitata ad emanare una serie di «direttive», oggi è indispensabile agire seriamente sulla Commissione europea affinché dia risposte concrete;
   è del tutto evidente che l'operazione Mare Nostrum ha dato risultati fallimentari e che è necessario destinare i fondi a progetti di cooperazione in Libia come fece il ministro Maroni per bloccare i trafficanti di morte –:
   se non sia necessario ed urgente mettere in atto misure che promuovano il rafforzamento di accordi bilaterali tra l'Unione europea e i paesi che si affacciano sul Mediterraneo;
   se non sia più procrastinabile la richiesta all'Unione europea e alle istituzioni europee un aiuto tangibile, un intervento serio, per attuare i respingimenti alla frontiera;
   se non sia indispensabile far valere le ragioni italiane nelle opportune sedi comunitarie, al fine di ottenere che l'aiuto da parte dell'Europa non si limiti al solo campo finanziario, e che l'Europa si impegni a rispettare il principio di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri nel loro complesso, così come prescritto dall'articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea relativamente ai controlli alle frontiere, all'asilo e all'immigrazione, trovando un'intesa tra tutti i Paesi membri dell'Unione europea per garantire una distribuzione proporzionale ed equa sul proprio territorio dei soli rifugiati politici riconosciuti come tali prima dell'ingresso sul territorio comunitario. (5-02806)


   ZAMPA. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   nel febbraio 2012 è stata presentata un'azione collettiva (class action) promossa da Cgil, Inca, Federconsumatori e 109 richiedenti la cittadinanza italiana, in merito ai lunghi tempi di attesa per il perfezionamento dei procedimenti di concessione della cittadinanza;
   sempre nel 2012, Cgil, Inca, Federconsumatori, unitamente a molti altri richiedenti, avevano presentato ricorso per l'accertamento della lesione dei diritti derivante dal mancato rilascio entro i termini di legge del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, come previsto dall'articolo 9 del decreto legislativo n. 286 del 1998;
   rispetto al primo procedimento, l'azione che ha dato vita al contenzioso è stata determinata, ai sensi dell'articolo 1 del decreto legislativo 20 dicembre 2009, n. 198, da 46 persone di origine straniera, che avevano a suo tempo proposto istanza ai competenti uffici del Ministero dell'interno al fine di ottenere il rilascio della cittadinanza italiana e dai tre enti associativi, Cgil, Inca, Federconsumatori, per denunciare la costante violazione dei termini di conclusione del procedimento disciplinato dall'articolo 9 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, da parte degli uffici competenti. A tale proposito, i ricorrenti hanno denunciato con atto di diffida notificato al Ministero dell'interno in data 13 maggio 2011 il ritardo accumulato dal Ministero nel corso del singolo procedimento avviato, evidenziando come, a distanza di molto tempo e comunque al termine di un periodo ampiamente maggiore rispetto a quello previsto dalla norma per il regolare svolgimento dell'istruttoria, le relative procedure non fossero ancora state concluse; gli stessi hanno rilevato infine che tali ingiustificati ritardi nella definizione dei processi amministrativi costituivano un metodo costante e sistematico di svolgimento delle procedure istruttorie da parte degli uffici ministeriali competenti, segnalando come i ritardi, talvolta, fossero caratterizzati da prassi distorsive poste ingiustificatamente in atto da alcuni unità territoriali competenti alla evasione delle relative richieste;
   rispetto a tale atto di diffida, l'amministrazione non ha dato in alcun modo seguito;
   per quanto attiene al primo giudizio, con sentenza del 9 settembre 2013 e depositata il 26 febbraio 2014 il tribunale amministrativo regionale per il Lazio (sezione seconda quater), accertando la lesione diretta e concreta dei diritti e degli interessi dei ricorrenti derivante dalla mancata conclusione entro i termini di legge dei procedimenti amministrativi in tema di concessione della cittadinanza per come fissati dall'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica n. 362 del 1994, si è pronunciato in via definitiva accogliendo il ricorso presentato e ha condannato il Ministero dell'interno a porre rimedio a tale situazione mediante l'adozione degli opportuni provvedimenti entro il termine di un anno dalla comunicazione della sentenza e al «ripristino del corretto svolgimento della funzione amministrativa ad esso attribuito mediante adozione di ogni atto ritenuto idoneo a risolvere in maniera sistematica e generale il disservizio dedotto». Infatti, seppur la legge italiana preveda 730 giorni entro i quali lo Stato deve concludere la procedura di riconoscimento della cittadinanza, i tempi di attesa sono di gran lunga superiori fino ad arrivare anche a qualche anno;
   per quanto attiene al secondo procedimento, con sentenza depositata il 6 settembre 2013 il TAR per il Lazio (sezione seconda quater) ha accolto il ricorso nella parte relativa alla denunciata violazione dei termini di conclusione del procedimento sull'istanza di rilascio per i familiari del permesso di soggiorno CE di lungo periodo di cui all'articolo 9 del decreto legislativo n. 286 del 1998 e ha condannato l'amministrazione dell'interno a porre rimedio a tale situazione mediante l'adozione degli opportuni provvedimenti, entro il termine di un anno, riconoscendo il TAR «generalizzata violazione dei termini di conclusione del procedimento di rilascio del permesso di soggiorno di lungo periodo» da parte del Ministero;
   la sentenza del TAR pertanto ha imposto al Ministero dell'interno l'obbligo di garantire agli immigrati richiedenti, entro 90 giorni, così come prevede la legge, di concludere la procedura di riconoscimento del titolo di soggiorno e anche in questo caso, ha condannato il Ministero dell'interno a porre rimedio a tale situazione mediante l'adozione degli opportuni provvedimenti entro il termine di un anno dalla comunicazione della sentenza;
   come sottolineato dai ricorrenti e dalle associazioni proponenti la class action, si tratta di due primi significativi risultati che certamente non risolvono del tutto le tante difficili situazioni in cui sono costrette le persone straniere presenti in Italia. Resta irrisolto, per esempio, il problema di come le questure nei territori agiscano in modo disomogeneo e discrezionale rispetto alle richieste dei nuovi cittadini. Una eterogeneità che, a volte, dà luogo a veri e propri atti discriminatori intollerabili;
   le due sentenze del TAR costituiscono sicuramente un precedente e un deterrente alla prassi dei ritardi ingiustificati della pubblica amministrazione nella definizione delle pratiche dei richiedenti la cittadinanza italiana e il permesso di soggiorno –:
   quali iniziative il Ministro interrogato – a seguito delle sentenze del TAR – intenda assumere per porre rimedio – laddove presente – alla violazione dei termini di conclusione del procedimento disciplinato dall'articolo 9 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, e del procedimento di cui all'articolo 9 del decreto legislativo n. 286 del 1998 da parte degli uffici competenti;
   quali iniziative intenda porre in essere per:
    a) agevolare la trattazione delle pratiche passando da una modalità in serie delle pratiche ad una modalità in parallelo;
    b) procedere all'informatizzazione integrale della procedura, specie per quanto riguarda le comunicazioni tra amministrazioni, attivando i necessari protocolli;
    c) porre termine, laddove riscontrata, alla prassi degli uffici periferici che produce l'effetto di dilatare i termini procedimentali complessivi;
    d) porre termine alla prassi invalsa in taluni uffici periferici di onerare i richiedenti con produzioni documentali dispendiose e non necessarie;
    e) impedire la richiesta di produzioni documentali aggiornate allorquando la protrazione della durata del procedimento non sia imputabile al richiedente;
    f) predisporre un piano per l'utilizzo delle risorse aggiuntive di cui alla legge n. 94 del 2009, da destinare allo smaltimento sollecito dei carichi di lavoro arretrati;
    g) operare una distrazione delle risorse umane dalle procedure ministeriali che non manifestino disservizi a quelle aventi ad oggetto lo scrutinio delle richieste di rilascio della cittadinanza italiana e del permesso di soggiorno. (5-02814)

Interrogazione a risposta scritta:


   LOREFICE, SILVIA GIORDANO, MANTERO, GRILLO, DALL'OSSO, BARONI, CECCONI, COLONNESE, CANCELLERI e MARZANA. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   sono anni che si assiste ad un continuo flusso migratorio di uomini che abbandonano l'Africa per approdare sulle coste italiane. Tutte queste persone si imbarcano quotidianamente con l'anelito di avere diritto a un posto nel mondo tentando di approdare sulle coste siciliane che sono la porta di ingresso dell'Europa, ma il loro viaggio spesso si trasforma in un appuntamento con la morte;
   le vittime e i dispersi dell'immane tragedia del mese di ottobre 2013 di Lampedusa scappavano dalla disperazione determinata dalla speculazione finanziaria che nasce da questo spietato processo di globalizzazione che, facendo registrare un record dei prezzi dei generi alimentari, ha provocato una vera e propria lotta per il pane;
   in quell'occasione l'isola di Lampedusa è stata lasciata sola nella gestione di un'emergenza umanitaria permanente, essa infatti è divenuta allo stesso tempo un centro di pronta accoglienza, ma anche un confinamento territoriale dove non sono rispettati i diritti umani fondamentali;
   subito dopo quella terribile tragedia è stata varata dalla Marina militare l'Operazione Mare Nostrum, per far fronte all'emergenza immigrati illegali provenienti dalla Libia. L'impiego delle navi militari (fregate, corvette, navi da sbarco) al fianco dei mezzi più leggeri della capitaneria di porto è stato messo a punto dal Governo Letta sull'onda emotiva degli oltre 300 morti tra i naufraghi di un barcone rovesciatosi al largo di Lampedusa. Gli obiettivi perseguiti con l'impiego massiccio (in media 5 navi mobilitate ogni giorno) della flotta erano di prevenire gli incidenti soccorrendo in alto mare gli immigrati in arrivo soprattutto dalla costa libica, ma anche di costituire un deterrente contro i traffici di esseri umani e l'immigrazione illegale. Il Ministro dell'interno, Angelino Alfano, annunciando l'avvio di Mare Nostrum, parlò in quell'occasione di rafforzamento «della protezione della frontiera» con la «deterrenza del pattugliamento e dell'intervento delle Procure»;
   il Ministro della difesa pro tempore, Mario Mauro, riferì che i migranti raccolti in mare sarebbero stati trasferiti nel porto sicuro più vicino «non necessariamente italiano» e più tardi rese noto che i proventi incassati dai trafficanti finanziavano il terrorismo islamico;
   Mare Nostrum è riuscita in questi mesi ad evitare altre tragedie del mare ma la presenza navale italiana non ha impedito l'incremento dei flussi migratori illegali, garantendo di fatto l'arrivo in Italia a tutti coloro che si imbarcano sulle coste libiche;
   l'Italia oggi è l'unico Paese ad accogliere di fatto chiunque arrivi illegalmente davanti alle sue coste. I 43 mila arrivi del 2013 rappresentano il 70 per cento dei migranti giunti in Europa via mare e sono il 224 per cento in più di quelli sbarcati nel 2012. Nei primi tre mesi e mezzo di quest'anno ne sono arrivati oltre 20 mila e si preannuncia un'altra estate «calda», specie tenendo conto che, come ha riferito il Ministro Alfano, in Libia vi sono tra i 300 mila e i 700 mila migranti in attesa di raggiungere l'Italia e l'Europa e altri ne arriveranno dalla Siria e dall'area del Sahel e subsahariana;
   nonostante la cattura di 88 scafisti e di un paio di navi-madri (per individuarle sono stati mobilitati anche droni e un sottomarino) la presenza navale ha fallito nella sua funzione di deterrenza favorendo indirettamente gli affari dei trafficanti. I limiti di Mare Nostrum dipendono per lo più dall'impiego di potenti navi da guerra per operazioni di puro soccorso. Lo stesso dispositivo navale poteva essere schierato a ridosso delle coste libiche per bloccare le partenze e riportare sulla costa i migranti attivando strutture internazionali di assistenza come agenzie dell'Onu e la missione che l'Unione europea schiera in Libia per il controllo delle frontiere;
   l'assenza di supporto da parte dell'Unione per far fronte all'emergenza è stata denunciata più volte e il Ministro della difesa, Roberta Pinotti, ha recentemente evidenziato come l'agenzia europea Frontex abbia messo in campo 7 milioni di euro quando solo l'operazione Mare Nostrum costa all'Italia 9 milioni di euro al mese. A questa cifra vanno aggiunti decine di milioni al mese per l'assistenza agli immigrati, per i quali la legge di stabilità ha stanziato nel novembre 2013 210 milioni di euro;
   secondo un articolo pubblicato il 13 maggio su Il Fatto Quotidiano l'Unione europea avrebbe chiesto due mesi fa all'Italia di cosa aveva bisogno per dare il proprio sostegno nell'emergenza sbarchi, ma non avrebbe ricevuto risposta. La commissaria europea agli affari interni, Cecilia Malmström, con una nota, ha precisato che la Commissione è pronta ad ascoltare le nuove richieste che arriveranno da Roma per la gestione dell'immigrazione;
   a distanza di mesi si continua ad assistere agli stessi scenari. Ancora sbarchi, oltre duemila in sole 48 ore e l'accoglienza dei migranti si fa sempre più problematica perché i centri siciliani sono pieni, e voli charter stanno distribuendo i nuovi arrivati in diverse province del Paese. Il 2 maggio 2014 è arrivata ad Augusta una nave della Marina militare con 1.170 migranti (oltre 200 minori non accompagnati), mentre un'altra con 358 persone a bordo (tra cui due donne incinte) è stata fatta attraccare al porto di Palermo, perché il centro di Pozzallo è pieno. Il 12 maggio un altro barcone con a bordo circa 400 migranti è affondato al largo della Libia, a un centinaio di miglia da Lampedusa. Sono stati recuperati 17 cadaveri e circa 200 sono ancora i dispersi La regione siciliana ha chiesto a 65 istituti pubblici di assistenza e beneficienza (Ipab) di mettere a disposizione le proprie strutture per accogliere i migranti che sbarcano sull'isola;
   gli ultimi arrivi di massa hanno messo in crisi le strutture di accoglienza e centinaia di immigrati sono fuggiti facendo perdere le proprie tracce. Oltre 200 migranti sono fuggiti dalle strutture di accoglienza di Pozzallo in quanto lo stato di continua emergenza rende più difficili i controlli e la gestione delle presenze. Inoltre, molti stranieri si sono dispersi per le campagne circostanti;
   il sindaco di Modica ha lanciato «l'emergenza sanitaria perché l'ospedale, già in difficoltà per la carenza di posti letto e di personale, ora è alle prese con i numerosi casi di tubercolosi e scabbia e un caso di Aids, segnalati durante i ricoveri di alcuni migranti sbarcati a Pozzallo». Il presidio ospedaliero non è in grado attualmente di supportare ulteriori ricoveri, tra l'altro particolarmente impegnativi e gravosi nell'ambito infettivologico. Ad oggi numerosi casi di queste patologie hanno costretto la struttura ospedaliera ad affrontare i problemi con seria difficoltà, ed inoltre non si è a conoscenza di eventuali casi non intercettati;
   il direttore centrale dell'immigrazione e della polizia delle frontiere, Giovanni Pinto, ha dichiarato che «il sistema di accoglienza è al collasso, non abbiamo più luoghi dove portarli e le popolazioni locali sono indispettite dal continuo arrivo di stranieri»;
   tutti i Governi italiani fino ad oggi non sono stati in grado di porre con determinazione al centro del dibattito europeo l'emergenza del flusso migratorio verso la Sicilia, definita la porta dell'Europa, lasciando che questa porta si trasformasse in una vera e propria «forca caudina»;
   l'articolo 79 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea stabilisce che l'Unione sviluppa una politica comune dell'immigrazione tesa ad assicurare la gestione efficace dei flussi migratori, l'equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri e la prevenzione e il contrasto dell'immigrazione illegale e della tratta degli esseri umani;
   nella relazione consuntiva sulla partecipazione dell'Italia all'Unione europea (anno 2012), ai sensi dell'articolo 13, comma 2, della legge 24 dicembre 2012 n. 234, presentata dal Ministro per gli affari europei pro tempore Moavero Milanesi e trasmessa alla Camera dei deputati il 12 giugno 2013, si rinviene che il Governo italiano avrebbe sollecitato alle istituzioni europee l'adozione di misure, inopinatamente senza menzionare il tipo di richieste avanzate, dirette al superamento del problema del flusso migratorio, riscontrando peraltro una resistenza dei Paesi senza frontiere esterne che non intendono assumersi gli oneri necessari per la soluzione del problema. Nella stessa relazione si afferma che anche in materia di asilo il Governo italiano avrebbe sollecitato una politica comune europea di asilo, senza specificare gli strumenti e le modalità attraverso cui pervenire a una tale politica comune di asilo;
   ai fini di una maggiore armonizzazione delle diverse prassi nazionali e delle norme vigenti nella Unione europea è stato istituito l'ufficio europeo di sostegno per l'asilo (regolamento n. 439 del 19 maggio 2010) per sviluppare le misure di cooperazione fra gli Stati membri;
   esistono molteplici raccomandazioni, in primis del Consiglio d'Europa, rivolte all'Italia dalle organizzazioni internazionali (intergovernative, giudiziarie e non governative) che richiedono un immediato e necessario cambio di indirizzo politico in materia, considerando sbagliate o controproducenti le misure adottate dal nostro Paese in questi ultimi anni per gestire l'immigrazione che è destinata a continuare;
   per le operazioni sulle coste italiane Hermes ed Aeneas, l'agenzia europea per la gestione delle frontiere Frontex ha destinato 7,1 milioni di euro tra maggio e settembre 2013. Con un trasferimento di 4,8 milioni di euro dal budget di novembre 2013 è stato possibile condurre le operazioni per il periodo gennaio-aprile. Dopo la tragedia di Lampedusa dello scorso novembre 2013 Frontex aveva ricevuto una somma aggiuntiva di 8,2 milioni di euro 7,4 milioni per risposte operative alle frontiere marittime e 750 mila per attività del Centro di supporto dell'agenzia;
   tutto quanto sopra riportato si sostanzia in una insostenibile quanto drammatica situazione nazionale e internazionale in grado di minare la pace e la coesione sociale –:
   quali misure intenda assumere il Governo per gestire il continuo flusso migratorio che genera una situazione di costante emergenza, e che tipo di scelte intenda adottare al fine di condurre in modo efficiente la sua politica di accoglienza e di asilo per i rifugiati adeguandosi ai richiami del Consiglio d'Europa al fine di evitare che si possano verificare nuovamente le tragedie come quella del 3 ottobre 2013, ed evitando altresì che il problema ragusano rimanga di esclusiva competenza del porto di Pozzallo, dell'Ospedale Maggiore di Modica o dei comuni limitrofi;
   come intenda intervenire per trovare soluzione al serio problema sanitario nel territorio siciliano affinché vengano attuate azioni migliorative nella gestione dell'emergenza sbarchi e nei controlli sanitari, potenziando le cure mediche già nei centri di accoglienza, monitorando la presenza di patologie per evitare il pericolo di contagio e assicurando ai migranti il pieno godimento dei diritti umani e al contempo alle popolazioni locali il diritto alla salute;
   come intenda il Governo aumentare la trasparenza nelle procedure d'arrivo e di ritorno che riguardano migranti e rifugiati e allo stesso tempo combattere i trafficanti che sfruttano la «migrazione della disperazione» e verso le coste italiane;
   quali siano le iniziative e le azioni concrete messe in atto dall'Agenzia europea di supporto all'asilo (Easo) in relazione al piano di supporto speciale per l'Italia, sottoscritto a Malta il 4 giugno 2013;
   quanta parte dei 350 milioni di euro destinati all'Italia dal nuovo quadro finanziario 2014-2020 sia già nelle disponibilità dell'Italia e per quali obiettivi e azioni sia stata utilizzata;
   se, anche a seguito dell'incontro avvenuto il 22 novembre 2013 presso il Ministero dell'interno con il vice presidente della Banca europea per gli investimenti, siano stati da parte dell'Italia richiesti prestiti e se questi siano stati erogati dalla Banca europea per gli investimenti e, in caso affermativo, per quali progetti relativi al massiccio afflusso di stranieri siano stati utilizzati ovvero si intendano utilizzare, e con quale cadenza temporale;
   quali proposte concrete l'Italia abbia indirizzato alla Commissione europea per far fronte alla emergente questione dell'immigrazione anche a seguito della disponibilità mostrata dalla Commissaria europea agli affari interni, Cecilia Malmström, con la lettera inviata nel mese di marzo 2014 alle autorità italiane.
(4-04818)

ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ E RICERCA

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   NICOLETTI, CARLO GALLI e GHIZZONI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   negli ultimi anni nel nostro Paese si sono moltiplicati gli interventi legislativi e amministrativi volti a riformare le università e gli enti di ricerca. La finalità dichiarata di questi interventi sta nella volontà di rendere più efficiente il sistema dell'alta formazione e della ricerca, migliorando la qualità della didattica e della produzione scientifica, attraverso appropriate procedure di valutazione e di incentivazione. Sulla base di queste finalità è stata creata una specifica Agenzia di valutazione (ANVUR) con il compito di coordinare le attività di valutazione dei prodotti scientifici (VQR), dei profili scientifici di commissari e candidati nei concorsi di abilitazione (ASN), dei requisiti relativi alla qualità della didattica (AVA);
   se da un lato non si può che apprezzare il fatto che il sistema universitario e della ricerca italiano sia stato sottoposto a una procedura sistematica di valutazione sulla base di parametri internazionalmente riconosciuti e che, più in generale, si sia sviluppata una «cultura della valutazione» che ha superato l'idea che vi possano essere settori istituzioni pubbliche o finanziate da denaro pubblico sottratte a una verifica puntuale della loro qualità, d'altro lato non si può non rilevare come il modo in cui tale procedura è stata applicata abbia prodotto risultati contraddittori, come lo stesso Ministro on. Giannini ha riconosciuto il 1 aprile scorso nel corso dell'audizione presso la Commissione VII del Senato: «Invece di semplificare, in alcuni casi abbiamo complicato. Invece di chiarire, in alcuni casi abbiamo creato nuove ambiguità. Mi limito a due soli esempi. Il primo riguarda le procedure dell'Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN). [...] Il secondo esempio riguarda la formulazione dei criteri per l'ANVUR. L'effettiva operatività dell'Agenzia, a seguito dell'entrata in vigore del Regolamento (decreto del Presidente della Repubblica 1 febbraio 2010 n. 76) ha infatti portato a un delicato equilibrio fra potere di indirizzo del Ministero e poteri di accreditamento e valutazione dell'Agenzia. Partecipando proprio alla presentazione dell'importante Relazione 2013 di ANVUR l'interrogante aveva affermato che bisogna scongiurare il rischio che l'Agenzia diventi un controllore ex ante e bisogna rafforzarne sempre di più il ruolo di valutatore ex post»;
   negli ultimi tempi è cresciuto il disagio della comunità universitaria relativo all'applicazione del sistema AVA (autovalutazione, valutazione periodica, accreditamento). Per esprimere questo disagio si sono levate negli ultimi giorni numerosissime voci di docenti e responsabili di strutture universitarie. Non si tratta di persone che non svolgono con coscienziosità la loro delicata funzione di formatori e ricercatori, al contrario si tratta di coloro che, nonostante la drammatica scarsità di risorse economiche e lo scarso riconoscimento della loro funzione sociale, continuano a garantire a moltissime università e istituti di ricerca italiani un eccellente livello di insegnamento e di produzione scientifica (come attestato dallo stesso rapporto ANVUR);
   da ultimo di tale disagio si è fatto autorevole interprete il presidente della CRUI, professor Stefano Paleari, in una lettera dell'8 maggio 2012 al Presidente dell'ANVUR, professor Stefano Fantoni, in cui si chiede di «riflettere radicalmente sull'aggravio burocratico» a cui sono soggette le strutture universitarie, ribadendo al tempo stesso la piena disponibilità a collaborare al processo di valutazione;
   a tale richiesta il presidente dell'ANVUR ha risposto il giorno 9 maggio 2014 richiamando il fatto che il sistema AVA è il prodotto di «procedure e direttive europee» e che, per «modificare l'impostazione di una assicurazione di qualità forse troppo attenta agli aspetti formali e amministrativi, bisognerebbe – dopo un'accurata riflessione – porre il problema a livello europeo»;
   le direttive europee richiamate dal presidente dell'ANVUR non impongono un determinato sistema di valutazione – tanto meno di tipo ottusamente burocratico – ma indicano standard e guideline che spetta ai diversi Paesi tradurre in un concreto sistema;
   le stesse direttive europee esplicitamente raccomandano che il processo di assicurazione della qualità si avvalga di una valutazione preliminare di impatto per garantire che le procedure adottate siano appropriate e non interferiscano più del necessario con il normale lavoro che le università sono chiamate a svolgere;
   il sistema AVA nella sua articolazione specifica dipende da disposizioni ministeriali (da ultimo il decreto ministeriale 47 del 2013) e da iniziative dell'ANVUR che per essere modificate non necessitano di alcun intervento «a livello europeo»;
   il sistema AVA appare andare in direzione contraria rispetto a quella auspicata non solo dall'intera comunità universitaria ma dallo stesso Governo, posto che, anziché semplificare, rendono inutilmente complesso e macchinoso il procedimento di valutazione dell'offerta didattica  –:
   se il Ministro interrogato non ritenga opportuno:
    a) sospendere immediatamente le procedure legate al sistema AVA nella sua attuale formulazione;
    b) individuare di concerto con gli organi di rappresentanza del sistema universitario e in modo sintetico gli essenziali requisiti quantitativi e qualitativi che i corsi di studio devono possedere, evitando di appesantire le strutture universitarie con la richiesta di compilazione di moduli e documenti che non forniscono né agli studenti né alle strutture di valutazione, elementi reali di conoscenza;
    c) promuovere una radicale revisione delle procedure dell'ANVUR per dotare l'università italiana di un sistema rigoroso, trasparente e semplice di valutazione della qualità della didattica.
(5-02802)


   BOSSA. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   in data 5 giugno 2013 la sottoscritta ha indirizzato al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca l'interrogazione a risposta in commissione n. 5-00268 avente ad oggetto l'istituto «SS. Trinità e Paradiso» di Vico Equense (Napoli) e in particolare il consiglio di amministrazione in carica;
   nell'interrogazione, la sottoscritta evidenziava che l'istituto «SS. Trinità e Paradiso» di Vico Equense (Napoli) è amministrato da un consiglio di amministrazione composto da un presidente e da due consiglieri, nominato dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca e che due dei tre consiglieri di amministrazione sono anche consiglieri comunali in carica presso il comune di Vico Equense; la cosa non è mai avvenuta in duecento anni di vita dell'istituto e si configura come un classico conflitto di interessi, essendo ripetute le situazioni in cui l'istituto e il comune sono in contrapposizione;
   nell'interrogazione si rilevava anche un ulteriore motivo di inopportunità rispetto alla nomina di uno dei consiglieri di amministrazione, condannato in primo grado a sei mesi di reclusione per il reato di falso;
   l'interrogazione si concludeva chiedendo al Ministro se non ritenesse di garantire un intervento sulla vicenda al fine di rimuovere cause di anomalia, di incompatibilità e di conflitto di interesse nella nomina in questione;
   alla sopra citata interrogazione, in data 2 agosto 2013, ha fornito risposta in Commissione l'allora Sottosegretario Marco Rossi Doria, il quale notava che «Nel caso dell'istituto »SS. Trinità del Paradiso« di Vico Equense si è registrata negli anni una prassi secondo la quale, in occasione del rinnovo del consiglio di amministrazione, l'amministrazione comunale ha segnalato al Ministero personalità espressione della società civile locale ritenute idonee a ricoprire il suddetto incarico»; il Sottosegretario aggiungeva anche che «riguardo alle vicende evocate nell'atto parlamentare, va prima di tutto segnalato che al momento della formalizzazione del decreto non si era a conoscenza dei procedimenti penali a carico di uno dei soggetti coinvolti. Si assicura che il Ministero effettuerà rapidamente tutti gli approfondimenti necessari e non mancherà di adottare i provvedimenti ritenuti più idonei, compreso il ritiro dell'atto di nomina del soggetto menzionato o lo scioglimento del consiglio di amministrazione, ipotesi espressamente contemplata dal comma 5 del citato articolo 204 del decreto legislativo n. 297 del 1994»;
   ad oggi, trascorsi circa nove mesi dalla risposta, nulla ancora si sa rispetto agli «approfondimenti necessari» annunciati dal Sottosegretario, e non risultano ancora adottati provvedimenti sulla vicenda segnalata –:
   se siano stati svolti e con quale esito gli approfondimenti sulla vicenda del consiglio di amministrazione dell'istituto «SS. Trinità del Paradiso» di Vico Equense di cui all'interrogazione citata in premessa;
   se, e quali provvedimenti, il Ministro intenda assumere sulla vicenda in oggetto. (5-02804)

LAVORO E POLITICHE SOCIALI

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   MAESTRI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   il consorzio Casalasco del pomodoro nasce nel 1977 a Cremona come cooperativa di produttori agricoli. Occupa oggi circa 600 dipendenti, impiegati negli stabilimenti di Rivarolo del Re (Cremona), Fontanellato e Felegara (Parma) per un volume di fatturato di circa 200 milioni di euro;
   gli stabilimenti di Fontanellato e Felegara sono stati ottenuti dal consorzio Casalasco nel 2007 a seguito dell'acquisizione della Boschi F&B, società del gruppo Parmalat ceduta dopo il crac. Nel gennaio 2012 il consorzio ha optato per la fusione per incorporazione di Boschi F&B ottenendo l'estensione ai lavoratori degli stabilimenti di Parma della previdenza agricola, del Contratto collettivo nazionale di lavoro coop agricolo e del contratto aziendale vigente a Cremona in luogo all'applicazione della previdenza industriale, del Contratto collettivo nazionale di lavoro industrie alimentari e del contratto provinciale delle conserve vegetali di Parma, applicato in tutte le analoghe aziende della provincia e già adottato anche dalla Boschi F&B, con significative penalizzazioni salariali e contrattuali per i lavoratori;
   nel gennaio 2014 il consorzio Casalasco ha sottoscritto un accordo con l'ISA (Istituto di sviluppo agroalimentare), una società finanziaria con socio unico il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, che promuove e sostiene progetti di sviluppo agroindustriale, per l'ottenimento di un finanziamento di 12 milioni di euro per un progetto di sviluppo del gruppo. Tali risorse andranno ad incrementare il capitale sociale di Casalasco facendo, di fatto, diventare ISA il socio con maggiori quote del consorzio (10 per cento);
   il 29 aprile 2014, Casalasco ha comunicato alle organizzazioni sindacali l'intenzione di chiudere lo stabilimento di Felegara prima dell'avvio della campagna produttiva del pomodoro del 2014;
   lo stabilimento di Felegara occupa 66 lavoratori a tempo determinato oltre a circa 70 stagionali impiegati per periodi variabili dai 2 agli 8 mesi nel corso dell'anno. A tale sito produttivo afferiscono lavoratori della pedemontana parmense ma anche delle zone montane del Taro e del Ceno il cui paventato e parziale trasferimento negli stabilimenti di Rivarolo del Re e Fontanellato risulterebbe essere estremamente penalizzante;
   le organizzazioni sindacali e i lavoratori riferiscono che l'azienda starebbe già avviando le attività di trasferimento delle linee produttive da Felegara –:
   se i Ministri interrogati siano a conoscenza della situazione sopra descritta e se non ritengano di avviare ogni più utile iniziativa al fine di scongiurare la chiusura dello stabilimento di Felegara (Parma) del consorzio Casalasco del pomodoro anche alla luce del cospicuo finanziamento di 12 milioni di euro che lo stesso ha ricevuto dalla società ISA del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali.
(5-02801)


   CAPARINI, INVERNIZZI, RONDINI, BORGHESI, GUIDESI, GRIMOLDI e FEDRIGA. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   in data 31 marzo 2014 è stato raggiunto l'accordo tra tutte le parti sociali, le istituzioni locali e la regione Lombardia per la proroga dell'utilizzo degli ammortizzatori sociali in deroga per il 2014;
   tale accordo proroga, di fatto, le condizioni convenute con l'intesa sottoscritta in regione lo scorso 23 dicembre dove, nell'ambito della commissione regionale per il lavoro e la formazione, regione Lombardia e le Parti Sociali lombarde hanno sottoscritto la proroga per i primi tre mesi del 2014 dell'accordo regionale per la concessione degli ammortizzatori sociali in deroga che ribadisce la necessità che il Governo emani urgentemente i decreti di copertura finanziaria, così come previsto dalla legge di stabilità per l'anno 2014;
   sono circa 35.000 lavoratori e lavoratrici interessati dalla cassa in deroga non ricevono nessun reddito da gennaio, mentre circa 7.000 lo stanno aspettando da ottobre perché mancano le risorse;
   nel primo trimestre 2014 in Lombardia sono già state presentate 6.700 domande e la situazione sta peggiorando di giorno in giorno e le aziende, di fronte all'incertezza, potrebbero licenziare creando ulteriore disoccupazione;
   questi numeri impressionanti confermano la necessità e l'urgenza di rifinanziare gli ammortizzatori per evitare che decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori della sola Lombardia restino senza reddito;
   tale condizione è stata rappresentata in una comunicazione del 4 aprile scorso al Ministro del lavoro e delle politiche sociali da parte del presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani in cui si evidenzia come «decine di migliaia di lavoratori da mesi attendono di poter ricevere le indennità per i periodi di cassa e mobilità in deroga maturati nel 2013» e come «nella gran parte delle regioni non si è ancora potuto procedere alle autorizzazioni per il 2014, stante l'indisponibilità delle risorse»;
   sempre nella comunicazione di Errani al Ministero si sottolinea che «tale situazione, come già segnalato, sta determinando la scelta di molte aziende, in condizione di crisi temporanea, di procedere ai licenziamenti»;
   il pregresso 2013, in particolare, ammonterebbe a euro 679.471.597,30 mentre le prime autorizzazioni per il 2014 ammonterebbero a euro 821.821.640,78;
   il 30 aprile a Milano la CGIL-CISL e UIL hanno fatto un presidio per chiedere il finanziamento immediato del fondo per gli ammortizzatori sociali al Governo Renzi e al Ministro del lavoro Poletti. Le Organizzazioni sindacali temono che se il problema non verrà risolto al più presto, possa venir meno la coesione sociale;
   Inps deve essere più celere ed efficiente nella rendicontazione dell'andamento della cassa, cosa che servirebbe per migliorare i tempi dell'erogazione. Inoltre, i lavoratori aspettano mesi e mesi le loro spettanze da parte dell'Inps, con gravissime difficoltà per loro stessi e le proprie famiglie;
   la drammatica situazione di migliaia di lavoratori e lavoratrici lombarde è ampiamente nota al punto che nei giorni scorsi il ministro Poletti aveva dichiarato necessario continuare a finanziare questi ammortizzatori ma fino ad oggi delle risorse necessarie non si trova traccia;
   già in sede di approvazione della legge di stabilità nel dicembre scorso risultava piuttosto evidente l'esiguità delle risorse stanziate per il 2014, annunciato come l'anno più difficile per la tenuta occupazionale –:
   quale sia la reale situazione delle risorse disponibili per gli ammortizzatori in deroga per il 2014 e quale l'ammontare complessivo non ancora liquidato nel 2013;
   quale sia il fabbisogno per il 2014;
   quali provvedimenti il Governo intenda porre in essere per assicurare piena copertura ai fabbisogni indicati dalle regioni e dalla regione Lombardia in particolare;
   in quali tempi il Governo intenda agire e come intenda reperire le risorse eventualmente necessarie;
   quali rassicurazioni intenda offrire il Governo, anche nell'annunciato caso della riforma degli ammortizzatori in deroga, circa l'impegno di non abbandonare le centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori che rischiano di perdere lavoro, salario, ammortizzatori sociali e pensione. (5-02805)

POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI

Interrogazioni a risposta immediata in Commissione:
XIII Commissione:


   LUPO, BENEDETTI, MASSIMILIANO BERNINI, GAGNARLI, GALLINELLA, L'ABBATE e PARENTELA. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   il decreto interministeriale 12 luglio 2013 con riferimento alle colture OGM nel nostro Paese stabilisce che la coltivazione di varietà di mais MON810, provenienti da sementi geneticamente modificate, è vietata nel territorio nazionale fino all'adozione di misure comunitarie di cui all'articolo 54, comma 3, del regolamento. (CE) n. 178/2002 del 28 gennaio 2002 e comunque non oltre diciotto mesi dalla data dello stesso;
   la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio n. 04411/2014 del 24 aprile 2014, che sancisce il rigetto del ricorso presentato contro il decreto di cui in parola, ribadisce il principio invalicabile di precauzione, affermando che: «Quando sussistono incertezze riguardo all'esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone possono essere adottate misure protettive senza dover attendere che siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi»;
   il Ministro interrogato, appresa la notizia della sentenza del Tribunale amministrativo regionale, ha dichiarato inoltre – «Apprendiamo con soddisfazione il pronunciamento del Tribunale amministrativo regionale che conferma nella sostanza le ragioni del decreto promosso dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, di concerto con i Ministeri della salute e dell'ambiente in relazione allo stop delle semine OGM in Italia», confermando la sua posizione di contrarietà, alla luce dei fatti, alla coltivazione del mais MON810;
   il decreto interministeriale nulla dispone in merito ad un eventuale apparato sanzionatorio in caso di violazione del divieto ivi sancito –:
   quali misure intenda adottare o quali sanzioni debbano ritenersi applicabili nell'eventualità di violazione del divieto previsto dal decreto interministeriale indicato in premessa, considerata anche l'imminente semina dei campi con il conseguente pericolo di contaminazione ambientale a danno dei terreni limitrofi. (5-02796)


   FRANCO BORDO, GIANCARLO GIORDANO e PALAZZOTTO. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   l'Italia è tra i principali produttori ed esportatori mondiali di castagne (Castanea sativa Miller), è il primo esportatore mondiale per valore degli scambi e il secondo per quantità scambiate, dopo la Cina, ma la quota di mercato è in rapida decrescita. L'industria di trasformazione si fornisce spesso all'estero a causa del rilevante calo della produzione italiana sul mercato mondiale che è scesa in pochi anni dall'11 per cento al 4 per cento;
   il castagno ha un ruolo preminente tra le formazioni forestali italiane, non solo per l'elevata produttività, la qualità e la varietà degli assortimenti legnosi, ma soprattutto per la consistente presenza sul territorio nazionale. Nei 10,5 milioni di, ettari occupati da boschi, la frazione investita a castagno rappresenta il 7,60 per cento di quella forestale, per un totale di circa 780.000 ettari. Si tratta di un patrimonio forestale, in gran parte di origine antropica, la cui ubicazione si concentra in diverse regioni; specificatamente il Piemonte, la Toscana e la Liguria detengono oltre il 50 per cento del patrimonio nazionale e, includendo la Lombardia, la Calabria, la Campania, l'Emilia Romagna e il Lazio, che hanno un patrimonio superiore a 30.000 ettari, si giunge al 90 per cento;
   il castagno rappresenta un presidio ecosistemico fondamentale per il territorio e svolge un ruolo strategico nella protezione del suolo dai dissesti idrogeologici occupando le pendici più acclivi e le parti più antropizzate del territorio, in particolar modo per quei territori a prevalenza collinare e montana, dove la secolare coltivazione della cupulifera ha consentito la preservazione di grandi aree paesaggistiche molto suggestive;
   la conferenza Stato-Regioni in data 18 novembre 2010 ha approvato il «Piano castanicolo nazionale», allegando uno specifico documento tecnico: «Riferimenti tecnici di attuazione della lotta biologica al cinipide calligeno (Dryocosmus kuriphilus) del castagno con il Torymus sinensis», redatto dall'Università di Torino;
   il cinipide calligeno, o vespa cinese, è un insetto che produce ingenti danni al castagno con riduzione dello sviluppo vegetativo e della produzione (anche del 50/70 per cento), deperimento generale con crescita della vulnerabilità ad altre avversità biotiche ed abiotiche, morte nei casi rari di forti attacchi a piante giovani;
   il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, con il «Piano castanicolo nazionale» ha investito un milione di euro per la ricerca di forma di lotta al cinipide tra gli anni 2010 e 2013, la cui si aggiungono gli sforzi in termini di risorse e personale specializzato impiegato dalle regioni con il supporto delle università, del Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura (CRA) e del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR);
   la lotta biologica, sviluppata in Giappone, prevede il lancio, la propagazione e la stabilizzazione dell'antagonista biologico del cinipide, Torymus sinensis;
   dopo alcuni anni di sperimentazione, la difesa basata esclusivamente sulla lotta biologica ha mostrato forti problemi e generato perplessità rispetto ai tempi troppo lunghi di risposta alle tecniche «propagative» e, per questi motivi, sarebbe opportuno introdurre nella castanicoltura specializzata, strategie di difesa integrata, in particolar modo nel territorio campano;
   il «Piano castanicolo nazionale», oltre agli aspetti fitopatologici ed alla riduzione dei costi, deve essere il volano per sviluppare una strategia commerciale forte, centrata sulla qualità riconosciuta delle produzioni nazionali, l'organizzazione dell'offerta, una promozione efficace e servizi adeguati per favorire la fidelizzazione dei consumatori;
   in Italia vi sono diverse indicazioni geografiche protette (IGP) e diverse denominazioni di origine protette (DOP) per le castagne, marroni ed alcuni prodotti derivati. La quantità controllata, certificata e commercializzata è assolutamente irrisoria. Occorre, pertanto, intervenire per selezionare le denominazioni suscettibili di sviluppo, costituire consorzi e distretti, trasformare le IGP in DOP e sviluppare, contestualmente, strategie commerciali che sostengano e valorizzino maggiormente le filiere regionali con un piano ad hoc di promozione sui mercati esteri della «castagna italiana». A tal riguardo, è opportuno segnalare che i maggiori competitor internazionali nella produzione, commercializzazione e trasformazione delle castagne, quali Cina e Corea del Sud, stanno aggredendo e conquistando spazi «italiani» in Nord America e in Nord Europa con massicce campagne pubblicitarie poste in essere dai rispettivi Ministeri delle politiche agricole, alimentari e forestali;
   le ulteriori criticità della filiera castanicola italiana sono dovute alla esigua presenza di operatori che trasformano e commercializzano il prodotto sui mercati esteri e nazionali, da un'offerta frammentata costituita da aziende di piccole dimensioni e dalla presenza di numerosi intermediari. Tale struttura si riflette sia sul prezzo alla produzione (poco remunerativo) che su quello al consumo (troppo elevato) –:
   quali siano stati i risultati ottenuti dal «Piano nazionale castanicolo 2010-2013», a quanto ammonti il suo plafond, se non si ritenga urgente finanziare tale piano di settore e se non sia opportuno adeguarlo con azioni realmente efficaci, anche alla luce delle campagne pubblicitarie e di sensibilizzazione poste in essere dai competitor internazionali che producono castagne che non posseggono le qualità organolettiche della «castagna italiana». (5-02797)


   CAON. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   la contraffazione a tavola è quella più temuta dagli italiani: sei italiani su dieci, il 60 per cento, la considerano, a ragione, più grave delle frodi fiscali e degli scandali finanziari. La contraffazione alimentare in Italia vale un miliardo di euro che sale a 60 se si considera il fenomeno dell'agropirateria ovvero la contraffazione dei prodotti agroalimentari italiani nel mondo;
   la frode alimentare è un crimine particolarmente odioso perché si fonda soprattutto sull'inganno nei confronti di quanti, per la ridotta capacità di spesa, sono stati costretti a tagliare la spesa alimentare e a optare per alimenti economici con prezzi troppo bassi per essere prodotti autentici, con conseguenze economiche e sanitarie di rilievo per i consumatori e per i produttori;
   le frodi e le contraffazioni nel settore agricolo e agroalimentare rappresentano un fenomeno preoccupante e, nonostante l'intensificarsi dei controlli, continuano a svilupparsi in maniera crescente e fanno perdere risorse al nostro Paese, risorse che creano indispensabili rapporti commerciali che sono fondamentali per l'economia del territorio;
   al fine di contrastare e contenere l'illecita attività della contraffazione, il legislatore ha previsto sanzioni sia amministrative che penali – in ordine alle diverse fattispecie sono state individuati differenti tipi di sanzioni – per le violazioni che si configurano in condotte illecite poste in essere dagli imprenditori ed operatori commerciali, ma che non sembrano essere sufficienti per contrastare gli illeciti derivanti dalla persistente azione della cosiddetta agropirateria nel nostro Paese, ormai penetrata stabilmente nel tessuto industriale e commerciale del comparto agroalimentare italiano;
   la contraffazione alimentare colpisce soprattutto i prodotti alimentari di qualità regolamentata (DOP e IGP). Le denominazioni di origine rappresentano la punta di diamante della produzione agroalimentare nazionale capace di trascinare l’export dell'intero settore. Il nostro Paese in Europa è quello con più prodotti a denominazione di origine protetta (DOP), a indicazione geografica (IGP) e di specialità tradizionale garantita (STG) con 261 prodotti iscritti nel registro dell'Unione europea che rappresentano circa un quarto delle denominazioni riconosciute a livello comunitario;
   il giro d'affari legato alle produzioni DOP e IGP supera solo nel nostro Paese i 7 miliardi di euro per fatturato alla produzione e i 12,6 miliardi di euro per consumo, di cui circa 8,9 registrati sul mercato nazionale. Circa un terzo del volume prodotto è destinato all’export, per un valore di circa 2,5 miliardi di euro. Mentre il valore delle merci contraffatte nel settore alimentare e bevande è pari ad oltre un miliardo di euro, il 15 per cento dell'intera contraffazione rivenuta nel nostro Paese che va dall'usurpazione della denominazione alle sofisticazioni e frodi alimentari;
   in sede di Unione europea il quadro normativo sul riconoscimento delle denominazioni e per la loro tutela è stato istituito, e aggiornato, da molti anni quindi i prodotti DOP e IGP sono riconosciuti e tutelati, mentre in ambito internazionale si rileva l'assenza di regole multilaterali per una loro tutela globale contro l'agropirateria e la mancanza di una disciplina uniforme nel sistema commerciale;
   nonostante la normativa europea sia volta a garantire e proteggere la qualità certificata dei prodotti DOP e IGP esistono ancora oggi molti casi di concorrenza sleale legata ad articoli, anche di provenienza extra europea, che circolano indisturbati. Qualche esempio: la mozzarella di bufala campana, che aspetta dal 1996 la denominazione DOP; i pomodori concentrati, con un +174 per cento di contraffazione, che arriva praticamente tutta dalla Cina; il tartufo del Piemonte, che subisce la contraffazione da Africa e Albania; gli pseudo-agrumi di Sicilia, che arrivano da America e Sudafrica; i funghi taroccati, che arrivano da tutto il mondo e che sono venduti come italiani. E poi, il 74 per cento dei sequestri effettuati nel 2012 dalla Guardia di finanza ha interessato cloni dell'olio d'oliva, per non parlare del grana padano e del parmigiano che arrivano da Danimarca e Stati Uniti e, ancora peggio, del prosciutto crudo Parma o San Daniele che molto spesso arriva dalla Germania;
   il fenomeno di illeciti nel settore agroalimentare richiede urgenti e ulteriori misure anche di carattere penale, per invertire un trend pericoloso, che nel corso degli ultimi anni sta negativamente caratterizzando un importante settore che rappresenta un pilastro nell'economia italiana;
   i consorzi di tutela dei prodotti tipici hanno come scopo primario la tutela, promozione e valorizzazione dei prodotti italiani. Detti consorzi salvaguardano il prodotto da abusi, atti di concorrenza sleale, contraffazioni ed uso improprio delle denominazioni. Questi ogni anno investono milioni di euro in azioni di vigilanza e tutela;
   la tutela sanzionatoria del comparto agroalimentare necessita di essere rafforzata e costituisce un punto chiave nella strategia di contrasto del fenomeno. È necessario focalizzare l'attenzione sulla verifica dell'efficacia degli strumenti legislativi vigenti per contrastare le pratiche illecite. Gli strumenti sono da ricercare anche all'interno del nostro codice penale, nelle legislazioni speciali di settore nonché, a livello europeo, nella normativa dell'Unione europea –:
   come intenda procedere per rendere più incisivi la lotta alle frodi alimentari e il controllo per contrastare il fenomeno, magari prevedendo iniziative volte a destinare le risorse derivanti dalle sanzioni amministrative, applicate in violazione delle norme nazionali di tutela delle DOP, IGP e STG, direttamente ai consorzi di tutela, per promuovere azioni di tutela e vigilanza nonché rendere più incisive le misure sanzionatorie previste, che facciano da deterrente alle suddette pratiche illecite. (5-02798)


   SCHULLIAN e ZACCAGNINI. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   il decreto 22 gennaio 2014 di adozione del Piano di azione nazionale per l'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari (PAN), entrato in vigore dal 13 febbraio 2014, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 35 del 12 febbraio 2014) ai sensi dell'articolo 6 del decreto legislativo 14 agosto 2012, n. 150, recante la «Attuazione della direttiva 2009/128/CE che istituisce un quadro per l'azione comunitaria ai fini dell'utilizzo sostenibile dei pesticidi»;
   la direttiva 2009/128/CE assegna agli Stati membri il compito di definire le misure per un uso sostenibile dei prodotti fitosanitari. La direttiva prevede di predisporre un apposito Piano d'azione nazionale. Il Piano, in linea con i contenuti della direttiva 2009/128/CE e del decreto legislativo n. 150 del 2012, si prefigge i seguenti obiettivi: ridurre i rischi e gli impatti dei prodotti fitosanitari sulla salute umana, sull'ambiente e sulla biodiversità; promuovere l'applicazione della difesa integrata, dell'agricoltura biologica e di altri approcci alternativi; proteggere gli utilizzatori dei prodotti fitosanitari e la popolazione interessata; tutelare i consumatori; salvaguardare l'ambiente acquatico e le acque potabili; conservare la biodiversità e tutelare gli ecosistemi;
   in data 14 aprile, 2014, il sito web Agronotizie pubblicava un articolo dal titolo «Gli Agrotecnici fanno ricorso contro il PAN»; nello stesso articolo si scriveva «Provvedimento depositato ieri al TAR del Lazio contro il Piano d'azione nazionale»;
   secondo il Collegio, l'81 per cento delle aziende agricole è priva di autorizzazione all'acquisto di fitofarmaci. Il Collegio nazionale degli agrotecnici e degli agrotecnici laureati ha depositato ieri al TAR del Lazio il ricorso contro il PAN, il Piano d'azione nazionale per l'uso di prodotti fitosanitari che, della sua attuale formulazione – si legge in una nota del Collegio – non raggiunge nessuno degli obiettivi previsti dalla direttiva europea n. 128 del 2009 e che anzi ne ritarda di un anno l'effettiva entrata in vigore (in contraddizione con la stessa disposizione nazionale di recepimento della disciplina europea, che fissava al 26 novembre 2013 l'avvio della nuova disciplina). Il PAN consiste in una serie di norme che «dovrebbero» ridurre i rischi associati all'uso dei fitofarmaci, pur continuando a garantire strumenti idonei per la protezione delle colture agrarie, ma in realtà – prosegue il comunicato – il testo predisposto dal Governo non sembra raggiungere questi obiettivi, moltiplicando all'inverosimile le procedure burocratiche, senza alcun effetto concerto e raggiungendo picchi di vera e propria assurdità, (...). Il PAN in sostanza non distingue, se non marginalmente – sostengono gli agrotecnici – fra un benzinaio un musicista, un insegnante di lettere ed un laureato in agraria, libero professionista. Per fare un paragone sarebbe come chiedere ad un medico di fare un «esame regionale» per potere (lui che li prescrive) acquistare un antibiotico in farmacia. Il ruolo dei tecnici liberi professionisti risulta quindi completamente mortificato, nonostante i molti interventi svolti dal Collegio nei confronti del Governo e della Conferenza Stato-regioni; le proposte degli agrotecnici erano volte ad aumentare la consapevolezza dei rischi per la salute pubblica e per quella degli operatori sull'errato impiego dei prodotti fitoiatrici e per promuovere modelli sostenibili di agricoltura. Proposte che salvaguardavano il ruolo dei tecnici liberi professionisti e valorizzavano correttamente il ruolo delle regioni. «A questo punto – ha commentato Roberto Orlandi, presidente degli agrotecnici – posti di fronte a tanta ottusa arroganza, altra strada non rimaneva se non quella di depositare gli atti in tribunale (...). Secondo gli agrotecnici, i problemi reali nell'uso dei fitofarmaci non vengono affrontati nel PAN; in particolare a fronte di 1.623.000 aziende agricole risultanti dall'ultimo censimento dell'agricoltura sono state rilasciate (dal 1968 ad oggi) solo 250.000 autorizzazioni all'acquisto di fitofarmaci. Tolte le 43.000 aziende biologiche (che non usano fitofarmaci) risultano oltre 1.300.000 aziende agricole, cioè oltre l'81 per cento), che verosimilmente utilizzano fitofarmaci senza alcuna autorizzazione. Anche per questo, per difendere la salute pubblica, il Collegio nazionale degli agrotecnici e degli agrotecnici laureati ha presentato ricorso;
   in tema di utilizzo di fitosanitari vi è da menzionare la Francia è il primo paese in Europa per quantità di pesticidi venduti, con circa 7,500 tonnellate di prodotti venduti all'anno (90 per cento in agricoltura e 10 per cento per usi non agricoli). Il Governo francese ha avviato in anni recenti diverse iniziative per la riduzione dell'uso dei pesticidi (definiti come prodotti fitosanitari dal Code Rural, articolo L253-1) ed è previsto un programma nazionale per la riduzione dei pesticidi che trova la sua disciplina nel Code de l'environnement (articoli R213-12-22, R213-12-23, R213-12-24). Le norme francesi sulla commercializzazione dei prodotti fitosanitari obbligano dal 2010 i fabbricanti di tali prodotti a riportare sull'etichetta la menzione «impiego autorizzato nei giardini», a indicazione che il prodotto non presenti pericolo per gli utenti non professionisti. È vietata la vendita di prodotti fitosanitari che non portino tale menzione sull'etichetta (Arrêté du 30 décembre 2010);
   anche la quantità di residui di pesticidi nell'acqua potabile è regolata dalla legislazione francese. L’Arrêté du 11 janvier 2007 stabilisce che la quantità massima non debba essere superiore a 0,1 microgrammi/litro per singola sostanza pesticida e che la quantità totale di pesticidi non debba superare complessivamente gli 0,5 microgrammi/litro. Nel 2003 è stato istituito l'Observatoire des Résidus de Pesticides (ORP) con il compito di creare e gestire una banca dati dei testi regolamentari e dei controlli sui prodotti antiparassitari e sulle tracce (residui) di tali prodotti presenti all'esterno o all'interno degli alimenti Nel 2006 è stato avviato un primo piano interministeriale per la riduzione dei rischi legati ai pesticidi e il cosiddetto Grenelle dell'ambiente del 2007 ha confermato gli orientamenti del piano del 2006 assumendo diversi impegni in materia. A seguito del Grenelle, il Governo francese ha pertanto deciso nel 2008 di ridurre l'uso dei pesticidi del 50 per cento il 2018 e ha lanciato, a settembre 2008, il Plan ECOPHYTO 2018. Nell'ambito del Piano, l'ORP ha avuto il compito di mettere a punto un sistema informativo che consenta lo scambio di dati contenuti nelle diverse banche dati e, in particolare, la rilevazione degli indicatori di pressione fitosanitaria sull'agricoltura francese previsti dal Piano (NODU e QSA), nonché di coordinare la definizione delle pratiche di rilevazione e le informazioni provenienti dall'applicazione dei primi indicatori di rischio. Dal 2008 sono state adottate diverse misure, quali, in, particolare, il ritiro dal mercato di 30 prodotti ritenuti più tossici, la creazione di una tassa sui prodotti fitosanitari di ammontare crescente in base al loro livello di tossicità (Code de l'Environnement, articolo L213-10-8) e la concessione di crediti d'imposta a favore dell'agricoltura biologica. Tra le iniziative avviate nel quadro del Piano ECOPHYTO 2018 si segnalano, inoltre, le azioni volte a migliorare l'informazione degli agricoltori attraverso la creazione di una rete di epidemiovigilanza, a diffondere le buone prassi agricole attraverso la creazione di diverse reti di fattorie di riferimento, a sviluppare la formazione professionale e a migliorare l'uso dei materiali. Dal 2008 il consumo di pesticidi sul territorio francese viene monitorato attraverso un particolare indicatore (NODU), che dovrebbe consentire di valutare la progressiva riduzione dei pesticidi fino al raggiungimento dell'obiettivo fissato dal Piano. Inoltre un recente provvedimento adottato nel dicembre 2013 vieta l'uso dei fitosanitari decretandone il divieto d'uso nelle aree verdi entro il 2020 e di una commercializzazione per uso non professionale entro il 2022. La decisione si basa sui dati emersi da un'indagine del Senato del 2012 per valutare gli impatti di questi prodotti su ambiente e salute e segue di poco l'appello di un gruppo di ricercatori, medici, ONG e politici alle autorità pubbliche e al governo, affinché riducano la possibilità di ricorrere a pesticidi ed erbicidi o li proibiscano totalmente;
   erbicidi e pesticidi possono causare danni non solo alle specie target, ma anche al territorio è al paesaggio, inquinano laghi e corsi d'acqua ed è ormai scientificamente provata la correlazione tra il loro impiego e l'aumento di patologie come i tumori o il morbo di Parkinson. Gli effetti nocivi che i fitofarmaci usati in agricoltura provocano sull'ambiente, la sicurezza alimentare e la salvaguardia della biodiversità, sono spesso sottovalutati così come i rischi legati al loro uso non agricolo; cioè nel giardinaggio, o nella manutenzione di strade, strade ferrate, autostrade, piazze alberate o viali, nei parchi gioco, nei campi sportivi e nelle aree delle strutture sanitarie, scolastiche, ricreative. Nel 2009 il Parlamento europeo ha approvato una direttiva che impone il divieto di impiego (o la riduzione dell'uso a situazioni di eccezionalità) dei fitosanitari nelle aree verdi pubbliche –:
   se sia a conoscenza dei fatti narrati e se non reputi necessario fare proprie le considerazioni del Collegio nazionale degli agrotecnici, espresse nel provvedimento depositato al TAR del Lazio, creando un sistema disincentivante nei confronti dei prodotti fitosanitari sulla base del livello di tossicità e, invece, di crediti d'imposta in favore dell'agricoltura biologica. (5-02799)


   VENITTELLI e OLIVERIO. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   al fine di tutelare le risorse del mare ha assunto grande importanza la misura dell'arresto temporaneo per le attività di pesca attivato negli ultimi anni e, quindi, anche negli anni 2012 e 2013;
   in virtù dell'arresto temporaneo, comunemente detto «fermo biologico», le navi da pesca autorizzate ad esercitare l'attività di pesca con il sistema strascico e/o volante, iscritte nei compartimenti marittimi da Trieste a Rimini, da Pesaro a Bari , da Brindisi ad Imperia, oltre che per i compartimenti della Sardegna e Sicilia è stata disposta l'interruzione temporanea obbligatoria delle attività di pesca per un periodo che va da 3 a 6 settimane, nel rispetto dei periodi e dei plani di gestione disposti con provvedimento regionale;
   inoltre, sempre nel 2012 e 2013 sono state intensificate le misure del cosiddetto «dopo fermo» al fine di rafforzare la tutela delle risorse ittiche nell'area del mare Adriatico. Nello specifico, è stato stabilito che, decorso il periodo di fermo, l'attività di pesca per 10 settimane è stata consentita solo per 3 giorni a settimana e successivamente solo per 4 giorni a settimana;
   infine, è stata vietata sino alla fine del mese di ottobre, sia per il 2012 che nel 2013, nelle acque dei compartimenti marittimi sempre dell'Adriatico (ad eccezione di quelli di Monfalcone e di Trieste) e dello Ionio, la pesca a strascico e/o volante ad una distanza dalla costa inferiore alle 6 miglia, ovvero con una profondità d'acqua inferiore a 60 metri;
   a fronte del periodo di «sospensione dell'attività» e delle misure successive sopraindicate, per le tante famiglie di pescatori italiani e per le imprese di pesca era stata prevista l'erogazione di un sostegno al reddito, rimandando ad un successivo decreto ministeriale ai fini della individuazione dei criteri e delle modalità di erogazione dello stesso;
   purtroppo sino ad oggi sia le imprese di pesca che i lavoratori/pescatori non hanno ancora ottenuto il sostegno al reddito previsto per l'arresto temporaneo del 2013;
   la mancanza del detto sostegno, a distanza di 10 mesi, sta determinando una pesante ricaduta sulle legittime spettanze dei lavoratori e, consequenzialmente, un crescente clima di preoccupazione in tutto il settore anche nell'imminenza del prossimo periodo di arresto temporaneo estivo –:
   quali urgenti iniziative si intendano assumere al fine di assicurare la più sollecita conclusione dell’iter amministrativo ai fini della erogazione del fermo per le imprese di pesca e per i lavoratori dell'intera marineria italiana. (5-02800)

Interrogazioni a risposta scritta:


   TERZONI, ZOLEZZI, MANNINO, BUSTO, DAGA, MICILLO, DE ROSA, SEGONI e VIGNAROLI. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   nel 2013 per le società di persone e le srl che assumono la qualifica di società agricole ex articolo 2 del decreto legislativo n. 99 del 2004 era stata eliminata la possibilità di optare per la determinazione del reddito con le modalità fondiarie ai sensi dell'articolo 32 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR);
   con la legge di stabilità 2014 n. 147 del 2013 è stato reintrodotto il diritto di opzione per la determinazione del reddito agrario per le società agricole – articolo 1, comma 36;
   il comma in esame abroga, a far data dal 1o gennaio 2014, i commi 513 e 514 della legge n. 228 del 2013 che avevano abrogato, a loro volta, con effetto dal 1o gennaio 2013, i commi 1093 e 1094 della legge n. 296 del 2006, con i quali veniva concesso alle società agricole nella forma di Srl, Snc, Sas e cooperative, che rispettavano il requisito sostanziale dell'esercizio esclusivo delle attività agricole, ex articolo 2135 del codice civile, e quello formale dell'indicazione, nella ragione/denominazione sociale, della dizione «Società agricola», di esercitare l'opzione per la determinazione del reddito su base catastale, a norma dell'articolo 32 del TUIR, nonché di considerare imprenditori agricoli le società, costituite da imprenditori agricoli, che svolgevano le attività connesse di trasformazione, manipolazione, conservazione, valorizzazione e commercializzazione esclusivamente sui beni ceduti dai soci. Peraltro, le stesse disposizioni consentivano alle società che avevano già esercitato l'opzione per il reddito catastale, entro il periodo d'imposta 2012, di «prolungare» anche per gli anni 2013 e 2014, l'applicazione della determinazione del reddito su base catastale;
   l'abrogazione dei commi 513 e 514 dal 1o gennaio 2014, con il riacquisto di efficacia dei commi 1093 e 1094 della legge n. 296 del 2006 dalla stessa data, producono, tuttavia, la conseguenza di non consentire alle società costituitesi nel corso del 2013 di poter accedere, in via di opzione, al regime catastale;
   le stesse società potranno naturalmente procedere all'esercizio dell'opzione a valere dal periodo d'imposta 2014;
   di questa possibilità possono godere anche quelle imprese agricole che basano la loro attività sulla produzione di energia elettrica mediante impianti alimentati a biogas e biomasse –:
   se i Ministri interrogati non ritengano opportuno intervenire con apposite iniziative normative in modo da precludere la possibilità di optare per la determinazione del reddito per le società agricole come reintrodotto dall'articolo 1, comma 36, della legge n. 147 del 2013 a quelle società che producono energia attraverso impianti alimentati da biogas o biomasse che non siano strettamente strumentali all'attività agricola e all'autosufficienza energetica dell'azienda o che siano alimentate anche solo in parte con combustibili derivati da colture dedicate o con materiali provenienti da terzi. (4-04813)


   BENEDETTI, MASSIMILIANO BERNINI e PARENTELA. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   il sito Agronotizie in data 14 aprile 2014 dà notizia che il collegio nazionale degli agrotecnici e degli agrotecnici laureati ha depositato al Tar del Lazio il ricorso contro il Pan, il Piano d'azione nazionale per l'uso di prodotti fitosanitari che, nella sua attuale formulazione – si legge in una nota del collegio – non raggiunge nessuno degli obiettivi previsti dalla Direttiva europea n. 128/2009 e che anzi ne ritarda di un anno l'effettiva entrata in vigore (in contraddizione con la stessa disposizione nazionale di recepimento della disciplina europea, che fissava al 26 novembre 2013 l'avvio della nuova disciplina);
   il Pan consiste in una serie di norme che «dovrebbero» ridurre i rischi associati all'uso dei fitofarmaci, pur continuando a garantire strumenti idonei per la protezione delle colture agrarie, ma in realtà – prosegue il comunicato – il testo predisposto dal Governo non sembra raggiungere questi obiettivi, moltiplicando all'inverosimile le procedure burocratiche, senza alcun effetto concreto e raggiungendo picchi di vera e propria assurdità;
   per l'acquisto e la vendita di fitofarmaci serve avere sostenuto un corso (di 20 ore ogni 5 anni) e superato un «esame abilitativo» regionale: a questo adempimento vengono assoggettati anche i tecnici liberi professionisti (con percorsi di studi agrari, secondari od universitari, mai inferiori a cinque anni), che hanno superato un esame di Stato abilitante alla professione (anche) di fitopatologo;
   il Pan in sostanza non distingue, se non marginalmente – sostengono gli agrotecnici – fra un benzinaio, un musicista, un insegnante di lettere ed un laureato in agraria, libero professionista. Per fare un paragone sarebbe come chiedere ad un medico di fare un «esame regionale» per potere (lui che li prescrive) acquistare o vendere un antibiotico in farmacia;
   il ruolo dei tecnici liberi professionisti risulta quindi completamente mortificato, nonostante i molti interventi svolti dal Collegio nei confronti del Governo e della Conferenza Stato-regioni; le proposte degli agrotecnici erano volte ad aumentare la consapevolezza dei rischi per la salute pubblica e per quella degli operatori sull'errato impiego dei prodotti fitoiatrici e per promuovere modelli sostenibili di agricoltura. Proposte che salvaguardavano il ruolo dei tecnici liberi professionisti e valorizzavano correttamente il ruolo delle regioni;
   il presidente degli agrotecnici, Roberto Orlandi, sostiene che «non è possibile accettare che un'abilitazione rilasciata dallo Stato, a seguito di un lungo percorso di studi ed il superamento di un esame abilitante, venga disconosciuta completamente dalle regioni e, da queste, equiparata ad un corso di 20 ore»;
   secondo gli agrotecnici, i problemi reali nell'uso dei fitofarmaci non vengono affrontati nel Pan; in particolare a fronte di 1.623.000 aziende agricole risultanti dall'ultimo censimento dell'agricoltura, sono state rilasciate (dal 1968 ad oggi) solo 250.000 autorizzazioni all'acquisto di fitofarmaci;
   tolte le 43.000 aziende biologiche (che non usano fitofarmaci) risultano oltre 1.300.000 aziende agricole, cioè oltre l'81 per cento, che verosimilmente utilizzano fitofarmaci senza alcuna autorizzazione –:
   se i Ministri siano a conoscenza dei fatti e come intendano riconoscere e garantire il ruolo dei tecnici liberi professionisti;
   come intendano affrontare il fatto che la grande maggioranza delle aziende agricole utilizza fitofarmaci senza alcuna autorizzazione. (4-04814)

SALUTE

Interrogazioni a risposta immediata in Commissione:
XII Commissione:


   CALABRÒ. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 25 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, aveva già precluso l'affidamento di incarichi «di consulenza, collaborazione, studio e ricerca» ai dipendenti che cessano volontariamente dal servizio, pur non avendo il requisito previsto per il pensionamento di vecchiaia, ma che tuttavia dispongono dei requisiti contributivi per l'ottenimento della pensione anticipata di anzianità;
   l'articolo 5, comma 9, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135 limita ulteriormente il campo degli incarichi di «studio e di consulenza» affidati ad ex dipendenti collocati in quiescenza, prevedendo il divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2011, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti, già appartenenti ai ruoli delle stesse e collocati in quiescenza, che abbiano svolto, nel corso dell'ultimo anno di servizio, funzioni e attività corrispondenti a quelle oggetto dello stesso incarico di studio e di consulenza»;
   il combinato disposto delle due norme citate prefigura una chiara volontà di limitare l'affidamento di incarichi a personale dipendente già operante nella pubblica amministrazione;
   la nota del Ministero dell'economia e delle finanze del 7 gennaio 2014 (MEF-RGS prot. 104123 del 16 dicembre 2013 U), afferma che «non sembrano dunque sussistere dubbi circa il fatto che le norme in questione pongono in capo alle pubbliche amministrazioni il divieto di conferire incarichi di studio o consulenza al personale già dipendente e collocato in quiescenza, ove tali incarichi abbiano ad oggetto la medesima attività, ovvero le medesime funzioni svolte in vigenza del rapporto di lavoro dipendente» aggiungendo che «tale divieto sembra dunque doversi applicare anche al conferimento di incarichi che si concretizzino nello svolgimento di funzioni di medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, ove il soggetto interessato sia cessato da un rapporto di dipendenza con lo stesso Servizio sanitario nazionale, atteso che il rapporto convenzionale viene inquadrato, da giurisprudenza consolidata, fra le prestazioni d'opera professionale, di natura privatistica»;
   le Aziende sanitarie continuano ad assegnare incarichi di studio e di consulenza, con convenzione pubblica del servizio sanitario nazionale, a soggetti già appartenenti ai ruoli delle stesse e collocati in quiescenza, che abbiano svolto, nel corso dell'ultimo anno di servizio, funzioni ed attività corrispondenti a quelle oggetto dello stesso incarico di studio e di consulenza, contravvenendo alle norme descritte in premessa;
   l'assegnazione dei suddetti incarichi, oltre ad essere contra legem, limita l'ingresso delle giovani professionalità mediche nel mondo del lavoro e ne impedisce, conseguentemente, la progressione nelle varie graduatorie della medicina specialistica ambulatoriale contribuendo ad aggravare le difficoltà occupazionali in atto vissute dalle nuove generazioni –:
   quali iniziative, per quanto di competenza, intenda adottare il Ministro interrogato per regolamentare chiaramente l'incompatibilità e quindi l'obbligo di scelta, per il personale medico già dipendente dal servizio sanitario nazionale, tra gli incarichi di consulenza, collaborazione, studio e ricerca, e il trattamento pensionistico per anzianità, e per evitare la prassi diffusa di riservare corsie preferenziali ai medici in quiescenza a scapito delle nuove generazioni di medici, disponendo che le convenzioni vengano attribuite esclusivamente secondo il punteggio maturato ai sensi della normativa vigente. (5-02815)


   RONDINI. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   a conclusione di un'inchiesta coordinata dalla procura della Repubblica e dalla direzione distrettuale antimafia di Milano, sono state eseguite nel capoluogo lombardo, a Roma e a Napoli sei ordinanze di custodia cautelare a carico di funzionari pubblici e titolari d'impresa, nell'ambito delle attività di bonifica del sito di Pioltello Rodano, nella periferia est di Milano; gli arresti riguardano reati di corruzione e traffico illecito di rifiuti nell'ambito delle attività di bonifica dell'ex area Sisas di Pioltello Rodano;
   da quanto si apprende dai mass media, l'indagine è durata oltre due anni ed ha evidenziato varie condotte illecite che vanno dalla truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, alla corruzione, alle attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, in ordine alla aggiudicazione dell'appalto per l'esecuzione dei lavori di bonifica del sito ed allo smaltimento dei rifiuti in siti di proprietà, previa fraudolenta declassificazione degli stessi da pericolosi a non pericolosi, con l'ottenimento di ingiusti profitti;
   l'ex area Sisas occupa una superficie di 330 mila metri quadri e comprende tre discariche, denominate A, B e C, con circa 280.000 tonnellate di rifiuti industriali – compresi idrocarburi policiclici aromatici, residuo della produzione di colle e solventi contaminati con mercurio – di cui 50.000 tonnellate di nerofumo, generati dai processi produttivi;
   le notizie sopraesposte hanno amplificato le preoccupazioni per l'incolumità dei cittadini locali, in quanto sembra evidente che la bonifica del sito non è stata ancora compiuta; sarebbe necessario informare la popolazione locale sullo stato di contaminazione dei luoghi e sulle scadenze e tempi nei quali intenda garantire la reale bonifica del sito di Pioltello Rodano, a tutela dell'ambiente e della salute dei cittadini;
   l'inchiesta mette, secondo l'interrogante, in discussione l'effettività dell'avvenuta bonifica e lascia temere che vi siano, ancora rischi per la comunità di Pioltello e le comunità dei comuni limitrofi, e, inoltre, se l'inchiesta abbia rilevato irregolarità nell'attività di smaltimento e trasporto dei rifiuti tossici e se vi siano nel Paese altri siti oggi a rischio a seguito dello smaltimento non controllato di rifiuti provenienti dal sito di Pioltello Rondano –:
   se il Governo intenda assumere iniziative al fine di avviare un'indagine epidemiologica sul territorio per il tramite dell'istituto superiore di sanità al fine di verificare la situazione della popolazione residente nell'area. (5-02816)


   BINETTI. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   risulta difficile quantificare il costo dell'assistenza sanitaria per gli immigrati, analogamente a quanto accade anche per alcune categorie di italiani (ad esempio, anziani, disabili, malati oncologici e altri), per i quali costi diretti e costi indiretti, costi di natura sanitaria e costi di natura sociale si intrecciano profondamente;
   la stima dei costi sostenuti per l'assistenza sanitaria agli immigrati può essere effettuata con una metodologia messa a punto negli anni dal gruppo di lavoro nazionale «Salute immigrati» a partire dalle prime valutazioni relative agli anni 2003-2005, pubblicate nel 2008; il diverso grado di affidabilità dei dati forniti dalle regioni e le diverse modalità di contabilizzazione impiegate dalle stesse rendono possibile effettuare solo delle stime e rendono difficile il benchmark;
   gli immigrati «irregolari» sono per lo più extra-comunitari senza permesso, spesso in condizioni di marginalità sociale e senza possibilità di iscriversi al servizio sanitario nazionale;
   nelle Marche, ad esempio, sembra che l'assistenza agli «irregolari» costi di più di quella agli italiani per due ragioni almeno: troppi ricoveri e poca medicina di base; ne 2010, nelle Marche, la spesa media stimata per singolo ricovero per gli immigrati residenti regolari è stata inferiore del 30 per cento di quella per gli italiani. Ma quella degli immigrati irregolari, soprattutto bambini, è stata superiore del 22 per cento, tenendo conto che i bambini in questo caso non hanno un pediatra di base;
   se si confrontano le due sottopopolazioni di immigrati, i regolarmente residenti e gli «irregolari», il «peso» dei ricoveri per questi ultimi è maggiore rispetto a quello degli italiani e può essere addirittura superiore, soprattutto nella classe di età pediatrica (0-14 anni), a quello degli italiani. Questo ultimo dato suggerisce la necessità di una presa in carico da parte del pediatra di base per evitare il ricorso al ricovero in condizioni di maggiore gravità con conseguenze sulla salute e sui costi;
   se è comprensibile che gli italiani, in quanto popolazione più anziana e con patologie croniche necessitino di un'assistenza ospedaliera più complessa e quindi più costosa, la differenza tra immigrati regolarmente residenti e quelli «irregolari» – che hanno caratteristiche anagrafiche analoghe – dovrebbe suscitare attenzione maggiore a livello politico-sanitario;
   nell'attuale contesto nazionale in cui la necessità di ottimizzare le risorse suggerisce di fornire le cure di base a chi ne ha bisogno, a partire dai gruppi più vulnerabili, ciò significa anche assumere la responsabilità di operare in termini di efficienza, oltre che contrastare le diseguaglianze, che hanno ricadute negative su tutta la collettività –:
   come intenda rivalutare le esigenze degli immigrati, anche irregolari, in termini di assistenza da erogare sia per gli ovvi valori umani che a ciò sono correlati, come descrittore del grado di cultura e di apertura verso le persone più indigenti, sia per gli effetti che tale scelta produce come precisa misura di risparmio sul piano dei costi del servizio sanitario nazionale, dal momento che più prevenzione e più assistenza di base ridurrebbero il ricorso all'ospedale, strutturalmente più caro.
(5-02817)


   BORGHESE, SCHULLIAN, ALFREIDER, GEBHARD e PLANGGER. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   il decreto del Ministro della sanità n. 332 del 27 agosto 1999 «Regolamento recante norme per le prestazioni di assistenza protesica erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale: modalità di erogazione e tariffe», emanato in attuazione dell'articolo 26 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, ha disciplinato nel dettaglio le categorie di persone che hanno diritto all'assistenza protesica, le prestazioni che comportano l'erogazione dei dispositivi, come riportati negli elenchi 1, 2 e 3 e le modalità di erogazione;
   l'articolo 11 ha contestualmente previsto un aggiornamento periodico del nomenclatore tariffario, al massimo ogni tre anni, ma tale aggiornamento non è mai avvenuto dal 1999 a oggi, con la conseguenza che i dispositivi (protesi, ortesi e ausili tecnici), le prestazioni erogabili, nonché le tariffe rimborsabili sono ormai del tutto obsoleti;
   questa situazione danneggia fortemente i cittadini disabili, che vedono riconoscersi dal servizio sanitario nazionale solo presidi ormai superati dalla tecnologia, rimborsabili per importi non adeguati all'attuale costo della vita, con l'ulteriore conseguenza che soltanto le persone più abbienti, che hanno la possibilità di acquistare privatamente i dispositivi più all'avanguardia tecnologicamente e di accedere a percorsi riabilitativi ed assistenziali all'avanguardia, hanno la possibilità di recuperare o di avere una migliore qualità della vita, ciò in assoluto contrasto con 32 della Costituzione che garantisce, invece, a tutti il diritto fondamentale alla tutela della salute indipendentemente dalla capacità reddituale;
   l'articolo 5, comma 2-bis, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, ha da ultimo prorogato al 31 maggio 2013 il termine per l'aggiornamento del nomenclatore tariffario di cui all'articolo 11 del regolamento di cui al decreto ministeriale n. 332 del 1999 e nessuna ulteriore proroga è stata prevista in materia per il 2014 dal decreto-legge 30 dicembre 2013, n. 150 convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 2014, n. 15, nonostante un tentativo fallito in Senato di prorogare ulteriormente il termine al 30 giugno 2014;
   il Ministro, in sede di interrogazione a risposta immediata in Assemblea alla Camera, il 13 novembre 2013, dopo aver evidenziato che l'aggiornamento del nomenclatore tariffario comporta un ovvio incremento degli oneri a carico del Servizio sanitario nazionale, dovuto alle innovazioni tecnologiche intervenute nel settore, ha affermato che «è mia ferma volontà inserire il progetto di aggiornamento dell'attuale nomenclatore tariffario delle protesi per i soggetti disabili nella prossima iniziativa di politica sanitaria, qual è il Patto per la salute 2013-2015, che nel rispetto degli attuali vincoli di finanza pubblica è in corso di perfezionamento con le regioni –:
   quali siano le reali previsioni di attuazione dell'articolo 11 dei decreto del Ministro della sanità 27 agosto 1999, n. 332, con riferimento all'aggiornamento del nomenclatore tariffario, al fine di permettere a tutti i cittadini disabili di accedere ad ausili tecnologicamente avanzati e a progetti riabilitativi ed assistenziali all'avanguardia. (5-02818)


   LENZI e TERROSI. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   nel 2050 secondo le stime dell'OMS (Organizzazione mondiale della sanità) la popolazione con età superiore a 60 anni passerà da 650 milioni a 2 miliardi e la popolazione anziana in Europa sarà superiore a quella che il sistema sanitario potrà ragionevolmente sostenere;
   in questo panorama, l'Italia è uno dei Paesi europei con il maggior indice di invecchiamento, che significa crescita esponenziale delle spese di cura per anziani, ospedaliere e territoriali per il prossimo futuro;
   per quanto riguarda il Lazio la situazione è caratterizzata da «[...] un progressivo invecchiamento della popolazione soprattutto in alcune zone di Roma e nelle province di Viterbo e Rieti [...]» (piano sanitario regionale). Nella provincia di Viterbo è presente anche un forte incremento della popolazione immigrata;
   l'esperienza di alcune regioni dimostra che il risanamento si può ottenere spendendo meglio anche ridimensionando ma sicuramente riqualificando la rete ospedaliera, potenziando i servizi distrettuali e favorendo l'integrazione fra sociale e sanitario;
   un contenimento dei costi non può avvenire solo a discapito di una forte riduzione dell'offerta sanitaria contraddicendo il principio solidaristico del sistema sanitario nazionale;
   per il Lazio il piano sanitario regionale e il documento del piano di rientro ripropongono la razionalizzazione della rete ospedaliera e dell'offerta sanitaria in generale, fissando il parametro dei posti letto per acuti a 3.5 ogni mille abitanti. Il fatto che il taglio dei posti letto previsto per il 2009 su base regionale venga calcolato su una popolazione di 5.304.778 (ISTAT 2006), mentre il piano sanitario regionale la popolazione di riferimento viene indicata pari a 5.493.308 (ISTAT 2007) anche se nella realtà al 31 dicembre 2007 il dato ISTAT certificato è addirittura pari a 5.561.017 abitanti, porta a fissare il numero complessivo di posti letto della regione Lazio a 18.567 e non a 19.464 con una previsione di ben 897 posti letto in meno;
   nell'ambito regionale inoltre si verifica una notevole disparità tra le province: ad esempio alla provincia di Viterbo (collocata nella parte nord-occidentale della regione con un'area di 3.612 chilometri quadrati suddivisa in 60 territori comunali) vengono assegnati circa 1,8 letti per mille abitanti;
   non si comprende pertanto come i posti letto siano stati tagliati proprio ad esempio, nella provincia di Viterbo se già oggi questi sono inferiori a quelli previsti, considerato che proprio i documenti regionali indicano che la parte più imponente sulla quale intervenire riguarda l'area metropolitana enormemente sovra dotata di posti letto;
   con il decreto commissariale n. 87 del 2009, recante «Approvazione piano sanitario regionale (PSR) 2010-2012», la regione Lazio riconosce le peculiarità delle aree montane e delle zone lontane da altri centri ospedalieri e mal collegate ad essi, sottolineando che le dotazioni potranno essere in via assolutamente eccezionale difformi da quelle previste dalla programmazione della spesa, purché continuino a garantire livelli di efficienza e qualità. In particolare, è opportuno rappresentare gli interventi specifici per gli ex presidi ospedalieri di Subiaco, Rieti, Amatrice, Magliano Sabina, Montefiascone e Acquapendente;
   con il decreto del Commissario ad acta n. 80 del 2010 della regione Lazio, le strutture oggetto di riconversione a partire dalle indicazioni contenute nel decreto commissariale n. 48 del 2010, che hanno presentato per il 2009 un volume di attività di pronto soccorso inferiore ai 25.000 accessi annui, sono distinte in quattro macro aree, in particolare i presidi ospedalieri di Rieti, Amatrice, Montefiascone, Acquapendente e Magliano Sabina ricadono nella macroarea 4, il presidio ospedaliero di Subiaco ricade nella macro area 1. Alla macroarea 4 aderiscono il Policlinico Gemelli, il San Filippo Neri, il Sant'Andrea. Tali strutture, DEA di II livello, costituiscono il punto di riferimento per le aree, come ad esempio la provincia di Viterbo, che hanno nel loro territorio solo il DEA di I livello. Nel caso citato della provincia di Viterbo, il CECAD di Acquapendente dista circa un'ora e dieci minuti dall'ospedale di Belcolle situato in Viterbo e circa due ore-due ore e trenta minuti dal DEA di II livello di riferimento ricadente all'interno della stessa macroarea;
   seguendo il principio delle «macroaree» precedentemente citato, i servizi vengono accentrati intorno alla Capitale, mentre le altre quattro province della regione rimangono sfornite di servizi sanitari e socio assistenziali;
   nel decreto commissariale n. 111 del 2010 «Approvazione del piano sanitario regionale (PSR) 2010-2012, integrazioni e modifiche» si sottolinea la necessità dei distretti montani dicendo che la regione dovrà predisporre appositi provvedimenti per la garanzia dell'assistenza in alcune aree con l'ipotesi della costituzione dei distretti sociosanitari montani nella ASL di Rieti, Viterbo e RMG. Viene inoltre confermata l'istituzione del distretto montano per Subiaco e Amatrice, ma non viene fatta né menzione di Acquapendente, né viene dato alcun chiarimento in merito;
   l'articolo 15, comma 13, lettera c) del decreto-legge n. 95 del 2012 recante disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini (cosiddetta spending review), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, prevede, entro il 31 ottobre 2012, la definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all'assistenza ospedaliera mediante l'approvazione di un regolamento del Ministero della salute di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome;
   la bozza del decreto contenente il regolamento recante «Definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all'assistenza ospedaliera» prevede la possibilità che nell'ambito del riordino della rete ospedaliera e socio assistenziale territoriale si tenga conto della possibilità di mantenere in vita strutture altrimenti declassate qualora i territori in cui ricadono presentino degli svantaggi territoriali e sociali oggettivi e concreti. In particolare, al paragrafo 9.2.2, «Presidi ospedalieri in zone particolarmente disagiate» del regolamento di attuazione della suddetta legge si legge: «sono presidi ospedalieri che le Regioni e province autonome di Trento e Bolzano possono prevedere per zone particolarmente disagiate in quanto definibili, sulla base di oggettiche tecniche di misurazione o di formale documentazione tecnica disponibile, distanti più di 90 minuti dai centri hub o spoke di riferimento (o 60 minuti dai presidi di pronto soccorso) superando i tempi previsti per un servizio di emergenza efficace. Per centri hub o spoke si intendono anche quelli di regioni confinanti sulla base di accordi interregionali da sottoscriversi entro il 30 giugno 2013. (...) In questi presidi ospedalieri occorre garantire una attività di pronto soccorso con la conseguente disponibilità dei necessari servizi di supporto, attività di medicina interna, di chirurgia generale ridotta». Tali presidi (...) «devono essere dotati indicativamente di:
    un reparto di 20 posti letto di medicina generale con un proprio organico di medici e infermieri;
    una chirurgia elettiva ridotta che effettua interventi in day surgery o eventualmente in week surgery con la possibilità di appoggio nei letti di medicina lo (obiettivo massimo del 70 per cento di occupazione dei posti letto per avere disponibilità di casi imprevisti) per i casi che non possono essere dimessi in giornata; la copertura in pronta disponibilità per il restante orario da parte dell'equipe chirurgica garantisce un supporto specifico in casi risolvibili in loco;
   un Pronto soccorso presidiato da un organico medico dedicato all'Emergenza-Urgenza, inquadrato nella disciplina specifica così come prevista dal decreto ministeriale 30/01/1998 (Medicina e Chirurgia d'Accettazione e d'Urgenza) e da un punto organizzativo integrato alla struttura complessa del DEA di riferimento che garantisce il servizio e l'aggiornamento relativo»;
   ancora nel decreto del Commissario ad acta del 4 ottobre 2013, n. U00428, «Approvazione del documento “Raccomandazioni per la stesura degli Atti aziendali di cui al D.C.A. 206 del 2013, relativamente all'organizzazione delle Case della salute”», si legge la definizione di «casa della salute» che riassume i modelli utilizzati sino ad oggi nelle normative prodotte a livello regionale (CeCaD, PTP, Ospedali distrettuali);
   successivamente, nel decreto commissariale n. 480 del 6 dicembre 2013 «Definizione dei programmi operativi 2013/2015 a salvaguardia degli obiettivi strategici del piano di rientro», rispetto allo standard previsto, si osserva, invece, un eccesso di posti letto per acuti pari a 748, collocato esclusivamente nelle ASL della città di Roma, mentre nelle rimanenti ASL l'offerta è al di sotto dello standard massimo previsto –:
   se il Governo nel rispetto delle competenze regionali, nell'ambito della predisposizione del piano della rete ospedaliera, non intenda considerare la possibilità di assumere iniziative per prevedere deroghe normative in modo che le strutture che ricadono in territori socio-economicamente svantaggiati e molto distanti dai DEA di riferimento possano essere ricomprese nelle tipologie previste dal regolamento di attuazione citato in premessa e se non ritenga opportuno istituire un tavolo tra Ministero, regione Lazio ed enti locali al fine di rivedere i programmi per le strutture di Acquapendente, Amatrice, Magliano Sabina e Subiaco, che ricadono in «aree considerate geograficamente e meteorologicamente ostili o disagiate, tipicamente in ambiente montano o premontano con collegamenti di rete viaria complessi e conseguente dilatazione dei tempi». (5-02819)


   PIAZZONI, NICCHI e AIELLO. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   è questione ben nota quella dell'estensione degli indennizzi per le persone affette da sindrome da talidomide a soggetti attualmente non compresi nei criteri previsti dall'articolo 31 del decreto legge 30 dicembre 2008, n. 207, convertito con modificazioni dalla legge 27 febbraio 2009, n. 14;
   la Commissione Affari sociali della Camera dei deputati ha approvato in data 30 ottobre 2013 il testo unificato della proposta di legge AC/263 e abbinate, volta a modificare la norma citata. Tale modifica legislativa ha lo scopo di estendere l'arco temporale per l'erogazione degli indennizzi ai soggetti colpiti da sindrome da talidomide, sindrome causata tra gli anni cinquanta e sessanta dalla somministrazione a donne in stato di gravidanza di uno psicofarmaco sedativo, poi rivelatosi estremamente dannoso per i nascituri e successivamente ritirato dal mercato. La modifica in questione si è resa necessaria dalla comprovata esistenza di diversi soggetti che, sebbene non siano nati negli anni previsti come arco temporale per l'indennizzo, hanno riscontrato gravi malformazioni, causate, secondo diverse commissioni mediche interpellate, dalla talidomide. Per tutti questi soggetti lo Stato non riconosce, ad oggi, nessun indennizzo, determinandosi dunque una irragionevole disparità di trattamento;
   la nota n. 852-P-11/02/2014 il Ministero della salute ha individuato circa 130 nuovi soggetti da indennizzare a seguito della modifica legislativa in questione, calcolando quindi un onere annuale per le casse dello Stato, crescente negli anni, di euro 6.206.267,53. L'allargamento della platea dei beneficiari così ipotizzato inciderebbe in maniera sensibile sulle coperture finanziarie alla modifica legislativa precedentemente individuate;
   nella stessa nota inoltre viene affermata l'impraticabilità dell'applicazione della modifica citata in quanto i giudizi delle commissioni medico-ospedaliere competenti circa il nesso causale tra l'assunzione del farmaco e le lesioni riportate, indicati dalle linee guida ministeriali, risultano formulati sulla base della presunzione dell'assunzione del farmaco da parte della madre del danneggiato negli anni di commercializzazione dello stesso;
   ad opinione degli interroganti le osservazioni contenute nella nota del Ministero della salute di cui sopra non sono fondate in quanto la quantificazione dei nuovi soggetti aventi diritto all'indennizzo appare basata su di un mero calcolo proporzionale – in assenza di puntuale indicazione dei criteri utilizzati per giungere a tale cifra – e l'asserita impraticabilità della modifica legislativa citata non terrebbe conto della disposizione contenuta in quest'ultima che autorizza il Ministero della Salute a modificare il regolamento di cui al decreto del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali 2 ottobre 2009, n. 163;
   quali criteri siano stati utilizzati o si intendano utilizzare per l'individuazione dei nuovi soggetti che, alla luce di quanto esposto in premessa, avrebbero diritto all'indennizzo previsto per le persone affette da talidomide. (5-02820)


   LOREFICE, CECCONI, SILVIA GIORDANO, GRILLO, DALL'OSSO, BARONI, DI VITA e MANTERO. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   la legge n. 210 del 1992 stabilisce il diritto a un indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati nelle strutture del sistema sanitario nazionale e, in base ai danni subiti, parte da un minimo di 540 euro mensili, da versare ogni bimestre;
   lo spartiacque in materia di indennizzi per le vittime del sangue infetto si ha nel 2001, quando, con la cosiddetta «devolution», le regioni divennero competenti in materia di indennizzi. Fino ad allora la competenza era stata del Ministero della salute. Pertanto, dal 2001, le domande per la richiesta d'indennizzo vengono inoltrate alle regioni e non più al Ministero della salute;
   il trasferimento di competenza dal Ministero della salute alle regioni avrebbe dovuto snellire il processo di liquidazione degli indennizzi e invece ha creato una situazione poco chiara poiché le regioni si trovano a pagare per un danno causato dallo Stato;
   con la manovra finanziaria del 2010-2011 il Ministro dell'economia e delle finanze pro tempore, Giulio Tremonti, bloccava i trasferimenti dei fondi ministeriali alle regioni, fondi che contenevano anche i trasferimenti in materia di indennizzo. Le regioni hanno dovuto attingere, pertanto, ai propri fondi, ma talune non hanno potuto per mancanza di risorse economiche; quindi molti danneggiati non ricevono l'indennizzo cui hanno diritto o lo ricevono con estremo ritardo e dopo ripetute sollecitazioni;
   nella medesima manovra si stabiliva che l'indennizzo non andasse rivalutato in base al tasso d'inflazione, ciò nonostante molti danneggiati fossero riusciti ad ottenere la rivalutazione grazie alle cause vinte nei tribunali;
   con il ricorso alla Corte costituzionale, nel 2012, si stabilì la liceità della rivalutazione integrativa dell'indennizzo che, pertanto, fu ripristinata, ma solo per gli indennizzi di competenza ministeriale e delle regioni in grado di attingere a proprie risorse;
   il 3 settembre 2013, la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo ha condannato l'Italia per violazione dei diritti del malato e ha imposto allo Stato di stabilire un termine entro il quale sanare le posizioni degli aventi diritto alla rivalutazione integrativa a partire dal momento in cui è stata riconosciuta la loro condizione;
   il 14 novembre 2013, la Conferenza delle regioni aveva chiesto lo stanziamento di 172,8 milioni di euro per il triennio 2013-2015 in materia di emoindennizzi e di 60 milioni di euro per la corresponsione degli arretrati relativi alla rivalutazione. La modifica proposta in Conferenza e che recepiva tali richieste non arrivò nella legge di stabilità, nella quale, invece, fu inserito un comma (comma 143) che doveva garantire il pagamento degli arretrati: 100 milioni di euro, da erogare in due anni, 2014 e 2015. Tale somma, però, fu prevista solo per sanare gli indennizzi di competenza del Ministero della salute (pratiche risalenti a prima del 2001) e delle regioni a statuto speciale;
   la situazione che si è venuta a creare a fronte del mancato finanziamento degli oneri per il pagamento egli indennizzi di cui alla legge n. 210 del 1992 è estremamente grave in quanto comporta di parità di trattamento tra i cittadini portatori dei medesimi diritti, e costituisce un onere finanziario che le regioni e le province autonome non sono in grado di sopportare. Pur in assenza del finanziamento statale, esse, hanno continuato, dal 2012 ad oggi, ad erogare il pagamento degli indennizzi alle persone interessate, maturando un credito nei confronti dello Stato che ammonta ad oltre 325 milioni di euro per gli anni 2012 e 2013;
   per il pagamento degli arretrati dovuti a titolo di rivalutazione dell'indennità integrativa speciale, il fabbisogno finanziario stimato dalle regioni ammonta a oltre 200 milioni di euro e a seguito della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 3 settembre 2013 si dovrà garantire il pagamento di tali oneri entro il 3 giugno 2014;
   la Conferenza delle regioni e delle province autonome riunitasi in data 10 aprile 2014 con ordine del giorno in merito al problema del mancato finanziamento da parte dello Stato degli oneri per garantire il pagamento degli indennizzi previsti dalla legge n. 201 del 1992, chiede la convocazione, entro il mese di maggio, di una riunione straordinaria della Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, monotematica su tale argomento, alla quale siano presenti tutti i Ministri competenti in materia per:
    a) definire e accentuare le competenze dello Stato in relazione al finanziamento delle funzioni relative alla legge n. 210 del 1992;
    b) garantire a favore delle regioni e delle province autonome, il rimborso di tutti gli oneri sostenuti per gli anni 2012 e 2013, nonché il ripristino del finanziamento degli anni successivi;
    c) garantire il finanziamento degli oneri dovuti per il pagamento degli arretrati della rivalutazione dell'IIS, secondo modalità condivise tra regioni e province autonome e Ministeri competenti;
   in mancanza di un accordo con lo Stato, le regioni e province autonome disporranno l'interruzione del pagamento degli indennizzi a partire dal 1o luglio 2014 e provvederanno ad adire le vie legali per ottenere la restituzione delle somme anticipate a titolo di pagamento degli indennizzi, nonché al fine di far dichiarare l'esclusiva responsabilità statale in ordine a tutti gli oneri derivanti dalla legge n. 210 del 1992 –:
   se non si ritenga opportuno convocare urgentemente una riunione straordinaria della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, con la partecipazione dei Ministri competenti in materia, come richiesto dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome, riunitasi in data 10 aprile 2014 e in tale ambito fare chiarezza circa le competenze e le responsabilità in materia di finanziamento dell'indennizzo previsto dalla legge n. 210 del 1992 e degli oneri dovuti a titolo di rivalutazione dell'indennità integrativa speciale. (5-02821)

Interrogazioni a risposta scritta:


   PARENTELA, NESCI e DIENI. — Al Ministro della salute, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   la legge 5 febbraio 1992, n. 210, prevede un'indennità vitalizia, da corrispondersi ogni bimestre, per coloro che, a seguito di trasfusioni, vaccinazioni obbligatorie o somministrazione di emoderivati, hanno contratto l'epatite HCV e quindi hanno subito un danno, allo stato, irreversibile;
   la Corte costituzionale, con sentenza n. 293 del 2011, ha sancito l'illegittimità costituzionale dell'articolo 11, commi 13 e 14, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, in cui si stabiliva che «Il comma 2 dell'articolo 2 della legge 25 febbraio 1992, n. 210 e successive modificazioni si interpreta nel senso che la somma corrispondente all'importo dell'indennità integrativa speciale non è rivalutata secondo il tasso d'inflazione»;
   l'Italia, in ottemperanza alla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) del 3 settembre 2013, si è impegnata a garantire il pagamento della rivalutazione dell'IIS (indennità integrativa speciale) a tutti i beneficiari a partire dal momento in cui questa indennità è stata riconosciuta entro il 3 giugno 2014;
   le competenze in materia, conferite alle regioni con il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, e successive modifiche, consistono in funzioni e compiti amministrativi che comportano spese obbligatorie i cui oneri sono posti a carico del Ministero della salute e che regioni e province autonome sono meri «enti pagatori» delegati al pagamento degli indennizzi, anticipando le risorse necessarie a fronte di puntuale rimborso da parte dello Stato degli oneri sostenuti;
   secondo quanto previsto dal Piano del Governo per l'esecuzione della sentenza CEDU del 3 settembre 2013, entro il 31 maggio 2014 si dovrebbe stipulare l'Accordo Stato-regioni in cui venga stabilito che, in ottemperanza all'articolo 123 del decreto legislativo 112 del 1998, il Ministero è tenuto a provvedere alla corresponsione alle regioni del pagamento (anche con riferimento agli arretrati) della rivalutazione dell'indennità integrativa speciale che le regioni hanno anticipato fino ad oggi e alla ricostituzione del capitolo azzerato relativo alle risorse finanziarie per l'esercizio delle funzioni in materia di salute umana;
   il Ministero dell'economia e delle finanze, a partire dall'anno 2012, non ha più provveduto allo stanziamento dell'apposito finanziamento, da ripartire alle regioni e alle province autonome, per il pagamento degli indennizzi previsti dalla legge n. 210 del 1992 «Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati» e non ha mai individuato e corrisposto le risorse utili al riconoscimento degli arretrati, che spettano a tutti i soggetti indennizzati a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 293 del 2011;
   le regioni e le province autonome hanno continuato ad indennizzare gli aventi diritto, maturando un credito nei confronti dello Stato che ammonta a oltre 325 milioni di euro complessivi per gli anni 2012 e 2013;
   il numero dei soggetti titolari del beneficio residenti in Calabria al 31 dicembre 2013, è di 1017. La spesa media annua è pari ad euro 9.136.401,30 (escluse eventuali beneficiari di una tantum);
   la regione Calabria ha corrisposto bimestralmente fino all'anno 2013 l'indennità di cui alla legge 25 febbraio 1992 n. 210 a tutti gli aventi diritto residenti nel territorio;
   la regione Calabria non ha riconosciuto né pagato la rivalutazione dell'indennità integrativa speciale tranne a coloro che vantano sentenza favorevole a proprio favore;
   la scelta di erogare l'indennizzo rivalutato esclusivamente agli indennizzati che hanno ottenuto una sentenza a proprio favore a parere degli interroganti risulta essere in contrasto con l'articolo 3 della Costituzione;
   in mancanza del finanziamento statale, la regione Calabria ha utilizzato fino all'anno 2011 anche quota parte del Fondo sanitario regionale (pari ad euro 1.134.283,059) a mero titolo di anticipazione;
   l'indennizzo ex lege n. 210 del 1992 e la relativa rivalutazione non rientrano tra i livelli essenziali di assistenza e non potrebbero essere corrisposti ai beneficiari utilizzando il Fondo sanitario regionale;
   la regione Calabria è in regime di commissariamento a causa del disavanzo nel settore sanitario. Il commissario ad acta nominato con delibera del Consiglio dei ministri del 30 luglio 2010 è il governatore dimissionario Giuseppe Scopelliti;
   la legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità 2014) comma 223, recita testualmente: «Al fine di dare attuazione alla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 3 settembre 2013, recante l'obbligo di liquidazione ai titolari dell'indennizzo di cui alla legge 25 febbraio 1992, n. 210, degli importi maturati a titolo di rivalutazione dell'indennità integrativa speciale, l'autorizzazione di spesa di cui all'articolo 2, comma 2, della legge 25 febbraio 1992, n. 210, è incrementata di euro 50 milioni per ciascuno degli anni 2014 e 2015»;
   il comma 223, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità 2014) recita testualmente: «Al fine di dare attuazione alla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 3 settembre 2013, recante l'obbligo di liquidazione ai titolari dell'indennizzo di cui alla legge 25 febbraio 1992, n. 210, degli importi maturati a titolo di rivalutazione dell'indennità integrativa speciale, l'autorizzazione di spesa di cui all'articolo 2, comma 2, della legge 25 febbraio 1992, n. 210, è incrementata di euro 50 milioni per ciascuno degli anni 2014 e 2015»;
   il 3 aprile 2014, il Gruppo tecnico interregionale legge 210 del 1992 ha chiesto al Governo la convocazione, entro il mese di maggio, di una riunione straordinaria della Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano monotematica su tale argomento, affinché possano essere definite e accertate le competenze dello Stato in relazione al finanziamento delle funzioni relative alla legge 210 del 1992 ed affinché siano garantiti a favore delle Regioni e Province Autonome il rimborso di tutti gli oneri sostenuti per gli anni 2012 e 2013, nonché il ripristino del finanziamento per gli anni successivi ed il finanziamento degli oneri dovuti per il pagamento degli arretrati della rivalutazione dell'indennità integrativa speciale (IIS), secondo modalità e calcoli condivisi tra Regioni e Province Autonome e Ministeri competenti –:
   se non ritengano di porre in essere quanto necessario per eseguire la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) del 3 settembre 2013 entro il 3 giugno 2014;
   se non ritengano di definire ed accertare le competenze dello Stato in relazione al finanziamento delle funzioni relative alla legge 210 del 1992 e garantire a favore delle regioni e province autonome il rimborso di tutti gli oneri sostenuti per gli anni 2012 e 2013, come peraltro richiesto dal Gruppo tecnico interregionale della legge 210 del 1992 in data 3 aprile 2014;
   se non ritengano di ripristinare i finanziamenti per gli anni successivi al 2012 ed il finanziamento degli oneri dovuti per il pagamento degli arretrati della rivalutazione dell'indennità integrativa speciale (IIS), come peraltro richiesto dal Gruppo tecnico interregionale legge 210 del 1992 in data 3 aprile 2014. (4-04810)


   LENZI e CARLO GALLI. — Al Ministro della salute, al Ministro della difesa. — Per sapere – premesso che:
   la Lila, Lega italiana per la lotta contro l'Aids, «ha più volte denunciato il fatto che tutti i bandi del ministero della Difesa, per qualsiasi ruolo in qualsiasi Corpo, sono ora riservati a persone in grado di produrre un test Hiv dall'esito negativo, e che l'introduzione del test Hiv periodico obbligatorio per tutti dipendenti delle Forze armate ha provocato forti timori in merito alla conservazione del posto di lavoro»;
   in base all'articolo 32, comma 2, della Costituzione italiana nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge;
   l'articolo 5 della legge n. 135 del 1990 «Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l'AIDS» dispone che «l'operatore sanitario e ogni altro soggetto che viene a conoscenza di un caso di AIDS, ovvero di un caso di infezione da HIV, anche non accompagnato da stato morboso, è tenuto a prestare la necessaria assistenza e ad adottare ogni misura o accorgimento occorrente per la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali dell'interessato, nonché della relativa dignità; fatto salvo il vigente sistema di sorveglianza epidemiologica nazionale dei casi di AIDS conclamato e le garanzie ivi previste, la rilevazione statistica della infezione da HIV deve essere comunque effettuata con modalità che non consentano l'identificazione della persona. La disciplina per le rilevazioni epidemiologiche e statistiche è emanata con decreto del Ministro della salute, sentito il Garante per la protezione dei dati personali che dovrà prevedere modalità differenziate per i casi di AIDS e i casi di sieropositività; nessuno può essere sottoposto, senza il suo consenso, ad analisi tendenti ad accertare l'infezione da HIV se non per motivi di necessità clinica nel suo interesse. Sono consentite analisi di accertamento di infezione da HIV, nell'ambito di programmi epidemiologici, soltanto quando i campioni da analizzare siano stati resi anonimi con assoluta impossibilità di pervenire alla identificazione delle persone interessate; la comunicazione di risultati di accertamenti diagnostici diretti o indiretti per infezione da HIV può essere data esclusivamente alla persona cui tali esami sono riferiti; l'accertata infezione da HIV non può costituire motivo di discriminazione, in particolare per l'iscrizione alla scuola, per lo svolgimento di attività sportive, per l'accesso o il mantenimento di posti di lavoro»;
   sempre in base alla legge n. 135 del 1990 articolo 6 «È vietato ai datori di lavoro, pubblici e privati, lo svolgimento di indagini volte ad accertare nei dipendenti o in persone prese in considerazione per l'instaurazione di un rapporto di lavoro l'esistenza di uno stato di sieropositività»;
   relativamente ai citati articoli della legge n. 135 del 1990, la Corte costituzionale con sentenza n. 218 del 1994 giustificando l'esecuzione di accertamenti sanitari allorquando vi sia necessità di contemperamento delle esigenze dei singoli con gli interessi della comunità, consistenti in particolare nella salute collettiva e nella protezione dei terzi, alla luce dei principi costituzionali contenuti nell'articolo 32 della Costituzione, ha parzialmente mutato il quadro normativo, ma ha comunque precisato che, anche in tali limitati casi in cui è consentito effettuare accertamenti volti alla rilevazione dell'infezione da HIV, non debba mai trattarsi di «controlli sanitari indiscriminati, di massa o per categorie di soggetti, ma di accertamenti circoscritti sia nella determinazione di coloro che vi possono essere tenuti sia nel contenuto degli esami. Questi devono essere funzionalmente collegati alla verifica dell'idoneità all'espletamento di quelle specifiche attività e riservati a chi ad esse è, o intende essere, addetto». La Corte più avanti precisa altresì che i trattamenti sanitari trovano sempre un limite invalicabile nel rispetto della dignità della persona, anche al fine di «...contrastare il rischio di emarginazione nella vita lavorativa e di relazione» la norma internazionale dell'ILO del 17 giugno 2010 ribadisce, peraltro, il divieto di esecuzione del test HIV in qualsiasi settore lavorativo, comprese Forze Armate, di polizia e corpi di vigilanza –:
   quali iniziative urgenti i Ministri interrogati intendano assumere per garantire, nel rispetto della normativa nazionale ed internazionale, le procedure di selezione del personale della difesa. (4-04815)

SEMPLIFICAZIONE E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Interrogazioni a risposta scritta:


   BALDASSARRE e GAGNARLI. — Al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   da interrogazione pubblicata sul sito istituzionale del comune di Arezzo, presentata dal consigliere Daniele Farsetti, si apprende che gli asili Acropoli e Pallanca verranno «ceduti» rispettivamente all'istituto comprensivo Cesalpino e Severi a gestione statale;
   gli alunni interessati a tale riorganizzazione del servizio saranno circa 200;
   in merito alla situazione suddetta si prevedono 23 pensionamenti di insegnanti a fronte di solo 3 assunzioni entro il 2015;
   l'articolo 14, comma 9, del decreto legge n. 78 del 2010, convertito con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010 pone precisi limiti alla possibilità di assunzioni per gli enti locali fissando il margine di manovra al «limite del 20 per cento della spesa corrispondente alle cessazioni verificatesi nell'anno 2010»;
   la Corte dei conti a sezioni riunite con delibera n. 46 del 29 agosto 2011 si è pronunciata in merito deliberando che: «dal divieto di assunzioni e dal limite delle stesse, stabilito nella misura del 20 per cento delle cessazioni dell'anno precedente, sono escluse le assunzioni del personale appartenente alle categorie protette ex legge n. 68 del 1999, nonché quelle per lo svolgimento di servizi infungibili ed essenziali»;
   l'articolo 1 della legge 146 del 1990, modificata dalla legge 11 aprile 2000, n. 83, stabilisce che: «sono considerati servizi essenziali, indipendentemente dalla natura giuridica del rapporto di lavoro, anche se svolti in regime di concessione o mediante convenzione, quelli volti a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all'assistenza e previdenza sociale, all'istruzione e alla libertà di comunicazione»; è altresì ritenuto necessario «assicurare la continuità dei servizi degli asili nido e delle scuole materne» –:
   appare agli interroganti che risulti leso il diritto costituzionale all'educazione scolastica continuativa in merito alla vicenda suddetta –:
   se i Ministri interrogati siano a conoscenza dei fatti suddetti;
   se i Ministri interrogati, per quanto di propria competenza, non ritengano opportuno assumere ogni iniziativa di competenza, anche normativa, affinché comuni «virtuosi» sotto il profilo del bilancio – come quello di Arezzo – possano procedere in deroga ai limiti imposti dal decreto-legge 78 del 2010 in merito ai servizi essenziali quali l’«assicurare la continuità dei servizi degli asili nido e delle scuole materne»;
   se i Ministri interrogati, per quanto di propria competenza, intendano porre in essere ogni azione volta alla tutela dei bambini che subiranno tali suddette criticità;
   se i Ministri interrogati, per quanto di propria competenza, non ritengano di dover intervenire al fine di sopperire alle criticità suddette in merito alle carenze di insegnanti previste entro il 2015. (4-04809)


   MICCOLI. — al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione. — Per sapere – premesso che:
   l'istituto nazionale di statistica (ISTAT), ente di ricerca pubblico con sede centrale in Roma, ha come scopo principale, la raccolta, la razionalizzazione, l'elaborazione e la produzione, la diffusione delle informazioni, agevolando le istituzioni nell'ottimizzazione delle risorse;
   nelle attività dell'Istat vi è una prevalenza di quelle scientifiche sulle amministrative e gestionali, con possibile variegato uso delle risorse, anche tramite telelavoro o, come previsto, per tutta la durata del rincarico, presso le sedi di altre amministrazioni pubbliche o simili;
   originariamente – vedasi Piano Regolatore Generale del Comune di Roma ’62 – il Sistema Direzionale Orientale SDO si basava sulla strategia di realizzare, nelle periferie a sud e oriente di Roma, da Pietralata a Cinecittà, una grande e decentrata area direzionale;
   il 9 settembre 2003: «In conformità con il protocollo di Kyoto del 10 dicembre 1997 a favore della riduzione delle emissioni di gas serra, e nell'ambito di una politica governativa volta alla riduzione dei fattori inquinanti, a tutela della salute pubblica e della qualità della vita, nonché allo scopo di decongestionare il centro storico con conseguente migliore vivibilità della Capitale», viene sottoscritto un Protocollo di Intesa tra varie amministrazioni (Il Ministero dell'Ambiente e tutela del Territorio, la Provincia di Roma, l'Università «La Sapienza», l'Agenzia nazionale per la protezione dell'Ambiente cosiddetta APAT, l'Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologia applicata del mare detta I.C.R.A.M.) e l'Istat per la rilocalizzazione delle sedi della pubblica amministrazione;
   con tale protocollo l'Istat, si è impegnato ad assicurare la massima tempestività nell'adozione degli atti necessari alla realizzazione della propria sede, avendo già il 27 marzo, con nota prot. 2017, sottoscritto «l'accettazione della superficie assegnata, nella misura di 60.000 mq». La priorità di scelta dell'area è stata quella di Pietralata (quartiere di ROMA originariamente parte dello SDO) in ragione della presenza della metropolitana linea B e della stazione ferroviaria Tiburtina, destinata a trasformarsi in nodo di mobilità di livello nazionale;
   in data 7 ottobre 2005, con nota prot. SP/232.06, il presidente dell'Istat, al fine di ridurre gli oneri di locazione sostenuti attraverso il reperimento di nuovi spazi da destinare ai propri uffici, chiedeva con urgenza, al comune di Roma, l'assegnazione dell'area citata;
   il 25 gennaio 2007, con atto notarile (rep. 52387 raccolta 15770 – notaio Maggiora Nicola), la superficie di 60.000 metri quadri, di cui all'intesa con il comune di Roma e destinata ad ospitare la sede dell'Istat, veniva assegnata, in proprietà;
   l'Istat, fino ad oggi, ha speso – 15.396.940,54: in parte per l'assegnazione dell'area, in parte per attività preliminari alla gara di appalto;
   per quanto attiene le prime fasi di realizzazione dell'opera l'ente ha avuto un comportamento contraddittorio e, nello specifico: in un primo momento ha affidato al Provveditorato alle opere pubbliche per il Lazio, l'Abruzzo e la Sardegna la gara per la sola progettazione; per la realizzazione dell'opera ottenuto un vantaggiosissimo mutuo con la Cassa depositi e prestiti; successivamente ha cambiato idea annullando la gara ed ha chiesto ed ottenuto di far indire una gara per la progettazione e realizzazione dell'opera tramite convenzione con l'Unità di missione per i 150 anni dell'Unità d'Italia; a pochi giorni dalla scadenza della gara ha annullato sia la gara che la convenzione che legava l'Istat alla struttura di missione; ha disdetto il mutuo perdendo così il vantaggioso finanziamento; infine ha deciso di annullare il programma Istat - Pietralata e, al contrario, ha continuato ad acquisire sedi in locazione (nuova sede in viale Oceano Pacifico, ampliamento della sede di via Tuscolana, acquisizione della sede ex Isae a Piazza Indipendenza, acquisizione di nuovi archivi, ricerca di una nuova sede per l'accorpamento di altre tre sedi esistenti);
   l'istituto dispone del seguente patrimonio immobiliare: sede centrale di via Balbo 16 (in comodato d'uso), sede di via Depretis 74 (di proprietà), sede di viale Liegi 13 (di proprietà), sede di piazza Indipendenza (in locazione), sede di Via Depretis 77 (in locazione), sede di via Torino (in locazione) sede di via Tuscolana (in locazione), sede di viale Oceano Pacifico (in locazione), locali con destinazione archivio (in locazione – in fase di nuova acquisizione);
   per le sedi descritte sostiene altissimi costi annui sia per gli elevati canoni di locazione sia per la gestione dell'ormai vetusto patrimonio immobiliare e a tali costi si aggiunge il disagio della dispersione sul territorio comunale che incide in termini di funzionalità, di impatto sul traffico, di inquinamento, di spostamenti, e altro;
   le sedi presentano, nella maggior parte dei casi, carenze tecniche e non risulta all'interrogante che siano state adeguate alle norme in materia di sicurezza, igiene, impianti e prevenzione incendi;
   i costi destinati alla gestione ed alla locazione delle sedi potrebbero essere più proficuamente indirizzati verso la realizzazione di una sede di circa 40.000 metri quadri nella quale accogliere tutto il personale delle sedi romane con eccezione del personale che lavora nella sede centrale per la quale l'Istat non sostiene alcun costo di locazione;
   gran parte dei costi di costruzione sarebbero coperti dalla vendita delle sedi di viale Liegi e via Depretis 74;
   da tale iniziativa, peraltro in passato fortemente voluta dall'Istat, deriverebbero rilevantissime economie di gestione per l'istituto che vedrebbe ottimizzati i propri flussi lavorativi e si agirebbe altresì verso la riduzione del traffico nella capitale nonché verso il decongestionamento del centro storico con riduzione dei fattori inquinanti;
   poiché è stato già approvato il piano particolareggiato ed essendo già pervenuti all'approvazione del progetto in conferenza dei servizi, dal punto di vista urbanistico ed edilizio non esistono ostacoli alla realizzazione del programma;
   l'Istat ha deciso di recedere dal mutuo in precedenza stipulato con la Cassa depositi e prestiti, come sopra ricordato, e per tale motivazione occorrerà reperire le risorse finanziarie in buona misura coperta dalla vendita degli immobili di proprietà;
   l'ente ha chiesto ed ottenuto dal comune di Roma un'area per la quale ha già sostenuto euro 15.396.940,54 di spesa. Le motivazioni della richiesta, che venne fatta per reiterate ragioni di urgenza, erano legate al gravoso costo sostenuto allora per le locazioni, alle irregolarità presenti nelle sedi ed a problemi di inefficienza della propria organizzazione sparsa sul territorio comunale;
   ad oggi è manifesta un'inerzia secondo l'interrogante incomprensibile nei confronti del programma di Pietralata. Pur essendo aumentata l'emorragia finanziaria dovuta alle locazioni, pur permanendo l'inefficienza organizzativa dovuta alla dispersione sul territorio, pur essendosi aggravato lo stato delle sedi e nonostante la disponibilità del terreno e della cubatura necessaria;
   tale inerzia, oltre a comportare i problemi di cui sopra, sta generando, sempre ad avviso dell'interrogante, danni all'erario per svariati milioni di euro l'anno, disagi organizzativi dovuti alla dispersione delle sedi nel territorio del comune, inaccettabili rischi per il personale costretto a lavorare, a quanto risulta all'interrogante in sedi inadeguate dal punto di vista della sicurezza e dell'adeguatezza alle norme;
   la realizzazione del programma di Pietralata, oltre ad apportare effetti benefici in termini di efficienza, razionalizzazione degli spazi, organizzazione dei flussi di lavoro e di delocalizzazione e decongestionamento del centro, consentirebbe all'Istat di realizzare rilevantissime economie –:
   quali siano le motivazioni che hanno indotto l'istituto ad abbandonare il programma Pietralata, dopo aver più volte invocato l'urgenza di una nuova sede;
   quali siano gli orientamenti e/o le azioni che il Ministro intenda perseguire in merito al terreno per il quale sono già stati spesi 15.396.940,54;
   quali siano stati i criteri di gestione del patrimonio immobiliare da parte dell'ente, visti gli attuali enormi costi di gestione dello stesso, nonché la situazione delle sedi con riferimento ai profili di igiene e sicurezza delle stesse, di adeguamento degli impianti e di prevenzione incendi ed ai rischi dei lavoratori che secondo l'interrogante appaiono inaccettabili;
   quali siano le azioni che il Ministro interrogato intenda intraprendere nel complessivo della vicenda. (4-04812)

SVILUPPO ECONOMICO

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   TARANTO e BENAMATI. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   lo sviluppo della produzione da scisti fa sì che, oggi, il prezzo del gas risulti, in Europa, circa il triplo e, in Asia, oltre il quadruplo di quello degli Stati Uniti. In particolare, dal 2005 al 2012, i prezzi nominali del gas per l'industria si sono abbattuti del 54 per cento negli Stati Uniti e sono invece saliti del 64 per cento in Europa;
   secondo le previsioni della IEA, a partire dal 2020, gli Stati Uniti raggiungeranno condizioni di autosufficienza per il gas e ridurranno al 30 per cento le importazioni di petrolio. Sempre secondo previsioni IEA, l'Europa vedrà invece crescere le proprie importazioni di gas dal 45 per cento del totale della domanda nel 2012 al 65 per cento nel 2035;
   diversificazione dei fornitori e integrazione di reti di distribuzione ed impianti di rigassificazione restano – anche alla luce delle indicazioni del «terzo pacchetto energia» dell'Unione europea – aspetti essenziali per la costruzione di un compiuto mercato europeo dell'energia e condizioni particolarmente rilevanti per la competitività del nostro Paese, ove più del 40 per cento della produzione elettrica è generata da centrali a gas;
   per quel che riguarda la diversificazione delle fonti, l'approvvigionamento italiano di gas è alimentato da quattro aree principali: dal mare del Nord e a mezzo del gasdotto Transitgas, che valica il confine svizzero al passo Gries, proviene circa il 14 per cento del nostro fabbisogno nazionale; dalla Russia e a mezzo del gasdotto Tag, che raggiunge Tarvisio, proviene circa il 28 per cento; dalla Libia e a mezzo del Greenstream, che approda a Gela, proviene circa il 10 per cento; dall'Algeria e a mezzo del gasdotto Transmed, che raggiunge l'Italia dopo essersi snodato in territorio tunisino, proviene circa il 32 per cento. Le importazioni via nave di gas liquefatto – di cui il Qatar è il nostro principale fornitore – contribuiscono per il 16 per cento circa e vengono immesse in rete dopo l'intervento dei rigassificatori di Rovigo e di Panigaglia;
   il protocollo d'intesa sottoscritto tra Snam e la compagnia belga Fluxys prevede, per la fine del 2014, la nascita di un società per la gestione unitaria di gasdotti di proprietà o in cui, comunque, le società partner abbiano quote proprietarie rilevanti – fatta eccezione per le reti operanti in territorio italiano e belga – ponendo così le premesse per una rilevante infrastruttura paneuropea delle reti di distribuzione del gas e concorrendo alla costruzione del ruolo dell'Italia come hub del mercato del gas nel cuore del Mediterraneo;
   il consorzio Tap – che gestisce il progetto di realizzazione del gasdotto transadriatico, che dovrebbe permettere al gas proveniente dalla regione del Mar Caspio di raggiungere i mercati europei, attraversando Turchia e Grecia e collegando l'Albania con le coste italiane – ha presentato il nuovo dossier richiesto dalla Commissione nazionale per la valutazione di impatto ambientale circa i possibili punti di approdo pugliesi e si attende ora l'esito del suo esame;
   con i comunicati diffusi il 30 aprile 2014 dalla compagnia austriaca OMV e dalla compagnia russa Gazprom è stata invece fornita notizia del fatto che il gasdotto South Stream avrà come punto di arrivo non più Tarvisio, ma Baumgarten, nei pressi di Vienna e già oggi importante hub centro europeo del gas;
   l'emergenza geopolitica della Libia si traduce anche in stallo della sua industria energetica con prospettive di forte impatto sull'approvvigionamento del nostro Paese tanto più in concomitanza con la crisi ucraina;
   in occasione del recente G7-energia di Roma, il Ministro Guidi ha informato della prossima firma di un accordo tra Italia e Canada concernente anche l'approvvigionamento di gas naturale liquefatto, e il Segretario statunitense all'Energia, Ernest Moniz, ha ribadito la disponibilità USA all’export di GNL;
   la dichiarazione congiunta rilasciata a conclusione dell'incontro di Roma dei Ministri dell'Energia del G7, dedicato all'iniziativa per la sicurezza energetica con particolare attenzione agli impatti della violazione della sovranità e dell'integrità territoriale dell'Ucraina da parte della Russia, così annota al punto 7): «Nel medio periodo, è essenziale la diversificazione delle fonti e dei percorsi di approvvigionamento. Nessun paese dovrebbe dipendere interamente da un fornitore. Abbiamo intenzione di promuovere un mercato più integrato del GNL, anche attraverso nuovi approvvigionamenti, lo sviluppo di infrastrutture di trasporto, di capacità di stoccaggio e di terminali GNL. Appoggiamo l'apertura di nuovi percorsi per l'approvvigionamento energetico, in particolare il Corridoio Meridionale come percorso per eventuali altre fonti di approvvigionamento per l'Europa. Promuoveremo ulteriormente mercati del gas flessibili, anche attraverso l'allentamento delle clausole di destinazione e attraverso il dialogo produttore-consumatore» –:
   quali siano le iniziative che il Ministro interrogato, per quanto di sua competenza, intende conseguentemente assumere per lo sviluppo delle conclusioni del G7-energia di Roma, con particolare riferimento agli impegni concernenti la promozione di «un mercato più integrato del GNL». (5-02793)


   CAPARINI. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   la Rai spa è una società per azioni a totale partecipazione pubblica il cui capitale è detenuto per il 99,56 per cento dal Ministero dell'economia e delle finanze e per lo 0,44 per cento dalla Società italiana degli autori ed editori (SIAE);
   l'articolo 2, comma 2, della legge n. 223 del 1990 «Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato» ha disposto che il servizio pubblico generale radiotelevisivo fosse affidato mediante concessione a una società per azioni a totale partecipazione pubblica identificata nella RAI – Radio audizioni italiane spa – riconoscendo, quindi, «preminente interesse generale» l'attività di diffusione di programmi radiofonici e televisivi, in linea con l'assetto normativo precedente;
   l'11 giugno 1995 un referendum abrogativo, proposto dalla Lega nord e dai Radicali, con il 54,9 per cento dei sì è stata disposta l'abrogazione del comma 2 del suddetto articolo 2 limitatamente alle parole «a totale partecipazione pubblica» e dell'articolo 1 del decreto-legge 19 ottobre 1992 n. 408, convertito, con la legge n. 483 del 1992 il quale attribuiva soltanto allo Stato il possesso delle azioni Rai. Di fatto, trasformando la natura stessa della RAI-Radiotelevisione italiana spa e aprendo al possibile ingresso dei privati nel capitale sociale dell'azienda e decretando così la fine di quanto previsto dalla legge del 1990;
   la Corte costituzionale, nella sentenza n. 7 del 1995 che ha dichiarato l'ammissibilità del referendum, ha ammesso che una partecipazione privata al capitale azionario della RAI non si porrebbe in contrasto «con la natura pubblica del servizio radiotelevisivo ovvero con il carattere di società di interesse nazionale riconosciuto, ai sensi dell'articolo 2461 del codice civile, alla concessionaria di tale servizio»;
   ad avviso della Corte, «Tali elementi possono, infatti, operare indipendentemente dalla qualità pubblica o privata dei soggetti titolari del capitale azionario, riguardando, invece, la specialità del complessivo regime giuridico del servizio pubblico esercitato tramite concessionaria: specialità connessa al raggiungimento di quei fini di interesse generale cui, in ogni caso, non può non ispirarsi lo svolgimento di tale servizio»;
   inoltre, nella sentenza n. 284 del 2002, la Corte costituzionale ha ribadito che il venir meno del monopolio statale non comporta il venir meno della giustificazione costituzionale del servizio pubblico radiotelevisivo, che risiede nella sua funzione specifica, volta a soddisfare il diritto all'informazione ed i connessi valori costituzionali, primo fra tutti il pluralismo, nonché a diffondere la cultura per concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese;
   la volontà popolare espressa con il referendum del 1995, finalizzata ad evitare la creazione di un monopolio pubblico nel settore del servizio pubblico radiotelevisivo, veniva successivamente recepita con la legge 3 maggio 2004, n. 112, la cosiddetta «legge Gasparri» – in attuazione della quale fu emanato il Testo unico della radiotelevisione – che ha previsto una serie di passaggi per trasformare la RAI in una public company ad azionariato diffuso, lasciando lo Stato come azionista di maggioranza;
   l'articolo 21 della suddetta legge n. 112 del 2004 intitolato «dismissione della partecipazione dello Stato nella Rai» stabiliva al comma 1 che «entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge è completata la fusione per incorporazione della Rai spa nella società Rai-holding spa», specificando poi, al comma 2 che «per effetto dell'operazione di fusione di cui al comma 1, la società Rai-holding spa assume la denominazione sociale di Rai Radiotelevisione Italiana spa»;
   la medesima norma ha altresì sancito al comma 3 che «entro 4 mesi dalla data di completamento della fusione per incorporazione di cui al comma 1 è avviato il procedimento per l'alienazione della partecipazione dello stato nella Rai – Radiotelevisione italiana spa»;
   il 17 novembre 2004 è avvenuta la fusione per incorporazione della Rai holding spa con la Rai Radiotelevisione Italiana spa assumendo la denominazione sociale di «Rai Radiotelevisione Italiana spa»;
   il processo di privatizzazione non si è mai concluso e attualmente la concessione del servizio pubblico radiotelevisivo è affidata, fino al 2016, alla RAI-Radiotelevisione italiana spa, così come stabilito dal comma 1 dell'articolo 49 del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 «Testo unico della radiotelevisione»;
   il mancato inserimento della Rai nelle aziende da privatizzare di fatto finisce per eludere la gara obbligatoria per la concessione del servizio pubblico con le conseguenti responsabilità civili, patrimoniali e penali;
   è necessario intervenire sul mercato televisivo liberandolo dalle costrizioni e dalla regole ormai superate, cominciando a demolire quelle strutture politicizzate che difendono gli interessi di pochi a scapito della popolazione;
   da anni si chiede di mettere fine all'incomprensibile scelta di finanziare con soldi pubblici un'emittente che, nei fatti, opera in concorrenza con l'altra televisione generalista per scelte di programmazione, di audience e di vendita di contenuti;
   secondo l'interrogante occorre liberarsi del vecchio concetto che il servizio pubblico è della RAI. Il servizio pubblico è altra cosa, non è collegato al soggetto che lo fa, ma è l'oggetto stesso, quindi il contenuto –:
   per quale motivo la società pubblica Rai non sia stata inserita nell'elenco delle società da privatizzare, nonostante il popolo italiano si sia espresso in tal senso ed una legge dello Stato abbia previsto come obbligatoria tale privatizzazione;
   se non sia concorde che l'attuale trasformazione tecnologica deve necessariamente essere accompagnata anche da una trasformazione normativa, che renda il servizio radiotelevisivo italiano più efficiente e al passo con i tempi, anche intervenendo sull'assetto organizzativo e gestionale della concessionaria RAI, partendo proprio da una privatizzazione dell'azienda;
   se non ritenga che l'obiettivo debba essere quello di ripensare al ruolo che la televisione pubblica dovrebbe svolgere, alla sua missione e alle specifiche modalità di funzionamento. (5-02795)

Interrogazione a risposta scritta:


   MARANTELLI. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   Alenia Aermacchi è la maggior realtà italiana del settore aeronautico dopo la fusione avvenuta il primo gennaio 2012;
   negli ultimi due anni sono stati conseguiti dall'azienda rilevanti successi ottenendo commesse importanti per gli addestratori in Israele (30 aerei) e in Polonia (8 aerei);
   per fronteggiare le nuove esigenze di lavoro negli stabilimenti di Venegono si fa ricorso da mesi a centinaia di lavoratori esterni che operano nei reparti produttivi;
   tale decisione non crea professionalità all'interno dell'azienda trasferendola a lavoratori (rumeni e inglesi) che vorranno, legittimamente, utilizzarla in futuro nei loro paesi d'origine;
   se il naturale pensionamento di lavoratori con grande esperienza non viene colmato da assunzioni di giovani si rischia di penalizzare l'azienda e un territorio tradizionale bacino di elevate professionalità nel settore aeronautico;
   per consolidare ed esportare l'M346, l'addestratore più moderno al mondo, va garantita una costante qualità del prodotto e dei processi –:
   quali iniziative intenda assumere affinché la capogruppo Finmeccanica, pur nella sua autonomia, adotti una strategia che valorizzi l'assunzione di giovani operai, tecnici e ingegneri, tesa ad assicurare anche per il futuro ad una delle aziende più impegnate nelle sfide internazionali, le condizioni per continuare a svolgere un ruolo da protagonista in un settore decisivo per la competitività del nostro Paese. (4-04816)

Ritiro di documenti del sindacato ispettivo.

  I seguenti documenti sono stati ritirati dai presentatori:
   interrogazione a risposta scritta Rondini n. 4-03276 del 22 gennaio 2014;
   interrogazione a risposta in Commissione Binetti n. 5-02491 del 27 marzo 2014;
   interrogazione a risposta in Commissione Franco Bordo n. 5-02525 del 2 aprile 2014;
   interrogazione a risposta orale Sberna n. 3-00740 del 3 aprile 2014;
   interrogazione a risposta in Commissione Lorefice n. 5-02678 del 23 aprile 2014.
   interpellanza urgente Piazzoni n. 2-00533 del 12 maggio 2014.

Trasformazione di un documento del sindacato ispettivo.

  Il seguente documento è stato così trasformato su richiesta del presentatore: interrogazione a risposta in Commissione Tino Iannuzzi n. 5-02352 del 13 marzo 2014 in interrogazione a risposta scritta n. 4-04819.