Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento attività produttive
Altri Autori: Servizio Studi - Dipartimento agricoltura , Servizio Studi - Dipartimento giustizia , Ufficio Rapporti con l'Unione Europea
Titolo: Tutela dei prodotti italiani - A.C. 219, 340, 426, 477, 896, 1593, 2624 - Schede di lettura
Riferimenti:
AC N. 219/XVI   AC N. 340/XVI
AC N. 426/XVI   AC N. 477/XVI
AC N. 896/XVI   AC N. 1593/XVI
AC N. 2624/XVI     
Serie: Progetti di legge    Numero: 213
Data: 29/09/2009
Descrittori:
ABBIGLIAMENTO E CONFEZIONI   MARCHI DI QUALITA' GARANZIA E IDENTIFICAZIONE
PRODOTTI ALIMENTARI     
Organi della Camera: X-Attività produttive, commercio e turismo

 

Camera dei deputati

XVI LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione per l’esame di
Progetti di legge

Tutela dei prodotti italiani

A.C. 219, 340, 426, 477, 896, 1593, 2624

Schede di lettura

 

 

 

 

 

n. 213

 

 

 

29 settembre 2009

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi – Dipartimento Attività produttive

( 066760-9574 – * st_attprod@camera.it

Hanno partecipato alla redazione del dossier i seguenti Servizi e Uffici:

Servizio Studi – Dipartimento Agricoltura

( 066760-3610 – * st_agricoltura@camera.it

Segreteria Generale – Ufficio Rapporti con l’Unione europea

( 066760-2145 – * cdrue@camera.it

§       Le schede di lettura sono state redatte dal Servizio Studi.

§       Le parti relative ai documenti all’esame delle istituzioni dell’Unione europea e alle procedure di contenzioso sono state curate dall'Ufficio rapporti con l'Unione europea.

 

I dossier dei servizi e degli uffici della Camera sono destinati alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge.

File: AP0056.doc

 


INDICE

Schede di lettura

Quadro normativo

Disciplina del marchio                                                                                       3

§      Il marchio collettivo                                                                                          5

§      Il marchio internazionale e il marchio comunitario                                          6

Etichettatura d’origine nel comparto agroalimentare                                   7

Promozione e tutela del made in Italy                                                             8

Compatibilità comunitaria

§      Esame del provvedimento in relazione alla normativa comunitaria              13

§      Documenti all’esame delle istituzioni dell’Unione europea                           16

Contenuto delle proposte di legge

Pdl 426, 477 e 896                                                                                             19

§      Istituzione di marchi                                                                                       19

§      Requisiti e modalità di concessione dei marchi                                            21

§      Controlli e sanzioni                                                                                        27

§      Etichettatura                                                                                                  30

§      Promozione dei marchi                                                                                 33

Pdl 1593 e 2624                                                                                                 36

Pdl 219 e 340                                                                                                     41

 

 


Schede di lettura

 


Quadro normativo

Disciplina del marchio

La disciplina dei marchi è contenuta in atti normativi di rango primario e, in particolare, nel decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, recante il Codice della proprietà industriale, e negli articoli 2569 e ss. del codice civile.

Il codice della proprietà industriale, entrato in vigore a partire dal 19 marzo 2005, si compone di 246 articoli che sostituiscono, abrogandole, 39 tra leggi e provvedimenti previgenti tra i quali il R.D. 21 giugno 1942, n. 929 (c.d. legge marchi). L'obiettivo perseguito è stato quello di provvedere al riassetto della intera normativa in materia di proprietà industriale, alla semplificazione normativa ed al coordinamento delle fonti nazionali e comunitarie, nonché all’ampliamento della tutela riservata alla proprietà industriale ed alla ridefinizione delle relative competenze amministrative.

Per marchio si intende un segno distintivo che serve ad identificare un prodotto o servizio.

Il marchio può essere tutelato con una specifica domanda di registrazione in ciascun paese ove si ritiene di poterlo utilizzare su prodotti o servizi commercializzati direttamente o indirettamente, oppure con una domanda che, sulla base di accordi internazionali (Accordo o Protocollo di Madrid, Regolamento sul Marchio Comunitario), permetta di ottenere la registrazione con effetti in un certo numero di paesi.

Possono costituire marchi d'impresa i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente (parole, compresi i nomi di persona, disegni, lettere, cifre, suoni, forma del prodotto o della relativa confezione, combinazioni e tonalità cromatiche) purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di una impresa da quelli delle altre imprese. La registrazione per marchio d'impresa può essere ottenuta da chi lo utilizza, o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o nel commercio di prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso.

Anche le amministrazioni dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni possono ottenere registrazioni di marchio.

Possono essere richiesti anche marchi collettivi da parte di soggetti, individuali o collettivi, che svolgano la funzione di garantire la natura, la qualità o l'origine di determinati prodotti o servizi.

Il titolare del marchio registrato ha diritto di farne uso per contraddistinguere i propri prodotti o servizi e di vietarne l'uso da parte di altri per prodotti o servizi identici o affini. I diritti derivanti dalla registrazione del marchio hanno una durata di dieci anni dalla data di presentazione della domanda. E previsto il rinnovo della registrazione per periodi decennali purché la domanda venga presentata entro i dodici mesi precedenti la scadenza del decennio in corso, o nei sei mesi successivi, con l'applicazione di una soprattassa.

Trai requisiti per la registrazione di un marchio rientrano:

§      la novità, ossia l'assenza sul mercato di prodotti o servizi contraddistinti da segno uguale o simile. La novità non viene meno qualora il marchio precedente sia scaduto da oltre due anni (tre se trattasi di un marchio collettivo) o sia decaduto per non uso ultraquinquennale;

§      la capacità distintiva, che è la capacità di distinguere un prodotto o servizio da quello di altri;

§      la liceità: conformità all'ordine pubblico e al buon costume.

 

Tra i segni che non possono costituire oggetto di registrazione individuati dalla legge sono compresi, in particolare:

§      gli stemmi e gli altri segni considerati nelle convenzioni internazionali vigenti in materia, nei casi ed alle condizioni menzionati nelle convenzioni stesse, nonché i segni contenenti simboli, emblemi e stemmi che rivestano un interesse pubblico, a meno che l'autorità competente non ne abbia autorizzato la registrazione;

§      i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi;

§       i segni che possono costituire una violazione di un altrui diritto d'autore, di proprietà industriale o di altro diritto esclusivo;

§      i segni costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive;

§      i segni costituiti esclusivamente dalla forma imposta al prodotto dalla natura;

§      i segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio;

§      i ritratti delle persone senza il consenso delle medesime, i nomi di persona diversi da quello del richiedente, se il loro uso sia tale da ledere la fama ed il decoro di chi ha il diritto di portare tali nomi; i segni identici o simili ad un segno già noto come ditta, denominazione o ragione sociale, se da ciò possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico a causa dell'affinità di prodotti o servizi;

§      i nomi di persona se notori, i segni usati in campo artistico o sportivo, le denominazioni e le sigle di manifestazioni e quelle di enti ed associazioni non aventi finalità economiche nonché gli emblemi caratteristici di questi, senza il consenso dell'avente diritto;

§      i segni identici o simili al marchio registrato anteriormente nello Stato o, se comunitario, dotato di una valida rivendicazione di priorità, per prodotti o servizi non affini, se esso goda nello Stato di rinomanza e se l'uso del segno senza giusto motivo consenta di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o rechi pregiudizio allo stesso;

§      i segni identici o simili ad un marchio già notoriamente conosciuto ai sensi dell'articolo 6-bis della Convenzione di Unione di Parigi per la proprietà industriale, per prodotti o servizi anche non affini.

Il marchio collettivo

Oltre ai marchi individuali, cioè ai marchi in genere destinati a collegare permanentemente un prodotto ad una determinata impresa, il nostro legislatore ha previsto, come accennato, i marchi collettivi, che ha disciplinato agli art. 2570 c.c. e all'articolo 11 del citato codice della proprietà industriale (esempio sono i noti "Pura lana vergine", "Vero cuoio", ecc.).

L'art. 11 del codice della proprietà industriale, in particolare, oltre a dettare delle disposizioni ad hoc relative ai marchi collettivi, afferma che gli stessi sono soggetti a tutte le altre disposizioni previste dalla legge per i marchi in generale in quanto non contrastanti con la natura dei marchi collettivi stessi.

I marchi collettivi si differenziano radicalmente dai marchi individuali, in quanto non sono segni distintivi propri di un singolo imprenditore.

L'art. 11 del codice della proprietà industriale inoltre afferma che i soggetti che svolgono la funzione di garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi, possono ottenere la registrazione per appositi marchi come marchi collettivi ed hanno la facoltà di concedere l'uso dei marchi stessi a produttori o commercianti.

Nel caso prodotti o servizi di un unico genere, si ha un marchio collettivo unisettoriale; nel caso di generi diversi, si ha un marchio collettivo plurisettoriale.

Il marchio viene utilizzato, dunque, da tutti coloro che il titolare autorizza all'uso, e che si impegnano preventivamente ad assoggettare il proprio prodotto a certe prescrizioni ed a certi contratti.

Titolare del marchio collettivo privato può essere un soggetto privato, sia o non sia imprenditore.

Per i marchi collettivi privati è dettata una scarna regolamentazione dalla legge marchi e dal codice civile. La disciplina dei rapporti tra il titolare del marchio collettivo e coloro che ne fanno uso é affidata ad un regolamento. Tale regolamento dovrà prevedere:

§      che i soggetti autorizzati all'uso del marchio collettivo rispettino, nella fabbricazione dei prodotti da contrassegnare con quel marchio, certe norme attinenti alla qualità ;

§      che il titolare del marchio collettivo possa esercitare dei controlli sui soggetti autorizzati ad usarlo;

§      delle sanzioni a carico degli utenti in caso di infrazioni, consistenti sostanzialmente nell'uso del marchio collettivo su prodotti non rispondenti alle norme regolamentari.

 

Le condizioni di validità del marchio collettivo sono in linea di massima le stesse che vigono per i marchi individuali:

a)        per quanto riguarda il requisito della novità, il marchio collettivo é nullo se uguale, o confondibile con un marchio anteriore, sia esso collettivo o individuale;

b)        in merito alla liceità, un marchio collettivo può consistere in segni o indicazioni che nel commercio possono servire per designare la provenienza geografica dei prodotti o servizi. In tal caso, però, la registrazione può essere rifiutata se può creare una situazione di "ingiustificato privilegio, o comunque recare pregiudizio allo sviluppo di altre analoghe iniziative nella regione. In ogni caso, l'avvenuta registrazione del marchio collettivo costituito da nome geografico non autorizza il titolare a vietare a terzi l'uso nel commercio del nome stesso, purché l'uso sia conforme alla correttezza professionale, e cioè limitato alla funzione di indicazione di provenienza geografica 

Titolare del marchio collettivo può essere un ente pubblico. Si tratta di marchi a disciplina singolare, cioè dettata espressamente per ciascuno di essi.

Il marchio internazionale e il marchio comunitario

L'Accordo di Madrid ha introdotto, la procedura della registrazione internazionale dei marchi.

Questa procedura permette di proteggere un marchio in uno o più dei Paesi aderenti a tale Accordo, tramite un singolo deposito, compilato in una sola lingua, e presso un unico ente: l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (OMPI).

Il Marchio comunitario è stato istituito dal regolamento Ce 40/94 del 20 dicembre 1993, successivamente modificato e operativo dal 1° aprile 1996.

Il marchio comunitario consente di ottenere automaticamente, mediante il deposito di un'unica domanda, la protezione legale di un segno distintivo in tutti i Paesi aderenti all’Unione Europea (UE), per dieci anni a partire dalla data di deposito della domanda.

L’Ufficio per l'Armonizzazione nel Mercato Interno (UAMI) è l'ufficio atto a ricevere le domande di marchi comunitari e a rilasciare l’inerente concessione.

La tutela della qualità dei prodotti in ambito internazionale

La sede in cui la questione dei marchi e delle denominazioni d'origine è normalmente trattata nell'OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio) è l'accordo TRIPS[1], relativo alla regolamentazione commerciale dei diritti di proprietà intellettuale.

In particolare, nella Parte II dell’accordo citato, oltre alle norme relative alla tutela internazionale dei marchi (artt.12–21), sono contenute quelle relative alle indicazioni geografiche. L’art. 22, in particolare, rubricato “protezione delle indicazioni geografiche”, intende per indicazioni geografiche quelle che identificano un prodotto come originario del territorio di unO Stato membro, o di una regione o località di detto territorio, quando una determinata qualità, la notorietà o altre caratteristiche del prodotto siano essenzialmente attribuibili alla sua origine geografica. Il citato accordo impegna, tra l’altro, gli Stati membri a prevedere i mezzi legali atti ad impedire che nella designazione sia indicata un'area geografica diversa dal vero luogo d'origine, in modo tale da ingannare il pubblico sull'origine stessa del prodotto.

Etichettatura d’origine nel comparto agroalimentare

La questione circa l'estensione generalizzata dell'obbligo di indicare nell'etichettatura l'origine del prodotto risulta di estrema attualità per il comparto agroalimentare nel quale si sostiene che la mancanza di informazioni precise sull'origine del prodotto non solo può indurre in errore il consumatore, che credendo di consumare un bene italiano si è invece rivolto ad un prodotto che utilizza materie prime straniere, ma produce anche un danno per gli agricoltori, che vedono illegittimamente utilizzato il richiamo ad una zona di coltivazione ed allevamento di particolare pregio.

L’Italia, che si trova nella necessità di tutelare una produzione alimentare che gode di una particolare reputazione internazionale e che soffre in ampi settori della concorrenza sleale di prodotti stranieri, ha più volte approvato disposizioni sull’etichettatura d’origine che hanno anche provocato l’apertura di procedure d’infrazione da parte della Comunità[2].

Proprio allo scopo di tutelare la qualità della produzione nazionale, la Commissione XIII (Agricoltura) ha attualmente all’esame l’A.C. 2260, che con l’articolo 6 prevede ancora una volta l’obbligo di indicare nella etichetta dei prodotti alimentari il luogo d’origine o provenienza, al quale dovrà essere abbinato l’A.S. 1331, appena approvato dall’altro ramo parlamentare recante disposizioni dal contenuto analogo[3].

Per evitare tuttavia che l’estensione generalizzata ed obbligatoria dell’indicazione d’origine ponga l’Italia in condizione di infrangere nuovamente le norme comunitarie la prima proposta limita l’obbligo ai casi in cui la omissione della indicazione potrebbe indurre in errore il consumatore[4], mentre la seconda dispone che le modalità applicative dell’obbligo siano definite con decreti ministeriali previo espletamento delle specifiche procedure di verifica della compatibilità comunitaria.[5]

L'ordinamento comunitario, che resta fermamente ancorato al principio della libera circolazione delle merci ed al divieto di ogni misura che possa comportare una limitazione alla libertà di concorrenza, e si mostra costantemente contrario alla tutela di indicazioni generiche sull’origine nazionale dei prodotti, ha invece accordato ampia tutela alle produzioni di particolare pregio attraverso il riconoscimento dei marchi DOP. IGT e IGP.

Con l’approvazione dei due regolamenti 2081 e 2082 del 1992, sostituiti nel 2006 dai regolamenti (CE) n. 509 e 510, la Comunità si è riservata di disciplinare la possibilità di rilasciare in campo agroalimentare un attestato che riconosca specifici requisiti qualitativi a determinati prodotti, definendo condizioni e modalità per ottenere una indicazione di provenienza (DOP e IGP) e una attestazione di specificità (STG,) in grado di assicurare la tutela del prodotto in tutta l’area del mercato comunitario, garantendo in definitiva un diritto soggettivo protetto all’uso di un marchio collettivo.

Promozione e tutela del made in Italy

L’obiettivo della tutela sui mercati mondiali dei prodotti tipici delmade in Italyè stato perseguito dapprima sul versante della promozione e della riconoscibilità sui mercati esteri della produzione italiana, con un pacchetto di misure che sono state inserite nella legge finanziaria per il 2004; successivamente gli interventi si sono concentrati sul profilo della lotta alla contraffazione dei prodotti.

Nella legge n. 350 del 2003[6] (legge finanziaria 2004), sono state inserite apposite norme finalizzate a promuovere la produzione italiana (Made in Italy)e a tutelare i diritti di proprietà industriale e intellettuale delle imprese italiane sui mercati esteri, prevedendo a tutela delle merci prodotte integralmente in Italia o considerate prodotto italiano ai sensi della normativa europea in materia di origine, la regolamentazione dell'etichettatura Made in Italy, oltre che la possibilità di adottare un apposito marchio; tali misure sono dirette a rafforzare la riconoscibilità dei prodotti italiani all'estero.

In particolare l'articolo 4, comma 49, della citata legge finanziaria[7], recita che "l'importazione e l'esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell'articolo 517 del codice penale. Costituisce falsa indicazione la stampigliatura «made in Italy» su prodotti e merci non originari dall'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l'origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l'uso di segni, figure, o quant'altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana incluso l'uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli ovvero l’uso di marchi di aziende italiane su prodotti o merci non originari dell’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine senza l’indicazione precisa, in caratteri evidenti, del loro Paese o del loro luogo di fabbricazione o di produzione, o altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore sulla loro effettiva origine estera. Le fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l'immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio. La fallace indicazione delle merci può essere sanata sul piano amministrativo con l'asportazione a cura ed a spese del contravventore dei segni o delle figure o di quant'altro induca a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana. La falsa indicazione sull'origine o sulla provenienza di prodotti o merci può essere sanata sul piano amministrativo attraverso l'esatta indicazione dell'origine o l'asportazione della stampigliatura «made in Italy». Le false e le fallaci indicazioni di provenienza o di origine non possono comunque essere regolarizzate quando i prodotti o le merci siano stati già immessi in libera pratica"[8].

In sintesi, quindi, non è dunque possibile indicare che un prodotto è di origine italiana e/o apporvi l'indicazione "Made in Italy" ove l'attività di lavorazione o trasformazione non sia svolta in Italia o l'attività svolta in Italia sia del tutto marginale o irrilevante. Inoltre, a seguito della L. 99/2009, sono state recentemente introdotte nella norma le seguenti ulteriori previsioni:

-        costituisce fallace indicazione di provenienza o di origine (ed è dunque punibile ai sensi dell'art. 517 c.p.) anche l’uso di marchi di aziende italiane su prodotti o merci non originari dell’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine senza l’indicazione precisa, in caratteri evidenti, del loro Paese o del loro luogo di fabbricazione o di produzione, o altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore sulla loro effettiva origine estera.

-        le false e le fallaci indicazioni di provenienza o di origine non possono comunque essere regolarizzate quando i prodotti o le merci siano stati già immessi in libera pratica.

 

La finanziaria 2004 ha previsto, poi, l’istituzione di un Fondo di promozione straordinaria del made in Italy, presso il Ministero delle attività produttive (ora Ministero dello sviluppo economico), finalizzato al sostegno di una campagna promozionale straordinaria a sostegno della produzione italiana; l’istituzione dell'”Esposizione permanente del design italiano e del made in Italy” al fine di valorizzare lo stile della produzione nazionale, di promozione del commercio internazionale e delle produzioni italiane di qualità;l’istituzione di un Fondo per l’assistenza legale internazionale alle imprese, per la tutela contro le violazioni dei diritti relativi alla proprietà industriale e intellettuale, nonché contro le pratiche commerciali sleali e i fenomeni legati agli obiettivi relativi alla diffusione dei prodotti italiani.

La successiva legge finanziaria per il 2005 (legge n. 311/2004)è nuovamente intervenuta in merito alle risorse del Fondo Made in Italy (articolo 1, commi 230 e 232).

Le disposizioni citate mirano a rendere più agevole la gestione dei due fondi istituiti dalla finanziaria 2004, riconducendo sotto unico fondo il finanziamento e la gestione dei vari interventi previsti, compreso quello relativo all’esposizione permanente del design italiano presso l’Ente EUR in Roma e prevedendo, altresì, la promozione da parte del MAP, ai fini dell’utilizzo delle risorse del fondo per il "made in Italy", di protocolli di intesa con le università e le associazioni imprenditoriali di categoria e alla collaborazione con l’Istituto nazionale per il commercio estero (ICE). La finanziaria 2005 ha provveduto, inoltre, ad elevare l’autorizzazione di spesa inizialmente prevista.

Si segnalano inoltre le disposizioni del DL 273/05 recante “Definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi all'esercizio di deleghe legislative”, che all’articolo 33 fissa il patrimonio iniziale della Fondazione, costituita dall’ex Ministro dell’attività produttive per la gestione dell’”Esposizione permanente del design italiano e del made in Italy”, disponendo il trasferimento ad essa delle risorse previste, a tal fine, dalle leggi finanziarie 2004 e 2005 (13 milioni di euro complessivamente).

Per quanto concerne la difesa dei prodotti italiani e la lotta alla contraffazione si ricordano inoltre le disposizioni introdotte dai commi 7-11 dell’articolo 1 del decreto legge n. 35/05, che hanno destinato alla lotta alla contraffazione le somme derivanti dalle sanzioni pecuniarie amministrative (fino a euro 10.000), previste dal comma 7 del medesimo articolo a carico degli acquirenti di prodotti che inducano a ritenere siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale. Tra le condotte punibili viene fatta rientrare anche la commercializzazione di prodotti recanti indicazioni di origine false o fallaci (comma 9), mentre viene innalzata fino a 20.000 euro la multa prevista per la vendita di prodotti con segni mendaci (comma 10).

L’articolo 1-quater del DL 35/05 ha istituito un organo con compiti di coordinamento e di monitoraggio nell’ambito della lotta alla contraffazione, denominato Alto Commissario per la lotta alla contraffazione. L’Alto Commissario per la lotta alla contraffazione è stato poi soppresso dall’articolo 68, comma 6, punto b) del decreto legge n. 112/2008[9].

In materia di lotta alla contraffazione, in particolare per quanto concerne i profili sanzionatori e processuali, è intervenuto infine anche il D.Lgs. 16 marzo 2006, n. 140 recante “Attuazione della direttiva 2004/48/CE sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale”.

Si segnala che anche la L. 23 luglio 2009, n. 99[10] contiene alcune disposizioni sulla lotta alla contraffazione e sulla tutela penale dei diritti di proprietà industriale (articoli 15, 16, 17, 18 e 19).

In particolare, i commi 10 e seguenti dell’articolo 19 istituiscono presso il Ministero dello sviluppo economico il Consiglio nazionale anticontraffazione, con funzioni di indirizzo, impulso e coordinamento delle azioni strategiche intraprese da ogni amministrazione, al fine di migliorare l’insieme dell’azione di contrasto della contraffazione a livello nazionale.


Compatibilità comunitaria

Esame del provvedimento in relazione alla normativa comunitaria

I marchi previsti dalle pdl 426, 477 e 896 assolvono alla funzione di garantire ai consumatori la possibilità di identificare i prodotti il cui processo produttivo è realizzato interamente o prevalentemente in Italia.

L’attribuzione del marchio, in tutti i casi considerati, non risulta, peraltro, esplicitamente condizionata a specifici requisiti del prodotto atti ad evidenziarne la qualità (ad esempio: le condizioni di lavorazione, le tecniche produttive utilizzate, ecc.).

Analogo discorso vale per le pdl 2624 e 1593, che prevedono, per i prodotti dei settori tessile, della pelletteria e del calzaturiero, un sistema di etichettatura obbligatoria che evidenzi il luogo di origine di ciascuna delle fasi di lavorazione e consentono l’uso della denominazione «Made in Italy» esclusivamente per i prodotti finiti dei suindicati settori le cui fasi di lavorazione abbiano avuto luogo prevalentemente nel territorio italiano.

Si ricorda che l’articolo 28 TCE vieta fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione e le misure di effetto equivalente. Tuttavia, secondo l’articolo 30 del medesimo Trattato, le restrizioni all’importazione giustificate, tra l’altro, da motivi di tutela della proprietà industriale e commerciale sono autorizzate, qualora non costituiscano un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra Stati membri. In base all’interpretazione dalla Corte di giustizia di tale normativa, i requisiti cui le normative nazionali assoggettano la concessione di denominazioni nazionali di qualità, a differenza di quanto accade per le denominazioni di origine e le indicazioni di provenienza (dei prodotti agroalimentari: cfr. supra), possono riguardare solo le caratteristiche qualitative intrinseche dei prodotti, indipendentemente da qualsiasi considerazione relativa all’origine o alla provenienza geografica degli stessi.

In particolare, si osserva che esiste una giurisprudenza risalente e costante della Corte di Giustizia in materia di marchi di qualità di titolarità di enti pubblici; che ritiene incompatibile con il mercato unico, sulla base dell’art. 28 del Trattato, la presunzione di qualità legata alla localizzazione nel territorio nazionale di tutto o di parte del processo produttivo, “la quale di per ciò stesso limita o svantaggia un processo produttivo le cui fasi si svolgano in tutto o in parte in altri Stati membri”[11]; a tale principio fanno eccezione solo le regole relative alle denominazioni di origine e alle indicazioni di provenienza.

Nella medesima prospettiva si pone, altresì, la decisione del 5 novembre 2002 (causa C-325/00), nella quale la Corte di Giustizia UE ha censurato la Repubblica Federale di Germania, per aver violato l’art. 28 del Trattato con la concessione del marchio di qualità “Markenqualität aus deutschen Landen” (qualità di marca della campagna tedesca), in quanto il messaggio pubblicitario, evidenziando la provenienza tedesca dei prodotti interessati, “può indurre i consumatori ad acquistare i prodotti che portano il marchio (…) escludendo i prodotti importati (…)”. Nella stessa sentenza si rileva, inoltre, come il fatto che l’uso del suddetto marchio sia facoltativo – come previsto anche per il marchio oggetto delle proposte di legge – non elimina il potenziale effetto distorsivo sugli scambi tra gli Stati membri, posto che l’uso del marchio “favorisce, o è atto a favorire, lo smercio dei prodotti in questione rispetto ai prodotti che non possono fregiarsene” (punto 24). In tale sentenza, inoltre, non ha assunto rilievo il fatto che il titolare del marchio collettivo fosse un soggetto privato – per il quale di norma non dovrebbero sussistere implicazioni rispetto ai principi comunitari – dal momento che la Corte ha ritenuto che il soggetto in questione, nonostante la veste giuridica formale di società di diritto privato, gravitava oggettivamente nella sfera di influenza dei pubblici poteri ed è stata pertanto considerata come strumento per l’attuazione di misure pubbliche (cfr. punti 14-21 della sentenza).

Anche in materia di marchi regionali, si ricorda la decisione 6 marzo 2003 (causa C-6/02), nella quale la Corte ha affermato la responsabilità della Repubblica Francese, la quale “non avendo posto fine, entro il termine fissato nel parere motivato, alla protezione giuridica nazionale concessa alla denominazione ”Salaisons d'Auvergne” nonché ai marchi regionali ”Savoie”, ”Franche-Comté”, ”Corse”, ”Midi-Pyrénées”, ”Normandie”, ”Nord-Pas-de-Calais”, ”Ardennes de France”, ”Limousin”, ”Languedoc-Roussillon” e ”Lorraine” (…) è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell'art. 28 TCE”; in tale causa, la Commissione europea ha sostenuto che le disposizioni francesi che istituiscono le suddette denominazioni possono avere effetti sulla libera circolazione delle merci tra Stati membri, in quanto, in particolare, esse favoriscono la commercializzazione delle merci di origine nazionale a detrimento delle merci importate e dunque la loro applicazione creerebbe di per sé una disparità di trattamento tra queste due categorie di merci.

Più recentemente, si ricorda, ancora, la sentenza della Corte del 17 giugno 2004 (causa c-255/03), Commissione contro il Regno del Belgio, avente ad oggetto il ricorso diretto a far dichiarare che il Regno del Belgio, avendo adottato e mantenuto in vigore una normativa che concede il “marchio di qualità Vallone” a prodotti finiti di una determinata qualità fabbricati o trasformati in Vallonia, è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti ai sensi dell’art. 28 TCE, in quanto tra le condizioni per ottenere il suddetto marchio figura l’obbligo di trasformazione o di fabbricazione in Vallonia, mentre i presupposti che danno accesso ad una denominazione di qualità dovrebbero riferirsi esclusivamente alle caratteristiche intrinseche del prodotto, escludendo qualsiasi riferimento alla sua origine geografica.

 

Alla luce della normativa comunitaria e dei principi, testé richiamati, affermati della giurisprudenza della Corte di Giustizia, un ente pubblico può essere titolare di un marchio collettivo e concederne l’uso solo a condizione che tale marchio non attribuisca valore qualitativo all’origine della materia prima o del luogo di trasformazione, ma si basi esclusivamente sulle caratteristiche intrinseche del prodotto; sembrerebbe pertanto da ritenersi preclusa l’attribuzione di marchi relativi a prodotti diversi da quelli agroalimentari sulla base della mera provenienza geografica dei prodotti e senza che a quest’ultima risultino intrinsecamente connesse precise caratteristiche qualitative dei prodotti stessi. L’istituzione di un marchio collettivo di titolarità pubblica finalizzato a identificare genericamente le produzioni realizzate interamente (o prevalentemente) in Italia sembra pertanto suscettibile di determinare censure da parte delle istituzioni comunitarie[12].

 

D'altro canto va, comunque, rilevata la finalità perseguita dalle proposte di legge in esame, consistente nell' assicurare un livello elevato di protezione dei consumatori, in conformità con il disposto di cui all'articolo 153 del Trattato che istituisce la Comunità europea.

Occorre, quindi, verificare se la tutela di questo principio possa giustificare talune deroghe al consolidato orientamento giurisprudenziale sopra richiamato e in quale misura le proposte di legge in esame realizzino un equo contemperamento dei citati interessi comunitari (libera circolazione delle merci tra Stati membri e corretta informazione dei consumatori).

 

Per quanto concerne invece le disposizioni delle pdl 426, 477 e 896 dirette a istituire l'etichettatura dei prodotti realizzati in Paesi non appartenenti all'Unione europea, finalizzata ad evidenziare, tra l’altro, il Paese di origine del prodotto finito, nonché dei prodotti intermedi, si segnala che esse sembrano attenere prevalentemente all’applicazione degli accordi internazionali in materia di commercio.

Si ricorda, infatti, che l’Unione europea ha aderito all’Accordo generale sulle tariffe ed il commercio (GATT), accordo internazionale firmato a Ginevra nel 1947 e diretto all’eliminazione degli ostacoli al commercio tra Stati, e quindi all’Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization - WTO). I Paesi aderenti al WTO hanno l’obbligo di rispettare tutti gli accordi, che costituiscono parte integrante dell’accordo istitutivo, tra i quali va considerato l’accordo allegato al GATT, interamente dedicato al tema delle regole d’origine (Agreement on Rules of Origin; AROO). Quest’ultimo ha la dichiarata finalità di promuovere l’armonizzazione di tali regole, evitando al contempo che le stesse costituiscano degli ostacoli non necessari al commercio[13]. In attesa dell’armonizzazione, l’eventuale elaborazione di regole di origine valide nei singoli Paesi o gruppi regionali non potrà porsi in contrasto con i principi sanciti nell’Accordo, tra i quali sussiste il divieto di utilizzare le regole d’origine quali “strumenti volti a favorire, direttamente o indirettamente, la realizzazione di obiettivi di politica commerciale”, e l’impegno a che le regole d’origine non determino effetti di restrizione, distorsione o disorganizzazione del commercio internazionale (art. 2, lett. b) e c).

Documenti all’esame delle istituzioni dell’Unione europea

Etichettatura prodotti agricoli

Il 28 maggio 2009 la Commissione ha presentato una comunicazione sulla politica di qualità dei prodotti agricoli (COM (2009) 234) in cui avanza proposte per migliorare la comunicazione tra produttori, acquirenti e consumatori sulla qualità dei prodotti agricoli; accrescere la coerenza degli strumenti della politica di qualità dei prodotti agricoli; rendere i vari sistemi di certificazione ed etichettatura più facili da capire e usare per agricoltori, produttori e consumatori.

Nella comunicazione - elaborata sulla base di un’ampia consultazione avviata nel 2008 sul Libro verde sulla qualità dei prodotti agricoli nonché dei risultati della conferenza ad alto livello sulla politica di qualità dei prodotti agricoli organizzata dalla Presidenza ceca nel mese di marzo 2009 – la Commissione propone, tra l’altro:

§      l’indicazione obbligatoria del luogo di produzione in etichetta, tenendo conto delle peculiarità di alcuni settori, soprattutto in relazione ai prodotti agricoli trasformati. Identica indicazione è stata fornita anche dal Parlamento europeo, nella risoluzione approvata il 10 marzo 2009, nell’ambito della discussione sul citato libro verde;

§      l’introduzione di una norma di commercializzazione generale, che fornisca una descrizione tecnica dei prodotti agricoli e ne indichi la composizione, le caratteristiche e il metodo di produzione;

§      un intervento legislativo che riformi la normativa sulle indicazione geografiche;

§      nel contesto internazionale, la promozione di una tutela rinforzata del sistema UE nei paesi terzi; iscrizione nei registri ufficiali dell’UE delle indicazioni geografiche extra UE.

Il Consiglio agricoltura del 22 giugno 2009 ha adottato conclusioni sulla comunicazione della Commissione.

Etichettatura prodotti tessili

Il 30 gennaio 2009 la Commissione ha presentato una proposta di regolamento relativo alle denominazioni tessili e all'etichettatura dei prodotti tessili (COM(2009)31) volta a semplificare il quadro regolamentare esistente relativo allo sviluppo e all'utilizzazione di nuove fibre, al fine di promuovere l'innovazione nel settore tessile e dell'abbigliamento e di consentire agli utilizzatori e ai consumatori di fibre di beneficiare più rapidamente dei prodotti innovativi.

La proposta, che segue la procedura di codecisione, è stata trasmessa al Consiglio e al Parlamento europeo.

Made in

Una proposta di regolamento relativa all’indicazione del paese di origine di alcuni prodotti importati da paesi terzi è stata presentata il 16 dicembre 2005 (COM(2005)661). La proposta non è mai stata discussa dal Consiglio mentre il Parlamento europeo, l’11 dicembre 2007, ha adottato una dichiarazione nella quale si ribadiva il diritto dei consumatori europei ad un accesso immediato alle informazioni relative agli acquisti.

Etichettatura e diritti dei minori

Il Parlamento europeo nella risoluzione adottata il 16 gennaio 2008 su una strategia dell'Unione europea sui diritti dei minori, tra l’altro:

§      ha chiesto  l'introduzione di una "etichettatura positiva" per i giocattoli importati non fabbricati ricorrendo al lavoro minorile;

§      ha invitato la Commissione a presentare proposte volte a migliorare le disposizioni relative all'etichettatura nutrizionale degli alimenti trasformati onde contrastare il problema crescente dell'obesità;

§      ha appoggiato la creazione, nell'UE, di un sistema uniforme di classificazione ed etichettatura per la vendita e la distribuzione dei contenuti audiovisivi e dei videogiochi destinati ai minori, affinché le norme europee servano da modello per i paesi terzi.

 


Contenuto delle proposte di legge

Le proposte di legge 426, 477, 896, 1593 e 2624 recano disposizioni in materia di riconoscibilità e tutela dei prodotti italiani.

Tuttavia, mentre le pdl 426, 477 e 896 riguardano in generale tutti i prodotti (ad eccezione di quelli alimentari), le pdl 2624 e 1593 si occupano esclusivamente dei prodotti tessili, della pelletteria e del calzaturiero.

Invece le restanti proposte di legge (pdl 219 e 340) riguardano rispettivamente la tracciabilità di filiera dei prodotti e l’etichettatura di prodotti conformi a principi etici.

Pdl 426, 477 e 896

Istituzione di marchi

La proposta di legge C. 477 Anna Teresa Formisano si basa sul testo unificato sul Made in Italy approvato dalla Camera e poi, con modificazioni, dalla competente commissione del Senato (A.S. 3463), durante la XIV legislatura, e istituisce al comma 1 dell’articolo 1 il marchio“100 per cento Italia”, di proprietà dello Stato italiano, al fine di fornire una corretta informazione ai consumatori in ordine a quei prodotti la cui filiera produttiva è stata interamente realizzata in Italia.

A tal fine l'articolo 1 della proposta di legge in esame richiama espressamente l'articolo 153 del Trattato che istituisce la Comunità europea.

L’articolo 153 del trattato (versione consolidata) stabilisce che l’Unione, al fine di promuovere gli interessi dei consumatori ed assicurare loro un elevato livello di protezione, contribuisce a tutelarne la salute, la sicurezza e gli interessi economici e a promuovere il loro diritto all’informazione, all’educazione e all’organizzazione per la salvaguardia degli interessi ad essi facenti capo.

Ai sensi del comma 2, debbono intendersi realizzati interamente in Italia i prodotti finiti per i quali l'ideazione, la progettazione, il disegno, la lavorazione e il confezionamento sono compiuti interamente sul territorio italiano, utilizzando materie prime anche importate, nonché semilavorati grezzi - come definiti alla lettera g) del successivo comma - realizzati interamente in Italia.

Il comma 3 reca le definizioni relative alle citate fasi del processo produttivo specificando, altresì, il significato di materie prime e di semilavorato grezzo.

L’articolo 10 dispone che la definizione «Made in Italy» sia accompagnata da una scheda informativa denominata «carta d'identità del prodotto finito» che contiene informazioni utili al consumatore per conoscere la provenienza dei semilavorati di cui il prodotto è composto e le lavorazioni eseguite nel processo di fabbricazione cui hanno contribuito imprese di altri Paesi. I contenuti e le modalità applicative di tale carta d'identità saranno stabiliti con decreto del Ministro dello sviluppo economico.

La dicitura “Made in Italy” è attualmente prevista dal codice doganale comunitario istituito dal Regolamento (CE) n. 2913/1992, entrato in vigore nel 1992 ed applicabile dal 1° gennaio 1994. Tale dicitura può essere apposta ad un prodotto quando sia stato interamente ottenuto in Italia, o che in Italia abbia subito una fase di  lavorazione sostanziale.

L’attività di prevenzione nei paesi esteri rispetto alla contraffazione della carta sarà eseguita dagli sportelli unici all'estero.

Si ricorda che gli sportelli unici all'estero (c.d. "Sportelli Italia") sono stati istituiti dalla legge 31 marzo 2005, n. 56,recante "Misure per l’internazionalizzazione delle imprese, nonché delega al Governo per il riordino degli enti operanti nel medesimo settore”. Agli sportelli unici sono state assegnate, fra l’altro funzioni di lotta alla contraffazione, da svolgere in stretto collegamento con le strutture del Ministero delle attività produttive (ora dello sviluppo economico) preposte a tale compito.

 

L’ambito di applicazione della legge è definito dall’articolo 12 che esclude, con il comma 2, i prodotti alimentari.

 

La proposta di legge C. 896 Lulli riprende il testo base adottato dalla X Commissione della Camera dei Deputati nel corso della XV legislatura (A.C. 664 e abb.).

In analogia con la proposta C. 477, essa dichiara all’articolo 1 come finalità quella di assicurare un livello elevato di protezione dei consumatori, in conformità con il disposto di cui all'articolo 153 del Trattato che istituisce la Comunità europea.

L’articolo 2, come l’articolo 12 della proposta C. 477, definisce l’ambito di applicazione della proposta di legge e ne esclude, con il comma 2, i prodotti alimentari.

L’articolo 3 prevede la possibilità (a differenza dell’articolo 10 della proposta C. 477, in cui si prevede un obbligo) di accompagnare la definizione «Made in Italy» con una scheda informativa denominata «carta d'identità del prodotto finito» che contiene informazioni utili al consumatore per conoscere la provenienza dei semilavorati di cui il prodotto è composto e le lavorazioni eseguite nel processo di fabbricazione cui hanno contribuito imprese di altri Paesi. I contenuti e le modalità applicative di tale carta d'identità saranno stabiliti con decreto del Ministro dello sviluppo economico. L’attività di prevenzione nei paesi esteri rispetto alla contraffazione della carta sarà eseguita dagli sportelli unici all'estero.

L’articolo 4 istituisce il marchio di origine, di qualità e di eccellenza etica «Opera italiana», ove si intende:

a)  per origine italiana dei prodotti: il requisito dello svolgimento in Italia delle due principali fasi di lavorazione e la tracciabilità delle rimanenti fasi;

b)  per qualità: la garanzia che i prodotti marchiati abbiano i valori qualitativi che il produttore dichiara, impegnando lo stesso alla regola «soddisfatti o rimborsati», che è formulata quale clausola potestativa esplicita in favore del consumatore;

c)  per eccellenza etica: il pieno e continuato rispetto della normativa legale e contrattuale del lavoro e della normativa ambientale e sui cicli produttivi.

A differenza delle altre due proposte di legge in esame, non viene in questo caso specificato che il marchio istituito è di proprietà dello Stato italiano. Tuttavia dall’articolato (v. in particolare l’art. 6) sembra desumersi che anche tale marchio è di proprietà dello Stato italiano.

L’articolo 12 reca una norma di interpretazione autentica finalizzata ad assicurare un'efficace e uniforme tutela del consumatore, secondo cui le dizioni «origine», «provenienza», «produzione», «made in» previste dalle disposizioni vigenti si interpretano come sinonimi e sono riferite al Paese di origine del prodotto quale è identificato dalle norme del regolamento (CEE) n. 2913/92, che istituisce un codice doganale comunitario.

 

La proposta di legge C. 426 Contento provvede all’istituzione di due marchi di proprietà dello Stato italiano:

§      il marchio «Integralmente Italiano», al fine di dare ai consumatori la possibilità di identificare i prodotti il cui processo produttivo è realizzato interamente in Italia. Si intendono realizzati interamente in Italia i prodotti per i quali l'ideazione, il disegno, la progettazione, la lavorazione e il confezionamento sono compiuti interamente sul territorio italiano, ancorché con utilizzo di materie prime o semilavorati grezzi di importazione (articolo 1);

§      il marchio «Stile Italiano-Italian Design», al fine di dare ai consumatori la possibilità di identificare i prodotti che si segnalano per specifiche caratteristiche di originalità e di creatività, ideati in Italia. I criteri per l’individuazione di tali prodotti sono stabiliti con decreti del Ministro dello sviluppo economico, con riferimento alle diverse filiere produttive (articolo 2).

Requisiti e modalità di concessione dei marchi

Ai sensi dell’articolo 2 della proposta C. 477, l'utilizzo del marchio “100 per cento Italia” è concesso al produttore a valere sui prodotti finiti realizzati interamente in Italia, ovvero i prodotti finiti per i quali l'ideazione, la progettazione, il disegno, la lavorazione e il confezionamento sono compiuti interamente sul territorio italiano, utilizzando materie prime anche di importazione, nonché semilavorati grezzi, realizzati interamente in Italia.

Il marchio deve essere apposto sul prodotto finale, in forma indelebile e non sostituibile, in maniera tale da non ingenerare possibilità di confusione da parte del consumatore in merito alla rispondenza dell'intero prodotto, e non di una sola parte o componente di esso, alle disposizioni della proposta di legge in esame.

Il successivo articolo 3 disciplina le modalità e requisiti per la concessione del marchio “100 per cento Italia”.

Il richiedente l'autorizzazione all'utilizzo del marchio deve presentare alla camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura (nel seguito: CCIAA) territorialmente competente, unitamente alla domanda, un'autocertificazione relativa:

a)  al rispetto delle norme vigenti in materia di tutela del lavoro, in campo fiscale e contributivo, nonché in ordine all'esclusione dell'impiego di minori e al pieno rispetto della normativa per la salvaguardia dell'ambiente;

b)  all'attestazione che tutte le fasi di realizzazione del prodotto si siano svolte integralmente sul territorio nazionale;

c)  all'attestazione che sul prodotto siano state effettuate le analisi chimiche e meccaniche necessarie ad accertare la salubrità dei materiali utilizzati e le qualità meccaniche relative alla resistenza e alla durata del prodotto stesso.

L'autorizzazione all'utilizzo del marchio è rilasciata dal Ministero dello sviluppo economico, con la collaborazione delle camere di commercio, previa verifica del rispetto dei prescritti requisiti.

Secondo il comma 3, il Ministero può autorizzare al rilascio del marchio consorzi o società consortili, anche in forma cooperativa, costituiti da imprese, anche artigiane, facenti parte di distretti industriali individuati ai sensi dell'articolo 36 della legge n. 317/1991, ovvero di specifiche filiere produttive, qualora tutti i prodotti da essi realizzati abbiano i requisiti per ottenere il marchio.

Si ricorda che la legge 5 ottobre 1991, n. 317 ("Interventi per l'innovazione e lo sviluppo delle piccole imprese") ha provveduto per la prima volta al riconoscimento giuridico dei distretti, prevedendo un ampio coinvolgimento delle regioni sia nella individuazione dei distretti, sia nell'attività di sostegno e finanziamento degli stessi attraverso i consorzi di sviluppo industriale. In particolare l'articolo 36, richiamato dalla disposizione in esame, come modificato dalla legge 11 maggio 1999, n. 140. definisce i distretti industriali come i sistemi produttivi locali[14] caratterizzati da una elevata concentrazione di imprese industriali nonché dalla specializzazione produttiva di sistemi di imprese. Secondo il comma 3, le regioni provvedono alla individuazione dei sistemi produttivi locali nonché al finanziamento di progetti innovativi e di sviluppo dei sistemi produttivi locali, predisposti da soggetti pubblici o privati.

La legge finanziaria per il 2006 (L. 266/05) è poi intervenuta in materia di distretti produttivi introducendo una nuova disciplina e demandando ad un decreto del Ministro dell'economia e delle finanze la definizione delle caratteristiche e le modalità di individuazione dei distretti produttivi, qualificati come libere aggregazioni di imprese articolate sul piano territoriale e sul piano funzionale, aventi le finalità, da perseguirsi "secondo principi di sussidiarietà orizzontale e verticale”, anche individuando modalità di collaborazione con le associazioni imprenditoriali" di accrescimento dello sviluppo delle aree e dei settori di riferimento e di miglioramento dell'efficienza nell'organizzazione e nella produzione.

L‘articolo 6-bis del decreto legge n. 112/2008 ha modificato in più parti la disciplina sui distretti produttivi introdotta dalla legge finanziaria 2006, eliminando le disposizioni relative al consolidamento fiscale ed alla tassazione unitaria per le imprese appartenenti ai distretti produttivi, sostituite da norme di mera semplificazione ai fini degli adempimenti IVA. Inoltre, ha esteso la normativa sui distretti produttivi alle reti delle imprese di livello nazionale e alle catene di fornitura.

Il decreto-legge n. 5/2009 ha ripristinato l'originaria formulazione della disciplina fiscale sui distretti produttivi introdotta dalla legge finanziaria per il 2006, in quanto il decreto-legge n. 112/2008, pur avendone esteso l’applicazione a nuovi soggetti, ne aveva ridotto fortemente la portata applicativa sotto il profilo delle agevolazioni fiscali. Tale disciplina comunque non ha ancora trovato applicazione in quanto non sono state emanate le norme di attuazione. Inoltre il decreto-legge n. 5/2009 ha disciplinato i contenuti essenziali del contratto di rete tra due o più imprese, con particolare riferimento ai diritti e agli obblighi assunti dalle imprese partecipanti e alle modalità di esecuzione del contratto stesso, prevedendo per la rete di imprese che nasce dalla conclusione di tale contratto l’applicazione delle disposizioni amministrative previste per i distretti produttivi dalla legge finanziaria per il 2006.

Con la recente approvazione della legge n. 99/2009 il Parlamento ha inteso apportare altri cambiamenti alla stessa normativa. L’articolo 1, oltre ad inserire alcune modifiche ed integrazioni alle norme sul contratto di rete contenute nel decreto-legge n. 5/2009, abroga interamente la disciplina prevista per i distretti produttivi e le reti d’impresa dal decreto-legge n. 112/2008 (le cui scelte normative, soprattutto per quanto concerne la disciplina fiscale, come anticipato sono già peraltro state superate con il decreto-legge n. 5/2009).

 

Presso lo stesso Ministero è istituito, senza nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato, l'albo delle imprese autorizzate a utilizzare per i propri prodotti il marchio “100 per cento Italia”.

 

La proposta di legge C. 896 disciplina le tematiche in oggetto agli articoli 5 e 6.

L’articolo 5 disciplina in modo molto simile all’articolo 2 della proposta C. 477 l’individuazione e la riconoscibilità dei prodotti.

Secondo il comma 1, l'utilizzo del marchio “Opera italiana” è concesso al produttore a valere sui prodotti che l'impresa realizza nel rispetto delle condizioni previste dall’articolo 4 (svolgimento in Italia delle due principali fasi di lavorazione e tracciabilità delle rimanenti fasi, oltre a determinati requisiti di qualità del prodotto e di rispetto della normativa vigente). Il comma 2 dispone che il marchio sia apposto sul prodotto finito, in forma indelebile e non sostituibile, in maniera tale da non ingenerare possibilità di confusione da parte del consumatore in merito all'adeguatezza dell'intero prodotto, e non di una sola parte o componente di esso, alle disposizioni della proposta di legge in esame.

L’articolo 6 disciplina le modalità ed i requisiti per la concessione del marchio “Opera italiana”.

Il richiedente presenta la domanda al Ministero dello sviluppo economico (nella proposta C. 477 invece la domanda viene presentata alla CCIAA territorialmente competente), unita all'attestazione che il prodotto per il quale si richiede l'utilizzazione del marchio risponde ai requisiti di cui all’articolo 4 (cfr. supra), avvalendosi di istituti di certificazione pubblici o privati autorizzati con decreto del Ministro dello sviluppo economico, da emanare entro tre mesi.

Si ricorda che per istituti di certificazione si intendono gli organismi che svolgono attività di valutazione e di attestazione di conformità a norme o a regole tecniche nazionali, comunitarie e internazionale (certificazione di prodotti, certificazione di sistemi di gestione, certificazione di personale, ispezioni). Affinché la certificazione abbia una validità ampiamente riconosciuta è necessario che gli organismi di certificazione (come i laboratori) siano accreditati presso un ente riconosciuto a livello nazionale. In Italia l’UNI e il CEI hanno costituito, in forma associativa, il SINAL (Sistema nazionale di accreditamento laboratori), con il compito di accreditare a livello nazionale laboratori italiani ed esteri per garantire l’affidabilità delle verifiche di conformità dei prodotti alle norme e alle regole tecniche nazionali, comunitarie e internazionale, ed il SINCERT (Sistema nazionale di accreditamento di organismi di certificazione), con il compito di accreditare a livello nazionale organismi di certificazione italiani ed esteri per garantire l’affidabilità delle verifiche di conformità.

In proposito si segnala che andrebbe precisato se i costi per ottenere l’attestazione rilasciata dagli istituti autorizzati con decreto siano a carico dei privati che ne fanno richiesta, ovvero della finanza pubblica. Nel secondo caso, infatti, occorre prevedere una norma di copertura finanziaria.

A differenza della proposta C. 477, la proposta C. 896 prevede (al comma 2) un termine di sessanta giorni dalla data di presentazione della domanda per il Ministero dello sviluppo economico per la concessione dell’autorizzazione all'utilizzo del marchio. E’ previsto inoltre che per tale attività il Ministero si avvalga dell'Alto Commissario per la lotta alla contraffazione.

L’Alto Commissario per la lotta alla contraffazione è stato istituito dall'art. 1-quater del D.L. 35/2005 con compiti di coordinamento delle funzioni di sorveglianza in materia di violazione dei diritti di proprietà industriale ed intellettuale, nonché di monitoraggio sulle attività di prevenzione e di repressione dei fenomeni di contraffazione.

Ai sensi dell’art. 4-bis del D.L. 2/2006, tale organo assicura altresì il monitoraggio, anche nel settore agroalimentare, dei fenomeni in materia di violazione dei diritti di proprietà industriale e di proprietà intellettuale, di coordinamento e di studio delle misure volte a contrastarli, nonché di assistenza alle imprese per la tutela contro le pratiche commerciali sleali.

Il regolamento approvato con D.P.R. 78/2007 ha disposto (artt. 5 e 10) la permanente durata in carica dell’organo per un periodo di tre anni, allo scadere dei quali si prevede una valutazione della perdurante utilità dell’organo, finalizzata ad un’eventuale proroga triennale.

Tale organo, tuttavia, è stato soppresso dall’articolo 68, comma 6, lettera b), del decreto legge n. 112/2008.

Si ricorda però che successivamente la legge n. 99/2009 (art. 19, commi 10 e ss.) ha istituito presso il Ministero dello sviluppo economico il Consiglio nazionale anticontraffazione, con funzioni di indirizzo, impulso e coordinamento delle azioni intraprese da ogni amministrazione, al fine di migliorare l’insieme dell’azione di contrasto della contraffazione a livello nazionale[15].

 

L'autorizzazione all'utilizzo del marchio può essere rilasciata dal Ministero dello sviluppo economico a consorzi o a società consortili, anche in forma cooperativa, costituiti da imprese, anche artigiane, facenti parte di distretti industriali individuati ai sensi dell'articolo 36 della legge n. 317/1991, ovvero di specifiche filiere produttive, qualora tutti i prodotti da essi realizzati abbiano i requisiti per ottenere il marchio, ai sensi del presente articolo (comma 3).

In relazione al comma 3 si segnala che una disposizione di questo tipo è contenuta anche nella proposta di legge C. 477 (articolo 3, comma 3) e nella proposta C. 426 (articolo 3, comma 4). Mentre però le pdl 477 e 426 prevedono la facoltà per il Ministero di autorizzare “al rilascio del marchio” tali consorzi o gruppi di imprese, la pdl C. 896 afferma che il Ministero può autorizzare “all’utilizzo del marchio” gli stessi consorzi.

 

La proposta C. 896 inoltre istituisce l'albo delle imprese abilitate a utilizzare per uno o più prodotti il marchio “Opera italiana” presso le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura (art. 6, comma 4).

Al riguardo si osserva che appare incongruo istituire presso le CCIAA, che hanno una competenza territoriale limitata, un albo che riguarda l’utilizzo di un marchio a livello nazionale autorizzato a livello centrale dal Ministero dello sviluppo economico. In proposito si segnala che la proposta di legge C. 477 (articolo 3, comma 4) e la proposta C. 426 (articolo 3, comma 5) istituiscono gli albi presso il Ministero dello sviluppo economico.

Il comma 5 dell’articolo 6 istituisce presso l'Alto Commissario per la lotta alla contraffazione una banca dati, di pubblica consultazione, che raccoglie e registra i dati riferiti alla carta d'identità dei prodotti e i dati riferiti ai produttori e ai prodotti che utilizzano il marchio Opera italiana.

Come per il comma 2, si ricorda che l’Alto Commissario per la lotta alla contraffazione è stato soppresso dall’articolo 68, comma 6, lettera b) del decreto legge n. 112/2008.

Per l'organizzazione, la tenuta e la gestione dell'albo, compresa l'attività istruttoria e di controllo, nonché per l'istituzione della banca dati degli utilizzatori del marchio presso il soppresso Alto Commissario, sono stanziati 5 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008, 2009 e 2010 (comma 6), coperti mediante corrispondente riduzione del fondo speciale di parte corrente relativo al bilancio triennale 2008-2010 utilizzando l'accantonamento relativo al Ministero dell’economia e delle finanze (comma 7).

Al riguardo si segnala che occorre aggiornare il riferimento temporale della norma, facendo riferimento nella clausola di copertura al bilancio 2009-2011.

 

La proposta di legge C. 426 tratta le modalità e i requisiti per la concessione dei marchi di cui prevede l’istituzione all’articolo 3.

Secondo il comma 1, il Ministro dello sviluppo economico provvede entro 3 mesi ad emanare un decreto che stabilisca i criteri, le modalità e le procedure per la concessione dell’utilizzo dei marchi, prevedendo che:

§      la richiesta di utilizzo del marchio “Integralmente Italiano” sia accompagnata da certificazione idonea a documentare le caratteristiche merceologiche del prodotto, corredata da una dichiarazione di conformità alle norme vigenti in materia di lavoro, di rispetto dei contratti collettivi nazionali, di contribuzione fiscale e previdenziale e da un'attestazione che escluda l'impiego di minori nella produzione e garantisca il rispetto della normativa vigente in materia ambientale, e da una certificazione comprovante che la produzione della merce è avvenuta integralmente sul territorio italiano, contenente altresì informazioni idonee a determinare l'origine e le caratteristiche delle materie prime e dei prodotti semilavorati utilizzati nel processo produttivo;

§      siano individuate, con riferimento ai diversi settori produttivi, le caratteristiche dei semilavorati grezzi di importazione eventualmente contenuti nei prodotti che aspirano al marchio “Integralmente Italiano”;

§      i marchi siano apposti esclusivamente sul prodotto finito con modalità atte a rendere immediata e comprensibile l'informazione per il consumatore;

§      il marchio “Stile Italiano-Italian Design” possa essere altresì apposto sui prodotti finiti, anche non destinati al consumo finale, realizzati nelle filiere produttive dei distretti industriali.

I marchi “Integralmente Italiano” e "Stile Italiano-Italian design” sono rilasciati dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, su richiesta delle imprese interessate e previa verifica della sussistenza dei prescritti requisiti (comma 3).

Come le altre due proposte di legge in esame, anche la proposta di legge C. 426 prevede al comma 4 la possibilità per il Ministero dello sviluppo economico di autorizzare al rilascio dei marchi gruppi di imprese facenti parte di specifiche filiere produttive, che a tal fine si associno anche in forma consortile, ovvero gruppi di imprese facenti parte di distretti industriali. L’ultimo comma dell’articolo 3 istituisce, presso il Ministero dello sviluppo economico, gli albi delle imprese abilitate ad utilizzare per i propri prodotti i marchi “Integralmente Italiano” e “Stile Italiano-Italian design”. Le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e i gruppi di imprese di cui al precedente comma sono tenuti a comunicare al Ministero dello sviluppo economico, entro trenta giorni, il rilascio, la revoca e ogni variazione relativa all'utilizzo dei medesimi marchi.

Controlli e sanzioni

La proposta C. 477 si occupa di controlli e sanzioni agli articoli 4, 5 e 6.

L’articolo 4 attribuisce alle camere di commercio il compito di esercitare il controllo di veridicità delle autocertificazioni del marchio “100 per cento Italia”, definendo opportune forme di collaborazione con il Corpo della guardia di finanza e avvalendosi di istituti di certificazione pubblici o privati autorizzati con decreto del Ministro dello sviluppo economico.

Ai sensi dell’articolo 5, le imprese che hanno ottenuto l'autorizzazione all'utilizzo del marchio “100 per cento Italia” attestano con cadenza biennale, tramite autocertificazione da depositare presso il Ministero dello sviluppo economico (che allo scopo può avvalersi delle camere di commercio competenti per territorio), il permanere dei requisiti per l'utilizzo dello stesso marchio. Le imprese sono comunque tenute a comunicare immediatamente al soggetto che ha rilasciato il marchio l'eventuale venire meno dei relativi requisiti e a cessare contestualmente l'utilizzo del marchio.

Sono comunque previsti controlli periodici e a campione ovvero su segnalazione del Ministero dello sviluppo economico finalizzati alla verifica della sussistenza dei requisiti sulle imprese che utilizzano il marchio effettuati da parte delle camere di commercio e dai consorzi di imprese di cui al comma 3 dell'articolo 3, anche tramite gli istituti e i consorzi di certificazione a tale fine autorizzati e individuati con decreto del Ministro dello sviluppo economico (commi 2 e 3). Per tali accertamenti, sono definite opportune forme di collaborazione con il Corpo della guardia di finanza (comma 4).

Qualora emergano a carico dell'impresa interessata violazioni nell'utilizzo del marchio, il Ministero dello sviluppo economico ne revoca l'autorizzazione all'utilizzo; è prevista la possibilità dell’inibizione dell’utilizzo del marchio, a titolo cautelare, nelle more degli accertamenti relativi all’indebito utilizzo. Il Ministero inoltre provvede a rendere nota al pubblico la revoca del marchio a spese dell'impresa interessata, su tre testate giornalistiche, di cui almeno due a diffusione nazionale (commi 5 e 6).

L’articolo 6 definisce il regime sanzionatorio prevedendo, in particolare, al comma 1, che alle imprese colpite dal provvedimento di revoca sia inibita per un periodo di 3 anni la presentazione di nuove richieste di autorizzazione all’uso del marchio. Tale periodo viene elevato a 5 anni, qualora la richiesta riguardi lo stesso prodotto per il quale era intervenuta la revoca.

Il comma 2 prevede la segnalazione all’autorità giudiziaria, da parte del Ministero dello sviluppo economico, dei casi di contraffazione e di uso abusivo del marchio. Lo stesso comma prevede, inoltre, l’applicazione delle disposizioni recate dall’articolo 144 e seguenti del D.Lgs 30/05 (Codice della proprietà industriale).

In relazione a tale segnalazione si ricorda che ai sensi degli articoli 361 e 362 del codice penale il pubblico ufficiale e l'incaricato di pubblico servizio sono tenuti a comunicare all'autorità giudiziaria di qualsiasi reato di cui abbiano avuto notizia nell'esercizio rispettivamente delle funzioni o del servizio.

Il comma 3 sanziona ai sensi del libro II, titolo VII, capo II, del codice penale (rubricato “Della falsità in sigilli o strumenti o segni di segni di autenticazione, certificazione o riconoscimento”) e del codice della proprietà industriale, l'uso illecito del marchio di cui all'articolo 1. Per l'irrogazione delle pene accessorie prevede l’applicazione dell’articolo 518 del codice penale.

Si ricorda che significative modifiche al richiamato libro II, titolo VII, capo II, del codice penale sono state introdotte dalla legge n. 99/2009 (art. 15, comma 1), che ha provveduto a novellare gli artt. 473 e 474 e ad inserire gli artt. 474-bis, 474-ter e 474-quater.

In particolare, il comma 3 richiama dunque l’art. 473 c.p., che prevede la reclusione da sei mesi a tre anni e la multa da 2.500 a 25.000 euro per la contraffazione o l’alterazione di marchi o segni distintivi di prodotti industriali ovvero per l’uso di marchi o segni contraffatti o alterati (primo comma), e la reclusione da uno a quattro anni e la multa da 3.500 a 35.000 euro per la contraffazione o l'alterazione di brevetti, disegni o modelli industriali ovvero per il loro uso (secondo comma).

L’art. 474 c.p., invece, al primo comma prevede la reclusione da uno a quattro anni e la multa da 3.500 a 35.000 euro per coloro che introducono nel territorio dello Stato per trarne profitto prodotti industriali con marchi, sia nazionali che esteri, contraffatti o alterati, mentre al secondo comma disciplina la fattispecie della detenzione per la vendita, della messa in vendita o della messa in circolazione dei suddetti prodotti, che è punita con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a 20.000 euro.

L’art. 474-bis c.p. prevede una specifica ipotesi di confisca obbligatoria:

§      delle cose, a chiunque appartenenti, che servirono o furono destinate a commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474,

§      delle cose, che ne sono l’oggetto, il prodotto, il prezzo o il profitto (primo comma).

In base al secondo comma, se non è possibile eseguire il suddetto provvedimento, il giudice può disporre la confisca per equivalente, nelle forme dell’art. 322-ter c.p.

L’art. 322-ter prevede, laddove siano commessi alcuni reati contro la pubblica amministrazione, che alla condanna consegua la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo. Spetta al giudice, con la sentenza di condanna, determinare le somme di denaro o individuare i beni assoggettati a confisca in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato.

In caso di cose appartenenti a persona estranea al reato, la confisca è esclusa (attraverso il richiamo ai commi terzo e quarto dell’art. 240 c.p.) qualora la persona estranea dimostri di non averne potuto prevedere l'illecito impiego, anche occasionale, o l’illecita provenienza, senza essere per questo incorsa in un difetto di vigilanza (terzo comma).

Viene, infine, precisata l’applicabilità del nuovo art. 474-bis c.p. anche in caso di patteggiamento (quarto comma).

L’art. 474-ter c.p. introduce due circostanze aggravanti per l’ipotesi di commissione dei delitti in modo sistematico o con l’allestimento di mezzi e attività organizzate (sempre che gli stessi non rappresentino il fine di un’associazione a delinquere ai sensi dell’art. 416). In particolare,

§      la pena è della reclusione da 2 a 6 anni e della multa da 5.000 a 50.000 euro per i delitti di cui agli articoli 473 e 474 primo comma (cfr. supra);

§      la pena è della reclusione fino a 3 anni e della multa fino a 30.000 euro per i delitti di cui all’art. 474, secondo comma.

L’art. 474-quater c.p. individua un’attenuante – pena diminuita dalla metà a due terzi - per il colpevole che aiuta le autorità:

§      nell’azione di contrasto ai delitti di cui agli artt. 473 e 474;

§      nella raccolta di elementi utili alla ricostruzione dei fatti o alla cattura di concorrenti;

§      nell’individuazione degli strumenti occorrenti alla commissione dei delitti;

§      nell’individuazione dei profitti derivanti dai delitti.

 

L’art. 475 c.p., infine, prevede – per i suddetti delitti - la pena accessoria della pubblicazione della sentenza di condanna. Peraltro, analoga previsione è contenuta nell’art. 518 c.p., espressamente richiamato dalla proposta di legge.

 

La proposta di legge C. 896 tratta la questione dei controlli all’articolo 7, e quella delle sanzioni all’articolo 13.

L’articolo 7 della pdl C. 896, ad eccezione dei commi 4 e 5, ha contenuti praticamente sovrapponibili all’articolo 5 della pdl C. 477. L’unica differenza rilevante risiede nel fatto che i consorzi di imprese non affiancano le camere di commercio nei controlli. D’altra parte, in tale proposta – a differenza delle altre due - tali consorzi non sono autorizzabili dal Ministero a rilasciare l’uso del marchio.

Nei citati commi 4 e 5 si prevede l'accesso diretto alla banca dati presso l’Alto Commissario per la lotta alla contraffazione da parte del Corpo della guardia di finanza, che provvede alle attività di accertamento per la prevenzione, la ricerca e la repressione delle violazioni nell’utilizzo del marchio, della carta d’identità e dell’etichettatura.

In merito alla formulazione dei commi 4 e 5, si ricorda nuovamente che l’Alto Commissario per la lotta alla contraffazione è stato soppresso dall’articolo 68, comma 6, lettera b) del decreto legge n. 112/2008.

 

Il contenuto dell’articolo 13 della pdl C. 896, riguardante le sanzioni, è sostanzialmente analogo alla pdl C. 477 per quanto riguarda i commi 1, 3 e 4.

Invece il comma 2 dispone che l'Alto Commissario per la lotta alla contraffazione esercita il diritto all'azione di risarcimento danni ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile in caso di utilizzo fraudolento della carta d'identità, del marchio e dell'etichettatura.

In proposito, si ricorda nuovamente che l’Alto Commissario per la lotta alla contraffazione è stato soppresso dall’articolo 68, comma 6, lettera b) del decreto legge n. 112/2008.

 

Il comma 5 richiama la disposizione a tutela del Made in Italy prevista dalla legge finanziaria del 2004 (L. 350/2003, art. 4, co. 49), in base alla quale l'importazione e esportazione a fini commerciali di prodotti recenti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce un reato, sanzionato a norma del codice penale (art. 517) con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a 20.000 euro (v. supra, il quadro normativo) .

Peraltro, la stessa disposizione della legge finanziaria consente, sul piano amministrativo, che le false o fallaci indicazione possano essere corrette e dunque la violazione sanata a spese e cura dell'autore dell'illecito.

 

La proposta di legge C. 426 dispone in merito ai controlli e alle sanzioni rispettivamente agli articoli 5 e 6.

Per quanto concerne l’articolo 5 relativo ai controlli, si può affermare che i contenuti sono simili allo stesso articolo 5 della proposta C. 477 illustrato in precedenza, ad eccezione del fatto che in questo caso il soggetto che ha rilasciato i marchi non è il Ministero dello sviluppo, bensì la camera di commercio oppure il gruppo di imprese. E’ a questo soggetto che le imprese devono presentare ogni due anni l’autocertificazione, e che in caso di violazioni revoca l’autorizzazione all’utilizzo del marchio.

Anche l’articolo 6 della proposta C. 426, relativo alle sanzioni, è sovrapponibile allo stesso articolo della proposta C. 477, a meno del richiamo degli artt. 144 e ss. del codice della proprietà industriale nel comma 2.

Etichettatura

La proposta di legge C. 477 tratta la tematica dell’etichettatura agli articoli 7, 8 e 9.

Il comma 1 dell’articolo 7 prevede l’istituzione di un sistema di etichettatura riguardante i prodotti realizzati in paesi non appartenenti all’Unione europea.

Si tratta di un sistema su base volontaria introdotto per consentire una adeguata informazione, sia degli utilizzatori intermedi che dei consumatori finali, in merito ai processi di lavorazione dei prodotti commercializzati sul mercato italiano. La presente disposizione precisa che tale sistema dovrà, comunque, porre in evidenza :

§      il Paese di origine del prodotto finito e dei prodotti intermedi;

§      la realizzazione di tali prodotti nel rispetto delle norme comunitarie vigenti in materia di origine commerciale, igiene e sicurezza dei prodotti.

Ai sensi del comma 2 spetta al produttore o all’importatore fornire, con l’etichettatura, ulteriori specifiche informazioni riguardanti la conformità dei prodotti:

§      alle vigenti norme internazionali in materia di lavoro, certificazione di igiene e sicurezza, esclusione dell’impiego di minori nella produzione;

§      alle norme europee e agli accordi internazionali in materia ambientale.

Il comma 3, da ultimo, demanda ad un decreto del Ministro dello sviluppo economico - che dovrà essere adottato entro tre mesi dall’entrata in vigore del provvedimento di concerto con i Ministri dell’economia e delle finanze e del commercio internazionale - la definizione delle procedure di rilascio e delle caratteristiche del predetto sistema di etichettatura. Con lo stesso decreto saranno definite, altresì, misure destinate a promuovere la conoscenza dei consumatori riguardo alle caratteristiche del suddetto sistema di etichettatura nonché alla forme di semplificazione delle procedure doganali riservate ai prodotti che siano dotati di etichettature conformi alle presenti disposizioni. Viene precisato che dall’attuazione del comma in esame non dovranno derivare ulteriori e maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Ferme restando le disposizioni del precedente articolo 7, per il solo settore del calzaturiero l’articolo 8, al comma 1, prevede la possibilità di apporre un’etichetta contenente informazioni sui materiali utilizzati e sulle diverse parti che compongono le calzature, nonché sull’origine dei materiali stessi e sulle lavorazioni.

Il comma 2 invece prescrive l’obbligo di riportare nell’etichetta determinate informazioni in caso di calzature prodotte al di fuori dell’Unione europea e qualificate come dispositivi di protezione individuale ai sensi del D.Lgs. 475/1992. In particolare, in tal caso l’etichetta deve riportare la denominazione e il codice identificativo dell’organismo italiano autorizzato al rilascio della relativa certificazione.

Si osserva che, per maggiore chiarezza della norma, sarebbe opportuno individuare le calzature in oggetto tramite la seguente formulazione (utilizzata dall’art. 10, co. 2, dalla pdl C. 896): “Per le calzature prodotte al di fuori dell'Unione europea e qualificate come dispositivi di protezione individuale”.

Il D.Lgs 4 dicembre 1992, n. 475 recante “Attuazione della direttiva 89/686/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1989, in materia di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai dispositivi di protezione individuale”,all’articolo 1 identifica come dispositivi di protezione individuale (DPI) i prodotti che hanno la funzione di salvaguardare da rischi per la salute e la sicurezza la persona che li indossa o che li porta con sé. L’art. 3 del citato D.Lgs. vieta l’immissione sul mercato e in servizio di tali prodotti, qualora  non rispondono ai requisiti essenziali di sicurezza richiesti specificati nell'allegato II al decreto. Si considerano conformi a detti requisiti i DPI muniti della marcatura CE.

L’articolo 9, in tema di etichettatura dei prodotti tessili, aggiunge all’articolo 8, comma 1, del decreto legislativo n. 194/1999, una disposizione volta a prevedere che, per i prodotti realizzati al di fuori dell'Unione europea e qualificati come dispositivi di protezione individuale, l'etichetta riporti anche la denominazione e il codice identificativo dell'organismo italiano autorizzato che ha rilasciato la relativa certificazione. Quando tali prodotti non sono offerti in vendita a un consumatore, tali informazioni possono essere riportate in documenti commerciali di accompagnamento.

Il D.Lgs 22 maggio 1999, n. 194, “Attuazione della direttiva 96/74/CE relativa alle denominazioni del settore tessile, all’articolo 8 reca disposizioni in materia di etichettatura. Il comma 1, in particolare, stabilisce che i prodotti tessili debbano essere etichettati o contrassegnati all'atto di ogni operazione di commercializzazione riguardante il ciclo industriale e commerciale, prevedendo, inoltre la possibilità di completare o sostituire l'etichetta e il contrassegno con documenti commerciali d'accompagnamento, nel caso in cui i prodotti non siano offerti in vendita al consumatore finale o quando si tratti di un'ordinazione dello Stato o di altra persona giuridica di diritto pubblico. 

 

La proposta di legge C. 896 all’articolo 9 contiene disposizioni analoghe a quelle esposte per la proposta C. 477 in merito all’etichettatura su base volontaria per i prodotti realizzati in paesi extra UE. Tuttavia, a differenza dell’articolo 7 della pdl C. 477, l’articolo 9 della pdl C. 896 non è corredato di una clausola di invarianza finanziaria relativamente alle procedure di rilascio e di controllo del sistema di etichettatura e alle campagne di informazione rivolte ai consumatori.

In relazione all’articolo 10 relativo all’etichettatura delle calzature, si segnala che, mentre la proposta di legge C. 477 prevede al comma 1 dell’articolo 8 la possibilità di riportare l’etichetta informativa, nella proposta C. 896 è fatto obbligo di riportare tale etichetta.

Per quanto concerne l’articolo 11, relativo all’etichettatura dei prodotti tessili, le disposizioni in esso contenute coincidono sostanzialmente con quelle dell’articolo 9 della proposta C. 477.

 

La proposta di legge C. 426 contiene all’articolo 4 disposizioni analoghe a quelle delle pdl 477 e 896 in materia di etichettatura su base volontaria per i prodotti realizzati in paesi extra UE. Non sono invece presenti disposizioni specifiche per l’etichettatura delle calzature e dei prodotti tessili.

Promozione dei marchi

La proposta di legge C. 477 contiene norme in materia di promozione del marchio e della sua registrazione comunitaria all’articolo 11.

Secondo il comma 1, il Ministero dello sviluppo economico può predisporre campagne annuali di promozione del marchio “100 per cento Italia” nel territorio nazionale nonché sui principali mercati internazionali.

Al finanziamento delle predette campagne si provvede mediante utilizzo di una quota non inferiore al 50% delle entrate derivanti dalle sanzioni amministrative irrogate dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato.

Si ricorda che l’articolo 148 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria per il 2001) dispone, al comma 1, che tali entrate siano destinate ad iniziative a vantaggio dei consumatori e, al comma 2, che esse siano riassegnate con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze ad un apposito Fondo istituito nello stato di previsione del Ministero delle attività produttive (ora Ministero dello sviluppo economico), per essere destinate alle iniziative a vantaggio dei consumatori individuate di volta in volta con decreto dello stesso Ministro, sentite le competenti Commissioni parlamentari.

Il comma 2 demanda al Ministero dello sviluppo economico la registrazione del marchio di cui all’art. 1 come:

§      marchio comunitario, presso l’ufficio di armonizzazione comunitaria, ai sensi  del regolamento (CE) n. 40/94;

§      marchio internazionale, ai sensi del Protocollo di Madrid.

In proposito si ricorda che il regolamento (CE) n. 40/94 istituisce un sistema che consente all'Ufficio di armonizzazione del mercato interno (UAMI) di rilasciare i marchi comunitari. Grazie ad una domanda unica di registrazione presentata all'UAMI il marchio comunitario acquista carattere unitario, nel senso che produce gli stessi effetti in tutta la Comunità europea.

Si distingue dal marchio comunitario il marchio internazionale che, attraverso un deposito unico, consente di ottenere la protezione nei diversi Paesi che fanno parte del sistema di Madrid costituito dall’Accordo e dal Protocollo di Madrid. Quest’ultimo è stato adottato il 27 giugno 1989 allo scopo di introdurre alcune innovazioni nel sistema di registrazione internazionale dei marchi istituito in precedenza dall’intesa o Accordo di Madrid risalente al 14 aprile 1891. La procedura di registrazione internazionale dei marchi consente al titolare di un marchio nazionale di estenderne la protezione in uno o più dei Paesi aderenti, tramite un singolo deposito, compilato in una sola lingua, e presso un unico ente: l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (OMPI) con sede a Ginevra.

Il comma 3 prevede la possibilità per le imprese facenti parte di distretti industriali di concertare con le regioni, i comuni e le camere di commercio azioni di promozione dei prodotti contrassegnati dal marchio “100 per cento Italia”, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

 

Si ricorda inoltre che l’articolo 10, che istituisce l’obbligo di accompagnare la definizione «Made in Italy» con una scheda informativa denominata «carta d’identità del prodotto finito», prevede al comma 3 che, per informare i consumatori sulla rilevanza delle notizie contenute in tale scheda informativa, il Ministero dello sviluppo economico possa attuare una campagna di informazione capillare, nell’ambito degli ordinari stanziamenti di bilancio.

 

La proposta di legge C. 896 prevede, all’articolo 14, la messa in atto da parte del Ministero dello sviluppo economico, di:

§      campagne di informazione tramite le emittenti televisive nazionali, la rete radiofonica, internet e stampati da inviare al domicilio dei cittadini, per informare i consumatori riguardo alla rilevanza delle notizie contenute nella carta d'identità dei prodotti «Made in Italy» e all'etichettatura dei prodotti extra UE;

§      campagne annuali di promozione del marchio “Opera italiana” nel territorio nazionale nonché sui principali mercati internazionali per il sostegno e per la valorizzazione della produzione italiana nonché per la sensibilizzazione del pubblico ai fini della tutela del consumatore.

Per il sostegno di tali campagne si provvede utilizzando le risorse del fondo a sostegno del «made in Italy», istituito con l'articolo 4, comma 61, della legge finanziaria per il 2004.

 

La proposta di legge C. 426 reca, all’articolo 7, disposizioni per la promozione dei marchi e la registrazione comunitaria e, all’articolo 8, le corrispondenti norme di copertura finanziaria.

Il comma 1 dell’articolo 7 prevede che, “a decorrere dall'anno 2008”, il Ministero dello sviluppo economico predispone campagne annuali di promozione dei marchi “Integralmente Italiano” e “Stile Italiano-Italian Design” sui principali mercati internazionali per il sostegno e la valorizzazione della produzione italiana e per la sensibilizzazione del pubblico ai fini della tutela del consumatore (comma 1).

Si osserva che andrebbe aggiornato il riferimento temporale alla decorrenza delle campagne promozionali.

Per il sostegno delle campagne promozionali di cui al comma 1 sono stanziati 35 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008, 2009 e 2010 (comma 3), coperti mediante corrispondente riduzione del fondo speciale di parte corrente relativo al bilancio triennale 2008-2010 utilizzando l'accantonamento relativo al Ministero del lavoro (articolo 8, comma 2).

Anche qui occorre aggiornare il riferimento temporale della norma, facendo riferimento nella clausola di copertura al bilancio 2009-2011.

 

Il comma 2 dell’articolo 7 sulla registrazione internazionale dei marchi è pressoché identico al comma 2 dell’articolo 11 della proposta C. 477.

 

Il comma 4 introduce un credito d’imposta in favore dei distretti industriali di cui all’articolo 36 della legge n. 317/1991 e dei consorzi di imprese che promuovono con le regioni, i comuni e le camere di commercio i prodotti contrassegnati dai marchi di cui alla presente legge.

Il beneficio fiscale spetta per le spese di promozione sostenute “a decorrere dall’esercizio 2008” ed è fissato in misura pari al 65% - ovvero all’85% nel caso di consorzi - delle spese medesime, a valere sul Fondo agevolazioni per la ricerca di cui all’articolo 5 del D.Lgs. 297/1999 che è conseguentemente incrementato di 50 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008, 2009 e 2010.

Si osserva che andrebbe aggiornato il riferimento temporale alla decorrenza del beneficio.

Inoltre, tenuto conto che la norma potrebbe trovare applicazione anche per le società il cui esercizio sociale non coincide con l’anno solare, al fine di evitare dubbi interpretativi sarebbe opportuno indicare, quale riferimento temporale, l’esercizio in corso alla data del 31 dicembre dell’anno di decorrenza del beneficio.

 

Il credito d’imposta non concorre alla formazione della base imponibile ai fini delle imposte dirette (IRPEF, IRES e IRAP) e non rileva, per le imprese soggette ad IRPEF, ai fini della determinazione della quota di indeducibilità degli interessi passivi di cui all’articolo 61 del TUIR.

La fruizione del beneficio è ammessa esclusivamente attraverso la compensazione con debiti di imposte, tributi e contributi (modello F24) di cui al decreto legislativo n. 241/1997.

La norma prevede, inoltre, un rinvio ad un decreto del Ministro dello sviluppo economico, da emanare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del provvedimento in esame, per la determinazione delle modalità attuative dell’agevolazione in esame, tenuto conto della disciplina comunitaria sugli aiuti per la ricerca, lo sviluppo e l’ambiente.

L’articolo 8, comma 1 dispone la copertura finanziaria degli oneri derivanti dal beneficio fiscale introdotto dall’articolo 7, comma 4, pari a 50 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008, 2009 e 2010, mediante corrispondente riduzione del fondo speciale di parte corrente relativo al bilancio triennale 2008-2010 utilizzando l'accantonamento relativo al Ministero del lavoro.

Al riguardo si segnala che occorre aggiornare il riferimento temporale della clausola di copertura facendo riferimento al bilancio 2009-2011.

Pdl 1593 e 2624

Le pdl 1593 Cota e 2624 Reguzzoni sono volte ad assicurare la tracciabilità dei prodotti dei comparti tessile, della pelletteria e del calzaturiero in modo da tutelare i consumatori sotto il profilo dell’informazione sulla qualità e sulla sicurezza dei prodotti medesimi e da rendere possibile al consumatore distinguere il prodotto che sia realizzato interamente in Italia.

A tal fine l’articolo 1 della pdl 2624 introduce un sistema di etichettatura obbligatoria dei prodotti finiti e intermedi nei suddetti comparti che evidenzi il luogo di origine di ciascuna delle fasi di lavorazione.

Il sistema di etichettatura fornisce inoltre l’indicazione chiara e sintetica di specifiche informazioni riguardanti:

§      la conformità dei processi di lavorazione alle norme internazionali vigenti in materia di lavoro;

§      la certificazione di igiene e di sicurezza dei prodotti;

§      l'esclusione dell'impiego di minori nella produzione;

§      il rispetto della normativa europea e degli accordi internazionali in materia ambientale.

 

Si segnala che a partire dal gennaio 2008 l’ITF-Italian Textile Fashion (organo di coordinamento delle Camere di commercio italiane per la valorizzazione e la tutela della filiera della moda – tessile, abbigliamento, calzature) ha messo a punto un sistema di tracciabilità volontario finalizzato alla qualificazione dei prodotti tessili, della pelletteria e delle calzature, attraverso una maggiore trasparenza delle fasi del processo produttivo.

Questo sistema volontario di tracciabilità prevede che le informazioni relative all’origine delle lavorazioni siano riportate in etichetta insieme all’indicazione di un codice alfanumerico che consenta al consumatore di ripercorrere la storia del prodotto che ha acquistato facendo una semplice verifica nel sito internet di ITF.

Le aziende che vogliono aderire al sistema di tracciabilità ITF devono sottoporsi ad alcune verifiche per ottenere la certificazione il cui rilascio sarà successivamente deliberato da un Comitato composto da Unioncamere, dalle associazioni di categoria, dai sindacati e dalle associazioni dei consumatori .

 

Inoltre la norma consente l’uso della denominazione “Made in Italy” – su richiesta delle imprese - esclusivamente per prodotti dei suindicati settori le cui fasi di lavorazione, come individuate dalla stessa pdl (art. 1, commi 5-7), abbiano avuto luogo prevalentemente (vale a dire per almeno la metà delle operazioni di lavorazione) nel territorio italiano.

Per tutti i prodotti privi dei requisiti necessari all’impiego della denominazione “Made in Italy” è fatto salvo l’obbligo di etichettatura con l’indicazione dello Stato di provenienza.

L’articolo inoltre precisa che ai fini del provvedimento in esame per prodotto tessile si intende “ogni tessuto naturale, sintetico o artificiale, che costituisca parte del prodotto finito destinato all'abbigliamento, oppure all'utilizzazione quale accessorio da abbigliamento, oppure all'impiego quale materiale componente di prodotti destinati all'arredo della casa e all'arredamento, intesi nelle loro più vaste accezioni, oppure come prodotto calzaturiero”.

 

A tale proposito si segnala che una definizione di prodotto tessile è contenuta nell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. 22 maggio 1999, n. 194, recante Attuazione della direttiva 96/74/CE relativa alle denominazioni del settore tessile che attualmente regola l’etichettatura del settore, ai sensi del quale viene definito prodotto tessile un prodotto che, indipendentemente dalla tecnica di produzione e dalla fase di lavorazione, è composto esclusivamente di fibre tessili. Ai prodotti tessili sono assimilati i prodotti contenenti almeno l’80% in peso di fibre tessili, le parti tessili destinate a rivestimenti, che costituiscano almeno l’80% in peso e tutti i prodotti tessili incorporati in altri prodotti di cui siano parte integrante,qualora ne venga specificata la composizione (art. 2, comma 3 d. lgs. 194/1999).

 

La definizione delle caratteristiche del sistema di etichettatura obbligatoria e di impiego della denominazione «Made in Italy», nonché delle modalità per l'esecuzione dei relativi controlli è demandata ad un decreto del Ministro dello sviluppo economico da emanarsi entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge in esame (articolo 2).

Entro il medesimo termine il Ministro del lavoro dovrà provvedere all’adozione di un regolamento - aggiornato con cadenza annuale in base ad indicazioni dell'Istituto superiore di sanità – destinato, oltre che a garantire elevati livelli di qualità dei prodotti e dei tessuti commercializzati, a tutelare la salute umana e l'ambiente, attraverso l’introduzione di un capillare sistema di controlli e l'individuazione dei soggetti preposti all'esecuzione dei medesimi.

 

La proposta prevede anche agevolazioni in favore delle imprese che investono in ricerca e sviluppo.

In particolare l’articolo 3 dispone, relativamente all’anno 2009, un incremento per 100 milioni di euro degli stanziamenti per crediti d'imposta fruiti dalle imprese in relazione ai costi sostenuti per attività di ricerca industriale e di sviluppo precompetitivo per attività di ricerca (art. 1, co. 280-283 della L. 296/2006), previsti dall’art. 29, co. 2, del DL 185/2008.

 

Il comma 2, art. 29, del DL 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, conferma le risorse già stanziate sul bilancio dello Stato per i crediti d'imposta per le spese per attività di ricerca, presenti nel capitolo 7811 dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze e indicate anche dalla tabella F della legge finanziaria per il 2009 (375,2 milioni per il 2008, di 533,6 milioni per il 2009, di 654 milioni per il 2010 e di 65,4 milioni per il 2011).

La disciplina delle modalità per usufruire del credito di imposta per la ricerca, secondo le modalità di seguito illustrate, ai sensi del secondo periodo del comma 2 si applica a decorrere dal 2009:

a)  per le attività di ricerca che, sulla base di atti o documenti aventi data certa, risultano già avviate prima del 29 novembre 2008, le imprese inoltrano per via telematica alla Agenzia delle entrate, entro 30 giorni dalla data di attivazione della procedura prevista dal successivo comma 4 (rectius 5), a pena di decadenza dal contributo, un apposito formulario approvato dal Direttore della predetta Agenzia; l'inoltro del formulario vale come prenotazione dell'accesso alla fruizione del credito d'imposta;

b)  per le attività di ricerca avviate a partire dal 29 novembre 2008, la compilazione del formulario da parte dei soggetti interessati ed il suo inoltro per via telematica alla Agenzia delle entrate vale come prenotazione dell'accesso alla fruizione del credito di imposta successiva a quello di cui alla lettera a).

 

Si ricorda che i commi da 280 a 283 della legge finanziaria per il 2007 (legge n. 296/2006) hanno disposto la concessione di un credito d’imposta per gli investimenti ed i costi sostenuti dalle imprese per la ricerca e l’innovazione. In particolare, il comma 280, come modificato, ha previsto che tale credito d’imposta sia concesso per tre anni, a decorrere dal periodo d'imposta 2007 e fino al periodo d'imposta 2009, nella misura del 10% dei costi sostenuti per attività di ricerca industriale e di sviluppo precompetitivo[16]. Tale misura è incrementata al 40% nel caso che tali costi siano sostenuti dalle imprese a seguito di contratti stipulati con università ed enti pubblici di ricerca.

Il comma 281 ha fissato un limite massimo di importo su cui applicare il credito d’imposta, prevedendo che i costi su cui calcolare il credito non possano, in ogni caso, superare l'importo di 50 milioni di euro per ciascun periodo d'imposta.

Nel comma 282 sono indicate le modalità applicative per fruire del credito. Il credito d'imposta deve essere indicato nella relativa dichiarazione dei redditi ma esso:

-        non concorre alla formazione del reddito;

-        non concorre alla formazione della base imponibile dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP).

In attuazione del comma 283 è stato emanato il decreto interministeriale 28 marzo 2008, n. 76 (Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze), recante il Regolamento concernente disposizioni per l'adempimento degli obblighi di comunicazione a carico delle imprese, per le modalità di accertamento e verifica delle spese per il credito d'imposta inerente le attività di ricerca e di sviluppo. In particolare il regolamento, dopo aver individuato le attività ammissibili, i soggetti beneficiari, i costi ammissibili, all’articolo 5 stabiliva che l'impresa beneficiaria indicasse, a pena di decadenza, in un'apposita sezione della dichiarazione dei redditi il prospetto relativo ai costi sulla base dei quali è stato determinato l'importo del credito d'imposta.

 

Le imprese tessili, della pelletteria e del calzaturiero che investono in ricerca e sviluppo sono escluse dall’applicazione del secondo periodo del comma 2 del citato art. 29 del DL 185/2008 (cfr. supra) e ad esse continuano ad applicarsi le disposizioni dell'articolo 1, commi da 280 a 283, della legge n. 296/2006, precedentemente illustrati.

 

All’onere derivante dall’attuazione delle disposizioni dell’articolo 3 si provvede mediante corrispondente riduzione delle risorse assegnate al Fondo strategico per il Paese a sostegno dell'economia reale, di cui all'articolo 18, comma 1, lettera b-bis), del richiamato DL 185/2008.

Il Fondo strategico per il Paese a sostegno dell'economia reale è stato istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri dall'art. 7-quinquies, commi 10 e 11 del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito con modificazioni nella legge 9 aprile 2009, n. 33. Attraverso una novella all’articolo 18, comma 1, del D.L. n. 185 del 2008, il nuovo Fondo diventa destinatario della ripartizione delle risorse FAS ad opera del CIPE in luogo del Fondo per la competitività di cui all’articolo 1, comma 841, della legge finanziaria per il 2007.

 

La proposta all’articolo 4 prevede apposite misure sanzionatorie.

L’apparato sanzionatorio a tutela delle disposizioni del provvedimento consiste, in primo luogo, in sanzioni di natura amministrativa.

Sostanzialmente il provvedimento individua tre tipi di illecito amministrativo:

§      la mancata o scorretta etichettatura dei prodotti;

§      l’abuso della denominazione “made in Italy”;

§      la mancata o incompleta indicazione nell’etichetta della conformità delle lavorazioni alle norme internazionali in materia di lavoro, igiene e sicurezza dei prodotti, tutela ambientale.

 

Salvo che il fatto costituisca reato, gli illeciti previsti dalla proposta di legge in esame sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria pari al doppio del presunto valore di vendita della merce e, in ogni caso, non inferiore a 5.000 euro; la merce è sempre oggetto di sequestro e confisca.

 

Si consideri che, a seguito delle modifiche recentemente introdotte all'art. 4, co. 49, della L. 350/2003 con la L. 99/2009, la configurabilità del reato di cui all’art. 517 c.p. viene estesa anche alla circostanza di mancata indicazione precisa del Paese di origine o comunque di informazioni chiare sull’origine del prodotto, nel caso in cui si faccia uso di marchi di aziende italiane, su prodotti o merci non originari dell’Italia. Pertanto, oggi, un prodotto con marchio appartenente a una azienda italiana, che però sia stato fabbricato all’estero e su cui non è chiaramente indicato il Paese di origine, rientra nella fattispecie di reato di cui all’art. 517 c.p., anche se sullo stesso non è apposta la dicitura “Made in Italy”[17].

 

Ove le violazioni siano commesse da imprese, la sanzione pecuniaria è analoga alla precedente ma con un valore minimo raddoppiato in 10.000 euro; fermo restando l’applicazione del sequestro e confisca delle merci; la recidiva nella violazione comporta la misura interdittiva della sospensione dell’attività d’impresa per un periodo minimo di un mese e massimo di un anno.

 

Il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio) che omette i controlli sulle merci imposti dalla nuova disciplina commette, invece, un illecito penale punito con la reclusione da sei mesi a due anni congiunta con la multa fino a 30.000 euro.

L’ultima comma dell’art. 4 prevede, infine, l’applicazione della pena stabilita per l’associazione a delinquere (da 3 a 7 anni di reclusione) quando l’attività illecita in oggetto sia commessa sistematicamente mediante l’ausilio di un’organizzazione.

 

Da ultimo l’articolo 5 demanda al Ministro per le politiche europee il compito di assumere opportune iniziative a livello comunitario volte all’adozione di misure legislative in grado di recepire i contenuti del provvedimento in esame in esame.

 

Passando ad esaminare la pdl 1593, si consideri che gli articoli 1 e 2, in materia di etichettatura obbligatoria dei prodotti e di utilizzo della denominazione «Made in Italy», hanno un contenuto analogo ai corrispondenti articoli della pdl 2624. Le differenze più rilevanti consistono:

§      nella non obbligatorietà di fornire altre specifiche informazioni nella etichettatura (art. 1, co. 2);

§      nella mancanza della definizione di “prodotto tessile”;

§      nella mancanza della previsione di un regolamento volto a garantire elevati livelli di qualità dei prodotti commercializzati.

 

L’articolo 3 reca invece disposizioni sanzionatorie.

In particolare, si prevede il divieto di commercializzare sul territorio nazionale i prodotti dei settori tessile, della pelletteria e del calzaturiero che non presentino l’etichettatura obbligatoria di cui all’art. 1, co. 1, e quindi non riportino, in forma chiara e ben visibile, l’indicazione del luogo di origine di ciascuna fase di lavorazione.

Pertanto, nel caso venga commercializzato un prodotto, soggetto al sistema di etichettatura obbligatoria, non munito delle indicazioni di origine e composizione, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 a 6.000 euro.

Invece, nel caso venga commercializzato un prodotto con un’etichettatura non veritiera per quanto riguarda le indicazioni di origine e composizione, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 6.000 a 24.000 euro e si procede al sequestro e alla confisca dei prodotti.

 

L’articolo 4 subordina l’applicazione delle disposizioni del provvedimento in esame alla preventiva approvazione in sede comunitaria.

 

Infine l’articolo 5 reca la clausola di invarianza finanziaria.

Pdl 219 e 340

La proposta C. 219 Mazzocchi è volta ad introdurre un sistema obbligatorio di tracciabilità di filiera dei prodotti intesa - come si sottolinea nella relazione illustrativa – quale filiera di controllo lunga, che va oltre l'ambito strettamente produttivo per comprendere anche la distribuzione e il consumo.

Il sistema di tracciabilità delineato dalla pdl 219, diversamente da quanto previsto dalle pdl 1593 e 2624, non è circoscritto a specifici settori ma riguarda tutto l’apparato produttivo nazionale.

La necessità dell’introduzione di un sistema obbligatorio di tracciabilità di filiera, come si evince dalla relazione illustrativa, si ricollega al fenomeno della globalizzazione dei mercati e allo sviluppo del commercio internazionale che stanno generando confusione sulla reale identità dei marchi dei prodotti e il disorientamento dei consumatori riguardo alla formazione dei prodotti stessi.

La tracciabilità di filiera si fonda sulla identificazione delle aziende che hanno contribuito alla formazione di un dato prodotto, in modo da rendere più consapevole e meno anonima la relazione tra produttore e consumatore.

 

La proposta è pertanto finalizzata (articolo 1):

§      all’introduzione di un sistema obbligatorio di tracciabilità della materia prima impiegata nei sistemi produttivi;

§      alla tutelare della sicurezza del consumatore e alla trasparenza nelle singole fasi del processo produttivo;

§      alla previsione di strumenti di identificazione dei prodotti in grado di orientare il consumatore finale verso scelte consapevoli in relazione all'origine e alle caratteristiche del prodotto consumato;

§      alla valorizzazione della filiera attraverso la ricostruzione e la documentazione del percorso seguito dai singoli prodotti nella fase della produzione, della trasformazione e della distribuzione;

§      all’attribuzione di un ruolo di controllo ai consumatori finali - riferito alla presentazione dei prodotti - attraverso l’operato di associazioni di rappresentanza.

 

Il sistema obbligatorio di tracciabilità della filiera è inteso, ai sensi dell’articolo 2, come l'insieme di atti e di procedure volti ad assicurare la conoscenza del luogo di origine o di provenienza di un prodotto oltre che a garantire la trasparenza delle tecniche e dei processi produttivi.

La conoscenza dell’origine e della provenienza dei prodotti deve essere assicurata da strumenti di identificazione documentale o attraverso l’apposizione di dati specifici di riconoscimento che permettano di individuare le fasi di produzione, raccolta, trasformazione, confezionamento, distribuzione e commercializzazione del prodotto.

 

L’articolo 3 prevede che ogni impresa della filiera deve predisporre un sistema di tracciabilità certificabile da organismi di controllo riconosciuti a livello comunitario.

Si dispone quindi il divieto di produrre o commercializzare prodotti per i quali non è stato adottato il sistema di tracciabilità di filiera, con decorrenza dal 1° gennaio del 2009.

Al riguardo si segnala che occorre aggiornare il riferimento temporale della norma.

 

Gli imprenditori che adottano il sistema obbligatorio di tracciabilità sono tenuti a conformare la propria attività a principi etici, quali la tutela dei lavoratori (specialmente dei minori), lo sviluppo sostenibile e la tutela dell’ambiente (articolo 4).

L’articolo 5 tutela il diritto dei consumatori ad essere adeguatamente informati. A tal fine stabilisce che, fatte salve le specifiche norme vigenti in materia, nell’etichettatura sia obbligatoriamente riportato in modo chiaro e comprensibile il luogo di origine o di provenienza della materia prima e la ricostruzione del percorso seguito dal prodotto attraverso le fasi della produzione, trasformazione e distribuzione.

 

L'articolo 6 prevede che con apposito decreto si istituisca, presso il Ministero dello sviluppo economico, l'Osservatorio per il monitoraggio del sistema obbligatorio di tracciabilità dei prodotti della filiera, composto da sei membri, cinque in rappresentanza delle associazioni di categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale e uno di nomina ministeriale.

All’Osservatorio sono affidati compiti di controllo sull’etichettatura dei prodotti volti a verificare l’adeguatezza e completezza delle informazioni.

 

I successivi articoli prevedono la promozione di campagne di informazione da parte dell’Osservatorio sul sistema di tracciabilità previsto dal provvedimento in esame (articolo 7), una relazione annuale sullo stato di attuazione della legge da presentare al Parlamento da parte del Presidente del Consiglio (articolo 8), l’obbligo di fornire campioni dei prodotti immessi sul mercato a richiesta degli organi vigilanti (articolo 9).

 

L’articolo 10 invece prevede che, a decorrere dal 1° gennaio 2009, in caso di produzione o commercializzazione di prodotti privi del sistema di tracciabilità di cui al provvedimento in esame, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 2.500 a 5.000 euro e si procede alla confisca delle merci. Nei casi di particolare gravità può essere disposta anche la sospensione della produzione e della commercializzazione fino a 12 mesi.

 

Da ultimo la proposta di legge demanda l’adozione del regolamento attuativo al Ministro dello sviluppo economico, che vi dovrà provvedere entro il termine di tre mesi dall’entrata in vigore della legge (articolo 11).

 

La pdl 340 Bellotti interviene in materia di etichettatura dei prodotti, sia nazionali che esteri, commercializzati nel nostro Paese, al fine di introdurre attraverso di essa la certificazione del rispetto, nell’ambito della manifattura, di principi etici minimi, a tutela della manodopera, specie se minorile.

I principi cui si devono conformare i prodotti sono contenuti:

§      nella Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 ratificata con la legge 27 maggio 1991, n. 176;

§      nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 10 dicembre del 1948.

 

In particolare l’articolo 1 impone ai produttori e agli importatori di apporre sulla confezione di ogni prodotto commercializzato in Italia o sul prodotto stesso, in modo chiaro e leggibile, la dichiarazione concernente il rispetto o il mancato rispetto dei:

§      principi in materia di lavoro minorile, di cui alla Convenzione sui diritti del fanciullo, con particolare riferimento all’adozione di misure contro ogni forma di violenza, oltraggio, abbandono, negligenza, maltrattamenti o sfruttamento (art. 19), per l’abolizione di pratiche tradizionali pregiudizievoli per la salute dei minori(art. 24), contro lo sfruttamento economico del fanciullo e la costrizione a lavori comportanti rischi e per la fissazione di «un'età minima oppure età minime di ammissione all'impiego» e «un'adeguata regolamentazione degli orari di lavoro e delle condizioni d'impiego» (art. 32), contro tortura o a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (art. 37);

§      principi in materia di diritti dell’uomo e dei lavoratori espressi nella Dichiarazione universale, con particolare riferimento al rigetto di ogni forma di schiavitù (art. 4), al divieto di tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti (art. 5), al diritto alla sicurezza sociale di ciascun individuo (art. 22) e alla libera scelta dell'impiego, ad una rimunerazione equa e soddisfacente di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi (art. 23).

 

In caso di assenza o errata indicazione nell’etichettatura delle informazioni di cui sopra si prevede una sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 2.000 euro (articolo 2).

Il termine per l’adeguamento dei produttori alle disposizioni in esame è fissato in tre anni dall’entrata in vigore del provvedimento. Eventuali proroghe, limitate ad alcune categorie di beni e non superiori ad un anno, saranno stabilite con decreto del Ministro dello sviluppo economico (articolo 3).

Lo stesso Ministro con proprio regolamento dovrà provvedere alla definizione delle modalità attuative della presente legge (articolo 4).

La norma prevede erroneamente che il regolamento venga adottato di concerto con il Ministro del commercio internazionale. A tale proposito si ricorda che con l’avvio della presente legislatura il Ministero in questione è stato accorpato al nuovo Ministero dello sviluppo economico.


 



[1]    Acronimo inglese di trade-related aspects of intellectual property right.

[2]    Valga per tutti il caso della legge n. 313/1998 sull’olio d’oliva, sostituita con l’articolo 1-ter del d.l. 157/2004 che ha limitato l’obbligo di indicare la provenienza delle olive per i soli oli vergini ed extra vergini. Per il comparto la soluzione è venuta solo con l’approvazione del reg. CE 182/2009 che ha riconosciuta la necessità di tale regime obbligatorio per evitare che i “consumatori venissero fuorviati circa le reali caratteristiche del prodotto”.

[3]    A.C. 2260 Disposizioni per il rafforzamento della competitività del settore agroalimentare, art. 6 e A.S. 1331 Disposizioni in materia di etichettatura dei prodotti alimentari, approvato il 23/9/09.

[4]    L’articolo 4 della direttiva 2000/13/CE  prevede che soltanto riguardo a determinati prodotti alimentari, e non in generale per tutti indistintamente i prodotti alimentari, possano essere rese obbligatorie, con norme comunitarie o in mancanza di queste in forza di una norma nazionale adottato dal singolo Stato membro, indicazioni aggiuntive diverse da quelle previste dall'art. 3 della direttiva medesima.

[5]    L’ art. 19 della cit. dir. 2000/13/CE richiede la notifica preventiva delle norme nazionali alla Commissione e agli altri Stati membri delle misure adottate, precisandone i motivi. La Commissione consulta gli Stati membri in sede di comitato permanente per la catena alimentare e la salute degli animali, istituito dal regolamento (CE) n. 178/2002, qualora lo ritenga utile o a richiesta di uno Stato membro. Lo Stato membro può adottare le misure previste soltanto tre mesi dopo tale comunicazione e purché non abbia ricevuto parere contrario della Commissione.

[6]    Articolo 4, commi da 49 a 84.

[7]    Come modificato prima dal comma 9 dell'art. 1, D.L. 14 marzo 2005, n. 35, poi dall'art. 2-ter, D.L. 30 settembre 2005, n. 203, poi ancora dal comma 941 dell’articolo 1 della legge finanziaria per il 2007 (L. 296/2006), quindi infine dal comma 4 dell’articolo 17 della L. 99/2009.

[8]    Va ricordato che l’art. 517 c.p., come recentemente novellato dalla legge n. 99 del 2009 (Disposizioni per lo sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia), prevede che chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell'ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti a indurre in inganno il compratore sull'origine, provenienza o qualità dell'opera o del prodotto, è punito, se il fatto non è previsto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a 2 anni e con la multa fino a 20.000 euro.

[9]    Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge  6 agosto 2008, n. 133.

[10]   Disposizioni per lo sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia.

[11]    Cfr. la sentenza della Corte UE del 12 ottobre 1978, causa 13/78, Eggers Sohn et Co. contro Città di Brema; in tale sentenza sono stati chiaramente enucleati i motivi alla base dell’interpretazione dell’art. 28 (allora 30) del Trattato fatta dalla Corte, in tema di marchi di qualità di titolarità di enti pubblici.

[12]   Si ricorda, peraltro, come non abbia dato luogo a rilievi da parte delle istituzioni comunitarie la previsione di due marchi collettivi relativi a prodotti diversi da quelli agroalimentari ad opera della legge 9 luglio 1990, n. 188, che ha inteso tutelare la “ceramica artistica e tradizionale” prodotta in determinate zone del territorio nazionale secondo “forme, decori, tecniche e stili divenuti patrimonio storico e culturale delle singole zone” nonché la “ceramica italiana di qualità” prodotta in conformità ad un apposito disciplinare approvato dal Consiglio nazionale ceramico. In entrambi i casi il marchio viene attribuito esclusivamente a produzioni ceramiche localizzate nel territorio nazionale ma solo qualora presentino determinati requisiti qualitativi.

[13]   Con riferimento al tema del marchio di origine, si ricorda in particolare come l’art. IX del GATT  si limitI a fissare alcuni principi di carattere generale, tra i quali quello di cui al secondo comma, ai sensi del quale “Le parti contraenti riconoscono che, nell’elaborazione e applicazione delle leggi o regolamenti relativi ai marchi d’origine, converrà ridurre al minimo le difficoltà e gli inconvenienti che da tali misure potrebbero conseguire per il commercio e la produzione dei paesi esportatori, tenendo in debito conto la necessità di proteggere i consumatori contro le indicazioni fraudolente o di natura a indurre in errore”.

[14]   A loro volta si definiscono sistemi produttivi locali i contesti produttivi omogenei, caratterizzati da una elevata concentrazione di imprese, prevalentemente di piccole e medie dimensioni, e da una peculiare organizzazione interna.

[15]   Tale organo, presieduto dal Ministro dello sviluppo economico e composto da rappresentanti di alcuni Ministeri, può invitare a partecipare ai propri lavori rappresentanti di altre amministrazioni pubbliche e delle categorie di imprese, lavoratori e consumatori.

[16]   Sono agevolati gli investimenti effettuati sia “intra muros” cioè all’interno dell’impresa stessa, che quelli “extra muros” cioè i finanziamenti destinati a soggetti esterni all’azienda. Il diritto al beneficio è concesso a tutti i tipi di imprese, senza distinzione alcuna, e si applica quindi sia alle PMI che alle grandi imprese, a prescindere dal settore di operatività dell’impresa stessa.

[17]   L’art. 517 c.p., come recentemente novellato dalla legge n. 99/2009, prevede che chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell'ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti a indurre in inganno il compratore sull'origine, provenienza o qualità dell'opera o del prodotto, è punito, se il fatto non è previsto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a 2 anni e con la multa fino a 20.000 euro.