Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento giustizia
Titolo: Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione 'La Magistratura' - A.C. 4275 - Schede di lettura e riferimenti normativi
Riferimenti:
AC N. 4275/XVI     
Serie: Progetti di legge    Numero: 483
Data: 02/05/2011
Descrittori:
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA   MAGISTRATURA
ORDINAMENTO GIUDIZIARIO     
Organi della Camera: I-Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni
II-Giustizia

 

Camera dei deputati

XVI LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione per l’esame di
Progetti di legge

Riforma del Titolo IV
della Parte II della Costituzione

“La Magistratura”

A.C. 4275

Schede di lettura e riferimenti normativi

 

 

 

 

 

 

n. 483

 

 

 

2 maggio 2011

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi

Dipartimento Istituzioni e Dipartimento Giustizia

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File: Gi0558.doc

 


INDICE

Schede di lettura

§      Art. 1 (Poteri del Presidente della Repubblica – Rubriche del titolo IV)3

§      Art. 2 (Autonomia ed indipendenza dei giudici)7

§      Art. 3 (Esercizio della giurisdizione)9

§      Art. 4 (Separazione tra giudici e pubblici ministeri – Autonomia e indipendenza del pubblico ministero)11

§      Art. 5 (Consigli superiori della magistratura)17

§      Art. 6 (Attribuzioni dei Consigli superiori della magistratura)23

§      Art. 7 (Corte di disciplina)27

§      Art. 8 (Nomina di magistrati onorari)31

§      Art. 9 (Inamovibilità dei magistrati)35

§      Art. 10 (Polizia giudiziaria)37

§      Art. 11 (Attribuzioni del Ministro della giustizia)43

§      Art. 12 (Appellabilità delle sentenze)49

§      Art. 13 (Obbligatorietà dell’azione penale)55

§      Art. 14 (Responsabilità dei magistrati)59

§      Art. 15 (Disciplina transitoria)65

§      Art. 16 (Entrata in vigore)67

Riferimenti normativi

§      Cost. 27 dicembre 1947. Costituzione della Repubblica italiana (artt. 101-113)71

§      Codice di procedura penale (artt. 50-59, 327, 347-357)76

§      Disposizioni di attuazione del codice di procedura penale (Artt. 3-20)94

§      R.D. 30 gennaio 1941, n. 12. Ordinamento giudiziario. (artt. 1-15, 69-88)102

§      R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511. Guarentigie della magistratura.120

§      L. 24 marzo 1958, n. 195. Norme sulla Costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura.137

§      D.P.R. 16 settembre 1958, n. 916. Disposizioni di attuazione e di coordinamento della L. 24 marzo 1958, n. 195, concernente la costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e disposizioni transitorie.160

§      L. 12 agosto 1962, n. 1311. Organizzazione e funzionamento dell'Ispettorato generale presso il Ministero di grazia e giustizia (2).185

§      L. 21 novembre 1991, n. 374. Istituzione del giudice di pace.202

§      D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51. Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado. (Art. 245)232

§      D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274. Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della L. 24 novembre 1999, n. 468.233

§      L. 28 marzo 2002, n. 44. Modifica alla L. 24 marzo 1958, n. 195, recante norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura.269

§      D.P.R. 16 aprile 2002, n. 67. Regolamento recante norme di attuazione e di coordinamento del procedimento elettorale per l'elezione dei magistrati componenti del Consiglio superiore della magistratura, a norma dell'articolo 14 della L. 28 marzo 2002, n. 44.272

§      L. 20 febbraio 2006, n. 46. Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento.275

§      D.Lgs. 20 febbraio 2006, n. 106. Disposizioni in materia di riorganizzazione dell'ufficio del pubblico ministero, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera d), della L. 25 luglio 2005, n. 150.279

 


Schede di lettura

 


 

Art. 1
(Poteri del Presidente della Repubblica – Rubriche del titolo IV)

 

Costituzione
testo vigente

A.C. 4275
Governo

PARTE II
Ordinamento della repubblica

PARTE II
Ordinamento della repubblica

Titolo II
Il Presidente della Repubblica

Titolo II
Il Presidente della Repubblica

 

(art. 1, co. 1)

Art. 87

Art. 87

Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale.

Identico.

Può inviare messaggi alle Camere.

Identico.

Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione.

Identico.

Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo.

Identico.

Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti.

Identico.

Indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione.

Identico.

Nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato.

Identico.

Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l'autorizzazione delle Camere.

Identico.

Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere.

Identico.

Presiede il Consiglio superiore della magistratura.

Presiede il Consiglio superiore della magistratura giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente.

Può concedere grazia e commutare le pene.

Identico.

Conferisce le onorificenze della Repubblica.

Identico.

 

 

 

 

 

L’articolo 1, comma 1, modifica l’articolo 87 della Costituzione relativo ai poteri del Presidente della Repubblica.

Al decimo comma, relativo alla presidenza del Consiglio superiore della magistratura, viene specificato che il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio superiore della magistratura giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente.

La modifica si connette alla divisione dell’attuale Consiglio superiore della magistratura in tre organi – a sua volta collegata alla scelta della separazione della funzione giudicante da quella requirente effettuata dall’art. 104 come novellato dal ddl - disposta dai nuovi articoli 104-bis, 104-ter, 105 e 105-bis:

-          il Consiglio superiore della magistratura giudicante;

-          il Consiglio superiore della magistratura requirente;

-          la Corte di disciplina della magistratura giudicante e requirente.

 

Viene confermata la Presidenza dei due organi competenti sulle assunzioni e sulla carriera dei giudici e dei pubblici ministeri al Presidente della Repubblica, al quale, invece, non sono riconosciute funzioni con riferimento alla Corte di disciplina, competente sui provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati.

 

Secondo la relazione illustrativa, la posizione super partes, di raccordo tra i poteri dello Stato, del Presidente della Repubblica continua ad essere la più idonea a garantire il necessario collegamento della magistratura con le istanze esterne, evitandone la chiusura in se stessa.

 

Il tema della chiusura della magistratura attraverso la creazione dell’organo di autogoverno e del conseguente ruolo di apertura verso gli altri poteri dello Stato attribuito al Presidente della Repubblica in qualità di presidente del CSM, è ampiamente presente nel dibattito in Assemblea costituente[1]. A coloro che sostenevano l’opportunità di attribuire la presidenza del Consiglio superiore della magistratura al Capo dello Stato, riproducendo un istituto già presente nella costituzione francese dell’epoca – (il Presidente della Repubblica «darà maggior lustro a questo supremo organo del potere giudiziario e, riassumendo in sé la sovranità dello Stato, imprimerà al Consiglio superiore l’aspetto, non di un organo proprio ed esclusivo della magistratura, ma di un organo che presieda al potere giudiziario in nome di tutto il popolo italiano»[2]), si opposero coloro che ritenevano questa funzione del Presidente della Repubblica incompatibile con la sua irresponsabilità[3] ovvero svilente del ruolo del Capo dello Stato («tra le attribuzioni del CSM ci sono anche le assegnazioni ed i trasferimenti di sede. Credete di elevare il prestigio del Presidente della Repubblica per questi atti, che vorrei definire di ordinaria amministrazione o quasi?»[4]).

Una sintesi molto efficace delle valutazioni finali dell’Assemblea costituente è contenuta nelle parole del Presidente della Commissione per la Costituzione, Ruini, il quale dopo aver fatto notare che il tema dell’irresponsabilità avrebbe dovuto essere valutato anche allorquando l’Assemblea aveva attribuito al Capo dello Stato la presidenza del Consiglio supremo di difesa afferma: «abbiamo considerato il Capo dello Stato come fuori d’ogni potere […]; ma appunto perché egli è al vertice di tutto, interviene nel dare espressione agli atti più eminenti dei vari poteri: promulga le leggi, emana i provvedimenti del Governo di maggior rilievo; non poteva essere estraneo a quello che è comunemente designato per terzo potere. Ci è sembrato che dargli la presidenza del Consiglio superiore della magistratura risponda alle linee generali della Costituzione, mentre dà dignità e risalto al Consiglio Superiore della Magistratura. Quanto al timore che in questa funzione il Presidente della Repubblica esca dalla sua imparzialità e possa compromettersi personalmente, non dobbiamo dimenticare […] che la funzione del Presidente della Repubblica è una funzione di arbitro, di moderatore, di equilibratore; o il Presidente della Repubblica ha il temperamento adatto, ed allora anche come presidente del Consiglio superiore della Magistratura, senza entrare in questioni particolari, saprà svolgere anche qui la sua alta funzione; o non ha quel temperamento, e gli urti avverranno anche negli altri compiti che gli spettano per la Costituzione».

 

 

Il comma 2, modifica la rubrica del titolo IV della parte II della Costituzione, che nel testo vigente fa riferimento a “La magistratura”. Tale termine viene sostituito con “La Giustizia”.

Analoga modifica era prevista dal progetto di riforma della Costituzione approvato dalla Commissione parlamentare per le riforme costituzionali istituita nella XIII legislatura (c.d. Bicamerale D’Alema).

 

Secondo la relazione illustrativa, la nuova denominazione mette in risalto come il titolo IV riguardi un bene essenziale per la vita dei cittadini e della Nazione, quale appunto la giustizia, e non l’ordine giudiziario inteso come corporazione.

 

 

Fu la Commissione per la Costituzione ad intitolare il Titolo IV del progetto di Costituzione “La magistratura”. Nel corso del dibattito che seguì in Assemblea costituente, vi fu chi come Persico e Romano criticò tale dicitura («Magistratura non vuol dire altro che una congregazione di uomini, i quali si distinguono per alcune funzioni e, direi, anche per una loro veste esteriore: la toga e il tocco»[5]) proponendo di sostituirla con “potere giudiziario”. Chiamato ad esprimere il parere della Commissione sugli emendamenti proposti, Ruini affermò: «Il termine proposto nel testo, e cioè “magistratura”, corrisponde, con euritmia e con concretezza, agli altri che designano i vari titoli: Parlamento, Governo, ecc.; e mi sembra dia risalto e debba soddisfare i magistrati. […] Dichiaro subito, relativamente alla proposta “Il potere giudiziario”, che il Comitato sente profondamente ciò che significa la distinzione dei poteri come spirito di tutta la Costituzione. Ma un incasellamento preciso di norme in tal senso non è possibile; avremmo dovuto dire anche: “Il potere legislativo” e “Il potere esecutivo”. Non è, per questa ragione, possibile accettare la proposta dizione. […] Se si vuol mutare “Magistratura” preferiamo si adotti un altro termine “La giustizia”, che è largo e solenne, e che è usato in altre Costituzioni, come la weimariana. E’ un po’ astratto, ma dà il senso alto della funzione, di cui si tratta nel titolo». L’Assemblea – nonostante alla fine la Commissione avesse optato per l’espressione “La giustizia”, anche per respingere le alternative “potere giudiziario” e “ordine giudiziario” – votò a favore dell’originaria intitolazione “La magistratura”[6].

 

 

Sono altresì modificate le rubriche delle due sezioni che compongono la parte IV:

-          la sezione I assume la denominazione “Gli organi”, in luogo di “Ordinamento giurisdizionale”;

Analoga modifica era prevista dal progetto di riforma della Costituzione approvato dalla Commissione parlamentare per le riforme costituzionali istituita nella XIII legislatura (c.d. Bicamerale D’Alema).

-          la sezione II si intitola “La giurisdizione”, anziché “Norme sulla giurisdizione”.

 


 

Art. 2
(Autonomia ed indipendenza dei giudici)

 

Costituzione
testo vigente

A.C. 4275
Governo

PARTE II
Ordinamento della repubblica

PARTE II
Ordinamento della repubblica

 

(art. 1, co. 2, lett. a)

Titolo IV
La magistratura

Titolo IV
La giustizia

 

(art. 1, co. 2, lett. b)

Sezione I
Ordinamento giurisdizionale

Sezione I
Gli organi

 

(art. 2, co. 1)

Art. 101

Art. 101

La giustizia è amministrata in nome del popolo.

Identico.

I giudici sono soggetti soltanto alla legge.

I giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere e sono soggetti soltanto alla legge.

 

 

L’articolo 2 modifica l’articolo 101, secondo comma, Cost., secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alle legge, aggiungendo il riconoscimento dei giudici quali ordine autonomo ed indipendente da ogni potere attualmente previsto dall’articolo 104, primo comma, con riferimento alla magistratura e, quindi, sia ai giudici che ai pubblici ministeri. La modifica consegue all’intento di rimarcare la distinzione tra funzione giudicante e funzione requirente, con conseguente separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, che costituisce uno dei princìpi cardine del disegno di legge in esame.

Per i pubblici ministeri, il nuovo art. 104, terzo comma (introdotto dall’art. 4, al cui commento si rinvia) prevede che l’ufficio del pubblico ministero è organizzato secondo le norme dell’ordinamento giudiziario che ne assicurano l’autonomia e l’indipendenza.

A differenza del testo vigente dell’articolo 104, primo comma, l’autonomia e l’indipendenza sono riconosciute nel novellato art. 101, secondo comma, rispetto «ad ogni potere» e non rispetto «ad ogni altro potere».

L’attributo «altro» sottintende nel testo vigente una qualificazione della magistratura quale potere a sé stante. La soppressione dell’attributo potrebbe essere intesa nel senso di far venire meno tale qualificazione, la quale peraltro ha valore sul piano astratto dei princìpi senza implicare immediate conseguenze sul piano precettivo.

Per altro verso, la soppressione dell’attributo «altro» potrebbe leggersi nel senso di sottolineare l’indipendenza del giudice non solo dagli altri poteri (cd. indipendenza esterna), ma anche rispetto a tutti gli altri giudici (cd. indipendenza interna). In senso contrario, tuttavia, resta il fatto che, sul piano letterale, l’autonomia e l’indipendenza sono riferite all’ordine dei giudici e non al singolo giudice.

 

 


 

Art. 3
(Esercizio della giurisdizione)

 

Costituzione
testo vigente

A.C. 4275
Governo

 

(art. 3, co. 1)

Art. 102

Art. 102

La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario.

La giurisdizione è esercitata da giudici ordinariistituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario.

Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura.

Identico.

La legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia.

Identico.

 

 

L’articolo 3 modifica l’art. 102, primo comma, Cost., che prevede che la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario.

 

La prima modifica concerne la sostituzione delle parole «funzione giurisdizionale» con «giurisdizione».

La modifica più rilevante riguarda il riferimento, quali soggetti titolari dell’esercizio della giurisdizione, ai giudici, anziché ai magistrati, con conseguente esclusione dei pubblici ministeri dal predetto esercizio.

 

Del resto, la diversa posizione tra giudice e pubblico ministero circa l’esercizio della funzione giurisdizionale si rinviene in alcune sentenze della Corte costituzionale, che rilevano che il pubblico ministero si distingue dal giudice, in quanto non è titolare di poteri decisori (sentenze n. 96 e n. 97 del 1975).

Con riferimento alla riferibilità al pubblico ministero del concetto di «giurisdizione» contemplato dall’art. 102 Cost., la Corte ha affermato che «in tale concetto deve intendersi compresa non solo l'attività decisoria, che è peculiare e propria del giudice, ma anche l'attività di esercizio dell'azione penale, che con la prima si coordina in un rapporto di compenetrazione organica a fine di giustizia e che l'art. 112 della Costituzione, appunto, attribuisce al pubblico ministero» (sentenza n. 96 del 1975).

 

A seguito dell’esclusione del pubblico ministero dall’ambito della giurisdizione disposta dall’articolo in esame, il termine «giurisdizione» sembra dunque potersi riferire esclusivamente all’attività decisoria in senso stretto, propria del giudice.

 

 

 

 

 

 


 

Art. 4
(Separazione tra giudici e pubblici ministeri – Autonomia e indipendenza del pubblico ministero)

 

 

Costituzione
testo vigente

A.C. 4275
Governo

 

(art. 4)

 

Art. 104

 

I magistrati si distinguono in giudici e pubblici ministeri.

 

La legge assicura la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri.

 

L'ufficio del pubblico ministero è organizzato secondo le norme dell'ordinamento giudiziario che ne assicurano l'autonomia e l'indipendenza.

 

 

L’articolo 4 sostituisce formalmente l’articolo 104 Cost., ma sostanzialmente introduce un nuovo articolo relativo alla separazione tra giudici e pubblici ministeri.

 

Il contenuto del primo comma dell’attuale art. 104 è trasposto nel nuovo secondo comma dell’art. 102 (cfr. art. 2), mentre i restanti commi dell’articolo 104, relativi al Consiglio superiore della magistratura, sono di fatto sostituiti dagli artt. 104-bis, 104-ter e 105-bis.

 

Il primo comma dell’art. 104, come novellato, sancisce espressamente la distinzione dei magistrati in giudici e pubblici ministeri.

 

Una prima conseguenza della distinzione è la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, che, in base al nuovo secondo comma, è assicurata dalla legge.

Da tale separazione discende la necessità di superare l’attuale sistema che prevede un concorso unico per l’accesso alla magistratura, con possibilità di svolgere sia funzioni giudicanti che requirenti e di passare da una funzione all’altra, sia pure nei limiti previsti dalle norme sull’ordinamento giudiziario.

 

Attualmente, il passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti – e viceversa – è disciplinato dal decreto legislativo n. 160 del 2006, come da ultimo modificato dalla legge n. 111 del 2007. In materia si sono susseguite le riforme dell’ordinamento giudiziario introdotte nella XIV legislatura ad opera della legge delega n. 150 del 2005, con i conseguenti decreti legislativi attuativi (c.d. Riforma Castelli) e nella XV legislatura ad opera della legge n. 111 del 2007, che tali decreti ha novellato (c.d. riforma Mastella).

Originariamente, il decreto legislativo n. 160 del 2006 prevedeva infatti una serie di prescrizioni per il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa. In primo luogo, il candidato che aspirasse ad entrare in magistratura doveva indicare, a pena d’inammissibilità della domanda, se intendeva accedere ai posti per giudicante oppure per requirente. In secondo luogo, la riforma prevedeva che il passaggio dall’una all’altra funzione potesse darsi solo dopo tre anni di servizio, previa partecipazione ad un concorso per titoli, per l’assegnazione dei posti vacanti disponibili in uffici giudiziari aventi sede in diverso distretto, dopo aver frequentato un apposito corso di formazione presso la Scuola superiore della Magistratura, e a seguito di un esame il cui esito valutato da una commissione mista composta da magistrati e professori universitari[7].

Tale disciplina non è mai entrata in vigore in quanto, all’inizio della successiva legislatura, la legge n. 269 del 2006 ha sospeso l’efficacia della riforma.

E’ dunque intervenuta la legge n. 111 del 2007 che ha novellato il decreto legislativo n. 160 prevedendo un concorso unico nel quale il candidato non deve dichiarare preventivamente se intende accedere a posti di giudicante oppure di requirente. In base all’art. 13, comma 3, del decreto legislativo n. 160/2006, come novellato dalla citata legge, il passaggio da funzioni giudicanti a requirenti e viceversa non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa regione[8].

Il passaggio può essere richiesto dall’interessato, per non più di 4 volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed é disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario.

In sostanza dunque, attualmente il vigente sistema non solo non separa le carriere, ma nemmeno impedisce o crea particolari ostacoli al passaggio da una funzione all’altra[9].

 

 

Peraltro, il disegno di legge del governo non modifica l’art. 107, terzo comma della Costituzione, secondo cui i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni.

 

Si ricorda in proposito che, nella sentenza n. 37 del 2000, la Corte costituzionale ha rilevato che la Costituzione «pur considerando la magistratura come un unico "ordine", soggetto ai poteri dell'unico Consiglio superiore (art. 104), non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni».

 

Il nuovo terzo comma prevede che l’ufficio del pubblico ministero è organizzato secondo le norme dell’ordinamento giudiziario che ne assicurano l’autonomia e l’indipendenza.

 

La disposizione deve essere messa in relazione con il nuovo art. 101, secondo comma, che, come già visto, prevede il riconoscimento dei soli giudici, e non più di tutti i magistrati, quali ordine autonomo ed indipendente da ogni potere.

Nell’attuale testo della Costituzione una posizione di indipendenza dei pubblici ministeri - parzialmente diversa da quella dei giudici - è desumibile dall’art. 107, quarto comma, secondo il quale «il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario»; per i giudici vale invece il principio della soggezione unicamente alla legge sancito dall’art. 101, secondo comma.

In questo senso la Corte costituzionale, nella sentenza n. 52 del 1976, dopo avere ricordato che il pubblico ministero è un magistrato appartenente all'ordine giudiziario, che, fornito di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere, «non fa valere interessi particolari, ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge, perseguendo fini di giustizia» (sentenza n. 190 del 1970), ha rilevato che le garanzie di indipendenza del pubblico ministero sancite, a livello costituzionale, dall'art. 107, vengono rimesse, per la determinazione del loro contenuto, alla legge ordinaria sull'ordinamento giudiziario. Da questo sistema, la Corte evince che «a differenza delle garanzie di indipendenza previste dall'art. 101 Cost. a presidio del singolo giudice, quelle che riguardano il pubblico ministero si riferiscono all'ufficio unitariamente inteso e non ai singoli componenti di esso».

 

Il rinvio alle norme sull’ordinamento giudiziario operato dal quarto comma dell’art. 107 della Costituzione va oggi riferito agli articoli 69 e ss. dell’ordinamento giudiziario (R.D. n. 12 del 1941), agli articoli 50 e ss. del codice di procedura penale e al decreto legislativo n. 106 del 2006, di riorganizzazione degli uffici del PM, emanato in attuazione della legge delega n. 150 del 2005 (c.d. Riforma Castelli) e solo limitatamente novellato dalla legge n. 111 del 2007 (c.d. Riforma Mastella).

Originariamente, l’art. 70 dell’ordinamento giudiziario disponeva che il titolare dell’ufficio del pubblico ministero esercitasse le sue funzioni personalmente ovvero per mezzo dei «dipendenti» magistrati, disegnando una organizzazione gerarchica interna agli uffici del PM. Successivamente il legislatore, in relazione ai principi costituzionali in tema di assenza di gerarchie interne alla magistratura, aveva eliminato ogni riferimento ad espressioni che potessero alludere a rapporti gerarchici interni all'ufficio, sostituendo l'inciso magistrati «dipendenti» con magistrati «designati».

In effetti, fino al 2006, la prassi degli effettivi rapporti che si sviluppano all'interno degli uffici del Pubblico Ministero si è mossa nel senso di una sostanziale equiparazione della posizione, in termini di autonomia, che il magistrato designato occupa rispetto al dirigente dell'ufficio. Tale sistema è stato profondamente modificato dal decreto legislativo n. 106 del 2006, che ha reintrodotto il principio gerarchico all’interno dell’ufficio del PM. In particolare, la riforma ha stabilito che[10]:

·       il procuratore della repubblica, quale capo dell’ufficio, è il titolare esclusivo dell’azione penale e la esercita sotto la sua responsabilità;

·       il procuratore della repubblica determina i criteri ai quali i magistrati dell’ufficio devono attenersi nell’impiego della polizia giudiziaria, nell’utilizzo delle risorse finanziarie e tecnologiche, e nell’impostazione delle indagini;

·       il procuratore della repubblica può designare un procuratore aggiunto alla funzione di vicario o un qualsiasi magistrato del suo ufficio al compimento di singoli atti, oppure alla trattazione di uno o più procedimenti, o infine alla gestione di un determinato settore di affari;

·       il procuratore della repubblica determina i criteri ai quali i magistrati delegati devono attenersi, con facoltà di revoca dell’assegnazione in caso di divergenze o inosservanza dei criteri, e tuttavia con obbligo di trasmettere il provvedimento di revoca al procuratore generale presso la Corte di cassazione;

·       il procuratore della repubblica determina i criteri per l’organizzazione dell’ufficio e per l’assegnazione della trattazione dei procedimenti, precisando per quali tipologie di reato riterrà di adottare meccanismi automatici;

·       il procuratore della repubblica (ovvero il procuratore aggiunto, ovvero il magistrato delegato) deve prestare l’assenso con riferimento agli atti dell’ufficio che incidono sui diritti reali o sulla libertà personale (misure cautelari);

·       il procuratore della repubblica, o magistrato da questi appositamente delegato, tiene in via esclusiva ed impersonale i rapporti con gli organi di informazione;

·       infine, i procuratori generali presso le corti d’appello acquisiscono dati e notizie per verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale, nonché il rispetto del principio in base al quale l’esercizio di tale azione spetta in via esclusiva al capo dell’ufficio.

 

La differenza di posizione tra giudice e pubblico ministero risulta inoltre accentuata dall’entrata in vigore nel 1989 del nuovo codice di procedura penale, che ha segnato il passaggio da un processo di stampo inquisitorio ad un processo accusatorio e dai principi del giusto processo sanciti dall’articolo 111 della Costituzione, nel testo modificato nel 1999. L’articolo 111 riconosce infatti la parità delle parti del processo davanti ad un giudice terzo e imparziale.

A tal proposito, la relazione illustrativa rileva come, con il nuovo codice di procedura penale, il modello di pubblico ministero scelto dai costituenti sia entrato in conflitto con il nuovo ruolo assegnatogli nel processo accusatorio e come la legge costituzionale n. 2 del 1999, che ha introdotto il giusto processo, renda indifferibile la separazione tra l’ordine dei giudici e l’ufficio del pubblico ministero.

 

Secondo la relazione illustrativa, inoltre, la definizione del pubblico ministero come «ufficio» costituisce un elemento di discontinuità rispetto al sistema precedente e «fissa, anche sul piano lessicale, il connubio tra esercizio della funzione inquirente e responsabilità». Essa «consente di superare definitivamente quelle concezioni e prassi soggettivistiche che hanno dato luogo a una vera e propria “frammentazione” della funzione requirente, nella quale il singolo magistrato, attraverso la libera ricerca della notizia di reato e la diretta disponibilità della polizia giudiziaria, può disporre degli strumenti investigativi (compresi quelli più invasivi, complessi e costosi), senza doverne commisurare l’utilizzo ai criteri predeterminati di esercizio dell’azione penale e senza tener anche conto delle risorse, necessariamente limitate, dell’organizzazione giudiziaria».

 

Si rileva peraltro che, restando in vigore l’art. 107, quarto comma, secondo il quale il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario, il contenuto di tale comma potrebbe sovrapporsi – quantomeno parzialmente - a quello del nuovo art. 104, terzo comma.

 

 


 

Art. 5
(Consigli superiori della magistratura)

 

Costituzione
testo vigente

A.C. 4275
Governo

Art. 104

Art. 104-bis

La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.

v. sopra,
art. 101, secondo comma

Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica.

Il Consiglio superiore della magistratura giudicante è presieduto dal Presidente della Repubblica.

Ne fanno parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione.

Ne fa parte di diritto il primo presidente della Corte di cassazione.

Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio.

Gli altri componenti sono eletti per metà da tutti i giudici ordinari tra gli appartenenti alla medesima categoria, previo sorteggio degli eleggibili, e per metà dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio.

Il Consiglio elegge un vicepresidente fra i componenti designati dal Parlamento.

Identico.

I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili.

Non possono, finché sono in carica, essere iscritti, negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale.

I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono rieleggibili. Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale, provinciale o comunale.

 

 

 

 

 

Art. 104-ter

 

Il Consiglio superiore della magistratura requirente è presieduto dal Presidente della Repubblica.

 

Ne fa parte di diritto il procuratore generale presso la Corte di cassazione.

 

Gli altri componenti sono eletti per metà da tutti i pubblici ministeri tra gli appartenenti alla medesima categoria, previo sorteggio degli eleggibili, e per metà dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio.

§   

Il Consiglio elegge un vicepresidente tra i componenti designati dal Parlamento.

§   

I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono rieleggibili. Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale, provinciale o comunale.

 

 

Gli articoli 5, 6 e 7 disegnano l’assetto e le funzioni dei 3 nuovi organi di governo della magistratura, che sostituiscono il Consiglio superiore della magistratura (CSM).

 

L’articolo 5, in linea con il principio della distinzione tra giudici e pubblici ministeri che ispira la riforma, prevede un Consiglio superiore della magistratura giudicante ed un Consiglio superiore della magistratura requirente, disciplinati, rispettivamente, dai nuovi articoli 104-bis e 104-ter.

 

Per quanto riguarda l’attuale composizione del Consiglio superiore della magistratura occorre far riferimento – oltre che alla Costituzione – all’articolo 1 della legge n. 195 del 1958 (Norme sulla Costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura), come modificato dalla legge n. 44 del 2002[11].

Il CSM risulta così composto di 27 membri:

§       3 membri di diritto: Presidente della Repubblica (Presidente del CSM); primo presidente della Corte di cassazione; procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione;

§       16 membri togati, eletti dai magistrati ordinari[12]. L'elezione si effettua attraverso la costituzione di 3 collegi nazionali: a) uno per l’elezione di 2 magistrati che esercitano le funzioni di legittimità presso la Corte di cassazione e la Procura generale presso la stessa Corte; b) uno per l’elezione di 4 magistrati che esercitano le funzioni di PM presso gli uffici di merito e presso la Direzione nazionale antimafia; c) uno per l’elezione di 10 magistrati che esercitano le funzioni di giudice presso gli uffici di merito, ovvero per i magistrati destinati all'ufficio del massimario e del ruolo della Cassazione;

§       8 membri laici, eletti dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e tra gli avvocati dopo quindici anni di esercizio professionale (con la maggioranza dei 3/5 dell'assemblea per i primi due scrutini e dei 3/5 dei votanti nei successivi, ex art. 22, l. 195/1958).

 

 

Il Consiglio superiore della magistratura giudicante si distingue dall’attuale CSM in quanto:

§          non ne fa parte di diritto il procuratore generale presso la Corte di cassazione, ma solo il primo Presidente della Corte;

§          il rapporto tra il numero dei membri “togati” (eletti dai giudici) ed il numero membri “laici” (eletti dal Parlamento) è di parità, in luogo dell’attuale 2/3 di membri togati ed 1/3 di membri laici;

§          i membri “togati” sono eletti «da tutti i giudici ordinari tra gli appartenenti alla medesima categoria» e non da tutti i magistrati ordinari (quindi giudici e pubblici ministeri) tra gli appartenenti alle varie categorie;

§          l’elezione dei membri “togati” avviene previo sorteggio degli eleggibili;

§          la non rieleggibilità è permanente (nel testo vigente la non rieleggibilità è limitata al mandato successivo);

§          l’incompatibilità è estesa alle cariche di consigliere provinciale e comunale.

Sulle funzioni attribuite, si rinvia al commento all’art. 105.

 

Sono invece confermate:

§          la Presidenza in capo al Presidente della Repubblica;

§          l’elezione dei membri “laici” da parte del Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo 15 anni di esercizio;

§          l’elezione di un vice presidente da parte del Consiglio fra i membri “laici”;

§          la durata in carica di 4 anni per i membri elettivi;

§          l’incompatibilità con l’iscrizione ad albi professionali e con le cariche di parlamentare e consigliere regionale.

 

 

La disciplina prevista dall’art. 104-ter per il Consiglio superiore della magistratura requirente è pressoché identica a quella del Consiglio superiore della magistratura giudicante. Le uniche differenze sono:

§          la presenza di diritto del procuratore generale presso la Corte di cassazione, anziché del primo Presidente della Corte;

§          l’elezione dei membri “togati” da parte dei pubblici ministeri anziché da parte dei giudici.

 

 

Come già nel sistema vigente, le nuove norme costituzionali non provvedono alla determinazione del numero dei componenti dei Consigli superiori, che è dunque rimesso alla legge ordinaria.

Secondo la relazione illustrativa, il numero dei componenti sarà necessariamente diverso tra i due Consigli, in considerazione della sproporzione numerica tra l’organico dei giudici e quello dei pubblici ministeri.

La relazione sottolinea inoltre come la presenza, quale membro di diritto, del primo presidente della Corte di cassazione e del procuratore generale presso la medesima garantisca la prevalenza numerica della componente «togata».

 

Il tema della prevalenza numerica dei togati sui c.d. laici fu ampiamente dibattuto anche in Assemblea costituente.

Il testo proposto all’Assemblea dalla Commissione per la Costituzione non assicurava la prevalenza nel Consiglio superiore della magistratura dei componenti magistrati: l’art. 97 del progetto prevedeva infatti che il CSM fosse composto per metà di membri togati e per l’altra metà di membri designati dal Parlamento; le vicepresidenze dovevano essere due ed anch’esse attribuite ad un togato (il Primo presidente della Corte di Cassazione) e ad un laico (individuato dal Parlamento); il presidente della Repubblica era posto al vertice dell’organo.

Nel corso del dibattito in Assemblea alcuni sostennero l’originaria formulazione dell’art. 97 e dunque la sostanziale parità tra togati e laici[13]; vi fu però anche chi sostenne come di un autentico autogoverno della magistratura si potesse parlare solo assicurando che il CSM fosse composto di soli magistrati[14]; a questi si contrapposero quanti, nella volontà di non chiudere la magistratura in se stessa, proposero una rappresentanza del potere legislativo che però non fosse numericamente tale da vanificare il concetto di autogoverno e indipendenza della magistratura[15], peraltro con questo aderendo ad una specifica richiesta che era stata fatta all’Assemblea dall’Associazione nazionale magistrati. Prevalse, in particolare, la proposta di Scalfaro di porre sotto la presidenza del Capo dello Stato due terzi di magistrati eletti dalla magistratura e un terzo di non magistrati eletti dal Parlamento[16].

Vi fu anche chi sostenne come fosse sufficiente – come affermato dalla relazione di accompagnamento del disegno di riforma costituzionale in esame - che la prevalenza numerica dei togati fosse assicurata dalla presenza di membri di diritto provenienti dalla magistratura[17].

 

 

Circa l’innovativo metodo di elezione dei membri “togati”, ossia il sorteggio degli eleggibili, la relazione illustrativa sottolinea che questo meccanismo è volto, da una parte, a garantire il principio di elettività e, dall’altra, a contrastare il potere dei gruppi organizzati all’interno della magistratura (cd. “correntocrazia”) per il rafforzamento dell’autonomia interna.

Anche in tal caso, le modalità applicative (quali il numero dei sorteggiati, le modalità di elezione, ecc.) sono rimesse alla legge ordinaria.

Il riferimento all’elezione tra gli “appartenenti alla medesima categoria” anziché tra gli “appartenenti alle varie categorie” potrebbe indurre a ritenere che i giudici, per il CSM giudicante, e i pubblici ministeri, per il CSM requirente, siano posti tutti sullo stesso piano ai fini delle elezioni.

Nel sistema vigente sono operate delle distinzioni, ai fini dell’elezione, non solo tra giudici e pubblici ministeri, ma anche tra magistrati svolgenti funzioni di legittimità e magistrati svolgenti funzioni di merito.

 


 

Art. 6
(Attribuzioni dei Consigli superiori della magistratura)

 

Costituzione
testo vigente

A.C. 4275
Governo

 

(art. 6)

Art. 105

Art. 105

Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati.

Spettano al Consiglio superiore della magistratura giudicante e al Consiglio superiore della magistratura requirente, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti e le promozioni nei riguardi, rispettivamente, dei giudici ordinari e dei pubblici ministeri.

 

I Consigli superiori non possono adottare atti di indirizzo politico, né esercitare funzioni diverse da quelle previste nella Costituzione.

 

 

L’articolo 6 sostituisce l’art. 105 Cost., relativo alle attribuzioni del CSM.

 

Il nuovo testo attribuisce al Consiglio superiore della magistratura giudicante ed al Consiglio superiore della magistratura requirente, con riferimento, rispettivamente, ai giudici ed ai pubblici ministeri, tutte le funzioni attualmente previste dall’art. 105, con l’eccezione dell’adozione dei provvedimenti disciplinari.

Si tratta di funzioni relative alla carriera dei magistrati e, in particolare, assunzioni, assegnazioni, trasferimenti e promozioni.

 

Come emerge dalla relazione illustrativa, sono attribuite ai Consigli superiori funzioni di carattere amministrativo, relative allo status dei magistrati (ordinari ed onorari), mentre le funzioni di natura giurisdizionale, relative al procedimento disciplinare, sono attribuite alla Corte di disciplina, istituita dall’art. 105-bis.

 

Di carattere innovativo è la previsione del nuovo secondo comma dell’art. 105, secondo cui i Consigli superiori non possono adottare atti di indirizzo politico, né esercitare funzioni diverse da quelle previste dalla Costituzione.

Nella Costituzione la funzione di indirizzo politico – la cui sostanza non risulta normativamente definita - è richiamata dal primo comma dell’art. 95 Cost che assegna al Presidente del Consiglio dei Ministri il compito di dirigere la politica generale del Governo, essendone responsabile, nonché di mantenere “l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”.

 

Secondo la relazione illustrativa, questa previsione colma una lacuna obiettiva del testo costituzionale, che, non indicando i limiti delle attività del CSM, ha consentito l’esercizio di ampie funzioni “paranormative” e di indirizzo generale. La funzione “paranormativa” consiste nell’adozione di atti (sostanzialmente riconducibili a regolamenti, determinazioni e circolari) di contenuto generale e astratto.

 

Le funzioni dei Consigli superiori divengono quindi un numerus clausus.

Oltre a quelle individuate dal medesimo art. 105, relative allo status di giudici e pubblici ministeri, esse sono:

 

§          la designazione per la chiamata all’ufficio di consigliere di cassazione, per meriti insigni, di professori e avvocati (art. 106, terzo comma, Cost.);

Si osserva in proposito che il disegno di legge in esame non modifica l’articolo 106, terzo comma, che fa riferimento al Consiglio superiore della magistratura, senza tener conto della separazione operata dagli artt. 104-bis e 104-ter.

§          la dispensa, la sospensione dal servizio, la destinazione ad altre sedi o funzioni di giudici e pubblici ministeri, nonché il trasferimento di sede dei magistrati in casi eccezionali (art. 107, primo comma, Cost., come modificato dall’art. 9 del disegno di legge in esame).

 

Nell’attuale assetto normativo, l’art. 10 della L. 195/1958, che enumera le attribuzioni del CSM, stabilisce una norma di chiusura in base alla quale il Consiglio superiore delibera su ogni altra materia ad esso attribuita dalla legge (terzo comma).

 

Tra le funzioni attribuite dalla L. 195/1958, si ricordano:

§          le proposte al Ministro della giustizia sulle modificazioni delle circoscrizioni giudiziarie e su tutte le materie riguardanti l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (art. 10, secondo comma);

§          i pareri al Ministro sui disegni di legge concernenti l'ordinamento giudiziario, l'amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie (art. 10, secondo comma);

§          la formazione delle tabelle degli uffici giudiziari (art. 10-bis);

§          funzioni relative alle elezioni dei componenti “togati” (artt. 18 e 21 ss.);

§          la verifica dei titoli di ammissione dei componenti “togati” e la decisione sui relativi reclami (art. 20, primo comma, n. 1);

§          la verifica sui requisiti di eleggibilità dei componenti designati dal Parlamento e la comunicazione ai Presidenti delle Camere dell’eventuale mancanza degli stessi (art. 20, primo comma, n. 2);

§          la facoltà di disciplinare con regolamento interno il proprio funzionamento (art. 20, primo comma, n. 7).

 

 

Si ricorda, infine, che sono attualmente in corso di esame presso la Commissione giustizia del Senato due disegni di legge volti a modificare l’art. 10 della legge n. 195 del 1958, così da:

§         escludere che il CSM possa esprimere pareri sui provvedimenti di riforma dell’ordinamento giudiziario senza espressa richiesta del Ministro della Giustizia (A.S. 1832);

§         escludere che il CSM possa assumere iniziative che rechino nocumento alla riservatezza, alla serenità e alla imparzialità della funzione giudiziaria e al regolare svolgimento di procedimenti pendenti (A.S. 1833).

 

 

 

 


Art. 7
(Corte di disciplina)

 

Costituzione
testo vigente

A.C. 4275
Governo

 

(art. 7)

 

Art. 105-bis

 

I provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati spettano alla Corte di disciplina della magistratura giudicante e requirente.

 

La Corte di disciplina si compone di una sezione per i giudici e di una sezione per i pubblici ministeri.

 

I componenti di ciascuna sezione sono eletti per metà dal Parlamento in seduta comune e per metà, rispettivamente, da tutti i giudici e da tutti i pubblici ministeri.

 

I componenti eletti dal Parlamento sono scelti tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio.

 

I componenti eletti dai giudici e dai pubblici ministeri sono scelti, previo sorteggio degli eleggibili, tra gli appartenenti alle rispettive categorie.

 

La Corte di disciplina elegge un presidente tra i componenti designati dal Parlamento e ciascuna sezione elegge un vicepresidente tra i componenti designati dal Parlamento.

 

I membri della Corte di disciplina durano in carica quattro anni e non sono rieleggibili. Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né ricoprire uffici pubblici.

 

La legge assicura l'autonomia e l'indipendenza della Corte di disciplina e l'attuazione del principio del giusto processo nello svolgimento della sua attività.

 

Contro i provvedimenti adottati dalla Corte di disciplina è ammesso ricorso per Cassazione per motivi di legittimità.

 

 

L’articolo 7 introduce un nuovo articolo 105-bis, che istituisce la Corte di disciplina della magistratura giudicante e requirente.

 

Alla Corte di disciplina spettano i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati (primo comma).

Si ricorda che, nel sistema attualmente vigente, i provvedimenti disciplinari sono di competenza del CSM (art. 105 Cost., testo vigente). In particolare, la legge ordinaria attribuisce la cognizione dei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati ad una sezione interna del CSM, presieduta dal Vicepresidente del CSM (art. 4 L. 195/1958).

 

È dominante l'opinione in dottrina e in giurisprudenza che la natura della sezione disciplinare sia quella di organo sostanzialmente giurisdizionale[18], anche se inizialmente il Consiglio di Stato l'aveva qualificata come organo amministrativo[19].

 

Si osserva che l’articolo 107, primo comma, Cost., come modificato dall’art. 9 del disegno di legge in esame prevede che i magistrati non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione dei Consigli superiori della magistratura giudicante e requirente, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall'ordinamento giudiziario o con il loro consenso.

Dal momento che tra le decisioni richiamate dall’art. 107, primo comma, rientrano anche provvedimenti di natura tipicamente disciplinare, appare opportuno un coordinamento tra tale disposizione ed il nuovo art. 105-bis.

 

Ai sensi del secondo e terzo comma, la Corte di disciplina si compone di:

§          una sezione per i giudici, i cui componenti sono eletti per metà dal Parlamento in seduta comune e per metà da tutti i giudici;

§          una sezione per i pubblici ministeri, i cui componenti sono eletti per metà dal Parlamento in seduta comune e per metà da tutti i pubblici ministeri.

 

A differenza di quanto accaduto per le funzioni del CSM relative alla carriera dei magistrati, che sono attribuite a due organi diversi con riferimento ai giudici ed ai pubblici ministeri, le funzioni disciplinari del CSM sono dunque attribuite ad un unico organo.

La separazione tra le funzioni riguardanti i giudici e quelle riguardanti i pubblici ministeri è comunque assicurata dalla previsione di due sezioni, distinte fin dal momento dell’elezione.

Come già per i Consigli superiori, il numero dei componenti della Corte di disciplina e delle singole sezioni non è definito ed è dunque rimesso alla legge ordinaria.

 

I membri “laici” sono scelti tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio (quarto comma).

I membri “togati” di ciascuna sezione sono scelti, previo sorteggio degli eleggibili, tra gli appartenenti, rispettivamente, alle categorie dei giudici e dei pubblici ministeri (quinto comma).

I criteri per la scelta e l’elezione dei componenti sono dunque identici a quelli previsti per i Consigli superiori.

 

La Corte di disciplina elegge un presidente tra i componenti designati dal Parlamento e ciascuna sezione elegge un vicepresidente tra i componenti designati dal Parlamento (sesto comma).

A differenza dei Consigli superiori, la Presidenza dell’organo non è attribuita al Presidente della Repubblica, ma ad uno dei membri non “togati” eletto dalla Corte di disciplina e sono previsti due vicepresidenti, anziché uno, ciascuno eletto da una sezione tra i membri non “togati”.

Secondo la relazione illustrativa, le fonti di investitura, nonché l’attribuzione ai membri “laici” sia della presidenza che delle due vicepresidenze rispondono all’obiettivo di costituire una giustizia non domestica, ma bilanciata con un’adeguata presenza di soggetti qualificati (professori ordinari e avvocati) di nomina parlamentare.

 

Il testo non definisce il ruolo del Presidente e dei vicepresidenti, i loro rapporti con le sezioni, il rapporto del Presidente con la sezione di cui non fa parte, l’eventuale possibilità della Corte di operare a sezioni unite, elementi che potrebbero essere definiti dalla legge ordinaria alla quale espressamente la relazione illustrativa rinvia per assicurare alla Corte le prerogative di piena autonomia e indipendenza, nonché di garanzia dell'attuazione dei princìpi del giusto processo, ritenuti essenziali anche in sede disciplinare.

 

Come i componenti dei consigli superiori, i membri della Corte di disciplina durano in carica quattro anni e non sono rieleggibili (settimo comma).

 

I membri della Corte non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né ricoprire uffici pubblici.

A differenza dei Consigli superiori, l’incompatibilità dei membri della Corte di disciplina non riguarda alcune cariche elettive (parlamentare, consigliere regionale, provinciale e comunale) ma tutti gli uffici pubblici.

L’espressione “uffici pubblici” sembrerebbe essere sufficientemente ampia da comprendere anche le “cariche elettive” anche se va notato che l’articolo 51, primo comma, della Costituzione usa separatamente i due termini.

 

L'autonomia e l'indipendenza della Corte di disciplina e l'attuazione del principio del giusto processo nello svolgimento della sua attività sono assicurate dalla legge ordinaria (ottavo comma).

 

Contro i provvedimenti adottati dalla Corte di disciplina è ammesso ricorso per Cassazione per motivi di legittimità (nono comma).

Si ricorda in proposito che l’art. 17, comma terzo, della legge sul CSM (L 195/1958), prevede che, contro i provvedimenti in materia disciplinare, è ammesso ricorso alle sezioni unite della Corte di cassazione.

 

Il nuovo articolo 105-bis prevede dunque un nuovo organo a rilevanza costituzionale, con poteri che – analogamente a quelli attualmente spettanti alla sezione disciplinare del CSM - possono essere definiti giurisdizionali.

 

Per completezza si ricorda che anche il progetto di riforma costituzionale elaborato dalla Commissione parlamentare per le riforme costituzionali istituita nella XIII legislatura (c.d. Bicamerale D’Alema) aveva attribuito ad un organo diverso dal Consiglio superiore della magistratura la competenza sui procedimenti disciplinari a carico dei magistrati. La Corte di giustizia della magistratura (art. 122 del progetto) doveva essere formata da 9 membri, eletti tra i propri componenti dai Consigli superiori della magistratura ordinaria e amministrativa.

 


 

Art. 8
(Nomina di magistrati onorari)

 

Costituzione
testo vigente

A.C. 4275
Governo

 

(art. 8)

Art. 106

Art. 106

Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso.

Identico.

La legge sull'ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli.

La legge sull'ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari.

Su designazione del Consiglio superiore della magistratura possono essere chiamati all'ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni di esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori.

Identico.

 

 

L’articolo 8, modifica l’articolo 106, secondo comma, Cost., relativo alla possibilità per la legge sull’ordinamento giudiziario di ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari.

 

In Assemblea costituente, sin dai lavori della Commissione per la Costituzione, emergono la netta preferenza per il sistema di reclutamento concorsuale della magistratura e soprattutto le forti perplessità per il sistema elettivo, al più consentendo che la legge sull'ordinamento giudiziario potesse prevedere l'elezione dei giudici onorari, quelli destinati ad amministrare la giustizia così detta minore (all'epoca i conciliatori)[20]. L'art. 98 del Progetto di Costituzione, approvato dall'Adunanza plenaria della Commissione[21], stabilisce la regola del concorso per i magistrati ordinari e attribuisce al Consiglio superiore la competenza sia a nominare magistrati onorari per le funzioni dei giudici singoli, senza prevedere la possibilità del reclutamento elettivo, sia a designare avvocati e professori ordinari di materie giuridiche all'ufficio di consigliere di Cassazione, senza menzionare il requisito dei «meriti insigni».

Il successivo dibattito in Assemblea sull'accesso in magistratura ordinaria tocca due temi: il reclutamento elettivo e le funzioni onorarie (oltre a quello dell’ammissione delle donne). Sul primo punto è ribadita la ferma contrarietà all'elezione quale metodo di reclutamento di tutti i magistrati, confermata dalla reiezione dell'emendamento secondo cui i magistrati sarebbero nominati «in base al risultato delle elezioni nei casi e secondo i modi stabiliti dalla legge»[22]. D'altra parte, sebbene riaffiorino dubbi, l'Assemblea finisce con l'approvare la norma che conserva la categoria dei magistrati onorari, limitandone la competenza alle cause di minor importanza (tale è il significato attribuito, nel corso del dibattito, al riferimento alle funzioni dei giudici singoli) e aggiungendo la previsione dell'eventuale reclutamento elettivo. L'idea non è certamente di dare vita ad una forma di partecipazione popolare alla giustizia, bensì di individuare il meccanismo (non concorsuale) più idoneo ad assicurare l'indipendenza (dall'Esecutivo) anche dei magistrati così detti inferiori[23].

In sintesi, dall'esame dei lavori preparatori emerge la sicura indicazione a favore di un ordinamento giudiziario incentrato sul modello burocratico di magistrato, nominato per concorso in ragione della sua competenza tecnica, in coerenza con le idee di Calamandrei, il cui progetto è matrice della norma alla fine approvata; l'eventualità dell'elezione unicamente per chi esercita in via onoraria la funzione giurisdizionale è giustificata dalla convinzione che siffatto meccanismo di reclutamento possa assicurare anche ai magistrati «minori» un'adeguata indipendenza[24].

 

 

La possibilità di procedere alla nomina, anche elettiva, di magistrati onorari diviene generale: viene infatti soppressa la limitazione alle funzioni attribuite a giudici singoli.

 

Attualmente, i magistrati onorari sono magistrati non di carriera, che tuttavia svolgono in vario modo e a vario titolo funzioni giudiziarie. Essi si differenziano dai giudici professionali (c.d. togati) poiché non hanno (normalmente) partecipato ad un concorso e non svolgono la funzione di giudice a titolo di professione.

Nel nostro ordinamento sono giudici onorari:

§         i giudici di pace, giudici di primo grado con specifiche competenze tanto in materia civile (in generale il giudice di pace è competente per le cause relative ai beni mobili di valore non superiore a 2.582 euro e le cause concernenti la circolazione di veicoli e di natanti purché il valore della controversia non superi i 15.494 euro) quanto in materia penale (per fatti lievi ma dalla notevole diffusione, come i reati di percosse e lesioni, l'omissione di soccorso; i reati contro l'onore, quali l'ingiuria e la diffamazione; i reati contro il patrimonio quali il danneggiamento e l'ingresso abusivo nel fondo altrui). In caso di condanna penale il giudice di pace non applica pene detentive, ma pene pecuniarie o, nei casi gravi, la pena della permanenza domiciliare o su richiesta dell'imputato, la pena del lavoro di pubblica utilità.

Il giudice di pace dura in carica quattro anni e alla scadenza può essere confermato una sola volta. Al compimento del 75° anno d'età cessa dalle funzioni; non ha un rapporto di impiego con lo Stato e dunque percepisce una indennità cumulabile con i trattamenti pensionistici e di quiescenza;

§         i giudici onorari aggregati (GOA), previsti dalla legge n. 276 del 1997 con la finalità di diminuire l'arretrato in materia civile, e preposti ad un’apposita sezione (c.d. sezione stralcio) del tribunale; le loro funzioni possono dirsi ad oggi pressoché interamente concluse;

§         i giudici onorari di tribunale (GOT), previsti dal d.lgs. n. 51 del 1998, hanno competenza in materia civile e penale in tutti i casi in cui la competenza è attribuita al tribunale in composizione monocratica, ovvero ad un unico giudice. La loro durata in carica è di 3 anni rinnovabili per un ulteriore triennio;

§         i vice procuratori onorari (VPO), previsti dal d.lgs. n. 51 del 1998, sono magistrati inquirenti che rappresentano il Pubblico Ministero in veste di accusa in giudizio in tutte le cause penali di competenza del tribunale in composizione monocratica, e del giudice di pace, nonché nelle cause civili in cui la legge ne impone la presenza. I VPO svolgono le funzioni di Pubblico Ministero in udienza per delega nominativa del Procuratore della Repubblica a cui sono sottoposti gerarchicamente (v. infra).

 

 

Il secondo comma, che introduce un’eccezione al principio della nomina dei magistrati per concorso, sancita dal primo comma, consente genericamente, nella nuova formulazione, la nomina di “magistrati onorari”. La soppressione del riferimento alle funzioni dei “giudici singoli”, dunque, come emerge dalla relazione illustrativa, amplia la copertura costituzionale alla nomina, anche elettiva, di magistrati con funzioni requirenti.

 

L’ordinamento giudiziario (art. 71 e ss. R.D. n. 12/1941) già prevede la nomina di magistrati onorari con funzioni requirenti, i viceprocuratori onorari (v. sopra).

La Corte costituzionale, nelle ordinanze n. 181 e 430 del 1998, ha tuttavia riconosciuto che le funzioni requirenti svolte dai viceprocuratori ordinari non hanno una «valorizzazione costituzionale» analoga a quella riconosciuta alle funzioni giudicanti svolte da magistrati onorari sulla base dell’art. 106, secondo comma, Cost.

 

Il disegno di legge in esame non modifica l’articolo 106, terzo comma, che continua a far riferimento, per la nomina a consiglieri di cassazione di professori e avvocati per meriti insigni, alla designazione da parte del Consiglio superiore della magistratura, senza tener conto della separazione di questo organo in due distinti Consigli, sulla base degli artt. 104-bis e 104-ter.


 

Art. 9
(Inamovibilità dei magistrati)

 

Costituzione
testo vigente

A.C. 4275
Governo

 

(art. 9, co. 1, lett. a) e b)

Art. 107

Art. 107

I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall'ordinamento giudiziario o con il loro consenso.

I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione dei Consigli superiori della magistratura giudicante e requirente, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall'ordinamento giudiziario o con il loro consenso. In caso di eccezionali esigenze, individuate dalla legge, attinenti all’organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, i Consigli superiori possono destinare i magistrati ad altre sedi.

Il Ministro della giustizia ha facoltà di promuovere l'azione disciplinare.

Identico.

I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni.

Identico.

Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario.

Identico.

 

 

L’articolo 9 modifical’articolo 107, primo comma, Cost., che sancisce il principio di inamovibilità dei magistrati.

 

L'inamovibilità consiste nella necessità che i provvedimenti di dispensa o sospensione dal servizio, ovvero di destinazione ad altre sedi o funzioni, siano assunti dal CSM a conclusione di procedimenti garantiti (per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall'ordinamento giudiziario) ovvero consensuali (con il consenso del magistrato interessato).

L'istituto, trovando la sua ratio nella indipendenza del magistrato, a sua volta finalizzata ad assicurare il corretto esercizio della funzione giudiziaria, protegge la stabilità del posto, senza però degenerare in mero privilegio, proprio perché acconsente a quelle forme garantite di mobilità, che non sono espressione di attentati alla indipendenza del magistrato, in quanto rispettose di quel modus procedendi.

Il principio è attuato dal legislatore con l’articolo 2 del R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura) in base al quale i magistrati non possono essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni, se non col loro consenso.

Essi tuttavia possono, anche senza il loro consenso, essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni, previo parere del CSM, quando si trovino in una situazione di incompatibilità o quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa, non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità. Il parere del Consiglio superiore è vincolante quando si tratta di magistrati giudicanti.

 

 

La modifica disposta dal comma 1, lettera a), appare volta a coordinare il secondo periodo del primo comma dell’articolo 107 con la separazione del CSM nei due organi previsti dai nuovi articoli 104-bis e 104-ter.

Il secondo periodo prevede che i magistrati non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall'ordinamento giudiziario o con il loro consenso.

Il riferimento al CSM viene sostituito dall’articolo in esame con il riferimento ai Consigli superiori della magistratura giudicante e requirente.

 

Come già rilevato, tra le decisioni richiamate dall’art. 107, primo comma, sembrano rientrare anche provvedimenti di natura disciplinare, che, secondo il nuovo art. 105-bis spettano alla Corte di disciplina, e non ai Consigli superiori.

 

La modifica disposta dal comma 1, lettera b), introduce un’eccezione al principio di inamovibilità dei magistrati.

In caso di eccezionali esigenze, individuate dalla legge, attinenti all’organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, i Consigli superiori possono destinare i magistrati ad altre sedi.

La disposizione consente dunque al legislatore di individuare ipotesi nelle quali i Consigli procedono al trasferimento del magistrato senza il suo consenso, ovvero in assenza dei motivi o delle garanzie di difesa stabilite dall'ordinamento giudiziario.

 

 

 


Art. 10
(Polizia giudiziaria)

 

Costituzione
testo vigente

A.C. 4275
Governo

 

(art. 10)

Art. 109

Art. 109

L'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria.

Il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge.

 

 

L’articolo 10 modifica l’articolo 109 Cost., che prevede che l'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria.

 

In Assemblea costituente[25] la disposizione originariamente approvata dalla c.d. Commissione dei 75 prevedeva che «l'autorità giudiziaria può disporre direttamente dell'opera della polizia giudiziaria». All'impostazione sottesa a tale formulazione se ne oppose subito un'altra, sollecitata peraltro da un'istanza dell'associazione nazionale dei magistrati, mirante all'istituzione di un corpo speciale di polizia giudiziaria alle dipendenze esclusive, anche dal punto di vista dell'inquadramento amministrativo, della magistratura[26]. Una soluzione del genere venne però respinta dall'Assemblea, in seno alla quale era del resto chiara la consapevolezza che la questione dei rapporti tra polizia giudiziaria e magistratura dovesse affrontarsi in coerenza con le scelte operate, a monte, per la realizzazione di una piena autonomia ed indipendenza dell'autorità giudiziaria nei confronti degli altri poteri dello Stato, ed in particolare dell'Esecutivo.

Accolta la prospettiva che la polizia giudiziaria si inserisse comunque tra i servizi di competenza ministeriale e rimanesse quindi estranea alle attribuzioni del Consiglio Superiore della Magistratura, il dibattito successivo si sviluppò lungo la linea della distinzione concettuale tra una dipendenza «esclusiva» ed una dipendenza «diretta». La prima qualificazione fu sostenuta da quanti volevano evitare ogni possibile interferenza governativa con l'attività di polizia giudiziaria, la seconda da parte di chi intendeva conservare, almeno per il momento, la situazione normativa esistente. Prevalse alla fine quest'ultimo indirizzo, caldeggiato specialmente da Leone, il quale - pur auspicando che l'Italia si trovasse presto «in condizione, anche sotto l'aspetto economico, da poter istituire un corpo di polizia giudiziaria autonomo, come tale soltanto alle dipendenze dell'autorità giudiziaria, senza le interferenze di nessun altro organo amministrativo» - ritenne che una formulazione della norma calibrata su di un programma siffatto sarebbe risultata, in concreto, del tutto inattuale[27].

Una volta deciso a favore di una dipendenza dal contenuto meramente funzionale, si provvide a ripristinare la formula letterale inizialmente impiegata, reputandosi che il richiamo al potere di «disporre» risultasse maggiormente esplicito ai fini dell'esclusione di una dipendenza di tipo organico ed organizzativo. Venne approvato, ad ogni modo, un ordine del giorno, dal quale risulta che «l'Assemblea costituente fa voti per la creazione di un corpo specializzato di polizia alle dirette dipendenze dell’autorità giudiziaria».

 

 

La nuova formulazione sostituisce il riferimento all“autorità giudiziaria” con il riferimento a “il giudice e il pubblico ministero”, che appare sostanzialmente equivalente.

La legge ordinaria ha peraltro sempre affidato il compito di gestire la polizia giudiziaria agli organi dell’accusa.

 

Disposizioni sulla polizia giudiziaria sono contenute in un apposito titolo del primo libro del codice di procedura penale, dedicato ai «soggetti» del procedimento, e nelle relative norme di attuazione: da un punto di vista sistematico tale collocazione appare emblematica dello sforzo compiuto per «recuperare il rapporto tra p.g. ed autorità giudiziaria in una logica "interna" al procedimento penale»[28].

La polizia giudiziaria è l’organo chiamato allo svolgimento di ogni indagine e attività disposta o delegata dall'autorità giudiziaria. L’articolo 55 c.p.p. stabilisce che la polizia giudiziaria, tramite i propri ufficiali ed agenti, deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale[29].

L’articolo 56 c.p.p. precisa che le funzioni di polizia giudiziaria sono svolte alla dipendenza e sotto la direzione dell'autorità giudiziaria da:

-          tutti gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria;

-          dai «servizi» di polizia giudiziaria, identificati (art. 12 delle disposizioni di attuazione) in tutti gli uffici e le unità cui è affidato dalle rispettive amministrazioni, o dagli organismi previsti dalla legge, il compito di svolgere in via prioritaria e continuativa le funzioni indicate dall'art. 55 c.p.p.;

-          dalle «sezioni» di polizia giudiziaria, istituite presso ogni procura della Repubblica e ordinariamente composte (artt. 5 e 6 delle disposizioni di attuazione) da personale della polizia di Stato, dell'arma dei carabinieri e del corpo della guardia di finanza, determinato in numero non inferiore al doppio di quello dei magistrati previsti nell'organico delle procure della Repubblica.

Entro siffatto quadro organizzativo, l'art. 58 c.p.p. stabilisce poi che ogni procura della Repubblica dispone della rispettiva sezione, mentre la procura generale presso la corte d'appello dispone di tutte le sezioni istituite nel distretto; per quanto concerne invece i giudici, essi possono avvalersi delle sezioni di p.g. istituite presso la corrispondente procura della Repubblica. Lo stesso art. 58 c.p.p. stabilisce, da ultimo, che l'autorità giudiziaria può altresì disporre di ogni servizio od altro organo di polizia giudiziaria.

L’art. 59 c.p.p. afferma infine che «Le sezioni di polizia giudiziaria dipendono dai magistrati che dirigono gli uffici presso i quali sono istituite» e che l’ufficiale preposto ai servizi di polizia giudiziaria è responsabile verso il procuratore della Repubblica dell'attività di polizia giudiziaria svolta da lui stesso e dal personale dipendente.

La disposizione aggiunge che «gli appartenenti alle sezioni non possono essere distolti dall'attività di polizia giudiziaria se non per disposizione del magistrato dal quale dipendono».

Per quanto concerne invece i provvedimenti di stato, la legge dispone che, per allontanare dalla sede i dirigenti dei servizi di polizia giudiziaria, le amministrazioni interessate devono ottenere il consenso del procuratore generale presso la corte d'appello e del procuratore della Repubblica, consenso che non può essere negato qualora l'allontanamento si renda necessario ai fini della progressione in carriera.

Il sistema dei rapporti tra autorità giudiziaria e polizia giudiziaria trova una previsione di «chiusura» nel testo dell'ordinamento giudiziario, il cui art. 83 affida al procuratore generale presso la corte d'appello la funzione di sorvegliare sull'osservanza delle norme relative alla diretta disponibilità della p.g. da parte dell'autorità giudiziaria.

 

 

La modifica più rilevante è costituita dalla soppressione dell’avverbio “direttamente”, che connota il rapporto tra autorità giudiziaria e polizia giudiziaria e nell’attribuzione alla legge della definizione delle modalità in cui si sostanzia tale rapporto.

 

Anche la Commissione parlamentare per le riforme costituzionali istituita nella XIII legislatura (c.d. Bicamerale D’Alema) interveniva (articolo 127 del progetto) sui rapporti tra polizia giudiziaria e autorità giudiziaria. Il testo proposto affermava: «L'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria. La legge ne stabilisce le modalità».

 

Si ricorda che l’attività di polizia giudiziaria è attribuita agli stessi soggetti che svolgono funzioni di pubblica sicurezza, dipendenti, sul piano amministrativo, dal potere esecutivo.

Le due funzioni risultano peraltro ben distinte: mentre le funzioni di polizia giudiziaria sono volte all’accertamento della commissione dei reati ed all’individuazione dei loro autori ai fini dell’esercizio della giurisdizione penale, le funzioni di pubblica sicurezza sono volte alla mantenimento dell’ordine pubblico ai fini della prevenzione dei reati.

Come rilevato dalla Corte costituzionale, la potestà che l’art. 109 Cost. «conferisce all'autorità giudiziaria di disporre direttamente della polizia giudiziaria, se trova la sua piena giustificazione nelle superiori esigenze della funzione di giustizia e nella necessità di garantire alla magistratura la più sicura e autonoma disponibilità dei mezzi di indagine, non subisce limitazioni per via […] dei rapporti di dipendenza gerarchica […] fra gli organi della polizia giudiziaria e il Governo. L'art. 109 pone la polizia giudiziaria di fronte all'autorità giudiziaria in un rapporto di subordinazione meramente funzionale, che non determina collisione alcuna con l'organico rapporto di dipendenza burocratica e disciplinare in cui i suoi organi si trovano col potere esecutivo» (sentenza n. 94/1963).

Sempre secondo la Corte, l'art. 109, «a prescindere dalle sue possibili implicazioni di carattere organizzativo», ha «il preciso e univoco significato […] di istituire un rapporto di dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dalla autorità giudiziaria, escludendo interferenze di altri poteri nella condotta delle indagini, in modo che la direzione ne risulti effettivamente riservata alla autonoma iniziativa dell'autorità giudiziaria medesima» (sentenza n. 114/1968).

 

Secondo quanto affermato nella la relazione illustrativa, la nuova formulazione deve essere coordinata con le altre, che affermano l'imparzialità dell'azione giudiziaria, in particolare delle investigazioni e delle indagini penali (il settore di maggior impegno per la polizia giudiziaria); l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, in particolare dell'ufficio del pubblico ministero e l'obbligatorietà dell'azione penale. L'insieme di queste norme, da una parte, conferma che il rapporto tra polizia giudiziaria e autorità giudiziaria è un rapporto di stretta dipendenza funzionale e che, quindi, il legislatore deve necessariamente regolarlo escludendo ogni interferenza esterna sull'attività giudiziaria; dall'altra, chiarisce che, sul piano amministrativo e su quello organizzativo, non può esservi subordinazione della polizia giudiziaria alla magistratura.

Le nuove previsioni – continua la relazione illustrativa - completano il disegno rivolto a perfezionare la capacità repressiva dello Stato attraverso una chiara distinzione dei ruoli che spettano alla polizia e alla magistratura (in particolare, quella inquirente). Alla prima dovrà essere riconosciuta piena autonomia nell'attività di “preinvestigazione”, che tende a verificare l'esistenza e l'evoluzione dei fenomeni criminali e che consiste nel ricercare e acquisire liberamente le notizie di reato attraverso ogni strumento di conoscenza e osservazione della realtà (ad esempio, la conoscenza diretta del fatto, la confidenza privata, l'informazione giornalistica, il fatto notorio). All'ufficio del pubblico ministero sono riservate, invece, conformemente alla sua natura di autorità giudiziaria, le attività di carattere processuale relative alla valutazione dei risultati dell'investigazione, alle richieste da presentare al giudice, all'esercizio dell'azione penale, alla funzione di accusa nel dibattimento.

 

 

Per completezza si ricorda che il disegno di legge del governo AS. 1440, in corso di esame presso la Commissione Giustizia del Senato prevede all’art. 3 alcune novelle al codice di procedura penale in riferimento al rapporto tra autorità giudiziaria e polizia giudiziaria. In particolare la riforma traccia una distinzione tra le sezioni di polizia giudiziaria, istituite presso ogni procura della Repubblica, che dovranno continuare ad essere alle dipendenze e sotto la direzione dell'autorità giudiziaria e tutti gli altri soggetti chiamati a svolgere funzioni di polizia giudiziaria, che non saranno più posti alle dipendenze dell'autorità giudiziaria, ma saranno solo soggetti alla sua direzione.

Contestualmente, anche il contenuto del superstite rapporto di dipendenza delle sezioni viene reso meno pregnante (art. 10 del d.d.l.) attraverso la limitazione dei poteri dei capi degli uffici giudiziari competenti e dei procuratori generali presso la corte d'appello in materia di trasferimenti, promozioni, ecc. di dirigenti e addetti alle sezioni di polizia giudiziaria.

Infine, il rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria viene gerarchizzato (art. 5 del d.d.l.) prevedendo che il PM possa impartire le direttive e le deleghe di indagine esclusivamente al dirigente del servizio o della sezione di polizia giudiziaria.

 

 


 

Art. 11
(Attribuzioni del Ministro della giustizia)

 

Costituzione
testo vigente

A.C. 4275
Governo

 

(art. 11)

Art. 110

Art. 110

Ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura, spettano al Ministro della giustizia l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.

Ferme le competenze dei Consigli superiori della magistratura giudicante e requirente, spettano al Ministro della giustizia la funzione ispettiva, l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.

 

Il Ministro della giustizia riferisce annualmente alle Camere sullo stato della giustizia, sull’esercizio dell’azione penale e sull’uso dei mezzi di indagine.

 

 

L’articolo 11 modifica l’articolo 110 della Costituzione, relativo alle competenze del Ministro della giustizia.

 

Nel dibattito in Assemblea Costituente si pose in modo deciso, anche per segnare nettamente la discontinuità con il regime fascista, la questione della garanzia e dell'indipendenza della magistratura dall'esecutivo; si pose però anche il problema di contemperare le guarentigie dell'indipendenza del potere giudiziario, che erano volte a «parificarlo» quanto a posizione a quello legislativo e all'esecutivo, con la necessità di non renderlo un corpo separato dagli altri poteri[30]. Da qui la necessità di menzionare direttamente nella Costituzione il Ministro della giustizia e le sue attribuzioni, rendendolo l'unico fra gli organi governativi, a parte il Presidente del Consiglio e il Consiglio dei ministri, ad assumere rilievo costituzionale.

Il progetto approvato dalla Commissione per la Costituzione menzionava il ministro soltanto in coda all’art. 97, attribuendogli la promozione dell’azione disciplinare (disposizione poi approvata con il secondo comma dell’art. 107).

Nel corso del dibattito, anche per placare i timori di coloro che ipotizzavano che l’autogoverno della magistratura spogliasse di tutte le sue funzioni il Ministro della giustizia[31], si avanzò l’idea di un autonomo articolo dedicato alle competenze del guardasigilli (art. 97-bis, ora art. 110), da leggere in parallelo alle competenze riconosciute al CSM (art. 97, ora all’art. 105)[32].

 

 

In primo luogo, viene costituzionalizzata la funzione ispettiva del Ministro.

 

Le funzioni di vigilanza e sorveglianza del Ministro della giustizia sono attualmente disciplinate a livello di legislazione ordinaria.

 

La legge n. 1311/1962 ha istituito l’ispettorato generale presso il Ministero di grazia e giustizia, posto alla diretta dipendenza del Ministro.

Il capo dell'Ispettorato generale dispone, in conformità delle direttive impartite dal Ministro, di norma ogni triennio, le ispezioni in tutti gli uffici giudiziari allo scopo di accertare se i servizi procedono secondo le leggi, i regolamenti e le istruzioni vigenti. Il Ministro può in ogni tempo, quando lo ritenga opportuno, disporre ispezioni negli uffici giudiziari. Il Ministro può altresí disporre ispezioni parziali negli uffici giudiziari, al fine di accertare la produttività degli stessi nonché l'entità e la tempestività del lavoro di singoli magistrati (ccdd. verifiche ispettive, previste dall’art. 7) .

Il Ministro può avvalersi dell'ispettorato generale per l'esecuzione di inchieste sul personale appartenente all'ordine giudiziario e su qualsiasi altra categoria di personale dipendente dal Ministero (ccdd. inchieste amministrative, previste dall’art. 12).

L’art. 56 del D.P.R. n. 916/1958, recante attuazione della L. n. 195/1958 sul CSM, prevede che per l'esercizio dell'azione disciplinare, per l'organizzazione del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, nonché per l'esercizio di ogni altra attribuzione riservatagli dalla legge, il Ministro esercita la sorveglianza su tutti gli uffici giudiziari e può richiedere ai capi di corte informazioni sul conto di singoli magistrati.

L’art. 15 del D.Lgs. n. 25/2006 dispone infine che i  consigli giudiziari, istituiti presso ogni corte di appello e composti da magistrati, esercitano la vigilanza sull'andamento degli uffici giudiziari del distretto e, qualora rilevino l'esistenza di disfunzioni nell'andamento di un ufficio, le segnalano al Ministro della giustizia.

 

Nell’attuale sistema costituzionale, la funzione ispettiva trova un limite nella competenza del Ministro sull'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Tale limite sembra venir meno nel nuovo testo dell’art. 110.

 

Nel messaggio del Presidente della Repubblica del 16 dicembre 2004, che disponeva il rinvio alle Camere, a norma dell’art. 74 Cost., del disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, il Capo dello Stato rilevava il contrasto con gli artt. 101, 104 e 110 Cost. di una disposizione che prevedeva l’«istituzione presso ogni direzione generale regionale o interregionale dell'organizzazione giudiziaria dell'ufficio per il monitoraggio dell'esito dei procedimenti, in tutte le fasi o gradi del giudizio, al fine di verificare l'eventuale sussistenza di rilevanti livelli di infondatezza giudiziariamente accertata della pretesa punitiva manifestata con l'esercizio dell'azione penaleo con i mezzi di impugnazione ovvero di annullamento di sentenze per carenze o distorsioni della motivazione, ovvero di altre situazioni inequivocabilmente rivelatrici di carenze professionali. […] Il monitoraggio dell'esito dei procedimenti - fase per fase, grado per grado - affidato a strutture del Ministero della giustizia, esula dalla “organizzazione” e dal “funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, che costituiscono il contenuto e il limite costituzionale delle competenze del Ministro» (XIV legislatura, Doc. I, n. 6).

 

Per la restante parte dell’art. 110, primo comma, viene confermata l’attuale formulazione secondo cui restano ferme le competenze del CSM – ora dei Consigli superiori della magistratura giudicante e requirente – e spettano al Ministro dellagiustizia l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.

Non vengono invece richiamate le competenze della Corte di disciplina.

È altresì confermata la facoltà del Ministro di promuovere l’azione disciplinare, prevista dall’articolo 107, secondo comma.

 

Secondo la sentenza n. 142 del 1973 della Corte costituzionale, proprio la previsione dell’art. 107, secondo comma, giustifica il fatto che «alle ulteriori attribuzioni demandate allo stesso Ministro dal successivo art. 110, concernenti "l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia", non possa darsi un'interpretazione restrittiva, dovendovisi includere sia l'organizzazione degli uffici nella loro efficienza numerica, con l'assegnazione dei magistrati in base alle piante organiche, sia il funzionamento dei medesimi in relazione all'attività e al comportamento dei magistrati che vi sono addetti (nello stesso senso, cfr. sentenza n. 168 del 1963)».

 

 

Circa i rapporti fra l’articolo 105 Cost., che attribuisce al CSM l'esclusiva competenza sui provvedimenti concernenti lo status dei magistrati, e l’articolo 110 Cost, che, come detto, affida al Ministro della giustizia la responsabilità dell'organizzazione e del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, la consolidata giurisprudenza costituzionale ha trovato un punto di equilibrio interpretativo tra le due disposizioni costituzionali nel principio di leale collaborazione (sentenze n. 379/1992 e n. 168 del 1963).

Secondo la sentenza n. 380 del 2003, «il bilanciamento dei valori costituzionali affermati dagli artt. 105 e 110 della Costituzione, mentre porta ad escludere ogni intervento determinante del potere esecutivo sulle deliberazioni concernenti lo status dei magistrati, esige che tra CSM e Ministro della giustizia vi sia, nel rispetto delle competenze differenziate, un rapporto di collaborazione. Infatti, nell'attuale assetto ordinamentale, la direzione degli uffici giudiziari attiene anche all'amministrazione dei servizi giudiziari, come organizzazione e funzionamento degli stessi servizi e copertura dei posti di organico (sentenze n. 379 del 1992; n. 142 del 1973; n. 168 del 1963). […] La discussione ed il confronto dei predetti organi devono svolgersi, sotto il profilo metodologico, in base al principio di leale collaborazione, con l'osservanza di regole di correttezza nei rapporti reciproci e di rispetto dell'altrui autonomia. Nella ipotesi in cui il contrasto persista, […] spetta al plenum del Consiglio la deliberazione definitiva» nel caso di specie relativa al conferimento di un incarico direttivo «tenendo conto della proposta iniziale della commissione, delle ragioni del contrasto e di tutte le argomentazioni dedotte, con conseguente adempimento dell'obbligo di motivare la scelta finale in modo adeguato e puntuale».

 

Si ricorda peraltro che il nuovo secondo comma dell’art. 105 Cost. prevede che i Consigli superiori non possono esercitare funzioni diverse da quelle previste nella Costituzione (cfr. il commento all’art. 6).

Dal combinato disposto dell’art. 105, secondo comma, e dell’art. 110, sembra dunque derivare un rafforzamento dei poteri del Ministro in materia di organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, quantomeno con riferimento a tutte le funzioni che non siano connesse con lo status dei magistrati.

 

L’articolo 11 aggiunge all’art. 110 Cost. un secondo comma, che costituzionalizza la relazione del Ministro al Parlamento sullo stato della giustizia.

In particolare, esso prevede che il Ministro della giustizia riferisce annualmente alle Camere sullo stato della giustizia, sull’esercizio dell’azione penale e sull’uso dei mezzi di indagine.

Attualmente la relazione alle Camere è prevista dalla legge ordinaria.

 

In particolare l’art. 86 del r.d. n. 12/1941, come modificato dalla L. 150/2005, prevede che entro il ventesimo giorno dalla data di inizio di ciascun anno giudiziario, il Ministro della giustizia rende comunicazioni alle Camere sull'amministrazione della giustizia nel precedente anno nonché sugli interventi da adottare ai sensi dell'articolo 110 della Costituzione e sugli orientamenti e i programmi legislativi del Governo in materia di giustizia per l'anno in corso.

 

Circa i rapporti tra Ministro e Parlamento, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 142/1973, ha affermato che «Ministro per la giustizia è l'organo tecnicamente qualificato e politicamente idoneo a presiedere alle relazioni tra il Governo e l'Amministrazione della giustizia».

 

La relazione ha ad oggetto non solo lo stato della giustizia, ma anche l’esercizio dell’azione penale e l’uso dei mezzi di indagine, ossia ambiti riservati, nell’attuale sistema, all’autorità giudiziaria.

La disposizione sembrerebbe dover essere letta in connessione con la modifica dell’art. 112 Cost., che rimette alla legge la determinazione dei criteri per l’esercizio obbligatorio dell’azione penale.

Circa l’uso dei mezzi di indagine, non vi sono disposizioni del disegno di legge in esame che incidono direttamente in tale ambito. Si ricorda peraltro che il nuovo art. 109 Cost. affida alla legge l’individuazione delle modalità con cui il giudice ed il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria.

 

Nel citato messaggio del Presidente della Repubblica del 16 dicembre 2004, di rinvio alle Camere del disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, il Capo dello Stato rilevava il contrasto con artt. 101, 104 e 110 Cost. della disposizione che prevedeva, quale oggetto delle comunicazioni del Ministro della giustizia alle Camere, linee di politica giudiziaria per l'anno in corso, in quanto «configura un potere di indirizzo in capo al Ministro della giustizia, che non trova cittadinanza nel titolo IV della Costituzione, in base al quale l'esercizio autonomo e indipendente della funzione giudiziaria è pienamente tutelato, sia nei confronti del potere esecutivo, sia rispetto alle attribuzioni dello stesso Consiglio superiore della magistratura.»

 

Per completezza si ricorda che anche la Commissione parlamentare per le riforme costituzionali istituita nella XIII legislatura (c.d. Bicamerale D’Alema) interveniva (art. 128 del progetto) sulle attribuzioni del Ministro della giustizia con modalità sostanzialmente analoghe a quelle del disegno di legge costituzionale in commento. La disposizione prevedeva, infatti, che «Ferme le competenze dei Consigli superiori della magistratura ordinaria e amministrativa, il Ministro della giustizia provvede all'organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, promuove la comune formazione propedeutica all'esercizio delle professioni giudiziarie e forensi ed esercita la funzione ispettiva sul corretto funzionamento degli uffici giudiziari.

Il Ministro della giustizia riferisce annualmente alle Camere sullo stato della giustizia, sull'esercizio dell'azione penale e sull'uso dei mezzi di indagine».

 


 

Art. 12
(Appellabilità delle sentenze)

 

Costituzione
testo vigente

A.C. 4275
Governo

 

art. 1, co. 2, lett. c)

Sezione II
Norme sulla giurisdizione

Sezione II
La giurisdizione

 

(art. 12)

Art. 111

Art. 111

La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.

Identico.

Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.

Identico.

Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.

Identico.

Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore.

Identico.

La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita.

Identico.

Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.

Identico.

Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra.

Identico.

Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.

Identico.

 

Contro le sentenze di condanna è sempre ammesso l’appello, salvo che la legge disponga diversamente in relazione alla natura del reato, delle pene e della decisione. Le sentenze di proscioglimento sono appellabili soltanto nei casi previsti dalla legge.

 

 

L’articolo 12 aggiunge all’art. 111 della Costituzione, che sancisce i princìpi del giusto processo, un nuovo comma in materia di appellabilità delle sentenze.

 

In base al nuovo ultimo comma:

§          le sentenze di condanna sono sempre appellabili, salvo che la legge disponga diversamente in relazione alla natura del reato, delle pene e della decisione;

§          le sentenze di proscioglimento sono invece appellabili solo nei casi previsti dalle legge.

 

Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza costituzionale, nell’attuale ordinamento, la garanzia del doppio grado di giurisdizione non fruisce, di per sé, di riconoscimento costituzionale (sentenza n 26/2007; nello stesso senso, ex plurimis,sentenze n. 288/1997 e n. 280/1995 e ordinanza n. 316/2002).

 

Viene dunque costituzionalizzato, in materia penale, il principio del doppio grado di giurisdizione, introducendo peraltro una asimmetria tra le sentenze di condanna e quelle di proscioglimento. Per le sentenze di condanna, infatti, l’appellabilità costituisce la regola e l’inappellabilità l’eccezione; per quelle di proscioglimento, viceversa, il principio sembra essere quello dell’inappellabilità, salva diversa previsione di legge.

Questa asimmetria potrebbe rilevare sotto il profilo del principio della parità delle parti processuali, sancito dal medesimo articolo 111, al secondo comma.

 

Si ricorda in proposito che, a livello di legge ordinaria, l’art. 1 della legge n. 46 del 2006, nel novellare l’art. 593 c.p.p., ha previsto, da una parte, l’appellabilità delle sentenze di condanna, salvo casi specificamente indicati (comma 1) e, dall’altra, l’appellabilità delle sentenze di proscioglimento soltanto nelle ipotesi di nuove prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, quando la nuova prova è decisiva.

La previsione della appellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero solo in caso di nuove prove sopravvenute decisive è stata peraltro dichiarata costituzionalmente illegittima dalla sentenza n. 26 del 2007. Secondo tale sentenza, il principio di parità tra accusa e difesa ex art. 111, secondo comma, Cost., non comporta necessariamente l'identità dei poteri processuali del pubblico ministero e del difensore dell'imputato, stanti le differenze fisiologiche fra le due parti: dissimmetrie sono, così, ammissibili anche con riferimento alla disciplina delle impugnazioni, ma debbono trovare adeguata giustificazione ed essere contenute nei limiti della ragionevolezza. A tali requisiti non risponde l’art. 593 c.p.p., che introduce una dissimmetria radicale, privando in toto il pubblico ministero del potere di proporre doglianze di merito avverso la sentenza che lo veda soccombente, con la conseguenza che una sola delle parti, e non l'altra, è ammessa a chiedere la revisione nel merito della pronuncia a sé completamente sfavorevole.

Tale sperequazione – prosegue la sentenza - non è attenuata dal fatto che l'appello è ammesso nel caso di sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive, trattandosi di ipotesi assolutamente eccezionali, né dall'ampliamento dei motivi di ricorso in Cassazione, perché tale rimedio non attinge alla pienezza del riesame del merito. La rimozione del potere di appello del pubblico ministero - generalizzata, perché estesa indistintamente a tutti i processi, e unilaterale, ossia senza contropartita in particolari modalità di svolgimento del processo - non trova giustificazione neppure alla luce delle rationes che, secondo i lavori parlamentari, sono alla base della riforma[33], ed altera il rapporto paritario tra le parti con modalità tali da determinare anche un'intrinseca incoerenza del sistema, poiché il potere di appello viene sottratto al pubblico ministero totalmente soccombente in primo grado ma mantenuto nel caso di soccombenza solo parziale.

 

Con la sentenza n. 85 del 2008, la Corte ha dichiarato altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 593 c.p.p., come modificato dalla legge n. 46/2006, nella parte in cui esclude che l'imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi di nuove prove sopravvenute decisive. Secondo la Consulta, «la categoria delle sentenze di proscioglimento non costituisce un genus unitario, ma abbraccia ipotesi eterogenee, quanto all'attitudine lesiva degli interessi dell'imputato, dal momento che, accanto a pronunce ampiamente liberatorie, vi sono anche sentenze che, pur non applicando una pena, comportano, in diverse forme e gradazioni, un sostanziale riconoscimento della responsabilità, o comunque l'attribuzione del fatto all'imputato (ad esempio, la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione, conseguente al riconoscimento di attenuanti, il proscioglimento per perdono giudiziale etc.). La norma censurata, accomunando nel medesimo regime situazioni fortemente diverse, nega all'imputato, salvo il novum probatorio, un secondo grado di giurisdizione di merito nei confronti delle sentenze di proscioglimento, anche quando queste attribuiscano, comunque, il fatto al prosciolto, e ciò pur a fronte del riconoscimento al pubblico ministero della facoltà di appellare sia la sentenza di condanna, anche quando abbia solo parzialmente recepito le richieste dell'accusa, sia, in seguito alla declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza n. 26 del 2007, le sentenze di proscioglimento, ed a fronte dell'analogo potere riconosciuto alla parte civile. Tale assetto, decisamente asimmetrico, risulta lesivo del principio di parità delle parti, poiché non è sorretto da alcuna razionale giustificazione, dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, stante l'evidenziata equiparazione di esiti decisori tra loro ampiamente diversificati, e del diritto di difesa, al quale la facoltà di appello dell'imputato risulta collegata».

 

La Corte, infine, con la sentenza n. 320 del 2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui, modificando l'art. 443, comma 1, c.p.p. esclude che il pubblico ministero possa appellare le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato.

Richiamando la sentenza n. 26 del 2007, la Consulta rileva che «anche la norma in oggetto racchiude una dissimmetria radicale fra i poteri delle parti necessarie del processo penale, poiché, a differenza dell'imputato, che rimane abilitato ad appellare le sentenze che affermino la sua responsabilità, il pubblico ministero viene totalmente privato del simmetrico potere di proporre doglianze di merito avverso la pronuncia che disattenda in modo integrale la pretesa punitiva, senza che tale ablazione possa venir giustificata dall'obiettivo di assicurare una maggiore celerità nella definizione dei processi svoltisi in primo grado con il rito abbreviato, considerato, altresì, che il valore della ragionevole durata del processo va contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali e non può essere perseguito attraverso la totale soppressione di rilevanti facoltà di una sola delle parti».

 

Secondo la relazione illustrativa, il principio dell'inappellabilità dei provvedimenti di assoluzione rappresenta il punto di equilibrio tra due imprescindibili interessi dello Stato liberal-democratico: la libertà del cittadino e la sicurezza dello Stato. Tale equilibrio è raggiunto assicurando al cittadino – già prosciolto da un giudice di primo grado a seguito di un regolare processo – che non potrà, salve eccezioni, essere sottoposto ad un giudizio d'appello in ordine alle stesse condotte; perseguire ancora l'ipotesi accusatoria, pur dopo che questa non ha trovato conferma processuale, farebbe infatti perdere all'azione pubblica i tratti della doverosa ricerca della verità e rischierebbe di farle assumere le vesti di un atteggiamento persecutorio.

Quanto al diritto di appellare le sentenze di condanna, la relazione rileva come esso possa esser limitato soltanto da una legge e soltanto qualora la natura del reato (ad esempio, una contravvenzione), della pena (ad esempio, quella pecuniaria) o della decisione (ad esempio, la cosiddetta sentenza di patteggiamento) giustifichino una deroga al principio generale.

 


 

Art. 13
(Obbligatorietà dell’azione penale)

 

Costituzione
testo vigente

A.C. 4275
Governo

 

(art. 13)

Art. 112

Art. 112

Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale.

L’ufficio del pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge.

 

 

L’articolo 13 modifica l’art. 112 della Costituzione, che sancisce il principio dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale.

 

L'articolo 112 Cost. è il risultato del dibattito svoltosi in seno all'Assemblea Costituente (seduta antimeridiana del 27 novembre 1947) sull'art. 101, 1° co., del Progetto di Costituzione: «L'azione penale è pubblica. Il Pubblico Ministero ha l'obbligo di esercitarla e non la può mai sospendere o ritardare»[34].

Il nucleo centrale del citato articolo registrò un consenso unanime in Assemblea[35]; l'attenzione dei Costituenti si concentrò, quindi, sulla necessità di sopprimere il carattere pubblico dell'azione penale ed il divieto di sospensioni o ritardi nell'esercizio della stessa. In particolare, Leone osservò come l'obbligatorietà dell'azione penale soddisfacesse «l'ansia politica» del Costituente, mentre il carattere pubblico avrebbe altresì conferito inopportunamente al Pubblico Ministero anche il monopolio dell'azione penale, a detrimento di azioni penali sussidiarie da parte dei privati; quanto all'inciso «e non la può mai sospendere o ritardare», Bettiol e Paolo Rossi si limitarono a considerare come fosse preferibile lasciare al legislatore ordinario di valutare l'opportunità di riconoscere alcune ipotesi, evidentemente marginali, di sospensione dell'azione penale.

 

 

La modifica più rilevante introdotta dal disegno di legge consiste nella attribuzione alla legge della determinazione dei criteri per l’esercizio obbligatorio dell’azione penale.

 

Nell’attuale sistema, il principio di obbligatorietà dell’azione penale è stato definito dalla Corte costituzionale come un «punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale» (sentenza n. 88/1991).

Secondo la Consulta, «l'obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale ad opera del Pubblico Ministero (...) è stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato, l'indipendenza del Pubblico Ministero nell'esercizio della propria funzione e, dall'altro, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale; sicché l'azione è attribuita a tale organo senza consentirgli alcun margine di discrezionalità nell'adempimento di tale doveroso ufficio» (sentenza n. 84 del 1979 e n. 88 del 1991).

«Più compiutamente: il principio di legalità (art. 25, secondo comma), che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non può essere salvaguardata che attraverso l'obbligatorietà dell'azione penale. Realizzare la legalità nell'eguaglianza non è, però, concretamente possibile se l'organo cui l'azione è demandata dipende da altri poteri: sicché di tali principi è imprescindibile requisito l'indipendenza del pubblico ministero» (sentenza n. 88/1991).

Nello stesso senso diverse sentenze riconoscono nel principio di obbligatorietà dell’azione penale «la fonte essenziale della garanzia dell’indipendenza del pubblico ministero» (sentenza n. 420/1995; cfr. anche sentenza n. 84/1979).

 

La relazione illustrativa evidenzia come in Italia, come negli altri Paesi, non sia praticamente possibile perseguire tutti i reati. Richiamando la relazione sul sistema delle garanzie dell'onorevole Boato, presentata il 30 giugno 1997, nell'ambito del progetto di revisione della parte seconda della Costituzione, la relazione sottolinea che è pressoché unanime il rilievo secondo cui il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale subisce in concreto, ossia nella pratica degli uffici giudiziari, attenuazioni tali da potersi affermare senza esagerazioni che, di fatto, la discrezionalità è ormai la regola.

Con la modifica dell'articolo 112 della Costituzione si stabilisce, allora, che, ferma l'obbligatorietà dell'azione penale, essa è regolata da criteri stabiliti dalla legge. In tal modo – prosegue la relazione illustrativa – si conferisce alla norma costituzionale una razionalità storico-sociale e una dimensione teleologica che rendono compatibile il principio di obbligatorietà con gli obiettivi di politica criminale. I margini di valutazione non possono essere affidati a determinazioni soggettive o casuali, ma devono trovare sempre una regolamentazione obiettiva e predeterminata che solo la legge è in grado di garantire. Particolari esigenze storiche, sociali o economiche, infatti, possono indurre il legislatore a fissare criteri in forza dei quali, ad esempio, debba esser data prioritaria trattazione ad indagini concernenti determinati reati; fermo restando l'obbligo, esaurite queste, di curare anche le indagini relative alle altre fattispecie penalmente rilevanti.

 

La seconda modifica all’art. 112 riguarda il soggetto cui fa capo l’obbligo di esercizio dell’azione penale: non più direttamente il “pubblico ministero” ma l’”ufficio del pubblico ministero”.

In proposito può essere richiamata la già citata sentenza della Corte costituzionale n. 52 del 1976, secondo cui «a differenza delle garanzie di indipendenza previste dall'art. 101 Cost. a presidio del singolo giudice, quelle che riguardano il pubblico ministero si riferiscono all'ufficio unitariamente inteso e non ai singoli componenti di esso».

 

Circa i rapporti interni all’ufficio del pubblico ministero, l’art. 70, comma 3, r.d. 12/1941 prevede che i titolari degli uffici del pubblico ministero dirigono l'ufficio cui sono preposti, ne organizzano l'attività ed esercitano personalmente le funzioni attribuite al pubblico ministero dal codice di procedura penale e dalle altre leggi, quando non designino altri magistrati addetti all'ufficio. In tema di veda anche il d.lgs. n. 106 del 2006 (v. sopra il commento all’art. 4).

 


Art. 14
(Responsabilità dei magistrati)

 

Costituzione
testo vigente

A.C. 4275
Governo

 

(art. 14)

 

Sezione II-bis
Responsabilità dei magistrati

 

Art. 113-bis

 

I magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato.

 

La legge disciplina espressamente la responsabilità civile dei magistrati per i casi di ingiusta detenzione e di altra indebita limitazione della libertà personale.

 

La responsabilità civile dei magistrati si estende allo Stato.

 

 

L’articolo 14 introduce nel titolo IV della parte II della Costituzione una nuova sezione, relativa alla “Responsabilità dei magistrati”, composta di un unico articolo.

 

Il nuovo articolo 113-bis prevede, al primo comma, che i magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato.

 

Nell’attuale sistema costituzionale, la responsabilità dei magistrati è riconducibile alla disciplina generale dell’art. 28 Cost., a norma del quale i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti.

La previsione dell’art. 28 consente peraltro una disciplina specifica per la responsabilità dei magistrati, diversa da quella prevista per la generalità dei dipendenti pubblici.

In questo senso, la Corte costituzionale ha affermato che, nell’art. 28 Cost., «trova affermazione "un principio valevole per tutti coloro che, sia pure magistrati, svolgono attività statale: un principio generale che da una parte li rende personalmente responsabili, ma dall'altra non esclude, poiché la norma rinvia alle leggi ordinarie, che codesta responsabilità sia disciplinata variamente per categorie o per situazioni". Scelte plurime, anche se non illimitate, in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell'autonomia delle sue funzioni» (sentenza n. 26 del 1987; cfr. anche sentenza n. 2 del 1968).

 

Il nuovo art. 113-bis prevede innanzitutto una responsabilità diretta dei magistrati per gli atti compiuti in violazione dei diritti.

La vigente normativa ordinaria sulla responsabilità civile dei magistrati (v. infra) esclude invece un’azione diretta nei confronti del magistrato, dovendo il danneggiato agire nei confronti dello Stato.

Il riferimento alla “violazione dei diritti” sembrerebbe limitare la portata della norma alla responsabilità civile.

 

Viene poi stabilito che la responsabilità diretta per la violazione dei diritti è pari a quella degli altri funzionari e dipendenti dello Stato.

La norma – ove non sia interpretata nel senso di una riproposizione di quanto già implicitamente previsto dall’art. 28, con l’aggiunta della previsione di una responsabilità diretta per i magistrati - sembrerebbe implicare una disciplina unica per la responsabilità dei magistrati e degli altri dipendenti pubblici.

 

Secondo la relazione illustrativa, l’art. 113-bis afferma per la prima volta, nella Costituzione, il principio della responsabilità professionale del magistrato, destinato a completare il nuovo assetto della magistratura in cui l'autonomia e l'indipendenza devono trovare un necessario bilanciamento nella efficienza e responsabilità. Con riferimento al primo comma, la relazione illustrativa sottolinea  che «si prevede un'unica disciplina comune per tutti gli impiegati civili dello Stato: il magistrato dovrà, infatti, rispondere degli atti compiuti in violazione dei diritti, che cagionino un danno ingiusto al pari degli altri funzionari dello Stato».

 

Il nuovo art. 113-bis, secondo comma, introduce il principio della responsabilità civile dei magistrati per i casi di ingiusta detenzione e di altra indebita limitazione della libertà personale e rimette la disciplina alla legge.

Si ricorda in proposito che l’art. 24, comma quarto, Cost. prevede che la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.

 

A livello internazionale, il diritto ad una riparazione in ipotesi di arresto o detenzione illegale è previsto dall'art. 5, par. 5, della CEDU e dall'art. 9, par. 5, del Patto internazionale per i diritti civili e politici.

Nell’ordinamento nazionale, il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione è disciplinato dagli artt. 314 e 315 c.p.p. Gli artt. 643 e ss. c.p.p. prevedono invece il diritto alla riparazione dell’errore giudiziario in caso di proscioglimento in sede di revisione.

 

In particolare, per quanto riguarda la riparazione per ingiusta detenzione (ma meglio sarebbe parlare di ingiusta custodia cautelare) l’art. 314 c.p.p. riconosce il diritto a un'equa riparazione per la custodia cautelare subita nelle seguenti ipotesi:

§         provvedimento di archiviazione, sentenza di non luogo a procedere ovvero proscioglimento con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, purché il soggetto non abbia dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave;

§         provvedimento di archiviazione, sentenza di non luogo a procedere ovvero proscioglimento per qualsiasi causa se con decisione irrevocabile risulta accertato che il provvedimento che ha disposto la misura cautelare è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero i presupposti;

§         condanna penale, purché con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura cautelare è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero i presupposti.

Attraverso interventi della Corte costituzionale l’applicabilità della riparazione per ingiusta detenzione è stata ampliata anche alle seguenti ipotesi:

-          ingiusta detenzione subita per erroneo ordine di esecuzione (sent. n. 310 del 1996);

-          ingiusta custodia cautelare subita a causa di arresto in flagranza o di fermo di indiziato di delitto (sent. n. 109 del 1999).

In base all’art. 315 c.p.p. la domanda di riparazione deve essere proposta, a pena di inammissibilità, entro due anni dalla definitività della sentenza di proscioglimento o di condanna ovvero dalla notifica del provvedimento di archiviazione. L'entità della riparazione non può comunque eccedere 516.457 euro (un miliardo di lire). La stessa disposizione rimanda, per quanto non disciplinato, alla disciplina della riparazione dell'errore giudiziario.

In merito, gli articoli 643 e seguenti c.p.p. dispongono che la condanna ingiusta può essere revocata in sede di revisione, e sostituita, in esito al nuovo giudizio, con una sentenza di proscioglimento, cioè con sentenza di non doversi procedere o di assoluzione. La sentenza di proscioglimento costituisce il presupposto necessario affinché la vittima dell'errore giudiziario (cioè colui che venne condannato ingiustamente, e che avrebbe dovuto essere prosciolto nel giudizio ordinario) possa esercitare il diritto alla riparazione pecuniaria prevista dalla legge, che dovrà essere commisurata alla durata dell’eventuale espiazione della pena e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna. La riparazione si attua mediante pagamento da parte dello Stato di una somma di denaro, o, tenuto conto delle condizioni della persona e della natura del danno, mediante costituzione di una rendita vitalizia.

Il diritto alla riparazione spetta al condannato, poi prosciolto, a condizione che non abbia dato causa all'ingiusta condanna per dolo o colpa grave; in caso di sua morte, anche prima del giudizio di revisione, il diritto compete ai congiunti.

Anche in questo caso la richiesta di riparazione deve essere proposta con apposita domanda da depositare nella cancelleria della Corte d'appello che ha pronunciato la sentenza di revisione, entro 2 anni dal suo passaggio in giudicato.

 

 

Il nuovo art. 113-bis, secondo comma, introduce un elemento di novità prevedendo, per i casi di ingiusta detenzione o di altra indebita limitazione della libertà, una responsabilità civile dei magistrati. A differenza del primo comma, non viene peraltro specificato che si tratta di responsabilità diretta.

La giurisprudenza ha in proposito affermato che tra l’istituto della responsabilità civile dei magistrati e l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione non vi è alcuna connessione o pregiudizialità, trattandosi di azioni distinte, la prima basata su una responsabilità del magistrato, a titolo di dolo o colpa grave, ovvero per colpevole diniego di giustizia, l'altra fondata soltanto sui dati obbiettivi contemplati dalle relative norme, che prescindono dall'accertamento di eventuali profili colposi nella condotta del magistrato (Cass., III sez. civ., 2006/22006).

 

Il terzo comma prevede infine, ribadendo quanto già previsto dall’art. 28 Cost. per i funzionari ed i dipendenti dello Stato, che la responsabilità civile dei magistrati si estende allo Stato.

 

La responsabilità civile del magistrato è disciplinata dalla legge 13 aprile 1988, n. 117. La materia ha trovato una nuova regolamentazione all’indomani del referendum del novembre 1987, che ha comportato l’abrogazione della previgente disciplina, fortemente limitativa dei casi di responsabilità civile del giudice.

La legge n. 117 afferma il principio della risarcibilità di qualunque danno ingiusto conseguente ad un comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere da un magistrato con “dolo” o “colpa grave” nell’esercizio delle sue funzioni ovvero conseguente “a diniego di giustizia” (art. 2).

L’art. 2, comma 3, della legge 117, prevede che costituiscano colpa grave:

a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;

b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;

c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;

d) l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.

La legge chiarisce, comunque, che non possono dare luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove (art. 2, comma 2).

Costituisce diniego di giustizia (art. 3) il rifiuto, l'omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell'atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, i termini previsti dalla legge.

Chi ha subìto il danno ingiusto non può agire direttamente in giudizio contro il magistrato, ma deve agire contro lo Stato (art. 2, comma 1).

Se è accertata nel giudizio la responsabilità del magistrato, lo Stato, entro un anno dal risarcimento, esercita nei suoi confronti l'azione di rivalsa (artt. 7 e 8). La misura della rivalsa non può superare una somma pari al terzo di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità. Tale limite non si applica al fatto commesso con dolo.

È invece prevista l’applicazione delle norme ordinarie nel caso in cui il danno sia conseguenza di un fatto costituente reato commesso dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni (art. 13): il danneggiato quindi potrà agire direttamente nei confronti del magistrato e dello Stato.

 

Occorre in proposito richiamare la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 13 giugno 2006 emessa nella causa C-173/03 (Traghetti del Mediterraneo) in cui la Corte ha affermato che il diritto comunitario osta «ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler». Alla luce della sentenza da ultimo indicata, al fine di determinare se questa condizione sia soddisfatta, il giudice nazionale investito di una domanda di risarcimento danni deve tener conto di tutti gli elementi che caratterizzano la situazione sottoposta al suo sindacato, e, in particolare, del grado di chiarezza e di precisione della norma violata, del carattere intenzionale della violazione, della scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto, della posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria nonché della mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, CE, nonché della manifesta ignoranza della giurisprudenza della Corte di giustizia nella materia (sentenza Köbler, cit., punti 53-56).

Si segnala altresì che è pendente davanti alla medesima Corte di giustizia una procedura di infrazione (causa C-379/10) promossa dalla Commissione europea, al fine di ottenere una modifica della norma nel senso indicato dalla sentenza.

Il disegno di legge comunitaria (A.C. 4059-A), contiene una specifica disposizione in materia (art. 18), che incide sui presupposti della responsabilità civile dei magistrati, con finalità di adeguamento alla procedura di infrazione. Il provvedimento è all'esame della Commissione Politiche dell'Unione europea dopo un rinvio da parte dell'Assemblea.

Si ricorda infine che la Commissione giustizia sta esaminando una serie di proposte di legge in materia di responsabilità civile dei magistrati (C. 1956 Brigandì, C. 252 Bernardini, C. 1429 Lussana, C. 2089 Mantini, C. 3285 Versace, C. 3300 Laboccetta e C. 3592 Santelli); nel corso dell’esame sono state svolte delle audizioni.

 

 

 


Art. 15
(Disciplina transitoria)

 

 

L’articolo 15 reca la disciplina transitoria prevedendo che i princìpi contenuti nella legge costituzionale non si applicano ai procedimenti penali in corso alla data della sua entrata in vigore.

 

Per procedimenti penali “in corso”, sembrerebbero doversi intendere i procedimenti nei quali è avvenuta l’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro, ai sensi dell’art. 335, primo comma, c.p.p.; sembrerebbe invece doversi prescindere dalla iscrizione del nome della persona cui il reato è attribuito.

 

Quanto all’applicazione dei prìncipi, si rileva che quasi tutte le disposizioni costituzionali necessitano di una legge di attuazione.

 

Alcune norme, e in particolare gli articoli da 1 a 10, che incidono su aspetti riferibili alla magistratura, non sembrano peraltro poter esplicare effetti diretti sui procedimenti penali.

 

Gli articoli 10, 12 e 13, relativi, rispettivamente, alla polizia giudiziaria, all’appellabilità delle sentenze e all’obbligatorietà dell’azione penale secondo i criteri di legge, investono invece direttamente il procedimento penale.

Dall’articolo 15 deriva quindi l’inapplicabilità delle nuove disposizioni costituzionali ai procedimenti in corso, anche dopo l’approvazione delle leggi di attuazione.

 

L’articolo 11, relativo alle funzioni del Ministro della giustizia, si trova in una posizione intermedia.

Alcune funzioni, soprattutto la funzione ispettiva, potrebbero in concreto avere un legame diretto con i procedimenti penali. Anche in tal caso, dovrebbe ritenersi esclusa l’applicabilità per i procedimenti in corso.

 


 

Art. 16
(Entrata in vigore)

 

 

L’articolo 16 dispone l’entrata in vigore della legge costituzionale il giorno successivo a quello della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale successiva alla promulgazione.

 

 

 

 

 

 




[1]    Per lo sviluppo di questi argomenti si vedano tra gli altri gli interventi di Leone (adunanza plenaria del 30 gennaio 1947), Bozzi (seduta pomeridiana del 6 novembre 1947) e Persico (seduta dell’8 novembre 1947).

[2]    Cfr. Fausto Gullo nella seduta pomeridiana del 12 novembre 1947.

[3]    Si veda l’intervento di Tito Oro Nobili nella seduta antimeridiana del 25 novembre 1947, nella quale egli illustrò il suo emendamento volto ad attribuire la presidenza del CSM al Primo presidente della Corte di cassazione.

[4]    Cfr. Intervento di Macrelli nella seduta antimeridiana dell’11 novembre 1947.

[5]    Cfr. intervento di Persico nella seduta dell’8 novembre 1947. Nella seduta pomeridiana dell’11 novembre 1947 Romano aggiunse che «La Magistratura è un complesso di organi e, quindi, la denominazione indica un concetto puramente astratto».

[6]    Cfr. seduta pomeridiana del 20 novembre 1947.

[7]    Per un approfondimento di questi profili della c.d. Riforma Castelli si vedano, tra gli altri, Scarselli, Ordinamento giudiziario e forense, Milano, 2007, p. 224 e ss.; Gambineri, La legge di riforma dell’ordinamento giudiziario. La separazione delle carriere e la separazione delle funzioni, in Il foro italiano, 2006, V, p. 24.

[8]    La disposizione non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro.

[9]    In questo senso cfr. Scarselli, Ordinamento giudiziario e forense, Milano, 2007, p. 225.

[10]   Cfr. Scarselli, La riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, in Il foro italiano 2006, V, p. 27. Si vedano anche Melillo, L’organizzazione interna dell’ufficio del pubblico ministero, in Il nuovo ordinamento giudiziario, Milano, 2006, p. 217; Coletta, Il pubblico ministero nella riforma, in Guida alla riforma dell’ordinamento giudiziario, Milano, 2007, p. 235 e ss.; Santalucia, Il pubblico ministero, in La controriforma dell’ordinamento giudiziario alla prova dei decreti delegati, in Questione giustizia, 2006, p. 103.

[11]   Legge 28 marzo 2002, n. 44, Modifica alla L. 24 marzo 1958, n. 195, recante norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura.

[12]   All'elezione dei magistrati componenti il Consiglio superiore della magistratura partecipano tutti i magistrati con la sola esclusione degli uditori giudiziari ai quali, al momento della convocazione delle elezioni, non siano state conferite le funzioni giudiziarie, e dei magistrati che, alla stessa data, siano sospesi dall'esercizio delle funzioni.

[13]   Si vedano gli interventi di Angelo Carboni (seduta pomeridiana del 7 novembre 1947), di Cappi (seduta dell’8 novembre 1947), di Salerno (seduta pomeridiana dell’11 novembre 1947), di Fausto Gullo (seduta pomeridiana del 12 novembre 1947).

[14]   Questa era l’originaria intenzione di Calamandrei (si veda l’art. 17 del suo progetto originario). La tesi fu sostenuta negli interventi di Bozzi e Mastino (seduta pomeridiana del 6 novembre 1947), di Crispo (seduta antimeridiana del 7 novembre 1947), di Abozzi e Cortese (seduta antimeridiana del 12 novembre 1947), di Caccuri (seduta pomeridiana del 12 novembre 1947). Si vedano anche gli emendamenti presentati da Mastino, Romano e altri nella seduta antimeridiana del 25 novembre 1947.

[15]   Si veda l’intervento di Vinciguerra (seduta pomeridiana del 7 novembre 1947). Vi fu anche chi, come Dominedò (seduta antimeridiana del 7 novembre 1947) affermò che «a rigore basterebbe la presenza di un solo rappresentante del legislativo per allontanare il pericolo dell’hortus conclusus, superando il luogo comune di una casta separata e irresponsabile».

[16]   Si veda l’illustrazione della proposta nella seduta pomeridiana del 12 novembre 1947. Analoga soluzione era prevista dall’emendamento Caccuri (v. seduta antimeridiana del 25 novembre 1947).

[17]   In questo senso si veda l’intervento di Persico nella seduta dell’8 novembre 1947 e, soprattutto, l’intervento di Leone nella seduta pomeridiana del 14 novembre 1947, nel quale si auspica che venga approvato un emendamento proposto dal Comitato di redazione volto a prevedere – ferma la composizione paritaria prevista dall’art. 97 del progetto - la partecipazione di diritto oltre che del Primo presidente della cassazione anche del Procuratore generale presso la Cassazione che «difende la Magistratura dal pericolo (e sovratutto dall’offesa al prestigio dell’ordine giudiziario) di una maggioranza di elementi laici». Si vedano gli emendamenti presentati da Umberto Merlin e da Conti, Perassi, Paolo Rossi, Cassiani, Leone, Bettiol e Dossetti nella seduta antimeridiana del 25 novembre 1947, con l’illustrazione di Perassi («l’emendamento…si ispira a un concetto conciliativo, che tenga conto delle due esigenze, ugualmente meritevoli di essere prese in considerazione nella costituzione del CSM, col quale si deve assicurare l’indipendenza della Magistratura, senza tuttavia incorrere nel pericolo di dare alla Magistratura il carattere di casta chiusa»).

[18]   Cfr. Corte cost., sent. n. 12 del 1971 e n. 100 del 1981; Cass., S.U., sent. 15 aprile 1978, n. 1779. In particolare, la Corte costituzionale (sentenza n. 270 del 2002), dopo aver ribadito la natura giurisdizionale della sezione, ha avuto modo di dichiarare, in sede di giudizio su conflitto d'attribuzioni fra poteri dello Stato, che «la sezione disciplinare è competente a "dichiarare definitivamente la volontà" del potere cui appartiene - vale a dire del Consiglio superiore - in quanto le sue deliberazioni in materia disciplinare sono insuscettibili di qualsiasi revisione o avocazione da parte del plenum e costituiscono piena e definitiva espressione della potestà disciplinare attribuita dalla Costituzione».

[19]   Consiglio di Stato, 27.6.1951, n. 450.

[20]   I profili della riforma giudiziaria sono dibattuti nelle sedute del 28, 29 e 31 maggio 1946. Sia Calamandrei che Leone - relatori di due (dei tre) progetti di riforma del potere giudiziario presentati all'Assemblea Costituente - sono in via di principio contrari all'elezione anche per i magistrati onorari: l'elezione è coerente ad un ordinamento giuridico ispirato dal diritto libero, dove il magistrato è un operatore della politica - afferma perentoriamente Calamandrei - mentre il principio di legalità che informa il nostro ordinamento esige che il magistrato sia un tecnico reclutato attraverso un concorso idoneo a verificare la preparazione giuridica dei candidati (si veda la seduta del 5 dicembre 1946).

[21]   Cfr. seduta del 31 gennaio 1947.

[22]   Si veda l’emendamento presentato da Gullo e Mugolino nella seduta del 26 novembre 1947.

[23]   Si veda l’intervento di Leone nella seduta del 26 novembre 1947.

[24]   Per questa ricostruzione si veda Rigano, Art. 106, in Commentario alla Costituzione, UTET, 2006.

[25]   Per questa ricostruzione si veda Vuoto, Art. 109, in Commentario alla Costituzione, UTET, 2006; si vedano anche le ricostruzioni di V. Falzone e F. Cosentino, La Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori, Colombo 1969.

[26]   Carboni (seduta n. 283 del 7 novembre 1947) sostenne l’esigenza di mettere «a disposizione della Magistratura un proprio corpo di polizia, perché la Magistratura abbia il mezzo di far eseguire sempre, in ogni occasione, i propri ordini». In senso analogo si vedano gli interventi di Persico (seduta n. 284 dell’8 novembre 1947), di Monticelli (seduta n. 287 dell’11 novembre 1947) e di Cortese (seduta n. 288 del 12 novembre 1947). Romano, nel richiedere la creazione di «un corpo di polizia giudiziaria alle dirette dipendenze disciplinari ed amministrative del potere giudiziario» sottolineò come «quando si devono servire due padroni si finisce per servire poco diligentemente quello dal quale meno si dipende» (seduta n. 287 dell’11 novembre 1947).

[27]   Cfr. seduta del 26 novembre 1947.

[28]   Cfr. Manzione, Polizia giudiziaria, in Enciclopedia del diritto, Agg. VI, Milano, 2002, p. 860.

[29]   Con riferimento alle attività della polizia giudiziaria, l’art. 327 c.p.p. afferma che «il pubblico ministero dirige le indagini e dispone direttamente della p.g.», aggiungendo inoltre che la p.g. può di propria iniziativa continuare a svolgere attività d'indagine anche dopo la comunicazione della notizia di reato. L'art. 347, 1° co., c.p.p. pone a carico della p.g., d'altra parte, l'obbligo di comunicare al pubblico ministero ogni notizia di reato da essa acquisita senza ritardo.

[30]   In questo senso vi fu chi in Assemblea costituente (si veda soprattutto la seduta pomeridiana del 25 novembre 1947) propose – sul modello francese – che il guardasigilli fosse membro di diritto del CSM (Perlingieri) se non addirittura vicepresidente dell’organo (Preti).

[31]   Intervenne Leone, nella seduta pomeridiana del 14 novembre 1947, per tranquillizzare i colleghi sul permanere di importantissime funzioni in capo al Ministro («Cosa accadrà di questo Ministro della giustizia? […] Voglio sinteticamente elencare i tre gruppi di attività che il Ministro della giustizia ha conservato. Il Ministro conserva anzitutto tutta l’attività concernente gli uffici giudiziari; in secondo luogo ha il potere di ispezione; poi ha il potere di promuovere l’azione disciplinare […] ed infine provvede all’esecuzione penale»). Nella seduta del 15 novembre 1947 fu Conti a esorcizzare le paure di coloro che immaginavano un ministro senza più funzioni («Il povero ministro dovrà andare al palazzo di Via Arenula per guardare le mura e tornare a casa tutto sconsolato perché non sarà più il Ministro arbitro della giustizia. Niente affatto signori. Con l’organizzazione della Magistratura che è in progetto, il Ministro avrà sempre molte cose da fare: ed egli sarà l’altissimo, vigilante preside all’amministrazione della Giustizia») elencando quelle rilevantissime che gli restavano. Ed infine altrettanto fece Ruini in sede di parere sugli emendamenti nella seduta antimeridiana del 25 novembre 1947.

[32]   Andarono in questa direzione gli emendamenti Mortati e Colitto (seduta antimeridiana del 25 novembre 1947) e soprattutto l’emendamento Targetti e altri dalla cui approvazione scaturisce l’art. 110 Cost. Come affermò il presentatore (seduta antimeridiana del 25 novembre 1947) «Noi siamo favorevolissimi ad assicurare alla Magistratura il massimo di indipendenza; non siamo neppure contrari a dare ad essa, attraverso il Consiglio superiore, larghi poteri; ma, al tempo stesso, riteniamo che si debba essere tutti d’accordo nel ristabilire il principio o, per dir meglio, nel mettere in evidenza che non abbiamo rinunciato al principio che il Ministro della giustizia debba rispondere dell’amministrazione della giustizia».

[33] Dai lavori preparatori della legge n. 46/2006, emerge che la nuova disciplina dell’appellabilità delle sentenze trova giustificazione nell’attuazione dell'articolo 2 del protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98), che sancisce il diritto al doppio grado di giurisdizione in materia penale per chiunque venga dichiarato colpevole di una infrazione penale da un tribunale; più in particolare, la previsione dell'appellabilità delle sentenze di proscioglimento avrebbe impedito il rispetto del principio citato qualora in sede di gravame il soggetto precedentemente prosciolto fosse stato condannato. Data l'impossibilità di prevedere un ulteriore grado di giudizio, anche per l'esigenza di assicurare il rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo di cui all'articolo 111 della Costituzione, l'unica strada percorribile per assicurare il rispetto del principio sancito dalla Convenzione è apparsa al legislatore quella di rendere inappellabili le sentenze di proscioglimento. Nella sentenza n. 26 del 2007, la Corte costituzionale rileva peraltro che secondo l'art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 alla Convezione europea il diritto della persona dichiarata colpevole di un reato al riesame della «dichiarazione di colpa o di condanna», da parte di un tribunale superiore, può essere oggetto di eccezioni quando essa «sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento» (paragrafo 2 del citato art. 2).

[34]   Per questa sintetica ricostruzione si veda D'Elia, Art. 112, in Commentario alla Costituzione, UTET, 2006.

[35]   Alcuni interventi, come quello di Bettiol e di Giovanni Leone, facevano espressamente leva sul carattere fondamentale del principio di obbligatorietà dell'azione penale in uno Stato democratico e di diritto, e ricordavano come fosse, al contrario, proprio degli ordinamenti antidemocratici l'adesione all'opposto principio della discrezionalità. In particolare, tra gli obiettivi tenuti di mira con la formulazione della disposizione in commento apparve evidente quello di porre un definitivo divieto alla possibilità per il Pubblico Ministero di archiviare gli atti di un processo senza un previo controllo giurisdizionale.