Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento giustizia
Titolo: Inapplicabilità e cessazione degli effetti di misure di prevenzione a seguito di sentenza irrevocabile di proscioglimento - A.C. 1505 - Schede di lettura e riferimenti normativi
Riferimenti:
AC N. 1505/XVI     
Serie: Progetti di legge    Numero: 122
Data: 24/02/2009
Descrittori:
ESECUZIONE DI SENTENZE PENALI   MISURE DI PREVENZIONE E SICUREZZA
Organi della Camera: II-Giustizia


Camera dei deputati

XVI LEGISLATURA

 

SERVIZIO STUDI

 

Progetti di legge

Inapplicabilità e cessazione degli effetti di misure di prevenzione a seguito di sentenza irrevocabile di proscioglimento

A.C. 1505

Schede di lettura e riferimenti normativi

 

 

 

 

n. 122

 

 

24 febbraio 2009

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dipartimento giustizia

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File: gi0149.doc

 

 


INDICE

Schede di lettura

Quadro normativo  3

Contenuto della proposta di legge  13

§      Legge 27 dicembre 1956, n. 1423. Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità  22

§      Legge 31 maggio 1965, n. 575. Disposizioni contro la mafia  30

Giurisprudenza

Corte costituzionale

§      Sentenza del 20 aprile 1959, n. 27  59

§      Sez. Unite penali, Sentenza del 3 luglio 1996, n. 18  77

§      Sez. V penale, Sentenza del 15 gennaio 2004, n. 5738  90

§      Sez. VI penale, Sentenza del 17 settembre 2004, n. 46449  93

§      Sez. VI penale, Sentenza del 18 ottobre 2005, n. 44985  95

§      Sez. V penale, Sentenza del 27 giugno 2006, n. 33056  110

§      Sez. Unite penali, Sentenza del 19 dicembre 2006, n. 57  118

 


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Schede di lettura

 


Quadro normativo

Il nostro ordinamento, accanto alle misure cautelari e alle misure di sicurezza (previste, rispettivamente, dagli articoli 13 e 25 della Costituzione), prevede anche le misure di prevenzione: queste si differenziano dalle prime in quanto trovano applicazione indipendentemente dalla commissione di un reato e costituiscono applicazione del principio di «prevenzione e sicurezza sociale, per il quale l’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti fra i cittadini deve essere garantito, oltre che dal sistema di norme repressive dei fatti illeciti, anche da un parallelo sistema di adeguate misure preventive contro il pericolo del loro verificarsi nell’avvenire» (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 27 del 1959).

 

Il quadro normativo relativo alle misure di prevenzione parte dalla fondamentale legge 27 dicembre 1956, n. 1423[1], ampiamente modificata negli anni successivi, cui si affianca la legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia) che ha esteso le tradizionali misure preventive di natura personale (sorveglianza speciale, divieto ed obbligo di soggiorno) agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose. Successivamente la legge 13 settembre 1982, n. 646 (c.d. Rognoni La Torre)[2], ha fatto lo stesso per gli indiziati di appartenere ad associazioni camorristiche ed assimilabili. Le ulteriori leggi 3 agosto 1988, n. 327[3], 19 marzo 1990, n. 55[4]e, soprattutto, 7 marzo 1996, n. 109[5], hanno introdotto rilevanti modifiche alla normativa concernente le tradizionali misure di prevenzione, con l’obiettivo di eliminare gli inconvenienti più vistosi della precedente disciplina. La citata legge n. 109/1996 ha, in particolare, introdotto nella legge quadro 575/1965 una serie di disposizioni (artt. da 2-nonies a 2-duodecies) che hanno profondamente riformato la disciplina della gestione e destinazione dei beni oggetto di sequestro e confisca.

 

Le misure di prevenzione personali

Le misure di prevenzione possono essere disposte nei confronti di[6]:

§         coloro che siano indiziati di appartenere ad associazioni mafiose;

§         coloro che, in base a elementi concreti, si ritenga siano abitualmente dediti a traffici delittuosi;

§         coloro che, in base a elementi concreti, si ritenga che vivano abitualmente con i proventi di attività delittuose;

§         coloro che, in base a elementi concreti, si ritenga siano dediti alla commissione di reati che mettano in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.

La misura di prevenzione più lieve è l’avviso orale, un invito a cambiare comportamento rivolto dal questore all'interessato. Se, nonostante l’avviso, il soggetto non ha mutato condotta, ovvero risulta comunque pericoloso per la sicurezza pubblica, il tribunale può applicare le ulteriori misure previste dall’articolo 3 della legge n. 1423 del 1956, ovvero:

a) sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, che comporta una serie di obblighi simili a quelli della libertà vigilata;

b) divieto o obbligo di soggiorno in uno o più comuni, o in una o più Province.

Il successivo articolo 7 della legge n. 1423 prevede che il provvedimento di applicazione delle misure di prevenzione personali è comunicato al Questore per l'esecuzione. Il provvedimento stesso, su istanza dell'interessato e sentita l'autorità di pubblica sicurezza che lo propose, può essere revocato o modificato dall'organo dal quale fu emanato, quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato. Il provvedimento può essere altresì modificato, anche per l'applicazione del divieto o dell'obbligo di soggiorno, su richiesta dell'autorità proponente, quando ricorrono gravi esigenze di ordine e sicurezza pubblica o quando la persona sottoposta alla sorveglianza speciale abbia ripetutamente violato gli obblighi inerenti alla misura.

Il ricorso contro il provvedimento di revoca o di modifica non ha effetto sospensivo.

Nel caso di modificazione del provvedimento o di taluna delle prescrizioni per gravi esigenze di ordine e sicurezza pubblica, ovvero per violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, il presidente del tribunale può, nella pendenza del procedimento, disporre con decreto l'applicazione provvisoria della misura, delle prescrizioni o degli obblighi richiesti con la proposta.

 

Le misure di prevenzione patrimoniali

La legge n. 575/1965 contiene attualmente le principali disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniali antimafia.

Tali misure sono state introdotte dalla legge Rognoni-La Torre(legge n. 646/1982) che ha inteso così affiancare alle misure di prevenzione di natura personale strumenti che, colpendo i patrimoni degli appartenenti ad associazioni mafiose, potessero assolvere sia ad una funzione preventiva e deterrente, sia, rimuovendo dal mercato capitali illegali, di ripristino della libera concorrenza e delle regole dell’economia legale.

Il nucleo fondamentale della legge n. 646/1982 è costituito, pertanto, dall’arricchimento del quadro delle misure di prevenzione, con l’introduzione di misure di natura patrimoniale, il sequestro e la confisca, volte a sottrarre, prima provvisoriamente e poi in via definitiva, agli appartenenti alle organizzazioni criminali la disponibilità giuridica e materiale di beni di illecita provenienza.

 

Il sequestro è un provvedimento di natura provvisoria e cautelare, disposto dal tribunale o, in via temporanea, dal presidente del Tribunale, su richiesta del Procuratore della Repubblica o del questore o anche d’ufficio, sui beni dei quali la persona nei confronti della quale è pendente un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione personale risulta poter disporre[7], quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o alla attività economica svolta, ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. La misura - finalizzata ad anticipare e ad assicurare gli effetti della confisca, rispetto alla quale, dunque, assume natura strumentale - ha come effetto la provvisoria perdita da parte del destinatario della disponibilità materiale del bene e la altrettanto provvisoria limitazione a compiere atti giuridici che abbiano ad oggetto il bene sequestrato (art. 2-ter della legge n. 575/1965). Nei casi di particolare urgenza, possono richiedere il sequestro, oltre al procuratore della Repubblica e al questore, anche gli organi incaricati di procedere ad ulteriori indagini nei confronti delle persone indiziate. In tal caso il presidente del tribunale, con decreto motivato, dispone immediatamente il sequestro, ma il provvedimento  presidenziale perde efficacia se non è convalidato dal tribunale entro 10 giorni.

Le condizioni per poter disporre la misura, quindi, sono:

-      l’esistenza di un nesso con una misura di prevenzione personale: il sequestro può essere disposto sia durante l’iter applicativo della misura personale che successivamente ma, in ogni caso, prima che ne sia cessata l’esecuzione;

-      la disponibilità del bene oggetto del sequestro in capo ad un soggetto candidato all’applicazione di una misura di prevenzione personale, in quanto indiziato di appartenere ad associazione mafiosa, camorristica o ad esse assimilabile;

-      il valore sproporzionato dei beni rispetto al reddito dichiarato o all’attività economica svolta, ovvero, in alternativa, la sussistenza di sufficienti indizi circa la provenienza illegittima dei beni[8].

Ai sensi dell'art. 2-bis, comma 4 della legge n. 575/1965, il sequestro può anche essere disposto anticipatamente, su richiesta del procuratore della Repubblica e del questore, dal Presidente del tribunale prima della fissazione dell'udienza, quando vi sia concreto pericolo che i beni di cui si prevede debba essere disposta la confisca vengano dispersi, sottratti o alienati (cd. sequestro anticipato). La proposta di applicazione delle misure di prevenzione non è, in tal caso, preceduta dall'avviso del questore previsto dall'art. 4 della L. n. 1423/1965.

Il presidente del tribunale provvede con decreto motivato entro 5 giorni dalla richiesta, ma il sequestro eventualmente disposto perde efficacia se non convalidato dal tribunale entro 30 giorni dalla proposta. Analoga revoca consegue al respingimento della proposta di applicazione della misura di prevenzione ovvero alla dimostrazione della provenienza legittima dei beni o del fatto che di essi l’indiziato non poteva disporre, direttamente o meno.

 

La confisca dei beni sequestrati, dei quali non sia stata dimostrata la legittima provenienza, consiste, invece, in un provvedimento di natura ablativa che comporta la devoluzione allo Stato dei beni (mobili, immobili, mobili registrati, crediti, ecc.) che ne costituiscono oggetto: analogamente al sequestro, anche la confisca di prevenzione possiede la comune caratteristica del collegamento con un procedimento di prevenzione personale[9].

Infatti, qualora il suddetto procedimento si concluda con l'applicazione della misura di prevenzione, il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati dei quali non sia stata dimostrata la legittima provenienza (art. 2-ter, 3° comma L. n. 575/1965). Il tribunale può altresì imporre all'indiziato un'adeguata cauzione o idonee garanzie patrimoniali in sostituzione di quest’ultima. Tale cauzione, in caso di violazione degli obblighi o dei divieti derivanti dall'applicazione della misura di prevenzione, viene confiscata su provvedimento del tribunale (art. 3-bis, comma 6, L. n. 575/1965).

I beni confiscati sono devoluti allo Stato e successivamente “destinati” al termine dello speciale procedimento previsto dalla legge n. 109/1996 (vedi infra).

 

Alla confisca quale misura di prevenzione l’ordinamento giuridico affianca una particolare ipotesi di confisca penale obbligatoria, prevista dall’art. 12-sexies del D.L. n. 306/1992 (legge n. 356/1992) recante Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa.

Il suddetto art. 12-sexies (comma 1) ha previsto la confisca obbligatoria del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell'art. 444 c.p.p. (c.d. patteggiamento) per alcuni reati di particolare gravità: associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.), riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù (art. 600 c.p.), tratta di persone (art. 601 c.p.), acquisto e alienazione di schiavi (art. 602 c.p.), associazione a delinquere volta alla commissione dei citati reati di cui agli artt. 600, 601 e 602 c.p.(art. 416, sesto comma, c.p.), estorsione (art. 629 c.p.), sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione (art. 630 c.p.), usura (art. 644 c.p.), ricettazione, riciclaggio, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, nonché produzione e traffico illecito di tali sostanze (artt. 73 e 74 del D.P.R. 309/90). L’elencazione di reati contenuta al primo comma della disposizione è arricchita, ai sensi del secondo comma, dal reato di contrabbando (art. 295, co. 2, T.U. approvato con D.P.R. 43/73), nonché dai reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p., ovvero per agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.

Su tale disciplina è intervenuta la legge finanziaria 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296) che, all’art. 1, comma 220, novellando il comma 1 del citato art. 12-sexies, integra l’elenco dei reati alla cui condanna o patteggiamento consegue la confisca obbligatoria dei valori ingiustificati, comprendendovi la maggior parte dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (escluso l’abuso d’ufficio, art. 323 c.p)[10]. La disposizione ha poi aggiunto all’art. 12-sexies un comma 2-bis secondo il quale in caso di confisca di beni per uno dei delitti sopraelencati si applicano le disposizioni degli articoli 2-nonies, 2-decies e 2-undecies della legge 31 maggio 1965, n. 575 (v. infra).

 

L'art. 2-ter della legge n. 575/1965 prevede, in particolari ipotesi, alcune deroghe alle normali condizioni di applicabilità delle misure del sequestro e della confisca:

§       in caso di indagini complesse il provvedimento di confisca può intervenire anche dopo un anno dalla data dell'avvenuto sequestro (termine prorogabile per analogo periodo) (comma 3, secondo periodo);

§       il sequestro e la confisca possono essere adottati anche dopo l'applicazione della misura di prevenzione personale, ma prima della sua cessazione (comma 6);

§       il sequestro e la confisca possono essere adottati anche in caso di assenza o di residenza o dimora all'estero della persona alla quale potrebbe applicarsi la misura di prevenzione (comma 7);

§       il sequestro e la confisca possono essere adottati anche quando la persona è già sottoposta a misura di sicurezza detentiva o alla libertà vigilata (comma 8);

§       il sequestro e la confisca possono essere adottati anche in relazione a beni sequestrati in un procedimento penale, ma i relativi effetti sono sospesi per la durata del processo e si estinguono qualora in quella sede sia disposta la confisca (comma 9).

 

I provvedimenti del tribunale, a norma degli articoli 2-ter e 3-bis, che dispongono, rispettivamente, la confisca dei beni sequestrati e la revoca del sequestro (ovvero la restituzione della cauzione, la liberazione delle garanzie, la confisca della cauzione o la esecuzione sui beni costituiti in garanzia) sono comunicati senza indugio al Procuratore Generale presso la Corte di appello, al procuratore della Repubblica e agli interessati, i quali hanno facoltà di proporre ricorso (privo di effetti sospensivi) anche per il merito, entro 10 giorni alla Corte d'appello. La Corte provvede in camera di consiglio, con decreto motivato, nei 30 giorni successivi alla proposizione del ricorso.

Tale decreto è impugnabile in cassazione per violazione di legge da parte del pubblico ministero e dell'interessato, entro dieci giorni. La Corte di cassazione provvede, in camera di consiglio, entro 30 giorni dal ricorso.

 

In relazione alla gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati occorre ricordare che, mentre la disciplina per i beni sequestrati e confiscati in sede penale è prevista agli artt. 81-88 delle norme di attuazione del c.p.p[11], quella relativa alla gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati in sede preventiva è contenuta nella citata legge n. 575/1965.

La legge è stata oggetto di ripetuti interventi di modifica da parte del legislatore: il più organico si è avuto con la legge 7 marzo 1996, n. 109[12], che, pur non incidendo sui profili costitutivi delle misure, ha introdotto significative innovazioni finalizzate ad una più razionale amministrazione dei beni confiscati e ad una più puntuale destinazione degli stessi a fini istituzionali e sociali.

 

L’intervento normativo mirava, in particolare, a rendere effettivo l’utilizzo dei beni confiscati, assicurando termini perentori entro cui decidere l'impiego degli stessi, a ridurre la differenza numerica tra il totale dei sequestri e le effettive confische (che nel biennio precedente l’entrata in vigore della legge rappresentavano appena il 5% dei sequestri), a garantire il risarcimento dei danni provocati alla collettività dalla mafia mediante la destinazione dei beni immobili confiscati ad attività sociali (assegnazioni a comuni, organizzazioni di volontariato, comunità terapeutiche, ecc), ad assicurare una gestione “manageriale” dei beni e delle imprese sequestrate alla mafia (prevedendo per queste ultime una amministrazione straordinaria che tenesse conto anche dell’esigenza di mantenere  i lavoratori occupati). La legge n. 109 del 1996 ha, inoltre, recepito l’esigenza di attuare un monitoraggio permanente relativo ai beni oggetto di sequestro e confisca, allo scopo di avere un quadro aggiornato della situazione, anche al fine di assolvere agli obblighi di relazione al Parlamento.

La necessità di assicurare un coordinamento a livello centrale delle molteplici attività previste dalla legge in capo a diversi organi pubblici ha determinato dapprima la costituzione di un Osservatorio permanente sui beni confiscati e, successivamente, nel 1999, l’istituzione di un Ufficio del Commissario straordinario del Governo per la gestione e la destinazione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali con lo scopo di assicurare il coordinamento tra le amministrazioni interessate alla materia, nonché il collegamento tra queste e le realtà associative interessate alla gestione e destinazione dei beni previste dalla legge.

L'amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati in sede preventiva è attualmente disciplinata dagli artt. 2-sexies e seguenti della citata legge n. 575/1965.

L'art. 2-sexies stabilisce che, nel disporre il sequestro, il tribunale provveda a nominare un giudice delegato alla procedura ed un amministratore.

Circa i requisiti per la nomina, il comma 3 dell'art. 2-sexies dispone che l'amministratore sia scelto tra gli avvocati, i commercialisti o i ragionieri del distretto di corte d'appello, ovvero nella ipotesi in cui il sequestro riguardi beni aziendali, tra coloro che abbiano svolto o svolgano funzioni di commissario per l'amministrazione di grandi aziende in crisi ai sensi del D.L. n. 26/1979 (L.n. 95/1979)[13]. Per particolari esigenze può essere nominato un soggetto non in possesso delle suddette qualifiche professionali, ma comunque munito di comprovata esperienza nell’amministrazione di beni di tipologia analoga a quelli sequestrati, mentre sono esclusi dalla nomina le persone oggetto delle misure patrimoniali, i parenti, gli affini, i conviventi o le persone interdette anche temporaneamente ai pubblici uffici o sottoposte a misure di prevenzione.

Le funzioni dell'amministratore sono specificate al comma 1 dell'art. 2-sexies e all'art. 2-septies; in particolare l’amministratore:

§         provvede alla custodia, alla conservazione e all'amministrazione dei beni sequestrati, anche nel corso degli eventuali giudizi di impugnazione; la norma precisa che l'amministrazione non deve necessariamente avere finalità conservative, potendo essere anche diretta essere ad incrementare la redditività dei beni;

§       presenta al giudice delegato, entro un mese dalla nomina, una relazione particolareggiata sullo stato e sulla consistenza dei beni sequestrati; successive relazioni sono svolte con la cadenza stabilita dal giudice;

§       segnala al giudice delegato l'esistenza di altri beni di cui sia venuto a conoscenza e che potrebbero essere sequestrati.

Ai sensi dell’art. 2-octies della legge 575, le spese necessarie o utili per la conservazione e la gestione dei beni sequestrati e confiscati sono sostenute dall'amministratore attingendo alle somme riscosse o, in caso di insufficienza delle prime, a quelle anticipate dallo Stato. Specifiche disposizioni sono dettate per il compenso ed i rimborsi spettanti all’amministratore (tali emolumenti sono liquidati dal tribunale con decreto motivato, appellabile davanti alla Corte d’appello).

Al giudice delegato, nominato secondo le stesse modalità stabilite per l’amministratore, sono affidate le seguenti funzioni:

§       dirigere la attività dell’amministratore di gestione dei beni sequestrati;

§       autorizzare, per iscritto, il compimento di atti di straordinaria amministrazione (es: mutui, transazioni, compromessi, fideiussioni, ipoteche, alienazioni di immobili);

§       autorizzare la concessione di un sussidio alimentare al titolare dei beni e alla sua famiglia (cfr art. 47 RD n.267/1942), qualora vengano a mancare i mezzi di sussistenza;

§       autorizzare l'amministratore a farsi coadiuvare, sotto la propria responsabilità, da tecnici o personale retribuito;

§       proporre al tribunale la revoca dell’amministratore in caso di inosservanza dei propri doveri o di incapacità.

Dopo l’emanazione del provvedimento di confisca, con cui i beni sono devoluti allo Stato, l'amministratore continua ad esercitare le proprie funzioni[14] sotto la direzione non più del giudice delegato ma dell’Agenzia del territoriocompetente; l'opera dell'amministratore prosegue sino all'esaurimento delle operazioni di liquidazione ovvero sino all'attuazione del decreto con il quale il bene confiscato viene destinato (art. 2-nonies, L 575/1965).

Si segnala checon disposizione aggiunta al D.Lgs n. 300 del 1999 dall’articolo 1, comma 1, lettera i) del D.Lgs. n. 173 del 2003[15], alla Agenzia del demanio èattribuita la gestione dei beni confiscati e che l’articolo 2 dello statuto della medesima Agenzia individua, tra i compiti dell’ente, la gestione dei beni mobili e immobili e delle aziende confiscati alla criminalità organizzata, nonché dei veicoli sequestrati e confiscati.

L'art. 2-decies disciplina il procedimento di adozione del provvedimento che imprime la destinazione di beni immobili e beni aziendali confiscati. Tale destinazione è effettuata con provvedimento del direttore centrale del demanio del Ministero delle finanze, su proposta non vincolante del dirigente del competente ufficio del territorio, sulla base della stima del valore dei beni effettuata dal medesimo ufficio, acquisiti i pareri del prefetto e del sindaco del comune interessato e sentito l'amministratore nominato dal giudice delegato.  Detta proposta è formulata entro 90 gg. dal ricevimento della comunicazione del provvedimento definitivo di confisca; il provvedimento del direttore centrale del demanio è emanato entro 30 gg. dalla comunicazione della proposta.

 

Per quanto concerne la destinazione dei beni confiscati, occorre ricordare che mentre tutte le somme di denaro che non debbano essere utilizzate per la gestione di altri beni confiscati o che non debbano essere utilizzate per il risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso  (confiscate o ricavate dalla vendita di beni mobili o dal recupero di crediti personali) debbono essere obbligatoriamente versate dall’amministratore all’ufficio del registro, per la destinazione dei beni immobili sono previste  diverse alternative (art. 2-undecies, comma 2):

§      la conservazione al patrimonio dello Stato, con utilizzazione diretta esclusivamente per esigenze istituzionali tipizzate: giustizia, ordine pubblico e protezione civile;

§      il trasferimento al patrimonio del comune ove l'immobile è sito, ovvero al patrimonio della provincia o della regione con destinazione a fini istituzionali e sociali. Gli enti territoriali possono amministrare direttamente il bene o assegnarlo in concessione a titolo gratuito a comunità, ad enti, ad associazioni maggiormente rappresentative degli enti locali, ad organizzazioni di volontariato, a cooperative sociali, o a comunità terapeutiche e centri di recupero e cura di tossicodipendenti. La destinazione del bene da parte del comune deve avvenire entro un anno e in caso di inadempienza si prevede la nomina, da parte del prefetto, di un commissario ad acta;

§      il trasferimento al patrimonio del comune ove l'immobile è sito, se si tratta di beni confiscati per il reato di cui associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga (cfr art. 74 TU sulle tossicodipendenze, D.P.R. n. 309/1990); in questo caso il comune può amministrare direttamente il bene o affidarlo, preferibilmente in concessione, a comunità o enti per il recupero di tossicodipendenti.

 

Per la destinazione dei beni aziendali sono previste, invece, le seguenti  alternative:

§      qualora vi siano prospettive fondate di continuazione o ripresa delle attività produttive l'affitto a titolo oneroso a società e imprese pubbliche o private, oppure l'affitto a titolo gratuito, senza oneri per lo Stato, a cooperative di lavoratori dipendenti dell'impresa confiscata;

§      la vendita a richiedenti, per importo almeno pari alla stima del competente ufficio territoriale del Ministero dell’economia e delle finanze, qualora vi sia maggiore utilità pubblica;

§      la liquidazione, anche in tal caso in presenza di maggiore utilità pubblica.

 

Proprio in relazione ai beni aziendali oggetto di confisca, si segnala che l’art. 1, comma 221, della legge finanziaria 2007 (L. 296/2006) ha sostituito il comma 5 dell'articolo 2-undecies della legge 575/1965, norma che prevedeva il versamento all’ufficio del registro dei proventi derivanti dall'affitto, dalla vendita o dalla liquidazione di tali beni. Il citato comma 221, in particolare:

-      ha ampliato l'oggetto della disposizione, affiancando ai citati proventi le somme ricavate dalla vendita dei beni mobili non costituiti in azienda e quelle derivanti dal recupero dei crediti personali;

-      ha vincolato le somme così individuate al finanziamento degli interventi per l'edilizia scolastica e per l'informatizzazione del processo, in egual misura.

 

Da ultimo si ricorda che in base ai commi 23 e 24 dell’articolo 61 del decreto legge n. 112 del 2008[16] e all’art. 2 del decreto-legge n. 143 del 2008[17] (successivamente modificato dall’articolo 27, comma 21-ter,del decreto-legge n. 185 del 2008[18]), le somme di denaro sequestrate nonché i proventi dei beni confiscati nell’ambito di procedimenti penali o per applicazione di misure di prevenzione di cui alle suddette leggi n. 575/1965 e n. 1423/1956 affluiscono al Fondo unico giustizia, gestito da Equitalia Giustizia S.p.A.

 


Contenuto della proposta di legge

Il provvedimento in esame modifica talune disposizioni delle leggi n. 1423 del 1956 e n 575 del 1965, in materia di misure di prevenzione, al fine di affermare il principio generale in base al quale una sentenza definitiva di proscioglimento comporta l’inapplicabilità ovvero la revoca dellemisure di prevenzione personali e patrimoniali disposte sulla basedegli stessi fatti già valutati nel giudizio penale conclusosi con la medesima sentenza di proscioglimento.

Come si legge nella relazione illustrativa del provvedimento, scopo della proposta di legge è di porre rimedio ad «una grave ingiustizia che subiscono tutti quei cittadini che sono sottoposti a misure di prevenzione, sebbene in sede penale siano stati prosciolti nel procedimento di merito» modificando, quindi, l'attuale normativa secondo le indicazioni espresse dalla giurisprudenza più recente.

La proposta di legge mira, quindi, al superamento del c.d. modello di intervento a “doppio binario”, in base al quale il procedimento diretto alla applicazione della misura di prevenzione e quello finalizzato all’accertamento del reato e alla determinazione della pena sono considerati autonomi ed indipendenti, con la conseguenza, tra l’altro, che la sentenza definitiva di proscioglimento non comporta l’automatica cessazione di efficacia delle misure di prevenzione applicate in relazione ai medesimi fatti oggetto dell’accertamento giurisdizionale.

 

In relazione alla nota teoria dell’autonomia dei due procedimenti si segnala che la Cassazione, sez. I, con la sentenza n. 1706 del 20 giugno 1988, ha affermato che, «in tema di lotta alla delinquenza mafiosa, la differenza, nei presupposti e nei fini, tra il procedimento penale ed il procedimento di prevenzione non solo determina l'autonomia dei due procedimenti ma ha anche notevole rilevanza nelle questioni probatorie. Il primo richiede che la responsabilità penale per un reato sia fondata su prove piene, che sono tali anche se di natura indiretta (indiziaria, secondo la comune definizione), in quanto gli indizi debbono condurre ad un giudizio di certezza sul fatto; il secondo prescinde dall'accertamento della responsabilità penale per un reato, avendo come presupposto la pericolosità, comune o qualificata, del soggetto, la quale richiede un giudizio essenzialmente prognostico rapportato a determinati parametri. Questo giudizio, cioè, si fonda su elementi con minore efficacia probatoria che, tuttavia, qualora si tratti di pericolosità qualificata dall'appartenenza ad associazione di tipo mafioso debbono raggiungere la consistenza dell'indizio con esclusione, quindi, di sospetti, congetture ed illazioni. Ne consegue che è sufficiente ai fini dell'applicazione della misura di prevenzione nei confronti degli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso che gli indizi dimostrino anche la sola probabilità che il prevenuto sia appartenente all'associazione stessa».

Inoltre, precisa la Cassazione nella medesima sentenza, «l’autonomia del procedimento di prevenzione rispetto al procedimento penale impone al giudice della prevenzione, qualora fondi il suo giudizio su elementi probatori tratti da procedimenti penali in corso, di provvedere ad una propria autonoma valutazione di detti elementi, nel senso che non basta il riferimento generico ad eventuali provvedimenti coercitivi od all'ordinanza di rinvio a giudizio e nemmeno ad una sentenza di condanna non definitiva (ossia il rinvio, implicito od esplicito alla motivazione adottata dal giudice penale), ma è invece necessario che il giudice esprima il suo autonomo giudizio, non solo indicando gli elementi concreti presi in considerazione, ma anche spiegando le ragioni per le quali tali elementi conducono ad un accertamento di pericolosità sociale, comune o qualificata».

Tale orientamento è stato successivamente ribadito dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 18 del 3 luglio 1996, le quali hanno rilevato che «l'assoluta autonomia dei due procedimenti - penale e di prevenzione - comporta la possibilità di applicazione dei provvedimenti, personali e/o patrimoniali, anche in contrasto con le conclusioni cui possa pervenire il giudizio penale: e ciò, sia per diversità dei presupposti, sia per la valenza diversa che la legge assegna agli elementi sulla cui base le singole procedure vengono definite». Basti porre mente, infatti - osservano le Sezioni Unite - al rilievo secondo cui alla mancanza anche assoluta di prove o di gravi indizi di colpevolezza richiesti dalla legge per giungere ad un'affermazione di responsabilità in sede penale non corrisponde affatto un'analoga valenza in tema di «procedimento di prevenzione, nel quale gli indizi di affiliazione ad un clan mafioso - e la indimostrata liceità dell'appartenenza dei beni - possono essere desunti anche dagli stessi fatti storici in ordine ai quali è stata esclusa la configurabilità di illiceità».

Pertanto, le Sezioni Unite hanno rilevato che «la ratio sottesa ai provvedimenti in esame - adottabili nell’ambito del procedimento di prevenzione – siccome diretta a colpire beni e proventi di natura presuntivamente illeciti (sussistendo ovviamente i presupposti di legge) per escluderli dal cosiddetto circuito economico, si ricollega, seppur con un ambito di estensione non identico, alle ipotesi previste dall’art. 240 cpv c.p., nn.1 e 2 [confisca delle cose che costituiscono prezzo del reato e delle cose la cui fabbricazione, uso porto, detenzione o alienazione, costituiscano reato] che, come è noto, prescindono dalla condanna – da una affermazione di responsabilità accertata in sede penale- con la conseguente applicabilità anche nel caso di proscioglimento: quale che sia la formula».

In relazione al citato orientamento giurisprudenziale va però rilevato che di recente è intervenuta una ulteriore sentenza delle Sezioni unite della Corte di Cassazione (Cass. S.U. penali, sentenza 8 gennaio 2007, n. 57) chiamate a risolvere un importante contrasto giurisprudenziale in ordine all’applicabilità, alla misura di prevenzione della confisca, della revoca prevista dall’art. 7, comma 2, della legge n. 1423 del 1956 ed in base al quale il provvedimento di prevenzione personale, su istanza dell'interessato e sentita l'autorità di pubblica sicurezza che lo propose, può essere revocato o modificato dall'organo dal quale fu emanato, quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato[19].

Al riguardo, le Sezioni Unite, con la citata sentenza n. 57 del 2007, hanno rilevato che gli argomenti addotti dai fautori della tesi della irrevocabilità della confisca si basano - oltre che su argomentazioni di carattere letterale[20] - anche sul fatto che «al momento del passaggio in giudicato della sentenza che la dispone, alla confisca consegue un istantaneo trasferimento a titolo originario in favore del patrimonio dello Stato del bene che ne costituisce l'oggetto, con conseguente esaurimento ed irreversibilità della situazione giuridica considerata». Non avrebbe senso, quindi, secondo il citato orientamento giurisprudenziale, una revoca ex nunc del provvedimento di prevenzione reale, come diversamente può verificarsi nel caso della revoca della misura preventiva personale, avendo la confisca già prodotto i suoi effetti.

In relazione a tale motivazione le Sezioni Unite hanno, però, diversamente osservato che l'irreversibilità dell'ablazione non impedisce di accertare, «oggi per allora, e nello spazio non precluso dalla definitività del provvedimento, l'originaria insussistenza dei presupposti che hanno condotto alla sua emanazione. Infatti, la dimostrazione dell'insussistenza non è tanto diretta a far cessare gli effetti di una confisca legittimamente imposta, quanto a farne palese un vizio d'origine. Talché, una volta riconosciuta l'invalidità del titolo, la ritenuta irreversibilità dell'ablazione non esclude la possibilità di una restituzione, per determinazione discrezionale della Pubblica Amministrazione, e, quanto meno, provoca l'insorgenza di un obbligo riparatorio della perdita patrimoniale, priva di giustificazione sin dal momento in cui si è verificata».

Sulla base di queste considerazioni, le citate Sezioni Unite riconoscono la possibilità di una revoca della misura reale di prevenzione della confisca «in funzione di revisione, per la persistenza di un concreto interesse e in conformità alla ratio di questo istituto che, al di là di ogni effetto di pratico ripristino, comprende il superamento del degrado sociale, con l'affermazione dell'ingiustizia del provvedimento sanzionatorio[21]».

 

 

Analiticamente, l’articolo 1 della proposta di legge novella l’articolo 3 della legge n. 1423 del 1956, relativo alle misure di prevenzione personali.

 

Come già rilevato (cfr. quadro normativo), l’art. 3 della legge n. 1423 del 1956 prevede che a determinati soggetti, ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica, e che non abbiano mutato condotta nonostante l'avviso orale del questore, possa essere applicata dal tribunale la misura di prevenzione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza, cui può essere aggiunto - ove le circostanze del caso lo richiedano - il divieto di soggiorno in uno o più comuni, diversi da quelli di residenza o di dimora abituale o in una o più Province. Nei casi in cui le altre misure di prevenzione non sono ritenute idonee alla tutela della sicurezza pubblica può essere imposto l'obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale.

 

La proposta di legge inserisce nell’articolo 3 un ulteriore comma, in forza del quale le misure di prevenzione personali (sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, divieto ed obbligo di soggiorno) non possono essere applicate se per i medesimi fatti oggetto del procedimento di prevenzione è stata pronunciata, in sede penale, sentenza irrevocabile di proscioglimento.

 

Si ricorda che la sezione I, del Libro VII (giudizio), capo II (decisione), del codice di procedura penale è dedicata alle "Sentenze di proscioglimento", cui si riferiscono le varie formule che non comportano una condanna. Si tratta, in particolare, della sentenza di non doversi procedere (art. 529) e della sentenza di assoluzione (art. 530).

 

L’articolo 2 modifica l’articolo 7 della legge n. 1423 del 1956 inserendovi un comma, volto a prevedere la revoca obbligatoria del provvedimento di applicazione della misura di prevenzione personale disposta a norma dell’articolo 3, a seguito di sentenza irrevocabile di proscioglimento.

 

Al riguardo, si osserva che attualmente l’articolo 7, al secondo comma, prevede unicamente che il provvedimento che dispone la misura di prevenzione personale, su istanza dell'interessato e sentita l'autorità di pubblica sicurezza che lo propose, può essere revocato o modificato dall'organo dal quale fu emanato, quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato. Il provvedimento può essere, altresì modificato, anche per l'applicazione del divieto o dell'obbligo di soggiorno, su richiesta dell'autorità proponente, quando ricorrono gravi esigenze di ordine e sicurezza pubblica o quando la persona sottoposta alla sorveglianza speciale abbia ripetutamente violato gli obblighi inerenti alla misura.

 

La disposizione in commento specifica, altresì, che la procedura di revoca (la cui competenza è del tribunale) è avviata su istanza di parte, sentita l’autorità proponente la misura (questore).

 

I successivi articoli 3 e 4 della proposta di legge intervengono sulla legge n. 575 del 1965, relativa alle misure di prevenzione applicabili alle persone indiziate di appartenere ad organizzazioni criminali.

 

In particolare, l’articolo 3 inserisce nell’articolo 2 della legge n. 575 del 1965 il comma 2-bis, in base al quale le misure di prevenzione personali (di cui all’art. 2, comma 1, della legge n. 575) e patrimoniali (di cui all’art. 2-ter della legge n. 575) sono inapplicabili se in sede penale, per gli stessi fatti oggetto del procedimento di prevenzione, sia intervenuta sentenza irrevocabile di proscioglimento.

 

Si ricorda che la legge n. 575 del 1965 ha esteso le tradizionali misure preventive di natura personale (sorveglianza speciale, divieto ed obbligo di soggiorno) previste dalla citata legge n. 1423 del 1956 agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose e, nel testo novellato dalla successiva legge n. 646 del 1982 (c.d. Rognoni La Torre), agli indiziati di appartenere ad associazioni camorristiche ed assimilabili (cfr. il combinato disposto degli articoli 1 e 2). La legge n. 575 del 1965, a seguito delle modifiche apportate dalla citata legge Rognoni-La Torre, contiene, inoltre, le principali disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniali. Si tratta, in particolare degli istituti del sequestro e della confisca, volti a sottrarre, prima provvisoriamente e poi in via definitiva, agli appartenenti alle organizzazioni criminali, la disponibilità giuridica e materiale di beni di illecita provenienza. Su tali misure, si rinvia al quadro normativo.

 

Infine, l’articolo 4 della proposta di legge, inserendo un comma nell’articolo 2-ter della legge n. 575 del 1965, precisa che la misura di prevenzione patrimoniale già applicata deve essere revocata dal tribunale se sui medesimi fatti oggetto del giudizio di prevenzione è intervenuta sentenza irrevocabile di proscioglimento.

 

Con riferimento alle novelle alla legge n. 575 del 1965, si segnala che, mentre l’inapplicabilità delle misure di prevenzione a seguito di sentenza irrevocabile di proscioglimento riguarda sia le misure personali sia quelle patrimoniali (articolo 3), invece la revoca delle medesime misure di prevenzione trova applicazione esclusivamente per le misure di natura patrimoniale (articolo 4).

 

 


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Giurisprudenza

 


Corte costituzionale

 


 

Sentenza del 20 aprile 1959, n. 27

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori Giudici:

 

Dott. Gaetano AZZARITI, Presidente

Avv. Giuseppe CAPPI

Prof. Tomaso PERASSI

Prof. Gaspare AMBROSINI

Dott. Mario COSATTI

Prof. Francesco PANTALEO GABRIELI

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, sulle misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, promosso con ordinanza del 1 marzo 1958 del Tribunale di Lucca nel procedimento penale a carico di Ceragioli Anna, iscritta al n. 16 del Registro ordinanze 1958 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 101 del 26 aprile 1958.

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 18 febbraio 1959 la relazione del Giudice Biagio Petrocelli;

uditi il vice avvocato generale dello Stato Marcello Frattini e l'avv. Sandro Diambrini Palazzi.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel procedimento a carico di Ceragioli Anna, proposta dal Questore di Lucca per la sottoposizione a sorveglianza speciale, il Tribunale di Lucca, d'ufficio, con ordinanza del 1 marzo 1958, riteneva non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, sulle misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità in riferimento agli artt. 2 e 17 della Costituzione, nella parte che concerne gli obblighi imposti al sorvegliato speciale: a) di "non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza"; b) di "non partecipare a pubbliche riunioni".

 

Secondo il Tribunale, mentre le altre prescrizioni dell'art. 5 (fissazione della dimora, divieto di allontanarsene senza dare avviso alla P.S., divieto di rincasare e di uscire fuori di ore stabilite, ecc.) devono dirsi costituzionalmente legittime, rientrando nel lato concetto di "sicurezza" fissato dalla Corte costituzionale con la sua sentenza n. 2 del 1956, quelle impugnate sarebbero in contrasto con gli artt. 2 e 17 della Costituzione. Il divieto di associarsi a certe persone importerebbe che il sorvegliato non possa praticarle né coltivare con esse rapporti anche di innocua amicizia; e in tal caso il divieto medesimo verrebbe a ledere un diritto del soggetto afferente alla sfera dei rapporti sentimentali, diritto che se pure non appare esplicitamente tutelato dalla Costituzione, tuttavia é tale da potersi comprendere, secondo il Tribunale, tra quei diritti inviolabili dell'uomo che nell'art. 2 la Costituzione genericamente riconosce e garantisce. Quanto al divieto di non partecipare a pubbliche riunioni, il Tribunale vi ravvisa una violazione dell'art. 17 della Costituzione, che riconosce a tutti i cittadini il diritto di riunione, intesa questa come convegno precario e volontario di due o più persone in un luogo determinato per un fine prestabilito. La stessa disciplina prevista dal precetto costituzionale per le riunioni in luogo pubblico o aperto al pubblico importa la esistenza del diritto del singolo di parteciparvi, nonché la legittimità delle riunioni in privato. Si avrebbe così la lesione di un diritto costituzionalmente garantito, tanto più rilevante in quanto si può avere riunione pubblica anche in luogo privato, tenuto presente che il carattere di riunione pubblica deriva non soltanto dalla qualità del luogo in cui é tenuta, ma anche dall'oggetto di essa, dal numero dei partecipanti e dal fine che si persegue. Il Tribunale osserva inoltre che il divieto imposto al sorvegliato speciale può incidere anche sull'esercizio di altri diritti di libertà (attività di culto, politiche, ecc.) per le quali il riunirsi é talora essenziale, e che esso non si concilierebbe logicamente con la possibilità che il sorvegliato si trattenga in osterie, bettole, ecc., purché non abitualmente.

 

L'ordinanza di rimessione degli atti a questa Corte venne regolarmente notificata, - e fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 26 aprile 1958, n. 101. Il 5 aprile 1958 si costituiva il Presidente del Consiglio dei Ministri con atto di intervento e deduzioni dell'Avvocatura generale dello Stato, ed il 16 maggio 1958 si costituiva altresì la Ceragioli Anna, a mezzo dell'avv. Sandro Diambrini Palazzi.

 

Nelle deduzioni presentate nell'interesse della Ceragioli si premette una contrapposizione tra l'art. 5 della legge del 1956 e gli artt. 2, 13, 17, 18 e 19 della Costituzione, rilevandosi che il diritto di libertà del cittadino può essere limitato dal potere di coazione personale dello Stato soltanto alla stregua del criterio della "sicurezza" degli altri cittadini, in conformità della sentenza n. 2 del 1956 della Corte costituzionale. A tale criterio non sarebbe con forme, secondo la difesa, il divieto di associarsi, in quanto esso importerebbe il divieto di accompagnarsi abitualmente a persone condannate e sottoposte a misure di sicurezza o di prevenzione per qualsiasi ragione: anche di cordialità, di lavoro, di cultura, di amicizia, di politica, di religione, di passatempo, di affetto; e ciò con una lesione della sfera della personalità che non troverebbe giustificazione alcuna nella necessità di garantire la sicurezza degli altri cittadini, tenendo presente che ne risulterebbero impediti perfino rapporti quali il fidanzamento, il matrimonio, l'appartenenza a una squadra sportiva, ecc. Di qui la violazione degli artt. 2 e 13 della Costituzione.

 

Sempre secondo la difesa della Ceragioli, col divieto di partecipare a pubbliche riunioni sarebbe inibito al sorvegliato, in contrasto con gli artt. 17, 18 e 19 della Costituzione, di partecipare a funzioni di culto, a riunioni sportive, a comizi elettorali, malgrado abbia il diritto di voto; di recarsi a messa, a una partita di calcio, al teatro, al cinema, a conferenze, trattandosi sempre di pubbliche riunioni: tutte preclusioni lesive di diritti costituzionalmente garantiti, e non giustificate da alcun pericolo per la sicurezza di alcuno.

 

Nelle sue deduzioni, l'Avvocatura dello Stato, premesso che la legge 27 dicembre 1956, n. 1423, trae origine dalle sentenze n. 2 e 11 del 1956 della Corte costituzionale, non contesta la gravità della misura della sorveglianza speciale, ma fa osservare che si é di fronte a persone nei cui riguardi i tentativi di correzione sono risultati vani e che per ciò sono divenute socialmente pericolose. É quindi la necessità della difesa sociale a giustificare l'impugnato obbligo di non associarsi abitualmente a chi abbia subito condanne e sia sottoposto a misure di prevenzione o di sicurezza. Posto in risalto che il concetto di "associarsi abitualmente" esige l'estremo dell'abitualità, per cui ne restano esclusi il semplice "accompagnarsi" o il coltivare rapporti di innocua amicizia, si sostiene che la valutazione della natura dei rapporti coltivati dal sorvegliato implica una questione di fatto, da risolversi dal giudice ordinario in sede di eventuale giudizio per la trasgressione degli obblighi.

 

Dopo aver rilevata la influenza che i fatti di associazione dei pregiudicati hanno in relazione ai delitti contro il patrimonio, l'Avvocatura eccepisce che il riferimento all'art. 2 della Costituzione fatto dal Tribunale é "vago e indeterminato". A suo avviso con la espressione "diritti inviolabili dell'uomo" si vollero designare i diritti naturali di uguaglianza e di libertà civili e politiche e quei diritti sociali alla solidarietà di cui nella seconda parte dell'art. 2, ma né nella nostra, né in altre Costituzioni, può considerarsi prevista come difesa dei "diritti inviolabili dell'uomo" la tutela dei "rapporti sentimentali interiori" o della "innocua e spirituale amicizia", come dice la ordinanza. Anche qui si sarebbe dinanzi a valutazioni di fatto rimesse al giudice della eventuale denuncia di violazione di obblighi derivanti dalla misura di prevenzione. Se é vero che l'art. 2 intende tutelare il diritto di libertà, é vero anche che proprio in tale settore le esigenze della difesa sociale rendono legittime le limitazioni. Il divieto di associarsi non é d'altra parte, di maggiore gravità delle altre prescrizioni dell'art. 5, riconosciute legittime.

 

In ordine alla denunciata violazione dell'art. 17 della Costituzione, é significativo, secondo l'Avvocatura, che proprio questo articolo prevede limitazioni del diritto di riunione per comprovati motivi di sicurezza. Si contesta poi che vi sia contraddizione fra il divieto di partecipare a pubbliche riunioni e la possibilità che ha il sorvegliato di frequentare osterie, bettole, ecc., sia perché tale occasionale frequenza può corrispondere a necessità elementari, il che non può riscontrarsi nell'intervento a pubbliche riunioni, sia per il carattere saltuario di tali riunioni, da cui esula la nota dell'abitualità.

 

Per il carattere pubblico, infine, delle riunioni che si svolgono in luoghi privati, l'Avvocatura afferma che si tratta di un accertamento che dovrà fare il giudice del merito, caso per caso, mentre appare indubbiamente legittimo il divieto quando si tratti di partecipare a riunioni manifestamente pubbliche, divieto che, tra l'altro, importa una limitazione meno grave di altre previste dallo stesso art. 5.

 

Nel ritenere "eccessivo" il riferimento alle manifestazioni di culto fatto dal Tribunale, quasi che la presenza di fedeli alla messa o alla predicazione o a una processione possa considerarsi una pubblica riunione inibita al vigilato, l'Avvocatura conclude per la infondatezza della proposta questione di legittimità costituzionale.

 

Considerato in diritto

 

Le due prescrizioni dell'art. 5 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, che sono oggetto della impugnazione e in forza delle quali é fatto divieto al sorvegliato speciale di associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza e di partecipare a pubbliche riunioni, trovano il loro fondamento nelle finalità generali della intera legge. Non é dubbio che questa apporti limitazioni notevoli a taluni diritti riconosciuti dalla Costituzione; ma tali limitazioni sono informate al principio di prevenzione e di sicurezza sociale, per il quale l'ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti fra i cittadini deve essere garantito, oltre che dal sistema di norme repressive dei fatti illeciti, anche da un parallelo sistema di adeguate misure preventive contro il pericolo del loro verificarsi nell'avvenire. E questa una esigenza e regola fondamentale di ogni ordinamento, accolta e riconosciuta dalla nostra Costituzione. E in effetti l'art. 13, con lo statuire che restrizioni alla libertà personale possono essere disposte soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge, riconosce per ciò stesso la possibilità di tali restrizioni in via di principio: riconoscimento che giunge sino al punto di superare il limite normale della garanzia giudiziaria e di consentire che, quando alla necessità si unisca l'urgenza, provvedimenti provvisori di limitazione della libertà siano devoluti anche all'autorità di pubblica sicurezza. Eguale riconoscimento é sancito negli articoli 16 e 17 della Costituzione, l'uno statuendo che la legge possa apportare limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno quando ricorrano motivi di sanità o di sicurezza, l'altro consentendo il divieto delle pubbliche riunioni per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica. Infine l'art. 25, secondo comma, col riaffermare il principio, già espresso dall'art. 199 del Codice penale, per il quale nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi stabiliti dalla legge, accoglie per ciò stesso nell'ordinamento il sistema delle misure di sicurezza a carico degli individui socialmente pericolosi. É ben vero che le misure di sicurezza in senso stretto si applicano dopo che un fatto preveduto dalla legge come reato sia stato commesso (art. 202 Cod. pen.), e quindi per una pericolosità più concretamente manifestatasi; ma poiché le misure di sicurezza intervengono o successivamente all'espiazione della pena, e cioè quando il reo ha già per il reato commesso soddisfatto il suo debito verso la società, ovvero (a parte le ipotesi di cui agli artt. 49 e 115 Cod. pen.) in casi nei quali il fatto, pur essendo preveduto dalla legge come reato, non é punibile, bisogna dedurne che oggetto di tali misure rimane sempre quello comune a tutte le misure di prevenzione, cioè la pericolosità sociale del soggetto.

 

La Costituzione, nel riconoscere la necessità di limitazioni ai diritti di libertà, dispone come si é ricordato, che queste limitazioni possano essere stabilite soltanto dalla legge e per atto motivato dell'autorità giudiziaria. Il principio dell'intervento dell'autorità giudiziaria é stato riaffermato da questa Corte nella sentenza n. 11 del 1956. Per ciò che riguarda la riserva di legge é ovvio che con essa non si dà luogo a una potestà illimitata del legislatore ordinario, rimanendo esso sempre sottoposto al controllo di questa Corte per la eventualità che, nel disporre limitazioni ai diritti di libertà, incorra in una qualsiasi violazione delle norme della Costituzione. Ma la Corte é d'avviso che le limitazioni che sono specifico oggetto della presente controversia siano, nel quadro generale dei principi su accennati, immuni da censure. Le due impugnate prescrizioni dell'art. 5, nel perseguire il fine della sicurezza sociale, si informano a un rigoroso criterio di necessità, come risulta in primo luogo dalle ristrette e qualificate categorie di individui cui la sorveglianza speciale può essere applicata (art. 1 della legge); e poi anche dal fatto che per le medesime categorie la sorveglianza speciale può essere disposta solo dopo che siano risultate senza effetto le diffide del questore, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 1. Ma ciò che soprattutto la Corte ritiene di dover rilevare é che, ammesso in via generale dalla Costituzione il principio di una limitazione dei diritti di libertà per le esigenze della sicurezza sociale, le due impugnate prescrizioni disposte a carico del sorvegliato speciale dall'art. 5 sono tali, nel loro contenuto, da rientrare pienamente nella normale e logica applicazione del principio, visto che si ispirano alla direttiva fondamentale dell'attività di prevenzione, cioè tener lontano l'individuo sorvegliato dalle persone e dalle situazioni che rappresentano il maggiore pericolo.

 

Circa le ipotesi estreme prospettate nell'ordinanza di rinvio e nelle deduzioni difensive, se cioè nel divieto di associarsi non sia per avventura da comprendersi ogni forma di abituale accompagnarsi ad altra persona, per qualsiasi ragione di lavoro, di affetto, di cultura, di amicizia, ecc.; e se nel divieto di partecipare a pubbliche riunioni non rientrino perfino le funzioni di culto, i comizi elettorali, le riunioni sportive, e simili, occorre rilevare che codeste specificazioni importano in sostanza una determinazione dei concreti elementi di fatto che concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza speciale: indagine che esula dal compito della Corte. D'altra parte al giudice penale, cui la indagine spetta, non dovrà sfuggire né il carattere eccezionale delle limitazioni di libertà in questione, che non può non riflettersi sul significato da attribuire ai termini adoperati dalla legge, né la distinzione, che certo merita di essere considerata, fra i contatti sociali che la legge specificamente indica come pericolosi e quelli che costituiscono il normale e quotidiano svolgimento dei rapporti della vita, inibito di regola soltanto a chi é sottoposto a misure detentive.

 

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione, proposta con ordinanza del 1 marzo 1958 del Tribunale di Lucca, sulla legittimità costituzionale delle due norme dell'art. 5 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 indicate nell'ordinanza, in riferimento agli artt. 2 e 17 della Costituzione.

 

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 aprile 1959.

 

Gaetano AZZARITI - Giuseppe CAPPI - Tomaso PERASSI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco PANTALEO GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA.

 

Depositata in cancelleria il 5 maggio 1959.

 


Corte di cassazione

 


Sez. I penale, Sentenza del 20 giugno 1988, n. 1706

 

 

 

 

 


 

Sez. Unite penali, Sentenza del 3 luglio 1996, n. 18

 

 

Svolgimento del processo

 

Con decreto in data 21 luglio 1994 la Corte di appello di Napoli decideva sull'impugnazione proposta da Nuvoletta Lorenzo, Romano Luigi, Agizza Vincenzo, Agizza Antonio, nonché Simonelli Vincenzo, avverso il provvedimento adottato nei loro confronti dal locale Tribunale il 16 settembre 1992 ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia e successive modificazioni), decreto con il quale erano state applicate misure di prevenzione personali e patrimoniali.

 

La Corte di merito, tra l'altro, prendeva in esame anche l'incidente di esecuzione proposto dal curatore fallimentare della s.r.l. CO.NA.C. ed all'esito emetteva le seguenti statuizioni:

 

a) dichiarava non luogo a provvedere nei confronti di Nuvoletta Lorenzo in ordine ad entrambe le proposte di misure personali e patrimoniali per morte del proposto: con la conseguente caducazione delle stesse;

 

b) riduceva la durata della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza irrogata a Romano Luigi;

 

c) rigettava le proposte di misure personali e patrimoniali nei confronti di Agizza Vincenzo ed Agizza Antonio e, dichiarate assorbite le impugnazioni proposte dai terzi intestatari, revocava il sequestro dei beni in danno dei predetti, specificamente indicati e sottoposti a confisca;

 

d) rigettava la proposta di confisca in danno di Simonelli Vincenzo, confermando la sola misura personale, nonché la cauzione al medesimo imposta;

 

e) confermava, nel resto l'impugnato decreto.

 

La Corte di merito poneva a fondamento della propria decisione e metteva in particolare rilievo due eventi definiti di fondamentale importanza:

 

- il primo, costituito dalla morte del Nuvoletta, sopravvenuta in data 7 aprile 1994, mentre trovavasi agli "arresti domiciliari" nella propria abitazione e dopo che la misura della sorveglianza speciale era stata definitivamente confermata in altra precedente procedura con decreto 3 febbraio 1987 della stessa Corte di Appello (seppure mai eseguita per la latitanza e la successiva sottoposizione a custodia cautelare in carcere del prevenuto);

 

- il secondo, costituito dal passaggio in giudicato della sentenza che, da un lato, aveva affermato la responsabilità del Romano e del Simonelli in ordine al contestato delitto previsto dall'art. 416-bis c.p., e, dall'altro, aveva assolto Agizza Antonio ed Agizza Vincenzo dalla stessa e da altra imputazione.

 

 

Dava atto la Corte di avere disposto - con ogni riserva e su richiesta del P.G. - la chiamata in giudizio degli eredi di Nuvoletta Lorenzo.

 

Avverso detto decreto hanno proposto ricorso per Cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Napoli, Agizza Antonio, Romano Luigi, Simonelli Vincenzo e Chiodo Eugenio Mario quale liquidatore della "Hotel Castelsandra di Romano Leonida & C. s.a.s.", società della quale, per un verso, era stato confiscato il patrimonio sociale nel valutare la posizione del Romano - e ciò avuto riguardo all'oggettiva ed intrinseca illiceità della relativa attività - mentre, per altro, era stata disposta la restituzione di quasi tutto l'intero capitale, siccome costituito dalle quote di partecipazione alla Società di ritenuta spettanza degli Agizza.

 

Il Procuratore generale ha dedotto:

 

a) la nullità del decreto per violazione dell'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, sotto il profilo della obbligatorietà della confisca, nonostante la sopravvenuta impossibilità di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, dovendosi assimilare, a suo avviso, la predetta misura ablatoria a quella disciplinata dall'art. 240, comma 2, c.p. e, quindi, in senso tecnico, di natura diversa da una misura di prevenzione: termine riconducibile in senso proprio soltanto a quella di natura personale, avuto riguardo, in particolare, alla definitività del giudizio di pericolosità ed alla indimostrata provenienza dei beni oggetto del provvedimento;

 

b) la nullità del decreto per violazione degli artt. 1 e 2-ter della legge n. 575 del 1965, nonché il difetto e la contraddittorietà del provvedimento, avuto riguardo, da un lato, alla sottolineata autonomia del procedimento di prevenzione, rispetto al processo penale dal delitto di cui all' art. 416-bis c.p. - di "fatti storici" non esclusi dal giudice penale e come tali aventi quell'innegabile valore "indiziario" costituente il presupposto necessario, ma al tempo stesso sufficiente, per l'applicazione di entrambe le misure proposte.

 

Nell'interesse di Romano Luigi si è dedotta:

 

a) la violazione dell'art. 8 c.p.p., così reiterando la già dedotta eccezione di incompetenza territoriale del Tribunale di Napoli - ritenuta infondata dalla Corte di merito - sotto il profilo che riguardando gli addebiti "fatti e condotte legate alla gestione del complesso alberghiero dell'Hotel Castelsandra" sito nel comune di Castellabate, "e non potendosi il ricorrente ritenere collegato al gruppo di società facenti capo ai cognati Agizza", andava identificato nel Tribunale di Salerno il giudice naturale competente a decidere sulle proposte misure, posto che il Romano era residente in quel territorio ed ivi svolgeva tutte le sue attività;

 

b) la violazione dell'art. 649 c.p.p. avuto riguardo alla ritenuta insussistenza - da parte dei giudici di merito - della preclusione processuale nascente dal precedente provvedimento irrevocabile adottato dal Tribunale di Vallo della Lucania in data 19 dicembre 1991 (divenuto irrevocabile il 24 marzo 1992) con il quale il Romano era stato sottoposto alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno in Castellabate: decreto fondato, secondo il ricorrente, sugli stessi dati e condotte posti a base di quello per il quale risultava formulata la proposta di cui al presente procedimento.

 

c) l'irritualità della confisca in quanto non preceduta da valido provvedimento di sequestro da parte del giudice del procedimento di prevenzione, cui gli atti erano stati trasmessi da quello penale a seguito dell'abrogazione dell'art. 24 della legge n. 646 del 1982: con la conseguente caducazione dell'efficacia del decreto a suo tempo emesso dal G.I.

 

Sotto tale profilo, pertanto, non si sarebbe potuto considerare operante il provvedimento di proroga della validità del medesimo adottato dal Tribunale della prevenzione in data 16 ottobre 1991.

 

Nell'interesse di Agizza Antonio il ricorso è stato proposto limitatamente alla parte concernente la confermata confisca dei beni costituenti il patrimonio sociale della Castelsandra s.a.s. deducendosi in particolare il vizio di illogicità della motivazione, nonché quello di violazione, per errata applicazione dell'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965.

 

Si è messo in evidenza, al riguardo, che, da un lato, entrambi i fratelli Agizza erano stati ritenuti estranei a qualsivoglia coinvolgimento in attività di tipo camorristico - con il conseguente rigetto delle proposte di misure personali e patrimoniali e la revoca del sequestro dei beni a suo tempo disposto nei loro confronti - e, dall'altro, era stata confermata, invece, la confisca del patrimonio sociale della "Castelsandra s.a.s." del quale essi Agizza detenevano - e, secondo la Corte di merito , lecitamente - la maggior parte delle quote, seppur avuto riguardo a quelle ritenute di pertinenza del Romano e in quanto tali ricollegabili ai metodi di gestione camorristici della società.

 

Da ciò, ad avviso del ricorrente, nonostante che il provvedimento si riferisse allo specifica situazione del Romano, l'interesse all'impugnazione, tenuto conto che l'impresa in questione non fu creata, ma rilevata dal Romano insieme agli Agizza con il contributo, da parte di questi ultimi, per l'avviamento e la gestione superiore ai tre miliardi.

 

Nell'interesse di Simonelli Vincenzo l'impugnazione è stata proposta per censurare quei capi e punti del decreto concernenti la durata della misura di prevenzione personale e l'ammontare della cauzione, ritenute, l'una e l'altra, sproporzionate in relazione al presupposto giudizio di pericolosità sociale ed alle condizioni economiche del ricorrente.

 

Il liquidatore della "s.a.s. Hotel Castelsandra", infine, ha dedotto la manifesta illogicità della decisione, sottolineando che il decreto impugnato, di fatto, paralizzava ogni attività mirata alla soddisfazione dei crediti vantati nei confronti della predetta società, in quanto, da un lato disponeva la restituzione (ai fratelli Agizza) delle quote rappresentanti la quasi totalità del capitale (3.300.000 su 3.500.000) e, dall'altro, ribadiva invece la confisca dell'intero patrimonio sociale: da qui, ad avviso del ricorrente, l'interesse a proporre ricorso.

 

Il ricorso veniva trattato innanzi alla I sezione penale di questa Corte all'udienza camerale del 28 febbraio 1996: avuto riguardo peraltro all'estrema rilevanza della questione prospettata dal ricorrente P.G. circa la caducazione , o meno , della misura di prevenzione patrimoniale in caso di decesso del proposto, nella specie già assoggettato - seppur in un precedente analogo procedimento divenuto definitivo - alla misura di prevenzione personale, il Collegio rimetteva d'ufficio - ai sensi dell'art. 618 c.p.p. - la decisione alla Sezioni Unite.

 

Il Primo presidente Aggiunto fissava di conseguenza la trattazione del ricorso in camera di consiglio per l'udienza odierna.

 

 

Motivi della decisione

 

Ricorso del P.G.

 

1) Osserva preliminarmente il Collegio che la questione concernente la caducazione, o meno, della "misura di prevenzione patrimoniale" della confisca in caso di decesso del proposto - la cui rilevanza ha determinato la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite - ha formato oggetto di due particolari decisioni di questa Corte, aventi ad oggetto fattispecie parzialmente analoghe, per quanto meglio si preciserà oltre, ma di segno opposto.

 

Con la prima (Sez. I del 28 marzo 1995, Pres. De Lillo - est. Mocali - ric. Ranucci) si è affermato, peraltro con motivazione estremamente succinta, che il decesso del proposto, intervenuto prima che divenisse definitivo il provvedimento sulla confisca, comporta non solo il venir meno della misura di prevenzione personale, ma anche quello "conseguenziale" di natura patrimoniale.

 

Con la seconda (Sez. I del 17 luglio 1995, Pres. Franco - est. Silvestri - ric. D'Antoni) si è invece affermato che la confisca, disciplinata dall'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 (e successive modificazioni) è correlata "ad una precisa connotazione di obiettiva illiceità della res e ne determina, pertanto, la pericolosità in sé: con l'effetto di consentire l'ablazione anche quando la misura di prevenzione personale, cui accede, sia cessata in conseguenza della morte del proposto".

 

In particolare, si è posto in evidenza che la funzione della "misura di prevenzione reale" deve essere identificata nell'eliminazione dell'utile economico proveniente dall'attività criminosa: finalità che verrebbe frustrata se i familiari o gli eventuali prestanome della persona affiliata ad un'organizzazione criminale di tipo mafioso potessero riacquistare la disponibilità dei beni confiscati per effetto della morte del proposto, socialmente pericoloso, la cui attività illecita ha rappresentato la fonte dell'accumulo dei beni oggetto della misura.

 

Questi i precedenti più pertinenti, rispetto ai quali non pare possa avere incidenza l'unica pronuncia emessa sinora dalla Corte Costituzionale sulla specifica problematica - ordinanza n. 721 del 23 giugno 1988 - alla quale, anche, si è fatto riferimento dalla difesa nel corso della discussione orale - in quanto la Corte Costituzionale, investita della questione sotto il profilo di un'eccepita illegittimità dell'art. 2-ter, commi 3, 4 e 6 della legge n. 575 del 1965 (così come modificato dall'art. 14 della legge n. 646 del 1982) si è limitata a dichiararla manifestamente inammissibile, siccome diretta a sollecitare - in ipotesi di accoglimento - un intervento additivo di competenza esclusiva del legislatore.

 

2) Resta aperta, pertanto, ed appare preliminare ed al tempo stesso assorbente, ad avviso delle Sezioni Unite, la questione concernente l'interpretazione della normativa richiamata - operazione ermeneutica sicuramente di spettanza di questa Corte - avuto riguardo, in particolare, alla esatta individuazione della natura del provvedimento di confisca ed alla "ratio" sottesa al suo inserimento nell'ambito del preesistente procedimento di prevenzione.

 

Questo, infatti, appare il punto fondamentale, il nodo da sciogliere, tenuto conto, da un lato, della prescritta obbligatorietà della confisca - una volta verificata la sussistenza dei presupposti cui la stessa è ancorata secondo la specifica previsione contenuta nell'art. 2-ter, commi 2 e 3 della legge n. 575 del 1965) - e, dall'altro, la sua compatibilità con la prescrizione contenuta nel vigente testo dell'art. 3-ter della stessa legge, secondo il quale "i provvedimenti che dispongono la confisca dei beni sequestrati, la confisca della cauzione o l'esecuzione sui beni costituiti in garanzia, diventano esecutivi con la definitività delle relative pronunce".

 

Il tutto, avuto riguardo alla situazione verificatasi nel caso di specie, nel quale la Corte di merito ha ritenuto tra l'altro, la caducazione del provvedimento di confisca, per effetto del decesso di Nuvoletta Lorenzo sopravvenuto prima del "passaggio in giudicato" della decisione sulle proposte misure di prevenzione personali e reali.

 

Ritiene ora il Collegio che sia esatta l'interpretazione sostenuta dal Procuratore generale della Repubblica ricorrente, specificamente illustrata con il primo motivo di censura, sul quale, quindi, occorre soffermarsi.

 

3) Va innanzitutto sottolineato che l'originaria normativa - risalente alla legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (vigente ancora, per quanto qui interessa richiamare, avuto riguardo, in particolare, anche al regime delle impugnazioni, disciplinato appunto dall'art. 4) e alla legge 31 maggio 1965, n. 575 (e successive modificazioni) - seppur correlate tra di loro, avevano e continuano ad avere un ambito di applicazione diverso.

 

La prima, infatti, ha introdotto misure dirette a proporre ed applicare, in via generale, ben individuate misure al fine specifico di prevenire, attraverso una serie di limitazioni, le condotte di soggetti ritenuti pericolosi per la sicurezza e per la pubblica moralità.

 

Da qui l'innegabile qualificazione, da ritenersi propria, di misure di prevenzione.

 

La seconda, invece, ha preso le mosse dalla necessità, avvertita dal legislatore, di predisporre in modo specifico adeguati mezzi di contrasto nei confronti non di una indeterminata categoria di soggetti - ma di coloro che apparivano indicati quali "indiziati di appartenere ad associazioni mafiose" (art. 1 del testo originario) espressione, peraltro, significativamente modificata dall'art. 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646 che ha sostituito la predetta formulazione con quella, ancor più specifica, di soggetti "indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità ed agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso".

 

L'importanza delle innovazioni introdotte dalla legge n. 646 del 1982 - nei limiti in cui appare rilevante metterle qui in evidenza - è data, oltreché dalla specificità dei destinatari, indiziati di una "pericolosità qualificata", dalla introduzione, da un lato, nell'ambito delle "misure di prevenzione personali" vere e proprie, dell'obbligo di soggiorno, e, dall'altro, per la prima volta, dei provvedimenti di sequestro - anche preventivo - e della confisca (art. 2-ter della legge n. 646).

 

È dato di fatto incontrovertibile, ora, che la legge richiamata, sia nel titolo, che nel testo, fa riferimento a "disposizioni in materia di prevenzione di carattere patrimoniale" e, in via generale (capo II), a "disposizioni in materia di misure di prevenzione": ma è innegabile che, mentre in tema di sorveglianza speciale di P.S., di obbligo di soggiorno e di imposizione di una cauzione, ci si muove sicuramente nell'ambito giuridicamente riconducibile alle finalità vere e proprie di misure preventive - nel senso già in precedenza sottolineato - e che alla stessa categoria può essere senz'altro ricondotto il previsto provvedimento di sequestro, attesa la natura cautelare, propria dello stesso - non altrettanto può dirsi avuto riguardo alla confisca.

 

La devoluzione allo Stato dei beni confiscati, prevista dalla legge 4 agosto 1989, n. 282 (art. 4) e le finalità indiscutibilmente "ablative" dei corrispondenti provvedimenti, non consentono, invece, di qualificare gli stessi, in senso tecnico/giuridico, quali misure di prevenzione, aggiunte a quelle, specificamente previste, quali "personali": e ciò al di là delle formali espressioni adoperate dal legislatore.

 

Trattasi, invero, ad avviso del Collegio, di improprietà lessicali, rispetto all'effettivo contenuto normativo, non idonee come tali a modificare la natura del provvedimento di confisca - di carattere sicuramente "ablatorio" - in una "misura di prevenzione" in senso tecnico ed a "condizionare" pertanto l'interprete.

 

Il che, a "fortiori" va detto, se si ha presente la "ratio" posta a base delle specifiche disposizioni in materia, dirette, come si ritiene in modo pressoché concorde, ad eliminare dal circuito economico beni provenienti da attività che, a seguito degli accertamenti disposti, devono ritenersi ricollegate alla ritenuta appartenenza del soggetto ad un'associazione di tipo mafioso.

 

La confisca, invero, è prevista nell'ambito dello specifico procedimento di prevenzione: ne segue, in linea di massima, le regole; ha per presupposto la pericolosità del soggetto - destinatario di misure di prevenzione vere e proprie, ancorché non eseguite o non eseguibili; è diretta, peraltro, a differenza della misura di prevenzione personale (o di quella patrimoniale, avuto riguardo alla cauzione) a sottrarre "i beni", in via definitiva, alla disponibilità dell'indiziato di appartenenza ad associazione di tipo mafioso: ancorché tale risultato sia conseguibile solo all'esito definitivo della prevista procedura.

 

Su questi presupposti, pertanto, è esatto che non si può prescindere dalla valutazione obiettiva di una concreta pericolosità - ancorché su base indiziaria - ma è altrettanto vero che, accertato definitivamente che il soggetto che direttamente o indirettamente dispone dei "beni", ha un reddito o un'attività economica sproporzionati al reddito dichiarato e si ha giustificato motivo di ritenere quindi, anche a seguito delle indagini effettuate, che gli stessi siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, la confisca diventa obbligatoria.

 

A meno che (art. 2-ter, comma 4 della legge n. 575 del 1965), non sia dimostrata la loro legittima provenienza.

 

Escluso, di conseguenza, il carattere sanzionatorio di natura penale e, parimenti, quello di un provvedimento di "prevenzione", la confisca non può essere ricondotta che nell'ambito di quel "tertium genus" costituito da una sanzione amministrativa, equiparabile (quanto al contenuto ed agli effetti) alla misura di sicurezza prevista dall'art. 240 cpv. c.p.: applicata, per scelta non sindacabile del legislatore, nell'ambito dell'autonomo procedimento di prevenzione previsto e disciplinato dalla legge n. 575 del 1965 e successive modificazioni.

 

Solo alla luce di tale ricostruzione interpretativa, pertanto, possono essere inquadrate la funzione ablativa in favore dello Stato, espressamente prevista dalla normativa in esame, e la sua conseguenziale obbligatorietà.

 

È appena il caso di mettere in evidenza al riguardo, infatti, che la "ratio" sottesa ai provvedimenti in esame - adottabili nell'ambito del procedimento di prevenzione - siccome diretta a colpire beni e proventi di natura presuntivamente illeciti (sussistendo ovviamente i presupposti di legge) per "escluderli dal cosiddetto circuito economico", si ricollega, seppur con un ambito di estensione non identico, alle ipotesi previste dal citato art. 240 c.p., cpv. n. 1 e 2 che, come è noto, prescindono dalla condanna - da un'affermazione di responsabilità accertata in sede penale - con la conseguente applicabilità anche nel caso di proscioglimento: quale che sia la formula ( art. 205 c.p.).

 

D'altra parte, è appena il caso di ricordare che, anche avuto riguardo alle misure amministrative di sicurezza in senso stretto - previste e disciplinate dagli artt. 199 a 240 c.p. - dottrina e giurisprudenza hanno sempre concordato, con particolare riferimento alla confisca, che tale istituto non si presenta sempre con identica natura e configurazione, ma assume caratteristiche peculiari in relazione alle diverse finalità che la legge le attribuisce e che, di conseguenza, la misura tende a realizzare.

 

È pertanto applicabile, prescindendo anche dall'accertamento di una specifica responsabilità penale - ove i presupposti in fatto siano ricollegabili ad una violazione di detto tipo - col solo rispetto del principio di legalità ( art. 25, comma 3, Cost.) : imponendosi soltanto, in ogni caso, che il provvedimento sia espressamente previsto da una norma di legge.

 

E sotto tale profilo, di conseguenza, anche con riferimento alla citata disciplina penalistica, sono previste sia la presunzione di persona socialmente pericolosa ( art. 204, comma 2, c.p.), sia la possibilità e, se del caso, l'obbligatorietà delle misure di sicurezza in genere - personali e patrimoniali, confisca compresa - persino nel caso di proscioglimento.

 

5) Per quel che concerne ora la specifica materia, è appena il caso di mettere in evidenza che i principi sopra richiamati trovano un preciso riscontro nelle modificazioni introdotte dalla legge 19 marzo 1990, n. 55 che sanciscono l'autonomia dei due procedimenti - penale e di prevenzione (art. 9) e la possibilità di applicazione della confisca anche in caso di assenza, residenza o dimora all'estero del soggetto al quale "potrebbe applicarsi la misura di prevenzione", ancorché il relativo procedimento di prevenzione non sia stato iniziato: il tutto, sul presupposto "che si possa ritenere che i beni siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego" (art. 2 legge citata).

 

Pacifica, anche, l'applicabilità nei confronti dei latitanti.

 

Sempre sulla stessa linea, poi, si devono ritenere inserite le sentenze di questa Corte (Sez. 1 - 18 maggio 1992 - c.c. - n. 2186 ric. Vincenti ed altri e Sez. 5 - 5 ottobre 1993 - c.c. - n. 3057 ric. Oliveri).

 

Con la prima, si è messo in particolare rilievo che in considerazione della ritenuta appartenenza del soggetto ad un'associazione mafiosa e, quindi, delle presunta illiceità delle modalità di acquisizione o della riproducibilità di ricchezza inquinata all'origine, anche il benne (assoggettato a confisca) finisce per le dette condizioni con l'essere "uno strumento di sviluppo dell'organizzazione mafiosa, dei suoi membri e, quindi, pericoloso in sé".

 

Con la seconda, si è ritenuto che la revoca o la modifica della misura personale a seguito di elementi indicativi della cessazione della pericolosità - sopravvenuti alla sua definitiva applicazione - non eliminano la sussistenza "ab origine" degli elementi in base ai quali la misura venne adottata: con l'esclusione, pertanto, di una invalidazione "ex tunc" della stessa e, quindi, di una revoca della confisca dei beni.

 

6) Alla luce delle argomentazioni e dei riferimenti richiamati appare ora evidente che le incertezze prospettabili al momento dell'entrata in vigore della legge n. 575 del 1965, devono ritenersi superate dal successivo inserimento nel corpo della stessa di un nuovo impianto risultante dalle particolari modificazioni introdotte nel prosieguo e, significativamente, dalle leggi n. 646 del 1982 e n. 55 del 1990.

 

Il quadro normativo di riferimento, infatti, pur sempre collegato al soggetto - si è inequivocabilmente incentrato sull'inserimento dello stesso in un ambito di appartenenza ad un'associazione di tipo mafioso nei confronti della quale, appunto, agendo attraverso il soggetto che ha la disponibilità dei "beni", è diretta l'azione di contrasto voluta dal legislatore.

 

D'altra parte, l'assoluta autonomia dei due procedimenti - penale e di prevenzione - comporta la possibilità di applicazione dei provvedimenti, personali e/o patrimoniali, anche in contrasto con le conclusioni cui possa pervenire il giudizio penale: e ciò, sia per diversità dei presupposti, sia per la valenza diversa che la legge assegna agli elementi sulla cui base le singole procedure vengono definite.

 

In conclusione, quindi, anche il venire meno del "proposto" - una volta che siano rimasti accertati ai fini specifici della speciale legislazione in materia i presupposti di pericolosità qualificata (nel senso di indiziato di appartenenza ad un'associazione di tipo mafioso) e di indimostrata legittima provenienza dei beni oggetto di confisca - non fa venir meno quest'ultima misura, posto che le finalità perseguite dal legislatore, non prescindono, né potrebbero, dalla "preesistenza" del soggetto, e neppure possono ritenersi necessariamente legate alla sua "persistenza in vita": fra l'altro, si pensi che il decesso potrebbe avvenire anche per cause non naturali o accidentali e che detto evento potrebbe essere deliberatamente perseguito da terzi proprio al fine di "riciclare i beni", facendoli così rientrare proprio nel "circuito dell'associazione di tipo mafioso, seppur, anche questa volta, attraverso l'interposizione di soggetti diversi.

 

E non pare dubbio che una interpretazione della normativa in esame che consentisse, con la caducazione della confisca a seguito della morte del "proposto", il risultato ora prospettato, si porrebbe in aperto contrasto con la precisa volontà espressa dal legislatore nel perseguire e reprimere il "fenomeno mafioso".

 

7) Sulla base delle argomentazioni che precedono e passando all'esame del caso di specie, si deve convenire ora, come esattamente messo in evidenza dal P.G. ricorrente, che la Corte di appello di Napoli ha tratto dall'intervenuta morte del Nuvoletta conseguenze errate circa la caducazione del provvedimento di confisca già adottato nei confronti del predetto: così incorrendo nella denunciata violazione dell'art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575.

 

Al riguardo, infatti, il giudice di merito non ha tenuto conto che era già stato definito - nei confronti di Nuvoletta Lorenzo - altro giudizio di pericolosità, con la confisca anche qui di alcuni beni, rispetto al quale i provvedimenti emessi erano passati in cosa giudicata.

 

In tale precedente giudizio - definito prima dell'inizio del procedimento penale promosso nei confronti del Nuvoletta e di altri soggetti, tra i quali il Romano, gli Agizza e Simonelli per i delitti di cui agli artt. 416-bis c.p. ed altri e durante lo svolgimento del quale è deceduto il Nuvoletta - quest'ultimo venne ritenuto come appartenente all'omonimo "clan camorristico" ed anzi l'indiscusso capo.

 

Le proposte di "misure" (personali e cd. patrimoniali) promosse successivamente e di cui al presente ricorso, si inseriscono pertanto nel contesto di una "pericolosità qualificata" già definitivamente accertata e ne costituivano - come esattamente sottolineato dal P.G. ricorrente - in parte, un'integrazione, in parte un aggravamento.

 

Senza ignorare, sempre in tema di accertata pericolosità, il valore additivo promanante dalla condanna del Nuvoletta in primo grado in ordine al contestato delitto di cui all'art. 416-bis c.p.

 

Su questi presupposti, pertanto, avuto riguardo anche alla disposta integrazione del contraddittorio nei confronti degli attuali titolari dei beni oggetto della confisca, la Corte di merito avrebbe dovuto effettuare le previste verifiche richieste dalla legge, e, ove le deduzioni di tali parti, in collegamento o meno con eventuali specifici motivi di appello proposti nell'interesse del Nuvoletta, non avessero confermato la legittima provenienza dei beni, avrebbe dovuto provvedere in conformità.

 

Al che, a seguito dell'annullamento con rinvio della decisione impugnata sullo specifico punto, dovrà provvedere il nuovo giudice conformandosi ai principi ora enunciati: in particolare, a quello della non caducazione della "misura" per effetto dello intervenuto decesso del "proposto"; il tutto, prendendo in esame le aspettative e le pretese di coloro (come l'Amodio Maria Rosaria ved. Nuvoletta che ha fatto pervenire a questo Collegio una nota d'udienza in data 3 luglio 1996) rispetto ai quali già venne disposta - seppur con riserva - l'integrazione del contraddittorio.

 

8) Ugualmente fondato, ad avviso del Collegio, è il secondo motivo di censura formulato dal P.G. ricorrente avverso quella parte del decreto con la quale la Corte di appello di Napoli ha rigettato le "misure personali e patrimoniali" nei confronti di Agizza Vincenzo e di Agizza Antonio, revocando il sequestro dei beni in danno dei predetti, già sottoposti a confisca in primo grado.

 

Al riguardo la decisione impugnata risulta evidentemente viziata da contraddittorietà della motivazione e da errata applicazione dei principi - già richiamati - di cui agli artt. 1 e 2-ter della legge n. 575 del 1965, posto che proprio la sottolineata autonomia del procedimento di prevenzione, rispetto a quello penale, escludeva la ritenuta assorbente rilevanza della sentenza di assoluzione pronunciata nei confronti degli stessi in data 3 novembre 1993 e divenuta irrevocabile.

 

L'intervenuta assoluzione dei predetti dal delitto di cui all'art. 416-bis c.p. - contestato sotto il profilo della loro appartenenza al "clan Nuvoletta" - e da quello di cui agli artt. 56 e 629 c.p., concernente una tentata estorsione in danno dell'Istituto Universitario Navale e ricollegato - secondo l'accusa - ai rapporti di tipo camorristico con il congiunto Romano Luigi, non potevano comportare "automaticamente", come appare invece dal decreto impugnato, la disposta caducazione delle misure.

 

Basti porre mente, infatti, al rilievo secondo cui alla mancanza anche assoluta di prove o di gravi indizi di colpevolezza richiesti dalla legge per giungere ad un'affermazione di responsabilità in sede penale non corrisponde affatto un'analoga valenza in tema di "procedimento di prevenzione , nel quale gli indizi di affiliazione ad un "clan mafioso" - e la indimostrata liceità dell'appartenenza dei beni - possono essere desunti anche dagli stessi fatti storici in ordine ai quali è stata esclusa la configurabilità di illiceità penale ovvero da altri acquisiti o autonomamente desunti nel giudizio di prevenzione.

 

Ed al riguardo pare particolarmente rilevante il dato, sottolineato dal ricorrente - e sul quale non è dato rinvenire una specifica valutazione nel decreto impugnato - del carattere fortemente indiziario desumibile dall'assidua frequentazione (durata per anni e per tutto il tempo in cui la stessa Corte di merito ha riconosciuto che il Romano era dedito a delitti di ogni genere) con il predetto congiunto, con il quale entrambi i fratelli Agizza hanno operato in attività imprenditoriali che - come sempre la stessa Corte ha sottolineato, avuto riguardo alla posizione del Romano - ha svolto tutte le sue pluriennali attività con "metodi camorristici": tanto che i beni e le imprese di quest'ultimo sono stati confiscati.

 

Alla stregua di tali elementi, del tutto inadeguata e al tempo stesso contraddittoria deve considerarsi la decisione impugnata, avuto riguardo , da un lato - come messo in evidenza dal ricorrente - alla significativa compartecipazione degli Agizza nella "Bitum Beton", alla gestione del complesso alberghiero dell'Hotel Castelsandra ed ai fatti concernenti l'appalto delle pulizie dell'Istituto Universitario Navale (rispetto ai quali la sentenza penale ha solo escluso che gli Agizza, originari assegnatari, fossero gli autori del delitto di tentata estorsione) e, dall'altro, alla continuità dei rapporti di affari intrattenuti dai predetti con il cognato.

 

E ciò anche dopo che l'appartenenza di quest'ultimo ad un'organizzazione di tipo mafioso era stata affermata in giudizi penali ed in procedimenti di prevenzione.

 

È fuor di dubbio, ora, che il grado di parentela e/o di affinità non possono costituire, da soli, dati aventi una sicura valenza indiziaria in reati o in condotte riconducibili a fenomeni di criminalità organizzata: ma è anche vero che l'assiduità e la lunga durata di frequentazioni, a maggior ragione di tipo imprenditoriale/affaristico con soggetti ufficialmente raggiunti da gravi sospetti di appartenenza ad un'associazione di tipo mafioso, quale deve ritenersi sicuramente il Romano, non possono essere considerati elementi di scarso rilievo e, comunque, di nessuna obiettiva incidenza, nel procedimento di prevenzione, avuto riguardo in particolare all'esclusione degli "indiziati" da responsabilità di terzi nell'autonomo giudizio penale: quanto meno sulla base delle argomentazioni addotte.

 

Il decreto impugnato va pertanto annullato con rinvio anche su tale punto ed il nuovo giudice provvederà, in piena di libertà di valutazione, ma con l'obbligo di attenersi agli enunciati principi di esatta interpretazione degli artt. 1 e 2-ter della legge n. 575 del 1965 e di coerente ed adeguata motivazione, ad una nuova delibazione della posizione personale di Agizza Vincenzo ed Agizza Antonio.

 

9) Quanto agli altri ricorsi, osserva il Collegio che, parte, appaiono infondati, parte, invece, devono essere dichiarati inammissibili.

 

10) Ricorso di Romano Luigi

 

Nell'interesse del Romano la difesa ha riproposto in sede di legittimità le questioni di incompetenza territoriale e di violazione del principio "ne bis in idem" di cui all'art. 649 c.p.p. formulate in modo specifico davanti al giudice di merito e da questi ritenute infondate.

 

Ma, osserva il Collegio, le censure non appaiono fondate e corretta deve ritenersi su tali punti la decisione adottata con il decreto impugnato.

 

È esatto, infatti, che nel procedimento di prevenzione la competenza si radica - in stretta correlazione con il criterio dell'attualità della pericolosità sociale - nel luogo in cui, al momento della proposta, o, per essere più precisi, della decisione, la pericolosità si manifesti: e, nell'ipotesi in cui plurime siano le manifestazioni del tipo in esame e si verifichino, poi, in luoghi diversi, dove le condotte di "tipo qualificato" appaiano di maggior spessore e rilevanza.

 

Ma, nella specie, il giudice di merito, con una valutazione dei fatti non sindacabile nella presente sede, ha ritenuto di identificare tale ambito in quello del distretto di Napoli.

 

Quanto all'asserita violazione dell'art. 649 c.p.p. è appena il caso di rilevare che appaiono esatte le affermazioni della Corte di appello secondo cui, attesa la peculiarità del procedimento di prevenzione, la preclusione derivante dal giudicato opera sempre "rebus sic stantibus": non impedisce, pertanto, la rivalutazione della "pericolosità qualificata" ove sopravvengano nuovi elementi indiziari - non precedentemente noti - che comportino una valutazione di maggior gravità della pericolosità della stessa ed un giudizio di inadeguatezza delle misure in precedenza adottate.

 

In tali casi, pertanto, può darsi luogo ad un aggravamento delle misure e, occorrendo, all'eventuale irrogazione di altre di tipo diverso.

 

Precisamente su questi presupposti, il decreto impugnato ha messo in evidenza, da un lato, che in precedenza era stata adottata la sola misura della sorveglianza speciale di P.S., con obbligo di soggiorno nel Comune di Castellabate, e, dall'altro, che le proposte portate all'esame del Tribunale di Napoli si riferivano ad elementi e dati dei quali mancava qualsiasi riferimento nella decisione precedente adottata dal Tribunale di Vallo della Lucania: con la conseguente mancanza di identità delle due fattispecie.

 

Seppur non come specifico ed autonomo motivo di censura, la difesa del Romano ha reiterato poi con il presente ricorso una serie di argomentazioni riproponenti l'inefficacia dei sequestri già disposti dal G.I. penale ex art. 24 della legge n. 646 del 1982, sotto il profilo che, a seguito dell'intervenuta abrogazione di tale norma per effetto dell'art. 36 della legge 19 marzo 1990, n. 55 e della mancata emissione - da parte del giudice della prevenzione cui gli atti erano stati trasmessi - di provvedimenti cautelari sostitutivi, non avrebbe potuto essere disposta la confisca dei beni.

 

Al riguardo il Collegio ritiene sufficiente sottolineare - conformemente alla conclusioni adottate dal P.G. presso questa Corte ed all'ampia motivazione svolta sul punto dai giudici di merito - che ai sensi dell'art. 35 della richiamata legge n. 55 del 1990 il decreto di sequestro emesso dal giudice penale conserva la sua efficacia nel procedimento di prevenzione per il semplice trasferimento degli atti dal giudice penale al giudice della prevenzione.

 

La dizione letterale del secondo comma dell'art. 35 della legge n. 55, infatti, disponendo testualmente che "il procedimento relativo alla applicazione delle suddette misure prosegue innanzi al giudice competente per l'applicazione della misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, ferma restando l'efficacia dei provvedimenti già adottati dal giudice penale" , non consente un'interpretazione come quella sostenuta nell'interesse del Romano, dovendosi ritenere esclusa, appunto, e comunque, la necessità di provvedimenti cautelari sostitutivi da parte del giudice della prevenzione.

 

Ogni altra argomentazione resta assorbita dai rilievi che precedono.

 

Consegue, pertanto, il rigetto del ricorso.

 

11) Ricorso di Agizza Antonio

 

Per quel che concerne le censure mosse nell'interesse di Agizza Antonio, l'unico dei due fratelli che ha impugnato il decreto 21 luglio 1994, va sottolineato che le stesse si riferiscono a quella parte del provvedimento di merito con il quale è stata confermata la confisca dei beni costituenti il "patrimonio sociale" della Castelsandra s.a.s. e sotto il particolare profilo secondo cui la pronuncia "de qua" sarebbe affetta dal vizio di una radicale illogicità e, per tale via, da quello di erronea applicazione dell'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965.

 

In particolare. è stato osservato che la Corte di appello, da un lato, ha espressamente specificato che il dissequestro dei "beni, partecipazioni e consistenze sociali appartenenti" ai fratelli Agizza, era comprensivo anche dei beni ed attività delle società cui avevano partecipato Romano Luigi ed i suoi familiari (ferma, invece, restando la confermata confisca delle relative azioni o quote di capitale)" - e ciò in aderenza all'operata separazione tra attività economiche facenti capo anche agli Agizza e riconosciute lecite e la ritenuta pericolosità attribuita, invece, ad alcuni dei loro soci in determinati affari - dall'altro, avrebbe smentito clamorosamente il suddetto principio, nella parte in cui, occupandosi dell'Hotel Castelsandra, ha ritenuto di dover confermare la confisca di tutti i beni costituenti il patrimonio sociale dell'omonima s.a.s.

 

E ciò, avuto riguardo all'oggettiva ed intrinseca illiceità della relativa attività, emersa dalle modalità mafiose con le quali la struttura era stata ampliata e gestita, in prima persona, dal "predetto proposto", in un quadro nel quale il mantenimento della confisca sul patrimonio sociale in questione appariva legato esclusivamente ai metodi di gestione dell'impresa.

 

Ma, osserva brevemente il Collegio, i rilievi che precedono, da una parte, si ricollegano in modo pertinente ai motivi di ricorso - in precedenza esaminati e ritenuti fondati - formulati dal P.C. proprio nei confronti di quella parte del decreto che ha provveduto sulle posizioni di entrambi i fratelli Agizza e, dall'altra, come ammesso in modo esplicito dal ricorrente, investono direttamente il diverso capo del provvedimento concernente la persona di Romano Luigi.

 

Ne consegue la manifesta inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione.

 

12) Ricorsi di Simonelli Vincenzo e di Chiodo Mario Eugenio.

 

Avuto riguardo ai motivi di censura dedotti nell'interesse dei predetti, va rilevato che si deve dichiarare l'inammissibilità di entrambi i ricorsi.

 

Quanto al primo, perché le doglianze prospettate attengono in modo specifico ed inequivoco all'entità della misura di prevenzione inflitta ed all'ammontare della cauzione: integrano, pertanto, motivi di merito, non deducibili in sede di legittimità.

 

Quanto al secondo - che ha presentato il ricorso nella dichiarata qualità di liquidatore nominato dai custodi giudiziari della "Hotel Castelsandra di Romano Leonida & C. s.a.s." - la dichiarazione di inammissibilità consegue all'evidente carenza di un interesse tutelabile nella presente sede.

 

Ed infatti la censura investe il provvedimento impugnato sotto l'unico profilo - dedotto in modo esclusivo - di un'asserita illogicità dello stesso, avuto riguardo agli effetti del decreto in relazione alle pronunce emesse nei confronti dei fratelli Agizza e di Romano Luigi: gli effetti conseguenziali, ad avviso del ricorrente, "paralizzerebbero materialmente ogni attività mirata alla soddisfazione dei crediti vantati nei confronti della predetta Società".

 

Trattasi, all'evidenza, di un mere interesse di fatto, o, più esattamente, della semplice prospettazione del venire meno di una possibile aspettativa, che, in quanto tale, non può formare oggetto di esame da parte del giudice di legittimità.

 

Al rigetto del ricorso di Romano Luigi segue la condanna al pagamento delle spese processuali in solido con Agizza Antonio, Simonelli Vincenzo ed Eugenio Mario Chiodo nella qualità.

 

I predetti, ad eccezione di Romano Luigi, vanno condannati anche al versamento di una somma - ritenuta congrua nella misura di lire un milione ciascuno - in favore della Cassa delle ammende.

 

P.Q.M.

In accoglimento del ricorso del P.G., annulla il decreto impugnato limitatamente alle statuizioni di natura patrimoniale di cui alla lettera a) del dispositivo, nonché a quelle relative ad Agizza Antonio ed Agizza Vincenzo di cui alla lett. c) e rinvia per nuovo giudizio sui punti predetti alla Corte di appello di Napoli.

 

Rigetta il ricorso di Romano Luigi e dichiara inammissibili i ricorsi di Agizza Antonio, Simonelli Vincenzo e di Eugenio Mario Chiodo nella qualità, condannando i predetti, in solido, al pagamento delle spese processuali, e ciascuno - ad eccezione di Romano Luigi - a versare la somma di lire 1.000.000 in favore della Cassa delle ammende.

 

Così deciso in camera di consiglio il 3 luglio 1996.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 17 LUGLIO 1996.


 

Sez. V penale, Sentenza del 15 gennaio 2004, n. 5738

 

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

 

1 - La Corte d'Appello di Catania, riformando il decreto del Tribunale, ha revocato la confisca di immobile sito in Mascalucia, ed ordinato la sua restituzione al prevenuto D'Agata Marcello perche' acquistato in epoca precedente alla sua partecipazione ad associazione di stampo mafioso, e l'acquisto risulta ora compatibile con redditi di fonte lecita.

 

Avverso il provvedimento hanno proposto ricorsi il P.G. di Catania ed il Comune di Mascalucia, quale terzo interessato per violazione 1^ - artt. 568, 648, 656, 666 C.P.P. - 7 della L. n. 1423 del 1956 perche', mentre l'art. 3 della L. n. 1423 del 1956 che disciplina la misure di prevenzione personali, richiama l'art. 7 della L. n. 1423 del 1956 che prevede la revoca, viceversa il richiamo non e' operato dall'art. 3 ter della L. n. 575 del 1965 che si occupa delle misure patrimoniali e di confisca, e che pure richiama altri artt. della L. n. 1423 del 1956. La revoca delle misure patrimoniali pertanto non e' prevista dalla legge. Il giudice di legittimita' (Cass., sez. 2^, 22 aprile 1999 n. 1885), in proposito afferma che il giudice dell'esecuzione non ha nessun potere di riesaminare la vicenda che ha effetti irreversibili. Inoltre SS.UU. n. 2/98 ha stabilito che il giudice dell'esecuzione non puo' applicare la revoca ex art. 673 C.P.P. della confisca per abolitio criminis, per l'ormai avvenuta acquisizione legittima della res al patrimonio di altro soggetto estraneo al processo ed al quale, oltretutto, non si estendono i poteri del giudice dell'esecuzione penale; 2^ - art. 127 C.P.P., perche' al Comune di Mascalucia, divenuto proprietario dell'immobile, non e' stato notificato il ricorso originario, ed e' rimasto estraneo al procedimento.

 

2 - Il ricorso del Comune di Mascalucia e' inammissibile, non risultando aver titolo, se non per mera asserzione del proponente, e comunque non gia' parte nel procedimento.

 

Il 1^ motivo di ricorso del P.G. e' fondato ed assorbente.

 

SS.UU. n. 18/96 (P.G. in proc. Simonelli ed a) ha stabilito che, nel procedimento di prevenzione, la preclusione del giudicato opera sempre rebus sic stantibus e pertanto non impedisce la rivalutazione della pericolosita' qualificata, ove sopravvengono nuovi elementi indiziari - non precedentemente noti (la modifica della misura e' dunque possibile in peius).

 

SS.UU. n. 18/97 (Pisco) ha stabilito che l'istituto della revisione e' inapplicabile in sede di prevenzione, nella quale invece si applica l'istituto della revoca di cui all'art. 7 della L. n. 1423 del 1956, sia con efficacia "ex nunc", dovuta alla sopravvenuta cessazione di pericolosita' del prevenuto, sia con efficacia "ex tunc", resa nei casi di accertamento dell'insussistenza originaria della pericolosita', anche per motivi emersi dopo l'applicazione della misura.

 

Finalmente SS.UU. n. 2/98 (Maiolo) ha affermato l'irrevocabilita' della confisca in sede esecutiva a norma dell'art. 673 C.P.P., a seguito di abolitio criminis.

 

Tanto premesso poiche', in assenza di richiamo dell'art. 3 ter della L. n. 575 del 65, che invece rinvia all'art. 4, comma 8, comma 9, comma 10, comma 11, della L. n. 1423 del 1956 per il regime delle impugnazioni, non e' prevista la revoca ex art. 7 della L. n. 1423 del 1956 della confisca di cui alla successiva L. n. 575 del 1965, il problema e' se l'istituto di cui all'art. 7 della L. n. 1423 del 1956 sia applicabile, in via analogica, anche alla misura patrimoniale qualora si ritenga insussistente la sua causa ex tunc.

 

Il problema deve essere risolto negativamente. Sono revocabili solo le misure provvisorie di prevenzione, ovvero quelle di cui e' costante l'esecuzione al momento in cui viene proposta la revoca.

 

Il principio e' evidente gia' dall'adozione dell'endiadi revoca-modifica nell'art. 7, comma 2, della L. n. 1423 del 1956, nell'ipotesi in cui sia cessata o mutata la causa che ha determinato il provvedimento, non la misura.

 

Correlativamente l'art. 2 ter, comma 3, della L. n. 575 del 1965 detta: 'con l'applicazione della misura di prevenzione il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati dei quali non sia dimostrata la legittima provenienza'.

 

Il comma successivo prevede la revoca del sequestro, non anche della confisca, secondo lettera: 'il sequestro e' revocato dal tribunale quando e' respinta la proposta di applicazione della misura di prevenzione o quando risulta che esso ha per oggetto beni di legittima provenienza o dei quali l'indiziato poteva disporre direttamente o indirettamente'. E' evidente a questo punto la ragione per cui la revoca, altrimenti stabilita dalla L. n. 1423 del 1956, non si applica alla confisca: il sequestro e' per definizione provvisorio e puo' essere esso revocato quando, e proprio perche' non si deve trasformare in confisca.

 

Ne' si puo' ritenere una lacuna superabile per la coincidenza delle cause, che autorizzano alla richiesta di revoca della misura, con quelle di revisione della sentenza di condanna, che, si badi, implica l'intervento del giudice di cognizione, alla luce di S.U. Pisco (come propone il P.M. requirente in questa sede, anche alla luce della dottrina), rifacendosi al principio di applicazione analogica in bonam partem.

 

Difatti l'oggetto della revoca del giudice dell'esecuzione e' diverso dalla revisione.

 

S.U. Pisco, confinando la tematica post giudicato in materia di prevenzione alla revoca, non ne modifica la natura di istituto dell'esecuzione. Fermo che la revisione, intesa come procedimento di accertamento riservato alla sede penale, e' inapplicabile in materia, osserva che la revoca, prevista in materia di prevenzione per la provvisorieta' della misura (rilevata da S.U. Simonelli), consente in effetti di assimilarne la causa petendi'. L'analogia si ferma qui, posto che per il petitum, la differenza e' insuperabile.

 

Il principio di giudicato provvisorio, affermato dalla Simonelli, e' difatti irrilevante se l'esecuzione della misura, quale che sia, e' gia' avvenuta o cessata, poiche' in tal caso non e' possibile la modifica del provvedimento, men che la sua revoca.

 

Questa osservazione rende da ultimo pregnante la statuizione di S.U. Maiolo, che in sede omologa di esecuzione penale e' impossibile riconoscere un diritto patrimoniale che non esiste piu': la cosa confiscata ormai appartiene ad altri.

 

La Corte d'Appello avrebbe dunque dovuto dichiarare inammissibile, per questa ragione, il ricorso contro il provvedimento del Tribunale.

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibile il ricorso del Sindaco di Mascalucia, che condanna al pagamento delle spese del procedimento ed alla somma di Euro 500 alla cassa delle ammende, ed annulla senza rinvio l'impugnato decreto.

 

Cosi' deciso in Roma, il 15 gennaio 2004.

 

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2004

 


 

Sez. VI penale, Sentenza del 17 settembre 2004, n. 46449

 

Svolgimento del processo

Con il decreto in epigrafe, la Corte di appello di Napoli confermava il decreto in data 10 gennaio - 27 marzo 2001 del Tribunale di Napoli, appellato da CERCHIA Domenico e PUCA Maria, con il quale era stata respinta la richiesta di revoca della confisca adottata dal medesimo Tribunale in data 25 settembre 1996 relativamente al fabbricato sito in S. Antimo, località Pupatella, corso Michelangelo 241, formalmente intestato a Puca Maria ma ritenuto di effettiva proprietà di Cerchia Domenico.

 

Riteneva la Corte di appello che tutte le richieste istruttorie poste a corredo della richiesta di revoca attenevano ai medesimi fatti già a suo tempo sottoposti al vaglio del giudice che aveva disposto la confisca, sicchè difettava il carattere della novità degli elementi di prova.

 

Ricorrono per Cassazione il Cerchia e la Puca, a mezzo del difensore, avv. Giovanni Aricò, il quale, con un unico motivo, deduce il vizio di motivazione e la violazione dell'art. 7 comma secondo l. n. 1423 del 1956, in riferimento all'art. 630 c.p., osservando che le prove richieste avevano il carattere della novità, in quanto si era sollecitata l'assunzione delle dichiarazioni dei costruttori del fabbricato, dei locatari dell'immobile e dei datori di lavoro della Puca, tutte fonti di prova mai sentite e che ben potevano dimostrare la veridicità dell'assunto difensivo circa l'effettiva titolarità dell'immobile confiscato da parte della Puca.

 

Motivi della decisione

Il ricorso del Cerchia appare inammissibile in quanto impostato sulla esclusiva riconducibilità alla Puca dell'immobile confiscato, profilo evidentemente estraneo ai suoi interessi. Infatti, se fosse vero l'assunto, il Cerchia non avrebbe alcun motivo di lamentarsi di un provvedimento che incide su un immobile di proprietà di altri.

 

Il ricorso della Puca appare parimenti inammissibile, in quanto manifestamente infondato.

 

Va precisato che il rimedio della revoca considerato dall'art. 7 comma secondo della legge n. 1423 del 1957 bene può estendersi alle misure di prevenzione patrimoniali, quali la confisca, ove si tenda a dimostrare che non sussistevano ab origine le condizioni che legittimavano tale provvedimento. Ove si ritenesse diversamente (v. ad es. Cass., sez. 5^, u.p. 15 gennaio 2004, D'Agata; Cass., sez. 1^, c.c. 20 gennaio 2004, La Mastra) verrebbe meno una efficace tutela giurisdizionale avverso gli errori giudiziari; il tutto in palese contrasto con il diritto di eguaglianza, stante la rilevante incidenza sui diritti della persona delle misure di prevenzione in genere e la pacifica natura giurisdizionale del relativo procedimento.

 

Ma la revoca, quando tende appunto a dimostrare che non sussistevano in origine i presupposti della misura, svolge una funzione assimilabile a quella della revisione (v. Cass., sez. un., 10 dicembre 1997, Pisco), sicchè la rimozione del giudicato non può che concepirsi nell'ambito dei perimetri tracciati dall'art. 630 c.p.p., e, per quel che più specificamente riguarda il caso di specie, nel quadro della ipotesi di prove nuove sopravvenute dopo il provvedimento definitivo (lett. c del predetto articolo).

 

Come affermato da Cass., sez. un., 26 settembre 2001, Pisano, per prove nuove devono intendersi non solo le prove sopravvenute ma anche quelle non acquisite nel precedente giudizio ovvero acquisite ma non valutate, nemmeno implicitamente.

 

Ora, nel caso in esame, non solo i temi di prova erano stati già dedotti, ma erano stati anche già espressamente presi in considerazione dai primi giudici. I quali avevano puntualmente rilevato che le dichiarazioni rese (non importa se in forma scritta) dai costruttori dell'immobile erano da considerare del tutto inattendibili; che non poteva immaginarsi che esistessero locatari dell'immobile prima che la costruzione di questo fosse ultimata; che l'attività lavorativa svolta dalla Puca non poteva comunque giustificare l'impegno economico rappresentato dall'acquisto della casa.

 

Ne deriva che correttamente i giudici di merito hanno ritenuto che non sussistevano i presupposti per una revoca del provvedimento patrimoniale, avendo gli impugnanti meramente tentato di ottenere una rivalutazione di elementi di fatto già considerati nell'ambito del primo giudizio, conclusosi con provvedimento definitivo.

 

Alla inammissibilità dei ricorsi consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna dei ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali e di ciascuno di essi al versamento in favore della cassa delle ammende di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in euro 1.000 (mille).

 

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali e ciascuno della somma di euro 1.000 in favore della cassa delle ammende.

 

Così deciso in Roma, il 17 settembre 2004.

 

Depositato in Cancelleria il 30 novembre 2004

 


 

Sez. VI penale, Sentenza del 18 ottobre 2005, n. 44985

 

 


 

 

Sez. V penale, Sentenza del 27 giugno 2006, n. 33056

 

 

 

 


 

Sez. Unite penali, Sentenza del 19 dicembre 2006, n. 57

 

 

Svolgimento del processo

 

1. Con incidente di esecuzione - istanza di revoca del 17 febbraio 2005, A.C., A.F., Au.Ce., A.L., A.R., A.N. e S. T. chiedevano al Tribunale di Reggio Calabria la revoca parziale del provvedimento di confisca di immobili, confisca disposta, con decreto depositato l'8 marzo 1995, nel procedimento di prevenzione a carico di A.M., figlio della S. e fratello degli altri richiedenti.

 

Sostenevano, quanto a un magazzino, che la confisca era stata deliberata in assenza di previo sequestro e senza che ai richiedenti, proprietari del bene, fosse stata data la possibilità di intervenire nel procedimento e, quanto ad un alloggio di edilizia economica e popolare, che anch'esso era stato confiscato senza un previo sequestro e senza che sussistessero i presupposti della misura di prevenzione, dato che non era stato effettuato alcun raffronto fra i redditi leciti dei soggetti assegnatali - acquirenti ( S.T. e A.R., padre degli altri richiedenti) e il prezzo del riscatto.

 

2. Il Tribunale, con provvedimento del 6 maggio 2005, respingeva l'istanza di revoca sui rilievi che la mancata partecipazione dei terzi al procedimento di confisca non rileva come vizio del provvedimento; che, pur a prescindere dall'influenza del giudicato su eventuali vizi in procedendo, esisteva un provvedimento di sequestro dell'intero patrimonio aziendale dell' A.; che non risultava provata l'effettiva disponibilità dei beni da parte degli istanti, inerti per ben dieci anni dinanzi alla confisca; che la madre della persona pericolosa, S.T., aveva partecipato al procedimento conclusosi con la confisca; che in ogni modo non venivano prospettati elementi di novità tali da integrare l'ipotesi di cui alla L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 7. 3. Sull'appello dei richiedenti, la Corte d'Appello di Reggio Calabria, con decreto del marzo 2006, dichiarava inammissibile l'impugnazione.

 

Riteneva, infatti, conformemente a quanto affermato da Cass. sez. 5^, 15 gennaio 2004, n. 5738., P.G. in proc. D'Agata, che la revoca della misura patrimoniale di prevenzione costituita dalla confisca non è prevista dalla legge e che non sarebbe applicabile analogicamente la L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 7, riguardante le misure personali di prevenzione.

 

4. Contro questa pronunzia gli istanti propongono ricorso in Cassazione.

 

Nel richiamare l'orientamento interpretativo espresso da Cass. sez. 6^ 17 settembre 2004, n. 46449, Cerchia e altro, denunziano violazione di legge perchè è stata esclusa l'operatività della revoca ai sensi della L. n. 1423 del 1956, art. 7, nonostante si fosse rappresentata una situazione in cui erano inesistenti ab origine i presupposti della confisca (beni di lecita provenienza e di legittima proprietà dei richiedenti).

 

5. La prima sezione penale di questa Corte, assegnataria del ricorso, rilevato il contrasto giurisprudenziale sul punto dell'applicabilità della revoca prevista dalla L. 27 dicembre 1956, art. 7, n. 1423, alla misura di prevenzione della confisca, su conforme richiesta del Procuratore Generale, disponeva la remissione del procedimento alle Sezioni Unite.

 

Motivi della decisione

 

1. Come si è esposto in narrativa, le Sezioni Unite, per risolvere il contrasta tuttora perdurante nella giurisprudenza di legittimità (cfr. da ultime in senso positivo Cass. Sez. 6^, 18 ottobre 2005, n. 44985, Buda e altri, e in senso negativo Cass. sez. 1^, 27 giugno 2006, n. 33056, Mandaglio e altri), sono state chiamate a decidere se la misura della confisca di cui alla L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2 ter, comma 3, sia revocabile ai sensi della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 7, comma 2, al pari delle misure personali di prevenzione.

 

2. Questa revoca, a una prima lettura della disposizione, appare come atto di ritiro di una misura di prevenzione, su istanza dell'interessato, da parte della stessa autorità che ebbe ad emanarla. Essa suppone l'intervenuta definitività della misura, potendosi altrimenti ottenere la cessazione della sua efficacia attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione (Cass. sez. 1^, 21 gennaio 2000, Russo); è improntata a discrezionalità ("può"); è condizionata dall'esaurirsi o dal mutamento sopravvenuti della causa originaria ("quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato"); ha pertanto efficacia ex nunc. Ed è in base a questa possibilità senza termine di ritiro che si è osservato come, per le misure di prevenzione cui è applicabile, si debba parlare di un principio di giudicato provvisorio, dato che la preclusione che deriva da un simile giudicato opera sempre rebus sic stantibus e non impedisce una rivalutazione dei presupposti, sulla base di nuove evenienze.

 

3. Un maggior approfondimento interpretativo dell'art. 7 cit., è tuttavia intervenuto in relazione al dubbio della compatibilità delle misure di prevenzione con l'istituto della revisione contemplato negli art. 629 ss. c.p.p., ferma restando l'esigenza logico - sistematica di coprire anche simili provvedimenti con uno strumento in grado di riparare ad errori giudiziari.

 

In questa linea, a cominciare da Cass. sez. 1^ 6 marzo 1992, n. 1071, Santapaola, si è valorizzato il valore polisemantico dell'espressione "sia cessata la causa che lo ha determinato" e si è affermato che tale cessazione è riferibile tanto a un fatto sopravvenuto, quanto a una nuova e più attenta valutazione retrospettiva della situazione iniziale.

 

Con il risultato di ritenere che l'art. 7, comma 2 preveda anche la possibilità di una revoca ex tunc, priva, questa, di ogni connotazione discrezionale e determinata dal riconoscimento, oggi per allora, dell'inesistenza originaria dei presupposti della misura di prevenzione.

 

Una tale lettura, consacrata dalla decisione delle Sezioni Unite 10 dicembre 1997, Pisco, fa sì che la disposizione in esame svolga, per i partecipanti al procedimento di prevenzione, altrimenti privi di diverso rimedio (e in particolare dell'incidente di esecuzione cfr.

 

Cass. sez. 6^ 5 novembre 2002, n. 37025, Diana e altro), anche una funzione vicariante quella riservata, per le sentenze e per i decreti penali di condanna, alla revisione.

 

La quale ultima, nelle forme di cui agli artt. 629 e ss. c.p.p., è stata invece ritenuta inapplicabile ai provvedimenti di prevenzione, sempre dalla pronunzia delle Sezioni Unite appena citata.

 

4. Va poi ancora ricordato, quanto alla confisca disposta ai sensi della L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2 ter, che questa, conformemente all'insegnamento di S.U. 3 luglio 1996, P.G. in proc. Simonelli, non è di per provvedimento di prevenzione in senso stretto, ma piuttosto sanzione amministrativa di carattere ablatorio, equiparabile alla misura di sicurezza prescritta dall'art. 240 cod. pen., comma 2.

 

Simile sanzione accede comunque a una misura personale di prevenzione ed è applicabile nel relativo procedimento di cui "segue, in linea di massima, le regole" (giurisprudenza uniforme, cfr., da ultima, Cass. sez. 2^, 31 gennaio 2005, n. 19914, P.G. in proc. Bruno e altri).

 

5. Ora gli argomenti addotti dai fautori della soluzione dell'irrevocabilità della confisca, compiutamente espressi da Cass. sez. 5^, 15 gennaio 2004, n. 5738, P.G. in proc. D'Agata e da ultimo rivisitati dalla già citata Cass. sez. 1^, 27 giugno 2006, n. 33056, Mandaglio e altri, sono in primo luogo di carattere letterale.

 

Secondo canoni ermeneutici di questo tipo si evidenzia in primo luogo che la L. n. 575 del 1965, art. 2 ter, comma 4, prevede la revoca del sequestro, ma non anche della confisca ("il sequestro è revocato dal Tribunale quando è respinta la proposta di applicazione della misura di prevenzione o quando risulta che essa ha per oggetto beni di legittima provenienza o dei quali l'indiziato poteva disporre direttamente o indirettamente"). Inoltre l'art. 3 ter, anch'esso attinente alle misure di prevenzione reali, nel fare rinvio per il regime delle impugnazioni (in tema, tra l'altro, di confisca e comprensivo, si assume di ogni tipo di gravame) ad altre disposizioni della L. n. 1423 del 1956 (art. 4, commi 8, 9, 10, 11), non richiama l'art. 7 della suddetta legge, che disciplina specificamente l'istituto della revoca.

 

Si aggiunge, sotto un profilo strutturale, che l'intangibilità della misura troverebbe la sua ragione di essere nel fatto che, al momento del passaggio in giudicato della sentenza che la dispone, alla confisca consegue un istantaneo trasferimento a titolo originario in favore del patrimonio dello Stato del bene che ne costituisce l'oggetto, con conseguente esaurimento ed irreversibilità della situazione giuridica considerata. Sul piano logico-sistematico viene, infine, sottolineata la differenza dei beni giuridici, la cui tutela è sottesa rispettivamente alle misure di prevenzione personali e reali e la conseguente diversità di ratio ispiratrice, la cui identità giustificherebbe invece il ricorso all'analogia.

 

6. Tali ragioni non paiono tuttavia risolutive.

 

Muovendo da quelle di ordine letterale va intanto premesso il rilievo della scarsa affidabilità, quanto meno sotto il profilo della coerenza terminologica, delle formulazioni impiegate in tema di misure di prevenzione, trattandosi di produzione normativa confusa, cresciuta, come ben noto, per accumulazioni successive e sulla spinta di esigenze contingenti.

 

Ed anzi è proprio questa disordinata successione di interventi che conduce a non caricare di significato (come invece ha fatto Cass. sez. 6^, 3 ottobre 2005, n. 465, Sollima e altri) la circostanza che il legislatore, a seguito dell'introduzione delle misure reali, non abbia contestualmente modificato il tenore dell'art. 7, comma 2, in esame, testualmente riferibile soltanto alle misure personali di cui all'art. 3.

 

D'altronde, questa omissione, ove si valorizzi l'origine storica della disposizione (dettata quando ancora non esistevano misure reali di prevenzione), può sì leggersi come esclusione della applicabilità della revoca alla confisca. Ma, valorizzando invece il rilievo della norma nell'ambito di un'interpretazione sistematica, può anche leggersi nel senso della superfluità di una espressa menzione della confisca, dato che, come pure si è visto, la L. n. 575 del 1965, art. 2 ter, comma 3, concepisce questo provvedimento reale come accessorio a quello personale di prevenzione, provvedimento accessorio il cui regime giuridico (comprensivo della revocabilità) è dunque regolato allo stesso modo di quello dettato per il principale.

 

7. A quanto detto va poi aggiunto che nessuna conclusione in ordine alla revocabilità della confisca può trarsi dall'osservazione che alla L. n. 575 del 1965, art. 2 ter, comma 4, si menzioni una revoca soltanto per il sequestro.

 

Con l'indicare per il sequestro questa forma di ritiro, nonostante l'identità lessicale, ci si riferisce in realtà a un rimedio giuridico eterogeneo rispetto a quello introdotto nella L. n. 1423 del 1956, art. 7.

 

La revoca della L. n. 575, conseguenza automatica del diniego di una misura personale o del riconoscimento dell'assenza dei presupposti per l'applicazione della confisca, agisce infatti, con pieni risultati ripristinatori, su un provvedimento tuttora in esecuzione e comunque destinato ad esaurirsi con il compimento del procedimento di prevenzione. La revoca della cui operatività si discute riguarda invece (e con diverse e graduate conseguenze) provvedimenti già definitivi, altrimenti destinati a perdurare dopo la conclusione di tale procedimento.

 

Per dirla con diverse parole, la previsione dell'art. 2 ter, relativa al sequestro, in nessun modo esaurisce le possibilità di ritiro di altri provvedimenti reali e quindi non toglie la possibilità che il legislatore predisponga, sia pure utilizzando un termine eguale, ma che, per ampio spettro semantico, è appropriato a disegnare fenomeni relativamente eterogenei, uno strumento ulteriore e di diversa natura per la cessazione dell'efficacia di misure patrimoniali definitive.

 

Strumento la cui qualità consiglia una collocazione sistematica separata da quella in cui si prevede la revoca dell'ordine di sequestro.

 

8. Ancor meno appropriato è poi basarsi sul regime delle impugnazioni delle misure di prevenzione, sia o non sia totalmente esaustivo di ogni possibilità di gravame, per considerare significativo il fatto che, nella parte in cui questo regime ha riguardo alla confisca, non v' è menzione della revoca prevista dall'art. 7, comma 2.

 

In primo luogo questa revoca, come più volte si è avuto già modo di osservare, è provvedimento di ritiro e non atto conclusivo o procedimento di gravame, sicchè, già per tale ragione, sarebbe stato fuori luogo richiamarla nella parte relativa alle impugnazioni delle misure di prevenzione. Conclusione che deve mantenersi ferma pure con riguardo a quella che si può definire la revoca - revisione, riconosciuta da S.U. 10 dicembre 1997, Pisco, posto che la revisione è nella tradizione processuale strumento straordinario di impugnazione, meritevole quindi di autonoma sede normativa.

 

9. Un limitato fondamento ha per contro l'obbiezione alla revocabilità tratta dagli esiti irreversibili della confisca, descritti, per la misura di sicurezza omonima, da S.U. 28 gennaio 1998, Maiolo.

 

Secondo questa pronunzia, la confisca è collocata dalla legge nel novero degli effetti istantaneamente prodotti dalla decisione definitiva che l'ha disposta, effetti cioè non attinenti al rapporto esecutivo, ma conseguenti alla statuizione giudiziale nel momento stesso del passaggio in giudicato della medesima.

 

Dato dunque simile carattere istantaneo e non permanente (uno actu perficitur), la confisca si connota come irrevocabile, cosa sottolineata da autorevole dottrina anche sulla base della considerazione che la misura in questione rappresenta, in sostanza, una sorta di espropriazione per pubblico interesse, identificato, quest'ultimo, nella generale finalità di prevenzione penale.

 

Infatti, al provvedimento che la ordina consegue un trasferimento a titolo originario del bene sequestrato nel patrimonio dello Stato.

 

Con il che si pone un suggello finale a una situazione che deve ritenersi ormai "esaurita".

10. Se simili considerazioni appaiono in fuori discussione, sembra tuttavia che per una sorta di equivoco esse siano state trasposte senza distinzioni di sorta nella problematica riguardante la revoca della confisca accessoria a una misura personale di prevenzione, prevista dalla L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 7, comma 2. Più in particolare è vero che l'irreversibile risultato ablatorio, conseguente alla definitività del provvedimento, rende anche la confisca in esame insensibile a successivi mutamenti della situazione che abbiano recato modificazioni alla pericolosità del soggetto inciso o che abbiano addirittura fatto cessare la sua pericolosità.

 

Risultato questo già derivante dal carattere istantaneo e non permanente di ogni disposizione di confisca in quanto tale, ma nella specie rafforzato dalla natura di sanzione patrimoniale, riconosciuta alla nostra confisca, risposta a una acquisizione illecita di beni, situazione per sua natura insuscettiva di evoluzione (giurisprudenza costante, cfr. ex plurimis Cass. sez. 2^, 28 marzo 1996, n. 1438. Olivieri).

 

Non è però egualmente vero che l'irreversibilità dell'ablazione impedisca di accertare, oggi per allora, e nello spazio non precluso dalla definitività del provvedimento, l'originaria insussistenza dei presupposti che hanno condotto alla sua emanazione.

 

Infatti la dimostrazione dell'insussistenza non è tanto diretta a far cessare gli effetti di una confisca legittimamente imposta, quanto a farne palese un vizio d'origine. Talchè, una volta riconosciuta l'invalidità del titolo, la ritenuta irreversibilità dell'ablazione non esclude la possibilità di una restituzione, per determinazione discrezionale della Pubblica Amministrazione, e, quanto meno, provoca l'insorgenza di un obbligo riparatorio della perdita patrimoniale, priva di giustificazione sin dal momento in cui si è verificata.

 

Di qui dunque la possibilità di una revoca in funzione di revisione, per la persistenza di un concreto interesse e in conformità alla ratio di questo istituto che, al di là di ogni effetto di pratico ripristino, comprende il superamento del degrado sociale, con l'affermazione dell'ingiustizia del provvedimento sanzionatorio.

 

11. Per rispondere poi all'ultimo argomento contrario alla revocabilità, formulato in considerazione della distinzione tra gli interessi sottesi alle diverse misure di prevenzione, personali o reali, va infine sottolineato che, attraverso la revoca in funzione di revisione, si tratta, come si è appena osservato, di porre rimedio ad un errore giudiziario.

 

E in vista di questo fine è allora inconferente parlare di eterogeneità degli interessi tutelati, dato che anche la lesione del diritto di proprietà appare quale violazione di bene costituzionalmente protetto, al pari dell'ingiustificata limitazione di libertà. Con la conseguenza che nulla impedisce di ritenere accomunati il regime di revoca delle misure di prevenzione personali a quello reale della confisca, nell'identità dell'interesse a predisporre un mezzo per la riparazione dell'ingiustizia.

 

Osservazione che mostra ancora come sia priva di fondamento l'opinione di chi ammette una perdita di efficacia ex tunc della confisca solo quale conseguenza secondaria e automatica della revoca della misura personale di prevenzione, per riconosciuta originaria inesistenza della pericolosità del soggetto proposto, ma non su specifica richiesta diretta a questo unico fine e in base alla postulata insussistenza degli altri presupposti della misura (Cass. sez. 6^, 4 giugno 1997, n. 2244, Scuderi).

 

12. In conclusione, può dunque affermarsi che vi è un'incompatibilità strutturale tra la revoca ex nunc e la misura della confisca, essendo questa revoca ex nunc ipotizzabile soltanto per le misure di prevenzione di cui è costante l'esecuzione al momento in cui viene avanzata la relativa istanza.

 

Tale incompatibilità è invece inesistente, quando venga avanzata una richiesta di revoca con effetti ex tunc, in contemplazione di una invalidità genetica del provvedimento.

 

In questi limiti deve dunque ritenersi applicabile l'art. 7, comma 2, alla misura prevista dalla L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2 ter, comma 3, identificandosi nella revoca in esame un mezzo predisposto dal legislatore per adempiere all'obbligo riparatorio prefigurato dall'art. 24 Cost., u.c..

 

13. Ci si deve però soffermare ancora su questa revoca, per tornare ad osservare che essa si riferisce ad un provvedimento definitivo.

 

Carattere, questo, che preclude di rimettere in discussione con l'istanza atti o elementi già considerati nel procedimento di prevenzione o in esso deducibili.

 

Come correttamente rileva Cass. sez. 6^, 17 settembre 2004, n. 46449, Cerchia e altro, la richiesta di rimozione del provvedimento definitivo deve muoversi nello stesso ambito della rivedibilità del giudicato di cui agli artt. 630 e ss. c.p.p., con postulazione dunque di prove nuove sopravvenute alla conclusione del procedimento (e sono tali anche quelle non valutate nemmeno implicitamente: S.U., 26 settembre 2001, Pisano), ovvero di inconciliabilità di provvedimenti giudiziari, ovvero di procedimento di prevenzione fondato su atti falsi o su un altro reato.

 

Gli elementi dedotti saranno diretti a dimostrare l'insussistenza di uno o più dei presupposti del provvedimento reale e pertanto in primo luogo la pericolosità del proposto, ma anche, unitamente o separatamente, la disponibilità diretta o indiretta del bene in capo al proposto medesimo, il valore sproporzionato della cosa al reddito dichiarato o all'attività economica svolta, il frutto di attività illecite o il reimpiego di profitti illeciti.

 

14. In ordine ai limiti soggettivi di esperibilità della revoca, sono legittimati a proporla quanti abbiano partecipato al procedimento di prevenzione o siano stati messi in grado di parteciparvi.

 

In tal modo simile richiesta non è in tesi proponibile da chi, pur dovendo intervenire perchè formalmente titolare dei beni sequestrati, non sia stato chiamato a partecipare al procedimento e comunque non vi abbia partecipato, secondo quanto invece prescritto dalla L. n. 575 del 1965, art. 2 ter, comma 5.

 

In questo caso, l'esistenza delle condizioni per la dichiarazione dell'inefficacia del provvedimento (esecutivo anche nei confronti del terzo non intervenuto) può e deve farsi valere, secondo pacifica giurisprudenza, mediante il ricorso ad incidente di esecuzione (cfr., da ultima, Cass. sez. 6^, 29 settembre 2005, n. 41195, Cristaldi e altri). Incidente nel quale il terzo formalmente titolare, senza preclusioni derivanti dal procedimento di prevenzione cui non ha partecipato, potrà svolgere le sue deduzioni e chiedere l'acquisizione di ogni elemento utile.

 

Rispetto ai terzi di cui non risultava l'appartenenza dei beni, durante il procedimento di prevenzione, il provvedimento di confisca è irrevocabile e prevale su eventuali acquisti in buona fede o sulla titolarità di diritti reali di garanzia, per i quali e se del caso residua una tutela risarcitoria in sede civile (Cass. sez. 6^, 4 giugno 2003, n. 38294, Carotenuto).

 

15. Applicando ora i principi fin qui esposti al caso di specie, si deve immediatamente rilevare come a torto la Corte d'Appello abbia negato l'ammissibilità della richiesta di revoca della confisca avanzata da S.T., la quale, ai sensi della L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2 ter, comma 5, era stata parte del procedimento di prevenzione.

 

La S. infatti intendeva valersi della revoca-revisione di cui alla L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 7, comma 2, deducendo l'emergere di prove che assumeva mai esaminate e dimostrative dell'inesistenza del presupposto del valore sproporzionato fra i redditi leciti dei soggetti assegnatali - acquirenti ( S.T. e A.R., padre degli altri richiedenti) e il prezzo del riscatto di un alloggio di edilizia economica-popolare, oggetto della misura ablatoria.

 

16. Nei confronti poi degli altri ricorrenti, non ci si è avveduti che essi, assumendo di non aver mai partecipato al procedimento conclusosi con la confisca, non proponevano un'istanza di revoca di questa, ma un incidente di esecuzione avverso il provvedimento ablatorio, come del resto era anche fatto palese dall'intitolazione della richiesta avanzata al Tribunale, il 17 febbraio 2005.

 

Di qui la distonia della decisione adottata dalla Corte d'Appello di dichiarare inammissibile una domanda di revoca, in realtà mai proposta, e il precedente errore da parte del Tribunale di ritenere preclusi alcuni temi di prova sulla disponibilità di un bene, perchè privi del carattere di novità rispetto agli elementi considerati e alle valutazioni fatte nel procedimento di prevenzione.

 

17. Ne deriva l'annullamento del decreto della Corte d'Appello di Reggio Calabria nei confronti di tutti i ricorrenti, con rinvio alla Corte medesima perchè proceda a una nuova deliberazione sulla revoca proposta da S.T., e anche l'annullamento del provvedimento emanato dal Tribunale nel confronti degli A. per una nuova deliberazione del Tribunale medesimo sull'incidente di esecuzione proposto da costoro.

 

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE annulla il decreto impugnato e rinvia alla Corte d'Appello di Reggio Calabria per una nuova deliberazione nei confronti di S. T.; annulla inoltre il provvedimento del Tribunale di Reggio Calabria in data 6 maggio 2005 nei confronti degli altri ricorrenti con rinvio allo stesso Tribunale per nuova deliberazione.

 

Così deciso in Roma, il 19 dicembre 2006.

 

Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2007

 

 

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cost. art. 24

c.p. art. 240

L. 27/12/1956 n. 1423, art. 7

L. 31/05/1965 n. 575, art. 2

L. 31/05/1965 n. 575, art. 2-ter

 


 

 



[1]    La legge reca: Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità.

[2]    La legge reca: Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazione alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia.

[3]    La legge reca:  Norme in materia di misure di prevenzione personali.

[4]    La legge reca: Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale.

[5]    La legge reca: Disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati. Modifiche alla legge 31 maggio 1965, n. 575, e all'art. 3 della legge 23 luglio 1991, n. 223. Abrogazione dell'art. 4 del decreto-legge 14 giugno 1989, n. 230, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1989, n. 282.

[6]    Per completezza, si ricorda che un’ulteriore misura di prevenzione personale è prevista dall’articolo 6 della legge n. 401 del 1989 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive). Tale disposizione prevede (comma 1) che per le persone denunciate o condannate anche con sentenza non definitiva nel corso degli ultimi cinque anni per episodi di violenza in occasione di manifestazioni sportive o per aver incitato alla violenza il questore possa disporre il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive specificamente indicate. Alle persone alle quali è notificato il divieto, il questore può inoltre prescrivere di comparire personalmente una o più volte negli orari indicati, nell'ufficio o comando di polizia competente. Questa misura non è disposta dall’autorità giudiziaria, bensì dalla polizia, con la conseguenza che l’intervento del giudice si ha nelle forme della convalida.

[7]   Per la disciplina dell’ordinario sequestro preventivo, applicabile non già nel corso di un procedimento di prevenzione, ma nel corso del procedimento penale, si vedano gli articoli 321 e seguenti del codice di procedura penale.

[8]   La legge n. 256/1993, novellando l’art. 2-ter,  secondo comma della legge n. 575, ha ampliato l’operatività del sequestro di prevenzione, rendendo applicabile la misura anche in presenza di uno solo dei due presupposti principali (sperequazione tra tenore di vita e redditi dichiarati; sufficienti indizi sulla provenienza illecita dei beni).

[9]   La confisca penale ordinaria, applicabile, pertanto, non già nel corso del procedimento di prevenzione ma di quello penale, è prevista all'art. 240 c.p. come misura di sicurezza patrimoniale e può essere sia facoltativa che obbligatoria. La confisca facoltativa è disciplinata al primo comma del citato art. 240: nel caso di condanna, il giudice può disporre la confisca delle cose che sono servite o sono state destinate a compiere il reato e delle cose che costituiscono il prodotto o il profitto dell’attività delittuosa; il secondo comma prevede, invece, la confisca obbligatoria delle cose che costituiscono il prezzo del reato e, anche se non viene pronunciata condanna, delle cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione, alienazione costituisce reato.

A tutela dei terzi possessori, il terzo comma esclude l’applicabilità della confisca facoltativa e di quella obbligatoria del prezzo del reato, nel caso in cui la cosa appartenga a persona estranea al reato stesso. La tutela del terzo è invece disciplinata diversamente se si tratti di cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione, alienazione costituisca reato; in tal caso, la confisca  è obbligatoria anche se la cosa appartiene ad un terzo. È invece esclusa la possibilità di disporre la confisca delle cose quando le attività descritte dalla norma possano essere autorizzate in via amministrativa.

Ipotesi di confisca penale obbligatoria è, tra le altre, quella prevista all’art. 416-bis, comma 7, c.p.., oltre che nei casi indicati, anche per le cose che costituiscono il reimpiego del profitto illecito. Tra le ulteriori ipotesi di confisca obbligatoria si segnalano quelle previste agli articoli 100 e 101 del TU sugli stupefacenti (DPR n. 309/1990) nonché agli artt. 301 e ss. del TU doganale o sul contrabbando (DPR n. 43/1973).

[10]   Si tratta dei seguenti delitti previsti dal codice penale: art. 314 c.p. (Peculato); art. 316 c.p. (Peculato mediante profitto dell'errore altrui); art. 316-bis c.p. (Malversazione a danno dello Stato); art. 316-ter c.p. (Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato); art. 317 c.p. (Concussione); art. 318 c.p. (Corruzione per un atto d'ufficio); art. 319 c.p. (Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio); art. 319-ter c.p. (Corruzione in atti giudiziari); art. 320 c.p. (Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio); art. 322 c.p. (Istigazione alla corruzione); art. 322-bis c.p. (Peculato, concussione, corruzione e istigazione alla corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri); art. 325 c.p. (Utilizzazione d'invenzioni o scoperte conosciute per ragioni d'ufficio).

[11]  In particolare, l’art. 86 stabilisce che tali beni siano venduti, ovvero distrutti se la vendita non risulti opportuna. Tale regola, precisa la disposizione richiamata, non si applica nei casi in cui sia prevista una specifica destinazione delle cose confiscate.

[12]   La legge reca "Disposizioni in materia di gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati. Modifiche alla legge 31 maggio 1965, n. 575, e all'articolo 3 della legge 23 luglio 1991, n. 223. Abrogazione dell'articolo 4 del decreto-legge 14 giugno 1989, n. 230, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1989, n. 282"

[13]  Tale previsione va oggi riferita ai commissari giudiziali di cui al D.Lgs. n. 270 del 1999 (Nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell'articolo 1 della L. 30 luglio 1998, n. 274).

[14]   La gestione deve essere effettuata secondo le disposizioni della legge n. 1041/1971(relativa alle gestioni fuori bilancio), secondo le norme che regolano l'amministrazione durante il sequestro e la confisca ed in base alle prescrizioni contenute nel decreto del Ministro del Tesoro del 27 marzo 1990, emanato di concerto con il Ministro delle finanze: il principio cardine, comune a tali disposizioni, è quello della copertura delle spese con le risorse della gestione; il rimborso e la anticipazione delle spese che non siano coperte dalle risorse della gestione sono disposti dal dirigente dell’Agenzia del territorio, secondo le procedure delle aperture di credito sui fondi a propria disposizione.

[15]   D.Lgs 3 luglio 2003, n. 173, Riorganizzazione del Ministero dell'economia e delle finanze e delle agenzie fiscali, a norma dell'articolo 1 della L. 6 luglio 2002, n. 137.

[16]   D.L. 25 giugno 2008, n. 112, Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, L. 6 agosto 2008, n. 133.

[17]   D.L. 16 settembre 2008, n. 143, Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 13 novembre 2008, n. 181.

[18]   D.L. 29 novembre 2008, n. 185, Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2. Si segnala che ulteriori modifiche al richiamato art. 2 del d.l. n. 143 del 2008 sono contenute nell’articolo 42, comma 7-octies, del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 207, Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni finanziarie urgenti, in corso di conversione.

[19]   In merito alla citata applicazione analogica, infatti, la Cassazione si è espressa, in passato, sia negativamente (Cass., sez. 5^, sent. 15 gennaio 2004, n. 5738 e sent. 27 giugno 2006, n. 33056) che positivamente (Cass., sez. 6^, sent. 17 settembre 2004, n. 46449 e sent. 18 ottobre 2005, n. 44985), determinando, quindi, il citato intervento delle Sezioni Unite penali della Cassazione .

[20]   La legge 575/1965 prevede la revoca del solo sequestro e non della confisca 8 (art. 2-ter); inoltre, il regime delle impugnazioni delle misure reali non fa rinvio al citato art. 7 della legge 1423 che disciplina l’istituto della revoca (art. 3-ter).

[21]   Le Sezioni Unite rilevano, inoltre, - in relazione all'ulteriore argomento contrario alla revocabilità, formulato in considerazione della distinzione tra gli interessi sottesi alle diverse misure di prevenzione, personali o reali - "che attraverso la revoca in funzione di revisione, si tratta di porre rimedio ad un errore giudiziario. E in vista di questo fine è allora inconferente parlare di eterogeneità degli interessi tutelati, dato che anche la lesione del diritto di proprietà appare quale violazione di bene costituzionalmente protetto, al pari dell'ingiustificata limitazione di libertà. Con la conseguenza che nulla impedisce di ritenere accomunati il regime di revoca delle misure di prevenzione personali a quello reale della confisca, nell'identità dell'interesse a predisporre un mezzo per la riparazione dell'ingiustizia".