Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento istituzioni
Titolo: Prevenzione e repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione A.C. 4434 - Schede di lettura
Riferimenti:
AC N. 4434/XVI     
Serie: Progetti di legge    Numero: 513
Data: 06/07/2011
Descrittori:
CORRUZIONE E CONCUSSIONE   PREVENZIONE DEL CRIMINE
REATI CONTRO L' AMMINISTRAZIONE PUBBLICA E LA GIUSTIZIA     
Organi della Camera: I-Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni
II-Giustizia
Altri riferimenti:
AS N. 2156/XVI     

 

Camera dei deputati

XVI LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione per l’esame di
Progetti di legge

Prevenzione e repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione

A.C. 4434

Schede di lettura

 

 

 

 

 

 

n. 513

 

 

 

6 luglio 2011

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi – Dipartimento Istituzioni

( 066760-9475 / 066760-3855 – * st_istituzioni@camera.it

 

 

 

 

 

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File: ac0660.doc

 


INDICE

Schede di lettura

§      Art. 1 (Autorità nazionale anticorruzione. Piano nazionale anticorruzione).3

§      Art. 2. (Trasparenza dell'attività amministrativa).12

§      Art. 3. (Modifiche all'articolo 53 del decreto legislativo  30 marzo 2001, n. 165).20

§      Art. 4. (Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti).23

§      Art. 5. (Attività d'impresa particolarmente esposte a rischio d'inquinamento mafioso).25

§      Art. 6. (Princìpi generali per regioni ed enti locali).27

§      Art. 7. (Modifiche all'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20).28

§      Art. 8. (Delega al Governo per l'adozione di un testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e divieto di ricoprire cariche elettive e di governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi).32

§      Art. 9. (Modifiche al codice penale).45

§      Art. 10. (Clausola di invarianza).50

 

 


Schede di lettura

 


Art. 1
(Autorità nazionale anticorruzione. Piano nazionale anticorruzione).

1. In attuazione dell'articolo 6 della Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell'ONU il 31 ottobre 2003 e ratificata ai sensi della legge 3 agosto 2009, n. 116, e degli articoli 20 e 21 della Convenzione penale sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999, la presente legge individua, in ambito nazionale, l'Autorità nazionale anticorruzione e gli altri organi incaricati di svolgere, con modalità tali da assicurare azione coordinata, attività di controllo, di prevenzione e di contrasto al fenomeno corruttivo e dell'illegalità nella pubblica amministrazione.

2. La Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 13 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, opera quale Autorità nazionale anticorruzione, ai sensi del comma 1. In particolare, la Commissione:

a) collabora con i paritetici organismi stranieri, con le organizzazioni regionali ed internazionali competenti;

b) approva il Piano nazionale anticorruzione predisposto dal Dipartimento della funzione pubblica, di cui al comma 4, lettera c);

c) esercita la vigilanza e il controllo sull'effettiva applicazione e sull'efficacia delle misure adottate dalle pubbliche amministrazioni ai sensi dei commi 4 e 5;

d) riferisce al Parlamento, presentando una relazione entro il 31 dicembre di ciascun anno, sull'attività di contrasto al fenomeno corruttivo e dell'illegalità nella pubblica amministrazione e sull'efficacia delle disposizioni vigenti in materia.

3. Per l'esercizio delle funzioni di cui al comma 2, lettera c), la Commissione può esercitare poteri ispettivi chiedendo notizie, informazioni, atti e documenti alle pubbliche amministrazioni, e ordina la rimozione di comportamenti o atti contrastanti con i piani di cui ai commi 4 e 5.

4. Il Dipartimento della funzione pubblica, anche secondo linee di indirizzo adottate dal Comitato interministeriale istituito e disciplinato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri:

a) coordina l'attuazione delle strategie di prevenzione e contrasto della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione elaborate a livello nazionale e internazionale;

b) promuove e definisce norme e metodologie comuni per la prevenzione della corruzione, coerenti con gli indirizzi, i programmi e i progetti internazionali;

c) predispone sulla base dei piani delle pubbliche amministrazioni centrali di cui al comma 5 il Piano nazionale anticorruzione, anche al fine di assicurare l'attuazione coordinata delle misure di cui alla lettera a);

d) definisce modelli standard delle informazioni e dei dati occorrenti per il conseguimento degli obiettivi previsti dalla presente legge, secondo modalità che consentano la loro gestione ed analisi informatizzata.

5. Le pubbliche amministrazioni centrali definiscono e trasmettono al Dipartimento della funzione pubblica:

a) propri piani di azione che forniscono una valutazione del diverso livello di esposizione al rischio corruzione degli uffici;

b) gli interventi organizzativi per presidiare il rischio di cui alla lettera a);

c) procedure appropriate per selezionare e formare, in collaborazione con la Scuola superiore della pubblica amministrazione, i dipendenti chiamati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione, prevedendo, negli stessi settori, la rotazione di dirigenti e funzionari.

 

L'articolo 1 del disegno di legge, ampiamente modificato nel corso dell’esame al Senato, individua l’autorità nazionale competente a coordinare l’attività di contrasto al fenomeno corruttivo nella pubblica amministrazione, nonché le funzioni degli altri organi incaricati di funzioni di prevenzione e contrasto dell’illegalità.

 In sintesi, il nuovo assetto organizzativo delle politiche di contrasto alla corruzione a livello nazionale si fonda sulla collaborazione tra la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche – Civit, il Dipartimento della funzione pubblica e le pubbliche amministrazioni centrali.

Inoltre, con il medesimo articolo si prevede la predisposizione di un Piano nazionale anticorruzione.

 

In via preliminare è opportuno ricordare la normativa di maggior rilievo in materia di lotta alla corruzione nella pubblica amministrazione. Il legislatore, in particolare, ha dedicato particolare attenzione al tema con l’approvazione della legge 29 settembre 2000, n. 300[1]. La legge n. 300/2000 ha autorizzato la ratifica di alcuni atti internazionali finalizzati, da un lato, all’adozione di efficaci misure sanzionatorie, anche penali, per la repressione delle frodi ai danni degli interessi finanziari delle Comunità europea, dall’altro, all’attuazione di un programma di lotta alla corruzione nelle transazioni economiche internazionali nel quadro degli Stati aderenti all’OCSE.

Le principali linee di intervento del legislatore (tanto della legge n. 300 del 2000, quanto della recente legge n. 116 del 2009) attengono:

§         all’estensione dell’ambito soggettivo di talune figure di reato contro la pubblica amministrazione (peculato, peculato mediante profitto dell’errore altrui, concussione, varie ipotesi di corruzione e istigazione alla corruzione) a membri degli organi comunitari e a funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri (cfr. art. 322-bis c.p.).

§         alla previsione di una generalizzata ipotesi di confisca come conseguenza obbligatoria della sentenza di condanna o di patteggiamento per alcuni reati specificamente indicati commessi da pubblici ufficiali o da incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione italiana o europea, nonché per le ipotesi di truffa aggravata a danno di pubbliche amministrazioni (cfr. art. 322-ter c.p.);

§         all’adeguamento delle disposizioni sulla perseguibilità del reato commesso dal cittadino all’estero o dallo straniero all’estero, richiamando espressamente le Comunità europee tra i soggetti passivi dei reati (cfr. artt. 9 e 10 c.p.);

§         all’introduzione di una nuova figura di reato definita “indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato” (contributi, finanziamenti, mutui agevolati, ecc) ora prevista dall’ articolo 316-ter del codice penale;

§         alla previsione di una delega al Governo per disciplinare la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche; delega poi esercitata con l’approvazione del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231[2].

La necessità di spostare l'attenzione sulla fase della prevenzione è stata sottolineata, con specifico riferimento all'Italia, dal GRECO (Gruppo di Stati contro la corruzione, istituito nel 1999 per monitorare il rispetto, da parte degli Stati membri, degli standard fissati dal Consiglio d'Europa in materia di corruzione), che il 16 ottobre 2009 ha pubblicato il primo rapporto di valutazione sul nostro Paese.

Le conclusioni del rapporto affermano che, nonostante il forte impegno dell'autorità giudiziaria nell'affrontarla efficacemente, la corruzione è ancora percepita in Italia come un fenomeno pervasivo e sistemico, che coinvolge numerosi campi (in particolare, pianificazione urbanistica, appalti pubblici e sanità) e numerose aree del Paese. In particolare, il GRECO ha sottolineato che la corposa legislazione approvata nel corso degli anni '90 affronta principalmente il versante repressivo-sanzionatorio, mentre maggiore impegno dovrebbe essere profuso nella prevenzione. Maggiore attenzione dovrebbe inoltre essere dedicata alla promozione dell'efficienza e della trasparenza della pubblica amministrazione.

Le 22 raccomandazioni riguardano due ambiti diversi, quello della repressione e quello della prevenzione della corruzione. Le prime attengono alle competenze del Ministero della Giustizia; si segnalano, in particolare, quelle riguardanti il riordino della normativa in materia di corruzione ed i termini di prescrizione dei reati, la formazione specializzata per le forze dell’ordine ed il rafforzamento del coordinamento delle forze investigative, i meccanismi di verifica dell’efficacia delle misure in tema di sequestro e confisca dei proventi del reato di corruzione, le misure sul contrasto al riciclaggio e quelle in materia di falso in bilancio. Le raccomandazioni che attengono all’attività di prevenzione rientrano più specificamente nelle attribuzioni del Dipartimento della Funzione Pubblica quale Autorità Nazionale Anticorruzione. L’Italia ha fatto pervenire al GRECO un rapporto sull’attuazione di tali raccomandazioni[3].

 

In particolare, il comma 1 individua le norme giuridiche internazionali – che sono a fondamento dell’intervento legislativo – nell’articolo 6 della Convenzione dell’organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione del 2003 (c.d. Convenzione di Merida), nonché negli articoli 20 e 21 della Convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corruzione del 1999.

 

La Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale il 31 ottobre 2003 e aperta alla firma a Merida dal 9 all’11 dicembre dello stesso anno, è entrata in vigore a livello internazionale il 14 dicembre 2005. Le premesse della Convenzione affermano che la corruzione costituisce una minaccia per la stabilità e la sicurezza della società ed evidenziano i nessi esistenti tra la corruzione ed altre forme di criminalità, in particolare la criminalità organizzata e la criminalità economica, compreso il riciclaggio di denaro. La Convenzione prevede poi una serie di misure sia di carattere preventivo sia di carattere repressivo, riconoscendo particolare importanza alla cooperazione internazionale e alle misure di recupero dei beni.

La ratifica della Convenzione ONU da parte dell'Italia è stata autorizzata con legge 3 agosto 2009, n. 116[4]. Tale legge apporta modifiche al codice penale e al codice di procedura penale; in particolare, essa estende l’ambito di applicazione del delitto di peculato, concussione, corruzione e istigazione alla corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri, prevede la responsabilità amministrativa dell’ente in relazione alla commissione del delitto di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria, interviene in materia di devoluzione allo Stato estero interessato dei beni confiscati sul territorio italiano in esecuzione di provvedimenti di confisca adottato all’estero.

Si ricorda, inoltre, che il nostro Paese ha sottoscritto anche due Convenzioni del Consiglio d'Europa in materia di corruzione: la Convenzione civile e la Convenzione penale del 1999, In particolare, la Convenzione penale definisce esigenze minime che devono essere soddisfatte nella repressione penale delle varie forme di corruzione, sia nel settore pubblico che in quello privato. Entrambe sono in attesa di ratifica[5].

 

L’articolo 6 della Convenzione ONU prevede che ciascuno Stato Parte assicuri, conformemente ai principi fondamentali del proprio sistema giuridico, l'esistenza di uno o più organi, secondo quanto necessario, incaricati di prevenire la corruzione mediante mezzi quali:

a) l'applicazione delle politiche di prevenzione della corruzione e, se necessario, la supervisione ed il coordinamento di tale applicazione;

b) l'accrescimento e la diffusione delle conoscenze concernenti la prevenzione della corruzione.

Al suddetto organo deve essere assicurata l'indipendenza necessaria a permettergli di esercitare efficacemente le sue funzioni al riparo da ogni indebita influenza. Dovrebbero inoltre essere forniti le risorse materiali ed il personale necessario, nonché la formazione di cui tale personale può avere bisogno per esercitare le sue funzioni.

In via del tutto analoga, l’articolo 20 della Convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corruzione stabilisce che gli Stati contraenti sono tenuti a promuovere la specializzazione delle persone o delle unità indipendenti incaricate della repressione della corruzione e a garantire che tali persone o unità dispongano dei mezzi e dell’indipendenza necessari all’adempimento dei loro compiti. Il successivo articolo 21 prevede un obbligo generale, con riserva dell’applicazione del diritto nazionale, di garantire la cooperazione delle autorità statuali e dei pubblici ufficiali con le autorità preposte alle indagini e al perseguimento di reati.

 

In attuazione di tali disposizioni, il comma 2 dell’articolo in esame individua quale Autorità nazionale anticorruzione la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche – CIVIT, di cui all’articolo 13 del d.lgs. 150/2009, così modificando l’attuale distribuzione delle competenze in questa materia.

 

Per quanto concerne l’attuazione in Italia delle disposizioni sulle autorità nazionali anticorruzione, occorre infatti ricordare che, in un primo momento, con la legge n. 3/2003[6] (art. 1), era stato istituito l’Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e degli altri illeciti nell’ambito della pubblica amministrazione.

Successivamente, il D.L. n. 112 del 2008 (art. 68, co. 6 e 6-bis), ha soppresso la figura dell’Alto Commissario e trasferito le strutture e funzioni al “Ministro competente”, con facoltà per quest’ultimo di delegare un sottosegretario di Stato.

In attuazione di tale disposizione, con D.P.C.M. 2 ottobre 2008 (art. 1) è stato attribuito al Dipartimento della funzione pubblica il compito di:

- eseguire attività di indagine conoscitiva all'interno della pubblica amministrazione anche al fine di elaborare analisi e studi sull'adeguatezza e congruità del quadro normativo e dei provvedimenti messi in atto dalle amministrazioni per prevenire e fronteggiare la corruzione ed altre forme di illecito nella pubblica amministrazione, provvedendo ad informare, se del caso, la Procura generale presso la Corte dei conti ed il procuratore della Repubblica competente per territorio di eventuali fatti costituenti danno erariale ovvero reato;

- predisporre un piano annuale nazionale per la trasparenza dell'azione amministrativa di concerto con le amministrazioni pubbliche centrali, regionali e locali interessate, provvedendo annualmente al suo aggiornamento e perfezionamento;

- provvedere ad una mappatura del fenomeno della corruzione nella pubblica amministrazione, redigendo annualmente una relazione per il Consiglio dei Ministri con evidenziazione delle aree geografiche di riferimento e delle amministrazioni interessate.

Ai sensi dell'art. 2 del decreto citato, nello svolgimento di tali compiti, il Dipartimento della funzione pubblica opera "assicurando autonomia ed indipendenza dell'attività". Nell'espletamento delle sue funzioni, al Dipartimento sono stati attribuiti i poteri già riconosciuti all’Alto commissario dagli artt. 2, commi 2 e 3, e 3 del D.P.R. 6 ottobre 2004, n. 258[7].  Il Dipartimento della funzione pubblica esercita tali funzioni attraverso il Servizio Anticorruzione e trasparenza (SAeT) dello stesso Ministero.

Confermando l’assetto di competenze successivo al D.L. 112, l’articolo 6 della già ricordata legge 116/2009 di ratifica della Convenzione ONU ha designato quale autorità nazionale ai sensi dell'art. 6 della Convenzione il soggetto al quale sono state trasferite le funzioni dell'Alto Commissario, ai sensi dell'art. 68, comma 6-bis, del decreto-legge 112/2008. A tale soggetto "sono assicurate autonomia ed indipendenza nell'attività".

 

Pertanto, con la diposizione in esame la Civit – a cui peraltro la normativa istitutiva già attribuisce il compito di favorire la diffusione della legalità e della trasparenza nelle pa – si sostituisce nel ruolo di Autorità nazionale anticorruzione al Dipartimento della funzione pubblica, che tale veste ricopre secondo la normativa vigente.

 

La Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche – Civit è stata istituita ex articolo 13 del decreto legislativo 150/2009[8] con la funzione di indirizzare, coordinare e sovrintendere all’esercizio indipendente delle funzioni di valutazione delle amministrazioni; di garantire la trasparenza dei sistemi di valutazione, di assicurare la comparabilità e la visibilità degli indici di andamento gestionale. A tali attribuzioni si affianca il compito di garantire la trasparenza totale delle amministrazioni, cioè l’accessibilità dei dati inerenti al loro funzionamento. La Commissione esercita le proprie attribuzioni «in posizione di indipendenza di giudizio e di valutazione e in piena autonomia», in collaborazione con il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri[9].

Nell’esercizio delle competenze concernenti la salvaguardia della trasparenza, la Commissione: predispone le linee guida del Programma triennale per l'integrità e la trasparenza che deve essere adottato da ciascuna amministrazione, ne verifica l'effettiva adozione e vigila sul rispetto degli obblighi in materia di trasparenza da parte di ciascuna amministrazione; realizza e gestisce il portale della trasparenza che contiene i dati relativi alle amministrazioni pubbliche, in collaborazione con il Cnipa (Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione).

In particolare, ai sensi del comma 8 dell’articolo 13 del d.lgs. 150, nell’ambito della Commissione è istituita la Sezione per l'integrità e la trasparenza delle amministrazioni, a cui sono assegnati, con delibera della Commissione, personale della struttura ed esperti di elevata professionalità ed esperienza sui temi della prevenzione e della lotta alla corruzione. La Sezione ha il compito di favorire la diffusione della legalità e della trasparenza nelle amministrazioni pubbliche e sviluppare interventi a favore della cultura dell'integrità.

 

Proprio i profili di indipendenza e terzietà che caratterizzano la Commissione sono stati alla base della sua individuazione quale Autorità nazionale anticorruzione.

 

Sul punto, infatti, il testo originario del disegno di legge del Governo lasciava inalterata la competenza in materia del Dipartimento della funzione pubblica. All’esito di un ampio dibattito in Aula, il Senato ha approvato l’attuale formulazione del testo, sulla base di un emendamento del Governo. Anche la Corte dei Conti ha osservato che il Dipartimento della funzione pubblica, struttura incardinata nella Presidenza del Consiglio dei Ministri, non appare possedere i requisiti di indipendenza necessaria richiesti dall’articolo 6 della Convenzione ONU ratificata[10].

 

Le funzioni affidate alla Commissione in materia di lotta alla corruzione sono definite nel comma 2 ed attengono prevalentemente al ruolo di rappresentanza istituzionale, specie nei rapporti con i competenti organismi internazionali, nonché di vigilanza e controllo sulle politiche di contrasto alla corruzione e sull’efficacia delle singole misure adottate dalle pubbliche amministrazioni.

Più nel dettaglio, alla Commissione è affidato il compito di:

a)      collaborare con i paritetici organismi stranieri, con le organizzazioni regionali ed internazionali competenti;

b)      approvare il Piano nazionale anticorruzione che viene predisposto dal Dipartimento della funzione pubblica (v., infra);

c)      esercitare la vigilanza e il controllo sull'effettiva applicazione e sull'efficacia delle misure adottate dalle pubbliche amministrazioni. A tal fine, ai sensi comma 3, la Commissione di poteri ispettivi, che le consentono di richiedere notizie, informazioni, atti e documenti alle pubbliche amministrazioni, nonché ordinare la rimozione di comportamenti o atti;

d)      riferire al Parlamento sull'attività di contrasto al fenomeno corruttivo e dell'illegalità nella pubblica amministrazione e sull'efficacia delle disposizioni vigenti in materia, presentando una relazione entro il 31 dicembre di ciascun anno.

 

Al tempo stesso, residuano in capo al Dipartimento della funzione pubblica importanti funzioni normative, esecutive e di coordinamento. Infatti, ai sensi del successivo comma 4, il Dipartimento, innanzitutto predispone il Piano nazionale anticorruzione, sulla base dei singoli piani predisposti e trasmessi dalle pubbliche amministrazioni centrali (lettera c).

Queste, infatti, devono valutare il livello di esposizione al rischio corruzione dei rispettivi uffici, nonché definire gli interventi organizzativi per presidiare il rischio medesimo e le procedure appropriate per selezionare e formare i dipendenti chiamati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione, prevedendo la rotazione dei dirigenti e dei funzionari in tali settori (comma 5).

 

In proposito, si ricorda che l'art. 5 della Convenzione Onu del 2003 richiede agli Stati Parte di elaborare e applicare o perseguire, conformemente ai principi fondamentali del proprio sistema giuridico, politiche di prevenzione della corruzione efficaci e coordinate che favoriscano la partecipazione della società e rispecchino i principi dello stato di diritto, di buona gestione degli affari pubblici e dei beni pubblici, d'integrità, di trasparenza e di responsabilità. Ciascuno Stato Parte si deve adoperare al fine di: (1) attuare e promuovere pratiche efficaci volte a prevenire la corruzione; (2) valutare periodicamente gli strumenti giuridici e le misure amministrative pertinenti al fine di determinare se tali strumenti e misure sono adeguati a prevenire e combattere la corruzione.

 

Oltre alla redazione del Piano, il Dipartimento della funzione pubblica ha il compito di promuovere e definire norme e metodologie comuni per la prevenzione della corruzione, secondo gli indirizzi, i programmi e i progetti internazionali. Supporta le pubbliche amministrazioni, definendo modelli standard delle informazioni e dei dati occorrenti per il conseguimento degli obiettivi previsti dalla legge, secondo modalità che consentano la loro gestione ed analisi informatizzata (co. 4, lettera d), e, più in generale, assolve ad un ruolo di coordinamento nell’attuazione delle strategie di contrasto alla corruzione (co. 4, lettera a).

 

In base alla formulazione del comma 4, il Dipartimento svolge le sue funzioni «anche secondo le linee di indirizzo adottate dal Comitato interministeriale istituito e disciplinato con d.P.C.M.».

La disciplina, la composizione e le funzioni del Comitato non sono altrimenti individuate; pertanto vi è un ampio rinvio alla fonte secondaria.

 

In considerazione della nuova distribuzione di funzioni e poteri in materia di lotta alla corruzione prevista dall’intero articolo 1, pare opportuno coordinare tali disposizioni con le norme sulle quali si fonda l’attuale assetto organizzativo e funzionale, di cui all’art. 6 della legge 116/2009 ed all’art. 68, co. 6-bis, del D.L. 112/2008, nonché alle relative disposizioni di attuazione, anche prevedendo le necessarie abrogazioni.

 


Art. 2.
(Trasparenza dell'attività amministrativa).

1. La trasparenza dell'attività amministrativa, che costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, secondo quanto previsto all'articolo 11 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, è assicurata mediante la pubblicazione, sui siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni relative ai procedimenti amministrativi, secondo criteri di facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione, nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto d'ufficio e di protezione dei dati personali.

2. Fermo restando quanto stabilito nell'articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, come modificato dall'articolo 3 della presente legge, nell'articolo 54 del codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, nell'articolo 21 della legge 18 giugno 2009, n. 69, e nell'articolo 11 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, le amministrazioni pubbliche assicurano i livelli essenziali di cui al comma 1 con particolare riferimento ai procedimenti di:

a) autorizzazione o concessione;

b) scelta del contraente per l'affidamento di lavori, forniture e servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163;

c) concessione ed erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati;

d) concorsi e prove selettive per l'assunzione del personale e progressioni di carriera di cui all'articolo 24 del citato decreto legislativo n. 150 del 2009.

3. Le amministrazioni provvedono altresì al monitoraggio periodico del rispetto dei tempi procedimentali attraverso la tempestiva eliminazione delle anomalie.

4. Ogni amministrazione pubblica rende noto, tramite il proprio sito istituzionale, almeno un indirizzo di posta elettronica certificata cui il cittadino possa rivolgersi per trasmettere istanze ai sensi dell'articolo 38 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, e ricevere informazioni circa i provvedimenti e i procedimenti amministrativi che lo riguardano.

5. Le amministrazioni possono rendere accessibili in ogni momento agli interessati, tramite strumenti di identificazione informatica di cui all'articolo 65, comma 1, del codice di cui al citato decreto legislativo n. 82 del 2005, e successive modificazioni, le informazioni relative ai provvedimenti e ai procedimenti amministrativi che li riguardano, ivi comprese quelle relative allo stato della procedura, ai relativi tempi e allo specifico ufficio competente in ogni singola fase.

6. Con uno o più decreti dei Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti per le materie di competenza, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono individuate le informazioni rilevanti ai fini dell'applicazione dei commi 1 e 2 del presente articolo e le relative modalità di pubblicazione, nonché le indicazioni generali per l'applicazione dei commi 4 e 5. Restano ferme le disposizioni in materia di pubblicità previste dal codice di cui al citato decreto legislativo n. 163 del 2006.

7. La mancata o incompleta pubblicazione da parte delle pubbliche amministrazioni delle informazioni di cui al comma 6 costituisce violazione degli standard qualitativi ed economici ai sensi dell'articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 20 dicembre 2009, n. 198, ed è comunque valutata ai sensi dell'articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Eventuali ritardi nell'aggiornamento dei contenuti sugli strumenti informatici sono sanzionati a carico dei responsabili del servizio.

 

 

L'articolo 2 reca norme concernenti la trasparenza dell'attività amministrativa, con specifico riferimento ai procedimenti amministrativi.

Il comma 1 ribadisce, attraverso il richiamo al d.lgs. 150/2009, che la trasparenza dell'attività amministrativa costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione.

La trasparenza, si prevede, è assicurata attraverso pubblicazione, sui siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni relative ai procedimenti amministrativi.

I criteri che devono essere seguiti nella pubblicazione sono: facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione, nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto d'ufficio e di protezione dei dati personali.

 

Occorre preliminarmente tener presente che, la disposizione costituzionale menzionata attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.

Con specifico riferimento al principio di trasparenza, la dottrina e la giurisprudenza amministrativa hanno, dapprima, individuato il nucleo di tale paradigma fondamentale dell’azione amministrativa nella immediata e facile conoscibilità e controllabilità di tutti i momenti in cui si esplica l’operato della pubblica amministrazione onde garantirne e favorirne lo svolgimento imparziale. Il corollario basilare di tale principio impone, dunque, la pubblicità dell’azione dell’amministrazione nei confronti dei governati.

Tale principio ha trovato riconoscimento legislativo nell’art. 1 della L. n. 241/1990 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), sul procedimento amministrativo, come novellata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15 e dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile).

Le articolazioni più rilevanti del principio de quo, soddisfatte dalla predetta legge 241/1990, sono:

-          l’obbligatorietà della motivazione del provvedimento amministrativo (art. 3);

-          il diritto dei privati di partecipare attivamente al procedimento amministrativo (cd. principio del giusto procedimento ex artt. 7 e 10-bis della L. 241/1990);

In linea generale, l’insieme delle pretese che il cittadino può vantare nei confronti della pubblica amministrazione, affinché l’operato di questa sia considerato “trasparente”, può esser ricompreso nell’alveo del diritto di accesso agli atti e ai documenti della pubblica amministrazione (cfr. anche l’art. 22 della L. 241/1990, come modificato dall’art. 10, comma 1 della L. 69/2209, , ai sensi del quale l’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza).

Nell’ambito del variegato panorama normativo in tema di trasparenza, arricchitosi in modo significativo in virtù dei suddetti interventi legislativi, meritano particolare menzione alcuni precetti enucleati dal D.Lgs. 165/2001 (T.U. pubblico impiego) in tema di servizi di accesso e polifunzionali di cui all’art. 10 , comma 2, e di relazioni con il pubblico (art. 11, comma 1).

In aggiunta a quanto sopra esposto, la trasparenza costituisce obiettivo fondamentale dei più recenti interventi normativi connessi alla L. 15/2009 e al relativo decreto di attuazione D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 (cd. Riforma Brunetta), in virtù dei quali la trasparenza assurge a “livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche a norma dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione" prescrivendo alle amministrazioni pubbliche l’adozione di ogni iniziativa utile a promuovere la massima trasparenza nella propria organizzazione e nella propria attività. Il citato D.Lgs. 150/2009, che dedica alla trasparenza l'art. 11, nella predisposizione degli strumenti atti a misurare e a valutare la performance organizzativa e individuale delle strutture e dei singoli dipendenti, ribadisce che il principio in commento deve configurarsi come accessibilità totale, anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti internet delle pubbliche amministrazioni: delle informazioni concernenti ogni aspetto dell'organizzazione delle pubbliche amministrazioni; degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all'utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali; dei risultati dell'attività di misurazione e valutazione svolta in proposito dagli organi competenti, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità.

Il decreto legislativo n. 150/2009 stabilisce, altresì, che le amministrazioni sono tenute a porre in essere un apposito Programma triennale per la trasparenza e l'integrità con il precipuo obiettivo di governare il processo di sviluppo dell’accessibilità totale e garantire la massima trasparenza in ogni fase del ciclo della performance.

Nella progressiva attuazione del principio in esame si colloca, inoltre, il disposto di cui all’art. 21 della L. 69/2009 (cd. Operazione Trasparenza) in virtù del quale le amministrazioni devono pubblicare, sui propri siti internet, le retribuzioni annuali, i curricula vitae e i recapiti dei dirigenti nonché i tassi di assenza e di maggiore presenza del personale.

Occorre, poi, ricordare che il D.Lgs. 253/2010, recante modifiche ed integrazioni al Codice dell’amministrazione digitale, annovera tra i suoi principi portanti quello della trasparenza (applicazione concreta di tale profilo è rinvenibile nel prescritto arricchimento dei siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni).

Da tutto quanto esposto in precedenza, seppur per sommi capi, appare evidente come trasparenza ed efficienza della pubblica amministrazione si pongano su di un medesimo piano costituendo la prima una leva strategica per l’attuazione della seconda; ciò in quanto la trasparenza è posta alla base delle effettiva capacità delle istituzioni pubbliche di rendere conto ai propri amministrati delle attività svolte, rendicontazione volta a creare un efficace sistema di controllo nell’ambito di un complesso sistema qìal centro del quale si colloca il cittadino-utente.

Si segnala, infine, che gli artt. 1 e 2 dell'A.S. 2243 ter all’esame della I Commissione del Senato (risultanti dallo stralcio degli artt. 41 e 42 dell’AS 2243, già art. 29 dell’A.C. 3209-bis), recante "Disposizioni in materia di semplificazione dei rapporti della Pubblica Amministrazione con cittadini e imprese e delega al Governo per l'emanazione della Carta dei doveri delle amministrazioni pubbliche e per la codificazione in materia di pubblica amministrazione", nel delegare il Governo ad emanare la "Carta dei doveri delle pubbliche amministrazioni", prevedono che, in sede di attuazione della delega, il Governo debba assumere la trasparenza quale fondamentale principio cui l'attività delle amministrazioni pubbliche si uniforma attraverso l'uso delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, in conformità con quanto disposto dal suddetto art. 11, comma 1, del decreto legislativo 150/2009.

 

Occorre ricordare che l’articolo 6, co. 2, lett. b), del D.L. 70/2011 (già esaminato dalla Camera  e trasmesso al Senato) stabilisce che, entro novanta giorni dall’entrata in vigore, le pubbliche amministrazioni pubblichino sui propri siti istituzionali, per ciascun procedimento amministrativo ad istanza di parte che rientra nelle proprie competenze, l’elenco degli atti e documenti che l’istante ha l’onere di produrre a corredo dell’istanza, tranne che in caso di atti o documenti la cui presentazione in allegato alla domanda sia prevista da norme di legge, regolamento o da (altri) atti pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale. Tale obbligo appare una specificazione di parte di quanto previsto più ampiamente dall’articolo 57 del d.lgs. 82/2005, Codice dell’amministrazione digitale (Cad), in quanto l’obbligo di rendere disponibile per via telematica l’elenco della documentazione richiesta per i singoli procedimenti pare ricomprendere quello di pubblicare sul proprio sito istituzionale l’elenco degli atti e documenti che l’istante ha l’onere di produrre nei procedimenti ad istanza di parte.

Lo stesso art. 6 citato prevede che, in caso di inadempimento dell’amministrazione al suddetto obbligo di pubblicazione, l’istanza non può essere rigettata per mancata presentazione di documenti. Piuttosto, l’amministrazione procedente deve assegnare all’istante un termine congruo per integrare la domanda con la documentazione necessaria. Qualora, invece, l’amministrazione non vi provveda, rigettando l’istanza, il relativo provvedimento di diniego è nullo. Inoltre, il mancato adempimento dell’obbligo di pubblicazione sul sito istituzionale è valutato anche ai fini dell’attribuzione della retribuzione di risultato dei dirigenti responsabili. Specifici effetti in caso di inadempimento sono stabiliti per i procedimenti ad istanza di parte necessari all’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigiana.

 

Il comma 2 richiede che le pubbliche amministrazioni assicurino i livelli essenziali di cui sopra con particolare riferimento ai procedimenti di:

a) autorizzazione o concessione;

b) scelta del contraente per l'affidamento di lavori, forniture e servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta secondo le modalità previste dal Codice degli appalti (decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163);

c) concessione ed erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché di attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati;

d) concorsi e prove selettive per l'assunzione del personale e progressioni in carriera.

 

Il comma in esame fa salvo quanto stabilito, in primo luogo, dall’art. 53 del D.Lgs. n. 165/2001, recante disposizioni in materia di trasparenza degli incarichi e delle consulenze (v. infra sub art. 3); dall’art. 54 del D.Lgs n. 82/2005 (Codice dell'amministrazione digitale), che disciplina il contenuto dei siti delle pubbliche amministrazioni; dall’art. 21 della legge n. 69/2009, in materia di trasparenza sulle retribuzioni dei dirigenti e sui tassi di assenza e di maggiore presenza del personale; dall’art. 11 del D.Lgs.  n.150/2009 in tema di trasparenza.

Con particolare riferimento alla tematica connessa al processo di informatizzazione della pubblica amministrazione, nel corpo del Codice dell’amministrazione digitale, nella nuova formulazione di cui al D.Lgs. 235/2010, sono stati introdotti nuovi principi e strumenti volti a garantire trasparenza, responsabilizzazione e miglior organizzazione in termini di efficienza e efficacia dell’attività amministrativa; tra questi, in particolare, si segnala proprio l’arricchimento dei siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni sulle quali incombe, tra l’altro, l’onere di pubblicare on-line tutti i moduli e formulari necessari per richiedere l’avvio dei procedimenti amministrativi.

Devono, poi, essere facilmente reperibili e consultabili i dati precisati nell’art. 54 citato recante prescrizioni circa gli elementi che i predetti siti debbono contenere necessariamente (organigramma, elenco delle tipologie di procedimento svolte da ciascun ufficio di livello dirigenziale non generale, le scadenze e le modalità di adempimento dei procedimenti, l’elenco delle caselle di posta elettronica istituzionali, di tutti i bandi di gara, dei servizi forniti in rete già disponibili e di futura attivazione nonché tutti i bandi di concorso). 

 

Il comma 3, con riferimento a tutti i procedimenti amministrativi, impone alle pubbliche amministrazioni di provvedere al monitoraggio periodico del rispetto dei tempi procedimentali anche al fine di evidenziare e risolvere eventuali anomalie.

 

Si ricorda che, ai sensi dell’art. 2, comma 1 della L. 241/1990, è obbligo della pubbliche amministrazioni concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso ove questo consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio.

Il problema dell’ individuazione del termine di conclusione del procedimento, tra i più spinosi nell’ambito del diritto amministrativo, ha trovato recente soluzione nell’art. 7 della L. 69/2009, che ha completamente riformulato il suindicato art. 2 per ridurre e conferire maggiore certezza a tale termine. A tal fine, si stabilisce che, salvo diverso termine stabilito ex lege o con diverso provvedimento, il termine generale per la conclusione di procedimenti amministrativi è di 30 giorni (art. 2, comma 2 novellato).

A tale disciplina, sopra accennata, alla quale appare strettamente connessa la tematica relativa alla responsabilità del dirigente (art.2, comma 9 della L. 241/1990 come modificato dalla L. 69/2009)  mancata conclusione del procedimento nei termini in ordine, rileva come abbia assunto un ruolo centrale la questione della tempistica dell’azione amministrativa e la tutela approntata in favore del cittadino danneggiato dall’inerzia della pubblica amministrazione (cfr. art. 2-bis, comma 1, della L. 241/1990 nonché artt. 30-31 del D.Lgs. 104/2010 recante il Codice del processo amministrativo).

 

Il comma 4 stabilisce che le pubbliche amministrazioni debbano rendere noto, tramite il proprio sito istituzionale, almeno un indirizzo di posta elettronica certificata cui il cittadino possa rivolgersi per trasmettere istanze e dichiarazioni e ricevere informazioni circa i provvedimenti e i procedimenti amministrativi che lo riguardano.

 

L'art. 38 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa), citato dalla disposizione in esame, stabilisce che tutte le istanze e le dichiarazioni da presentare alla pubblica amministrazione o ai gestori o esercenti di pubblici servizi possano essere inviate anche per fax e via telematica. Le istanze e le dichiarazioni inviate per via telematica sono valide se effettuate secondo quanto previsto dall'art. 65 del Codice dell'amministrazione digitale (Istanze e dichiarazioni presentate alle pubbliche amministrazioni per via telematica). Le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall'interessato in presenza del dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore. La copia fotostatica del documento è inserita nel fascicolo. Le istanze e la copia fotostatica del documento di identità possono essere inviate per via telematica; nei procedimenti di aggiudicazione di contratti pubblici, detta facoltà è consentita nei limiti stabiliti dal regolamento di cui all'art. 15, comma 2 della legge 15 marzo 1997, n. 59.

Tra i principi basilari del nuovo Codice dell’amministrazione digitale, particolare attenzione è rivolta all’implementazione delle funzioni della posta elettronica certificata (art.1, comma 1, lett. v-bis), aggiunta dal D.Lgs. 235/2010) definita come sistema di comunicazione in grado di attestare l'invio e l'avvenuta consegna di un messaggio di posta elettronica e di fornire ricevute opponibili ai terzi. La nuova formulazione dell’art. 47, comma 3 del D.Lgs. 82/2005 (ad opera dell’art. 32 del D.Lgs. 235/2010) prevede che tutte le pubbliche amministrazioni nonché le società interamente partecipate da enti pubblici o con prevalente capitale pubblico, provvedono ad istituire e pubblicare nell'Indice PA almeno una casella di posta elettronica certificata per ciascun registro di protocollo. Le pubbliche amministrazioni utilizzano per le comunicazioni tra l'amministrazione ed i propri dipendenti la posta elettronica o altri strumenti informatici di comunicazione nel rispetto delle norme in materia di protezione dei dati personali e previa informativa agli interessati in merito al grado di riservatezza degli strumenti utilizzati. Si ricorda, infine, che la trasmissione di un documento informatico tramite PEC equivale alla notificazione a mezzo posta, salvo che la legge disponga diversamente.

 

Il comma 5 stabilisce che le amministrazioni possono rendere accessibili in ogni momento agli interessati, tramite strumenti di identificazione informatica, le informazioni relative ai provvedimenti e ai procedimenti amministrativi che li riguardano, ivi comprese quelle relative allo stato della procedura, ai relativi tempi e allo specifico ufficio competente in ogni singola fase.

Si osserva come l’intera disciplina del procedimento amministrativo, in ossequio al principio del giusto procedimento (conforme al principio ex art. 97 Cost.), garantisca puntualmente il diritto di partecipazione degli interessati (Capo III della legge 241/1990) attraverso specifiche disposizioni quali quelle relative all’obbligo dell’amministrazione di comunicare l’avvio del procedimento, al ruolo chiave svolto dal responsabile del procedimento, alla possibilità di concludere accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto del provvedimento ovvero in sostituzione di questo, alla comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, sino al Capo V relativo al diritto di accesso ai documenti amministrativi.

Orbene, atteso che per conseguire maggiore efficienza nella loro attività, le amministrazioni pubbliche sono già tenute ad incentivare l'uso della telematica, nei rapporti interni, tra le diverse amministrazioni e tra queste e i privati ex art.3-bis della L. 241/1990, sembrerebbe opportuno specificare meglio in quali termini il comma  in esame intenda definire come mera facoltà ciò che, in via di principio, è già previsto dalla legge generale in materia di procedimento amministrativo, nonché, come obbligo in capo alle pubbliche amministrazioni, dai sopra citati artt. 54 e 57 del Codice dell'amministrazione digitale con riferimento al contenuto necessario dei siti delle pubbliche amministrazioni.

 

Il comma 6 demanda ad uno o più decreti interministeriali, da adottare entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, sentita la Conferenza unificata, l'individuazione delle informazioni rilevanti ai fini dell'applicazione dei suesposti commi 1 e 2; le relative modalità di pubblicazione; le indicazioni generali per l'applicazione dei commi 4 e 5 dell'articolo in esame.

Restano ferme le disposizioni in materia di pubblicità previste dal Codice degli appalti.

Il comma 7 stabilisce che la mancata o incompleta pubblicazione da parte delle pubbliche amministrazioni delle informazioni individuate dal regolamento di cui sopra, costituisce violazione degli standard qualitativi ed economici, ai sensi dell'art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 198/2009 (Attuazione dell'articolo 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ricorso per l'efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici.)e, dunque, presupposto per intentare la c.d. class action della pubblica amministrazione.

L’omissione di cui sopra è, altresì, valutata ai sensi dell'art. 21 D.Lgs. 165/2001 (in materia di responsabilità dirigenziale) così come eventuali ritardi nell'aggiornamento dei contenuti sugli strumenti informatici sono sanzionati a carico dei responsabili del servizio.

 

Ai sensi della citata normativa concernente la class action nel settore pubblico, i titolari di interessi giuridicamente rilevanti e omogenei per un pluralità di utenti e consumatori possono agire in giudizio, con le modalità stabilite nel presente decreto, nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di servizi pubblici, se derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi, dalla violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento, dalla violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi ovvero dalla violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti, per i concessionari di servizi pubblici, dalle autorità preposte alla regolazione ed al controllo del settore e, per le pubbliche amministrazioni, definiti dalle stesse in conformità alle disposizioni in materia di performance contenute nel D.Lgs. n. 150/2009, coerentemente con le linee guida definite dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (v. in tal senso la Del. 24-6-2010 n. 88/2010, Linee guida per la definizione degli standard di qualità).

Ad ogni modo si ricorda che il legislatore, ai sensi dell’art. 7 del D.Lgs. 198/2009, ha sospeso l’operatività dell’azione di cui sopra essendo testualmente stabilito che la concreta applicazione del decreto è determinata, anche progressivamente, con uno o più D.P.C.M. subordinati alla necessità di definire in via preventiva gli obblighi contenuti nelle carte di servizi e gli standard qualitativi ed economici.

Con riferimento alla responsabilità dirigenziale ex art. 21 del T.U. del pubblico impiego, si ricorda che il pieno riconoscimento dell’autonomia gestionale ed organizzativa dei dirigenti pubblici, introdotto dalla cd. riforma Brunetta, ha operato, come naturale conseguenza, l’integrale responsabilizzazione degli stessi in relazione ai risultati complessivamente conseguiti e, in specie, all’attuazione dei progetti e dei programmi attribuiti alle loro cure. Gli artt. 41 e 42 del D.Lgs. 150/2009 hanno sostituito il dettato degli artt. 21 e 22 del D.Lgs. 16572001, introducendo, tra l’altro, una specifica responsabilità del dirigente per colpevole violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard qualitativi e quantitativi fissati dall’amministrazione.


Art. 3.
(Modifiche all'articolo 53 del decreto legislativo
30 marzo 2001, n. 165).

1. All'articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 7, dopo il primo periodo è inserito il seguente: «Ai fini dell'autorizzazione, l'amministrazione verifica l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interesse»;

b) il comma 11 è sostituito dal seguente:

«11. Entro quindici giorni dall'erogazione del compenso per gli incarichi di cui al comma 6, i soggetti pubblici o privati comunicano all'amministrazione di appartenenza l'ammontare dei compensi erogati ai dipendenti pubblici»;

c) al comma 12, il primo periodo è sostituito dal seguente: «Le amministrazioni pubbliche che conferiscono o autorizzano incarichi, anche a titolo gratuito, ai propri dipendenti comunicano in via telematica, nel termine di quindici giorni, al Dipartimento della funzione pubblica gli incarichi conferiti o autorizzati ai dipendenti stessi, con l'indicazione dell'oggetto dell'incarico e del compenso lordo, ove previsto»;

d) dopo il comma 16-bis è aggiunto il seguente:

«16-ter. I dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell'attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri. I contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni».

2. Le disposizioni di cui all'articolo 53, comma 16-ter, secondo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, introdotto dal comma 1, lettera d), del presente articolo, non si applicano ai contratti già sottoscritti alla data di entrata in vigore della presente legge.

 

L’articolo 3 dispone una serie di modifiche all'articolo 53 del D.lgs. 165/2001 che disciplina le incompatibilità, il cumulo di impieghi e di incarichi dei dipendenti pubblici.

In particolare, al comma 1 si introducono le seguenti disposizioni:

§         si inserisce un periodo al comma 7, per cui ai fini dell'autorizzazione a svolgere incarichi, l'amministrazione di appartenenza verifica l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interesse (lettera a)).

Il comma 7 dell’articolo 53 attualmente in vigore prevede che i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti se non previamente conferiti o autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Per quanto concerne i professori universitari a tempo pieno, la norma rinvia agli statuti o ai regolamenti degli atenei circa i criteri e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione.

In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni, tale conferimento costituisce infrazione disciplinare e il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.

 

§         si sostituisce ilcomma 11 con la previsione che i soggetti pubblici o privati comunicano all'amministrazione di appartenenza l'ammontare dei compensi erogati ai dipendenti pubblici entro 15 giorni dall'erogazione del compenso per gli incarichi di cui al precedente comma 6[11] (lettera b)).

Nella disposizione vigente, i soggetti pubblici o privati che erogano compensi a dipendenti pubblici per gli incarichi di cui al comma 6 sono tenuti a dare comunicazione all'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi dei compensi erogati nell'anno precedente entro il 30 aprile di ciascun anno.

 

§         viene modificato il comma 12 con la previsione che le amministrazioni pubbliche che conferiscono o autorizzano incarichi, anche a titolo gratuito, ai propri dipendenti comunicano in via telematica, nel termine di quindici giorni, al Dipartimento della funzione pubblica gli incarichi conferiti o autorizzati ai dipendenti stessi, con l'indicazione dell'oggetto dell'incarico e del compenso lordo, ove previsto (lettera c)).

La norma richiamata prevede attualmente che entro il 30 giugno di ciascun anno, le amministrazioni pubbliche che conferiscono o autorizzano incarichi retribuiti ai propri dipendenti sono tenute a comunicare, in via telematica o su apposito supporto magnetico, al Dipartimento della funzione pubblica l'elenco degli incarichi conferiti o autorizzati ai dipendenti stessi nell'anno precedente, con l'indicazione dell'oggetto dell'incarico e del compenso lordo previsto o presunto.

Inoltre, nel comma 12 vigente tale elenco viene accompagnato da una relazione contenente l’indicazione delle norme in applicazione delle quali gli incarichi sono stati conferiti o autorizzati, le ragioni del conferimento o dell'autorizzazione, i criteri di scelta dei dipendenti cui gli incarichi sono stati conferiti o autorizzati e la rispondenza dei medesimi ai princìpi di buon andamento dell'amministrazione, nonché le misure che si intendono adottare per il contenimento della spesa.

Allo stesso modo, entro il 30 giugno di ciascun anno, anche le amministrazioni che, nell'anno precedente, non abbiano conferito o autorizzato incarichi ai propri dipendenti devono presentare dichiarazione di non aver conferito o autorizzato incarichi.

 

§         viene poi introdotto il comma 16-ter nel quale si dispongono alcune limitazioni per i dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, abbiano esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2[12]. In particolare, tali soggetti non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell'attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri.

Inoltre, a titolo sanzionatorio si dispone la nullità dei contratti conclusi e degli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal comma in esame mentre viene fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni (lettera c)).

 

Infine, al comma 2 della disposizione in esame si esclude l’applicazione delle previsioni contenute al secondo periodo del comma 16-ter sopra esposto (relativo alla nullità dei contratti conclusi e degli incarichi conferiti in violazione delle nuove limitazioni previste per i dipendenti pubblici) ai contratti già sottoscritti alla data di entrata in vigore della presente legge.

 


Art. 4.
(Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti).

1. Fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, il pubblico dipendente che denuncia o riferisce condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.

2. Salvi gli obblighi di denuncia previsti dalla legge, l'identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, fino alla contestazione dell'addebito disciplinare.

 

La norma – introdotta nel corso dell’esame al Senato - mira a tutelare il pubblico dipendente che – fuori dei casi di responsabilità per calunnia o diffamazione[13] - denuncia o riferisce condotte illecite apprese in ragione del suo rapporto di lavoro (comma 1).

L’espressione “condotte illecite” appare riferibile sia a reati che ad illeciti disciplinari.

Viene, infatti, disposto che il segnalante non può esser licenziato, o sottoposto a misure discriminatorie avente effetto sulle condizioni di lavoro per motivi, direttamente o meno, collegati alla denuncia presentata.

 

Fatti salvi gli obblighi legali di denuncia (il riferimento è ai pubblici dipendenti che rivestono anche la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio)[14]) è fatto divieto alla P.A. di rivelare l’identità del segnalante - in assenza del consenso di quest’ultimo - fino alla contestazione dell’illecito disciplinare (comma 2).

Il Garante della Privacy (Segnalazione al Parlamento e al Governo del 10 dicembre 2009) ha in proposito rilevato l'opportunità di valutare l'adozione di una disciplina normativa relativa all'utilizzo di sistemi di segnalazione di presunti illeciti commessi da soggetti operanti nell'ambito di un'organizzazione aziendale (cd. whistleblowing).

Ove adottati, detti sistemi di segnalazione sono stati accompagnati dalla contestuale previsione di misure poste a presidio degli autori delle denunce effettuate "in buona fede" volte a scongiurare in capo agli stessi il rischio di licenziamento o il verificarsi di altre conseguenze pregiudizievoli in relazione al rapporto di lavoro; ciò, anche in considerazione della particolare delicatezza delle informazioni trattate, che recano con sé un elevato rischio di stigmatizzazione e vittimizzazione del soggetto "segnalato” oltre che del "segnalante".

Considerata la progressiva diffusione di tali sistemi anche presso società italiane – come accennato veicolata dall'introduzione di analoghi modelli organizzativi all'interno di società multinazionali – il Garante per la protezione dei dati personali ha inviato a valutare l’introduzione di una disciplina volta a:

§          individuare i presupposti di liceità del trattamento effettuato per il tramite dei citati sistemi di segnalazione, in particolare delineando una base normativa che definisca, innanzi tutto, l'ambito soggettivo di applicazione della disciplina e le finalità che si intendono perseguire;

§          valutare in particolare, nel processo di perimetrazione sul piano soggettivo della disciplina, se estenderla a ogni tipo di organizzazione aziendale ovvero, per esempio, riferirla alle sole società ammesse alle negoziazioni su mercati regolamentati;

§          individuare nell'ambito dei soggetti operanti a vario titolo all'interno delle società coloro che possono assumere la qualità di soggetti "segnalati";

§          individuare in modo puntuale le finalità che si intendono perseguire e le fattispecie oggetto di possibile "denuncia" da parte dei segnalanti;

§          definire la portata del diritto di accesso previsto dall'art. 7 del Codice da parte del soggetto al quale si riferisce la segnalazione (interessato), con riguardo ai dati identificativi dell'autore della segnalazione (denunciante);

§          stabilire l'eventuale ammissibilità dei trattamenti derivanti da segnalazioni anonime.

Si segnala che analoga disposizione a tutela del dipendente pubblico è contenuta nell’art. 9 della Convenzione civile sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 4 novembre 1999, ed attualmente in corso di ratifica parlamentare. Il provvedimento, approvato dal Senato è ora all’esame della Commissione esteri della Camera (AC 3737).


Art. 5.
(Attività d'impresa particolarmente esposte a rischio d'inquinamento mafioso).

1. Ai fini dell'applicazione delle norme vigenti in materia di controlli antimafia in relazione alle attività d'impresa, mediante gli elenchi di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a rischio d'inquinamento mafioso, sono definite come particolarmente esposte a tale rischio le seguenti attività:

a) trasporto di materiali a discarica conto terzi;

b) trasporto e smaltimento di rifiuti a conto terzi;

c) estrazione, fornitura e trasporto di terra e materiali inerti;

d) confezionamento, fornitura e trasporto di calcestruzzo e di bitume;

e) noli a freddo di macchinari;

f) fornitura di ferro lavorato;

g) noli a caldo, qualora il relativo contratto non sia assimilabile al subappalto, ai sensi dell'articolo 118, comma 11, del codice di cui al citato decreto legislativo n. 163 del 2006;

h) autotrasporti conto terzi;

i) guardianìa dei cantieri.

2. L'indicazione delle attività di cui al comma 1 può essere aggiornata, entro il 31 dicembre di ogni anno, con apposito decreto del Ministro dell'interno, adottato di concerto con i Ministri della giustizia, delle infrastrutture e dei trasporti e dell'economia e delle finanze.

3. I decreti di cui al comma 2 sono adottati previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, da rendere entro trenta giorni dalla data di trasmissione alle Camere dei relativi schemi. Qualora le Commissioni non si pronuncino entro il termine, i decreti possono essere comunque adottati.

4. Dall'applicazione delle disposizioni del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

 

L’articolo 5, introdotto dal Senato, individua una serie di attività d’impresa particolarmente esposte al rischio di inquinamento mafioso.

L’elenco delle attività può essere modificato con decreto ministeriale (adottato dal Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della giustizia, delle infrastrutture e dei trasporti e dell’economia e delle finanze), previo parere delle commissioni parlamentari competenti.

E’ inoltre prevista una clausola di invarianza finanziaria.

 

La disposizione è finalizzata all’ “applicazione delle norme vigenti in materia di controlli antimafia in relazione alle attività d'impresa, mediante gli elenchi di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a rischio d'inquinamento mafioso”.

Il riferimento è alle ccdd. white list, introdotte dall’art. 4, comma 13, del D.L. n. 70/2011 (cd. decreto-sviluppo), in corso di conversione, ovvero l’elenco, presso dele prefetture, di fornitori e prestatori di servizi non soggetti a rischio di inquinamento mafioso, cui possono rivolgersi gli esecutori dei lavori, servizi e forniture per i subappalti e subcontratti successivi ai contratti pubblici.

 

In particolare, l’art. 4, comma 13,  DL 70/2011 prevede che, per l’efficacia dei controlli antimafia nei subappalti e subcontratti successivi ai contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, presso ogni prefettura è istituito l’elenco di fornitori e prestatori di servizi non soggetti a rischio di inquinamento mafioso, ai quali possono rivolgersi gli esecutori dei lavori, servizi e forniture. La prefettura effettua verifiche periodiche circa la perdurante insussistenza dei suddetti rischi e, in caso di esito negativo, dispone la cancellazione dell’impresa dall’elenco. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta dei Ministri per la pubblica amministrazione e l’innovazione, per la semplificazione normativa, dell’interno, della giustizia, delle infrastrutture e dei trasporti e dello sviluppo economico, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto-legge, sono definite le modalità per l’istituzione e l’aggiornamento, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, dell’elenco di cui al primo periodo, nonché per l’attività di verifica.

La previsione delle white list era contenuta nell’art. 5 del d.d.l. in esame, nel testo originariamente presentato al Senato (A.S. 2156).

 

Non risulta chiaro come la norma in esame incida sulla disciplina delle “white list” e, in particolare, se essa intenda limitare l’applicazione di tale disciplina alle attività in essa indicate.

 

Va segnalato inoltre che l’art. 101, comma 8, del cd. Codice antimafia, schema di decreto legislativo attualmente all’esame della Commissione giustizia della Camera per il parere, rimette ad un regolamento adottato con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della giustizia, delle infrastrutture e dei trasporti e con il Ministro dello sviluppo economico, l’individuazione delle diverse tipologie di attività d’impresa suscettibili di infiltrazione mafiosa per le quali, in relazione allo specifico settore d’impiego e alle situazioni ambientali che determinano un maggiore rischio di infiltrazione, è sempre obbligatoria l’acquisizione della documentazione antimafia indipendentemente  dal valore del contratto, subcontratto, concessione, erogazione o provvedimento a contenuto concessorio o autorizzatorio..

 


Art. 6.
(Princìpi generali per regioni ed enti locali).

1. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, anche per quanto concerne i propri enti e le amministrazioni del Servizio sanitario nazionale, nonché gli enti locali adeguano, compatibilmente con le disposizioni previste dagli statuti e dalle relative norme di attuazione in materia, i propri ordinamenti alle disposizioni di cui agli articoli da 1 a 5 della presente legge.

 

L’articolo 6 contiene una clausola di adeguamento alle disposizioni degli articoli da 1 a 5 per le regioni e province autonome di Trento e Bolzano, ivi compresi gli enti regionali e le amministrazioni del Servizio sanitario nazionale, nonché per gli enti locali. È fatta salva la compatibilità con le disposizioni previste dagli statuti e dalle relative norme di attuazione in materia.

 

 


Art. 7.
(Modifiche all'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20).

1. All'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, dopo il comma 1-quinquies, sono inseriti i seguenti:
«1-sexies. Nel giudizio di responsabilità, l'entità del danno all'immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salvo prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente.

1-septies. Nei giudizi di responsabilità aventi ad oggetto atti o fatti di cui al comma 1-sexies, il sequestro conservativo di cui all'articolo 5, comma 2, del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19, è concesso in tutti i casi di probabile attenuazione della garanzia del credito erariale».

 

 

L’articolo 7 reca disposizioni in materia di danno all’immagine della pubblica amministrazione, mediante novella dell’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20[15], che disciplina il giudizio di responsabilità amministrativa.

 

Il danno all’immagine della pubblica amministrazione è istituto che trae origine dalla giurisprudenza, in specie contabile, formata per contrastare condotte che danneggiano l’immagine e la reputazione di un’amministrazione nella quale si è consumato un reato di corruzione.

Fondamentale nella enucleazione del contenuto del danno all’immagine è la pronuncia della Corte dei Conti, sez. riunite, n. 10/2003/QM del 23 aprile 2003, in base alla quale nella responsabilità amministrativa rientra anche la tutela di interessi ulteriori rispetto all'integrità patrimoniale: fra questi vi è la tutela dell’immagine delle pubbliche amministrazioni, ossia la tutela della propria identità, buon nome, reputazione e credibilità, nonché l’interesse che le competenze individuate siano rispettate, le funzioni assegnate siano esercitate, le responsabilità dei funzionari siano attivate. Ogni azione del pubblico dipendente che leda tali interessi si traduce in un'immagine negativa della P.A. Secondo la Corte, il danno all’immagine di una amministrazione è una fattispecie di danno esistenziale.

L’art. 1, comma 1, del D.L. 103/2009[16], prevede che le procure della Corte dei conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'articolo 7 dalla legge 27 marzo 2001, n. 97, ossia solo in caso di sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti del dipendente pubblico per delitti contro la pubblica amministrazione[17]. L’art. 7 L 97/2001 prevede che la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell'articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato.

Con riferimento a tale azione, è prevista inoltre la sospensione del termine di prescrizione di cinque anni (previsto dall’art. 1, comma 2, L 20/1994[18]): il termine non decorre infatti in pendenza del procedimento penale nei confronti dell’autore dell’atto o comportamento da cui sia derivato il danno all’immagine.

Con sentenza n. 355 del 2010, la Corte costituzionale, in sede di rigetto di una q.l.c. avente ad oggetto la disposizione l’art. 17, co. 30-ter, come modificato, ha chiarito che «(l)a norma deve essere univocamente interpretata nel senso che, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste di responsabilità per danni all’immagine dell’ente pubblico di appartenenza, non è configurabile siffatto tipo di tutela risarcitoria»[19].

Più di recente, con la sentenza n. 1 del 18 gennaio 2011, le Sezioni riunite della Corte dei Conti sono intervenute nuovamente sulla configurazione del danno all’immagine, confermando per un verso l’orientamento consolidato ex sentenza n. 10/2003. Per altro, hanno precisato, di fronte ad alcune ricostruzioni del danno all’immagine in termini di “danno conseguenza” da parte dei giudici della Corte di cassazione, che «il danno all’immagine della Pubblica amministrazione (“non patrimoniale”), anche se inteso come “danno c.d. conseguenza”, è costituito “dalla lesione” all’immagine dell’ente, “conseguente” ai fatti lesivi produttivi della lesione stessa (compimento di reati o altri specifici casi), da non confondersi con “le spese necessarie al ripristino”, che costituiscono solo uno dei possibili parametri della quantificazione equitativa del risarcimento».

 

In particolare, il comma 1 prevede due nuovi commi 1-sexies e 1-septies all’articolo 1 della L. 20/1994.

Con il primo, è introdotta una presunzione relativa sulla quantificazione del danno all’immagine della p.a.. Si dispone, infatti, che, qualora sia stato commesso un reato contro la pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato, l’entità del danno all’immagine della amministrazione derivante da tale reato si presume, salvo prova contraria, pari al doppio della somma di denaro del valore di altra utilità che sia stata indebitamente percepita dal dipendente.

 

La disposizione in questione incide sulla quantificazione del danno all’immagine della pubblica amministrazione. In particolare, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza contabile, a cui si è già fatto riferimento, il danno all’immagine è, fra i danni non patrimoniali, un danno-evento e non un danno-conseguenza: oggetto del risarcimento, che prescinde dalla dimostrazione di perdite patrimoniali, è una perdita causata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva.

Secondo la giurisprudenza sopra citata, per la quantificazione del danno all’immagine si possono considerare le spese di ripristino dell'immagine sostenute e ancora da sostenere, nonché parametri diversi: tra essi non vi sono la minore acquisizione di entrate collegabile con i comportamenti censurati né il disservizio, mentre rientrano le spese promozionali in bilancio, con valore di prova presuntiva od indiziaria. L’importo della tangente ad un amministratore o dipendente pubblico non rileva automaticamente per la quantificazione del danno all’immagine, ma può concorrervi con altri elementi, quali ad es. il ruolo del percettore nell'apparato pubblico.

 

Con la seconda novella, che introduce il comma 1-septies dell’art. 1, L. 20/1994, si prevede che nei giudizi di responsabilità amministrativa per il danno all’immagine - nell’ipotesi di probabile attenuazione della garanzia patrimoniale del credito erariale - su richiesta del procuratore regionale, sia sempre concesso dal presidente della sezione della Corte dei conti competente sul merito del giudizio, il sequestro conservativo di beni mobili e immobili del convenuto, comprese somme e cose allo stesso dovute.

 

Il sequestro conservativo (art. 671 c.p.c.) è una misura cautelare avente la funzione di conservare la garanzia patrimoniale del creditore per soddisfare la sua posizione di diritto sostanziale identificata con il diritto di credito da garantire. Il giudice, infatti, “su istanza del creditore che ha fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può autorizzare il sequestro conservativo di beni mobili o immobili del debitore o delle somme e cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne pretende il pignoramento”. L’istanza di sequestro va proposta con ricorso al giudice competente a conoscere del procedimento pendente nel merito, se il sequestro è proposto in corso di causa, ovvero al giudice che sarebbe competente sulla domanda per l’azione di merito a cognizione piena, quando il sequestro è proposto ante causam.

Ai fini della concessione del sequestro conservativo, oltre all'elemento del "fumus boni iuris", è richiesto l'elemento del "periculum in mora", costituito, da una parte, dal timore del creditore istante di un possibile danno futuro ed eventuale per il suo diritto di credito, dall'altra, da una reale situazione di pericolo, determinata dalle effettive condizioni in cui sia venuto a trovarsi il debitore, e la cui esistenza può essere desunta sia da elementi obiettivi, come la consistenza qualitativa e quantitativa del patrimonio, anche in rapporto all'ammontare del credito tutelabile, sia da elementi subiettivi, come il comportamento processuale o extraprocessuale del debitore, che possa far pensare alla possibilità di un depauperamento del suo patrimonio; deve, pertanto, ritenersi esistente il suddetto elemento allorché, sotto il profilo soggettivo, il debitore sia risultato inadempiente ai suoi obblighi e non abbia svolto alcuna tesi difensiva convincente circa eventuali cause giustificative del suo comportamento, e, sotto il profilo oggettivo, nel patrimonio del debitore non vi siano altri beni, al di fuori di quelli sottoposti a sequestro, che possano garantire la soddisfazione del credito (Corte dei conti, Sez. Giur. Reg. Sicilia, sent. 9 maggio 1995, n. 102) .

Dal punto di vista della formulazione del testo, alla dizione “probabile attenuazione” della garanzia del credito erariale potrebbe essere opportuno sostituire quella più tecnica di “fondato timore” di perdere detta garanzia, formulazione del resto contenuta nello stesso art. 671 c.p.c. sul sequestro conservativo.

 

Il provvedimento cautelare è assunto con decreto motivato che il giudice, può - con ordinanza - confermare, modificare o revocare alla successiva udienza di comparizione. Contro l’ordinanza è ammesso reclamo ai sensi dell’art. 669-terdecies del codice di procedura civile davanti alla sezione giurisdizionale della Corte di conti.

 


Art. 8.
(Delega al Governo per l'adozione di un testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e divieto di ricoprire cariche elettive e di governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi).

1. Il Governo è delegato ad adottare, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo contenente un testo unico della normativa in materia di incandidabilità alla carica di deputato e di senatore della Repubblica, di incandidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali e di divieto di ricoprire le cariche di presidente e componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, presidente e componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, consigliere di amministrazione e presidente delle aziende speciali e delle istituzioni di cui all'articolo 114 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, presidente e componente degli organi esecutivi delle comunità montane.

2. Il decreto legislativo di cui al comma 1 provvede al riordino e all'armonizzazione della vigente normativa ed è adottato secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:

a) ferme restando le disposizioni del codice penale in materia di interdizione perpetua dai pubblici uffici, prevedere che non siano temporaneamente candidabili a deputati o a senatori coloro che abbiano riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti previsti dall'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale;

b) in aggiunta a quanto previsto nella lettera a), prevedere che non siano temporaneamente candidabili a deputati o a senatori coloro che abbiano riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti previsti nel libro II, titolo II, capo I, del codice penale e, se del caso, per altri delitti per i quali la legge preveda una pena detentiva superiore nel massimo a tre anni;

c) prevedere la durata dell'incandidabilità di cui alle lettere a) e b);

d) prevedere che l'incandidabilità operi anche in caso di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale;

e) coordinare le disposizioni relative all'incandidabilità con le vigenti norme in materia di interdizione dai pubblici uffici e di riabilitazione, nonché con le restrizioni all'esercizio del diritto di elettorato attivo;

f) prevedere che le condizioni di incandidabilità alla carica di deputato e di senatore siano applicate altresì all'assunzione delle cariche di governo;

g) operare una completa ricognizione della normativa vigente in materia di incandidabilità alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali e di divieto di ricoprire le cariche di presidente della provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale, presidente e componente del consiglio circoscrizionale, presidente e componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, presidente e componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, consigliere di amministrazione e presidente delle aziende speciali e delle istituzioni di cui all'articolo 114 del testo unico di cui al citato decreto legislativo n. 267 del 2000, presidente e componente degli organi delle comunità montane, determinata da sentenze definitive di condanna;

h) valutare per le cariche di cui alla lettera g), in coerenza con le scelte operate in attuazione della lettera a) e della lettera i), l'introduzione di ulteriori ipotesi di incandidabilità determinate da delitti di grave allarme sociale;

i) individuare, fatta salva la competenza legislativa regionale sul sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del presidente e degli altri componenti della giunta regionale nonché dei consiglieri regionali, le ipotesi di incandidabilità alle elezioni regionali e di divieto di ricoprire cariche negli organi politici di vertice delle regioni, conseguenti a sentenze definitive di condanna;

l) prevedere l'abrogazione espressa della normativa incompatibile con le disposizioni del decreto legislativo di cui al comma 1;

m) disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto dalle cariche di cui al comma 1 in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all'affidamento della carica.

3. Lo schema del decreto legislativo di cui al comma 1, corredato di relazione tecnica, ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, è trasmesso alle Camere ai fini dell'espressione dei pareri da parte delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari, che sono resi entro sessanta giorni dalla data di trasmissione dello schema di decreto. Decorso il termine di cui al periodo precedente senza che le Commissioni abbiano espresso i pareri di rispettiva competenza, il decreto legislativo può essere comunque adottato.

 

L’articolo 8 reca una delega che autorizza il Governo ad adottare un testo unico per disciplinare, in caso sentenze definitive di condanna per delitti non colposi:

§         l’incandidabilità a diverse cariche elettive e di governo a livello centrale, regionale e locale;

§         il divieto di ricoprire alcune cariche elettive e di governo proprie degli enti locali.

Il comma 1 contiene la disposizione di delega, l’oggetto e il termine di adozione, il comma 2 reca specifici e dettagliati criteri e principi direttivi per l’attuazione della delega, il comma 3 disciplina il procedimento relativo all’acquisizione del parere parlamentare.

 

Occorre, in via preliminare, definire il concetto di incandidabilità, in particolare in confronto con quello affine di ineleggibilità.

Le cosiddette cause di ineleggibilità comportano un impedimento giuridico a divenire soggetto passivo del rapporto elettorale e costituiscono quindi fattispecie limitative del diritto di elettorato passivo.

Mentre le cause di incandidabilità incidono sulla capacità elettorale passiva, condizionando la stessa possibilità del cittadino di candidarsi, le cause di ineleggibilità non escludono (anzi presuppongono) la capacità elettorale del cittadino impedendogli tuttavia di divenire soggetto passivo del rapporto elettorale.

La ratio prevalente delle norme sulle ineleggibilità è quella di impedire che alcuni candidati, in virtù della carica ricoperta o dell’attività esercitata al momento dell’elezione, possano godere nella pratica di una posizione privilegiata nel corso della campagna elettorale ed esercitare pressioni in grado di condizionare la libera scelta degli elettori.

Le cause di incandidabilità, previste dalla sola disciplina delle elezioni regionali ed amministrative, hanno l’obiettivo di vietare l’accesso alle cariche pubbliche di soggetti condannati in via definitiva per gravi reati – compresi, in particolare, quelli contro la pubblica amministrazione – o sottoposti a misure di prevenzione divenute definitive.

Da ciò discende una importante differenza tra i due istituti: mentre generalmente le cause di ineleggibilità possono essere rimosse entro un termine predefinito, le cause di incandidabilità precludono definitivamente la possibilità di esercitare il diritto di elettorato passivo.

L’oggetto della delega (comma 1)

Come anticipato, il comma 1 reca l’oggetto della delega individuato nell’adozione di un testo unico in materia di incandidabilità a cariche elettive e il divieto di assunzione di alcune cariche elettive e di Governo.

In entrambi i casi, le disposizioni riguardano soggetti per i quali sono state pronunciate sentenze definitive di condanna. Tuttavia, tale specificazione non è contenuta nel comma 1, ma si evince, oltre che dalla rubrica dell’articolo, dal contenuto del comma 2 recante i principi e i criteri direttivi della delega.

 

L’incandidabilità, che ha natura temporanea, riguarda le seguenti elezioni:

§         politiche;

§         regionali;

§         provinciali;

§         comunali;

§         circoscrizionali.

 

Si osserva che l’oggetto della delega non comprende l’incandidabilità all’elezione dei membri del Parlamento europeo che, pertanto, sarebbe l’unica carica elettiva esclusa dall’ambito di applicazione dell’articolo in esame.

 

Il divieto riguarda le seguenti cariche:

§      presidente e componente del consiglio di amministrazione dei consorzi;

§      presidente e componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni;

§      consigliere di amministrazione e presidente delle aziende speciali e delle istituzioni di cui all'articolo 114 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (D.Lgs. 267/2000);

§      presidente e componente degli organi esecutivi delle comunità montane.

 

Si nota che l’oggetto della delega non si esaurisce nel comma 1, perché disposizioni relative all’oggetto si rinvengono anche nei commi che definiscono i proncipi e criteri direttivi.

Così sono previste anche fattispecie di divieto all’assunzione di cariche, ai sensi della lettera g) del comma 2, ulteriori rispetto a quelle previste dal comma 1, quali quelle riguardanti assessori e consiglieri comunali e provinciali, presidente e componenti dei consigli circoscrizionali. 

Diverse altre disposizioni concernenti l’oggetto della delega si rinvengono nel comma 2, anziché nel comma 1.

Innanzitutto, la previsione, ai sensi della lettera f) del comma 2, che le cause di incandidabilità previste per deputati e senatori si applichino anche all’assunzione delle cariche di governo (Presidente del Consiglio dei ministri, Ministri, Viceministri e Sottosegretari). In secondo luogo, come sopra accennato, anche il divieto di assunzione delle cariche di governo degli enti locali, quali:

§         presidente di provincia;

§         sindaco;

§         assessore provinciale e comunale.

Il divieto non sembrerebbe riguardare il presidente della circoscrizione, né i membri della (laddove istituita) giunta circoscrizionale (la lettera g) del comma 2 si riferisce a presidente e componente del consiglio circoscrizionale).

In terzo luogo, l’alinea del comma 2 individua la finalità del testo unico nel riordino e armonizzazione della normativa vigente.

 

Dal tenore letterale dell’espressione di cui sopra, sembrerebbe, dunque, trattarsi di un testo unico meramente compilativo. Tuttavia, si rileva che i dettagliati principi e criteri direttivi di cui al comma 2, prevedono l’adozione di disposizioni fortemente innovative del quadro normativo vigente; in particolare, le lettere da a) a f) che introducono l’incandidabilità di deputati e senatori.

 

Il termine della delega è fissato in un anno dalla data di entrata in vigore della legge.

 

Infine, il comma 1 prevede che dall’esercizio della delega non debbano derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

L’incandidabilità parlamentare (comma 2, lett. a)-e)

Il comma 2 reca, come accennato, i principi e criteri direttivi che dovranno ispirare il Governo nel’esercizio della delega.

Le prime lettere del comma 2 riguardano la disciplina dell’incandidabilità parlamentare.

 

Come anticipato sopra, si tratta di un istituto nuovo, non contemplato dalla normativa vigente la quale prevede esclusivamente cause di ineleggibilità e di incompatibilità alla carica di deputato e senatore. Infatti, l’art. 65 della Costituzione rinvia alla legge ordinaria la determinazione dei casi di ineleggibilità e di incompatibilità (1° comma) e fissa, direttamente, una causa di incompatibilità, stabilendo che nessuno può appartenere contemporaneamente ad entrambe le Camere (2° comma).

In realtà, implicitamente, la Costituzione fissa anche alcuni casi di incandidabilità, ossia di condizioni la cui presenza rende impossibile la candidatura alle elezioni politiche. Tali condizioni si ricavano a contrario esaminando i requisiti richiesti per l’elettorato passivo di cui all’art. 56 e art. 58 Cost. e cioè:

§         la condizione di elettore (diritto all’elettorato attivo);

§         l’aver raggiunto una determinata età anagrafica (25 anni per la Camera e 40 per il Senato).

Da tale disposizione si ricava che non sono candidabili coloro che non sono nella condizione di elettore e non hanno raggiunto l’età anagrafica consentita.

Per quanto riguarda l’elettorato attivo, esso è disciplinato dall’art. 48 Cost. che fissa in generale i requisiti per il suo esercizio validi per tutti i tipi di consultazione elettorale. Essi sono:

§         il possesso della cittadinanza italiana;

§         il raggiungimento della maggiore età;

§         l’assenza di alcune condizioni, indicate dalla legge, determinate da alcune cause tassativamente indicate in costituzione: incapacità civile, condanna penale irrevocabile e indegnità morale.

L’art. 48, dunque, permette di individuare, anche qui a contrario, altre cause di incandidabilità, ossia il possesso della (sola) cittadinanza straniera o l’apolidia e l’essere stato escluso dall’elettorato attivo per le cause di cui sopra.

Il meccanismo costituzionale sopra sintetizzato sembra costituire un sistema “chiuso”, per cui l’introduzione di ulteriori cause di incandidabilità comporterebbe necessariamente una modifica costituzionale.

Ad una diversa conclusione si giunge se si riconosce la incandidabilità come una sottospecie di incompatibilità con la conseguenza che la legge ordinaria potrebbe introdurre cause di incandidabilità ai sensi del citato art. 65 Cost.

Effettivamente, nell’ordinamento esistono almeno altre due cause di incandidabilità introdotte con legge ordinaria: si tratta di quella derivante dall’obbligo di residenza per la presentazione della candidatura nella circoscrizione Estero e quella, prevista, in via transitoria, per l’elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia per assicurare le c.d. “quote rosa”.

 

La legge per il voto dei cittadini all’estero prevede che possano candidarsi per l’elezione dei senatori e dei deputati da eleggere all’estero esclusivamente i cittadini che siano residenti ed elettori in una delle ripartizioni della circoscrizione Estero (L. 459/2001, art. 8, comma 1, lett. b).

L’articolo 56 del citato Codice delle pari opportunità, reca una norma, di attuazione dell’art. 51 Cost., volta a promuovere l’accesso delle donne alla carica di membro del Parlamento europeo, allo scopo di incrementare il tasso di partecipazione femminile alla vita politica e istituzionale del Paese.

La disposizione sulle quote rosa è stata introdotta nell’ordinamento dall’art. 3 della L. 90/2004, che ha modificato in più punti la disciplina concernente l’elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia, ed è stata in seguito trasfusa nel Codice delle pari opportunità (D.Lgs. 198/2006). La norma stabilisce che, nelle liste di candidati presentate per dette elezioni, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati presenti nella lista. La misura ha trovato applicazione limitatamente alle prime due elezioni del Parlamento europeo successive alla data di entrata in vigore della L. 90/2004: ossia quelle del 2004 e del 2009. Anche a livello regionale, a seguito della modifica degli articoli 122 e 123 della Costituzione(L.Cost. 1/1999) che ha dato avvio al processo di elaborazione di nuovi statuti regionali e di leggi per l’elezione dei consigli nelle regioni a statuto ordinario, si registrano disposizioni volte a favorire l’accesso femminile alle candidature.

 

Tuttavia, alla base di entrambi gli istituti di cui sopra vi sono precise disposizioni che sembrerebbero assicurarne la “copertura” costituzionale: l’art. 56 e l’art. 57 Cost. prevedono l’elezione di 12 deputati e di 6 senatori nella circoscrizione Estero e l’art. 48 Cost. affida alla legge la definizione di stabilire le modalità per assicurare l’effettività del diritto di voto all’estero. L’art. 51 Cost., modificato nel 2003, stabilisce la promozione, con appositi provvedimenti, delle pari opportunità tra donne e uomini nel’accesso alle cariche elettive.

 

Si ricorda che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, le condizioni di ineleggibilità alle cariche elettive – rappresentando una deroga al diritto di elettorato passivo – devono essere espressamente determinate dalla legge e sono da interpretarsi in senso restrittivo. Tale assunto è stato recentemente ribadito nella sent. n. 25 del 2008, dove viene ricordato che l’art. 51 Cost. assicura, in via generale, il diritto di elettorato passivo senza porre discriminazioni sostanziali tra cittadini (cfr. sen. 288/2007 e 235/1988). Pertanto, le restrizioni del contenuto di tale diritto sono ammissibili solo in presenza di situazioni peculiari ed in ogni caso per motivi adeguati e ragionevoli, finalizzati alla tutela di un interesse generale. Di conseguenza, le cause di ineleggibilità sono di stretta interpretazione e devono essere contenute entro i limiti rigorosamente necessari al soddisfacimento delle esigenze di pubblico interesse, connesse alla funzione elettorale, cui sono di volta in volta preordinate (cfr. sen. 306/ 2003 e 132/2001).

La questione dell’incandidabilità è stata esaminata approfonditamente dalla Camera dei deputati nel corso dell'esame dell'A.C. 1451 che ha avuto luogo nella scorsa legislatura presso la Commissione affari costituzionali. In data 8 gennaio 2008 si svolse un audizione di esperti in materia di diritto costituzionale avente ad oggetto esattamente questa problematica (cfr. resoconto stenografico dell'indagine conoscitiva nell'ambito della proposta di legge C. 1451 e abbinate, recanti disposizioni in materia di ineleggibilità e incandidabilità).

E' stato osservato che la Corte costituzionale ha in più occasioni affermato che l'incandidabilità costituisce una particolarissima causa di ineleggibilità (sentenze nn. 407 del 1992 e 141 del 1996). E' stato però anche obiettato che l'incandidabilità differisce dalla ineleggibilità, in quanto mentre le cause di ineleggibilità possono essere sempre rimosse dallo stesso interessato, ciò non può accadere per quanto concerne le cause di incandidabilità attualmente previste dalla legge, che quindi potrebbero più correttamente essere equiparate a circostanze che incidono sulla capacità elettorale.

Inolte, la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 141 del 1996, ha affermato che le restrizioni del contenuto di un diritto inviolabile - quale è il diritto di elettorato passivo, secondo la giurisprudenza della stessa Corte - sono ammissibili solo nei limiti indispensabili alla tutela di altri interessi di rango costituzionale in base alla regola della necessarietà e della ragionevole proporzionalità di tale limitazione.

Si deve dunque accertare se la non candidabilità:

§       sia indispensabile per assicurare la salvaguardia dei valori cui è preordinata (che, con riferimento alle cause di incandidabilità attualmente previste, sono il buon andamento e la trasparenza della pubblica amministrazione, l'ordine e la sicurezza, la libera determinazione degli organi elettivi);

§       sia misura proporzionata al fine perseguito;

§       non alteri i meccanismi di partecipazione dei cittadini alla vita politica, delineati dal Titolo IV, parte I, della Carta costituzionale, comprimendo un diritto inviolabile senza adeguata giustificazione di rilievo costituzionale.

Nel compiere tale verifica, non bisogna dimenticare che "l'eleggibilità è la regola e l'ineleggibilità l'eccezione": le norme che derogano al principio della generalità del diritto elettorale passivo sono di stretta interpretazione e devono contenersi entro i limiti di quanto è necessario a soddisfare le esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate.

 

Le due prime lettere del comma 2 introducono alcune cause temporanee di incandidabilità per deputati e senatori.

La lettera a) dispone la non candidabilità (temporanea) alla carica di deputato o senatore di coloro che abbiano riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti previsti dall’art, 51, commi 3-bis e 3-quater del codice di procedura penale.

 

La disposizione prevede che l’incandidabilità sia temporanea, ma vengono fatte salve le norme penalistiche relative all’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

 

L’interdizione dai pubblici uffici è una pena accessoria disciplinata dagli artt. 28 e seguenti del codice penale.

L'art. 29 c.p. prevede in via generale:

- l'interdizione perpetua dai pubblici uffici a seguito di condanna all'ergastolo e di condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a 5 anni (si rammenta che il massimo della pena detentiva prevista per il nuovo reato introdotto dal disegno di legge in esame è di 5 anni);

- l'interdizione dai pubblici uffici per la durata di 5 anni in caso di condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a 3 anni.

L'art. 317-bis c.p. prevede l'interdizione perpetua in caso di condanna per i reati di cui agli artt. 314 (peculato) e 317 (concussione) c.p.. Se, tuttavia, per circostanze attenuanti viene inflitta la reclusione per un tempo inferiore a tre anni, la condanna importa l'interdizione temporanea.

Ai sensi del’art. 28 c.p. l’interdizione comporta la privazione, tra gli altri, del diritto di lettorato o di eleggibilità in qualsiasi elezioni e di ogni altro diritto politico.

 

La lettera b) prevede l’incandidabilità per coloro che sono stati condannati in via definitiva, con una pena di almeno 2 anni, per i delitti previsti dal libro II, titolo II, capo I del codice penale; si tratta dei delitti contro la pubblica amministrazione, quali peculato, malversazione, concussione, corruzione ecc.

La medesima lettera b) prevede, inoltre, l’incandidabilità per “altri delitti” per i quali la legge preveda una pena detentiva superiore, nel massimo, a 3 anni.

 

Con riferimento all’inciso finale della lett. b), che prevede la facoltà di congiungere, in sede di attuazione della delega, ai fini dell’incandidabilità, le condanne per delitti contro la p.a. ad “altri delitti” con massimo edittale superiore a tre anni, si osserva che non sembra chiaro il criterio che dovrebbe ispirare l’intervento normativo da realizzare. Infatti, la suddetta facoltà non è circoscritta da alcuna indicazione, essendo formulata con la locuzione generica “se del caso”; inoltre, non risulta se la condanna per altri delitti debba essere aggiuntiva o alternativa rispetto a quella per i delitti in precedenza indicati dalla stessa lettera.

 

La lettera c) prevede la determinazione di un termine per la durata dell’incandidabilità che, come indicato nelle lettere precedenti è sempre temporanea.

 

La lettera d) stabilisce che l’incandidabilità operi anche nel caso di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’art. 444 c.p.p. (patteggiamento).

Si nota che non è prevista analoga disposizione per il divieto di assunzione di cariche di cui al comma 1 e al comma 2 lett. g).

 

La lettera e)individua tra le finalità del testo unico il coordinamento delle norme sull’incandidabilità con quelle in materia di interdizione dai pubblici uffici e di riabilitazione, nonché con le restrizioni all’esercizio del diritto di voto attivo.

Per quanto riguarda la riabilitazione, si ricorda l’art. 178 c.p. che prevede che la riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, salvo che la legge disponga diversamente.

 

La lettera f) prevede che le cause di incandidabilità a deputato e senatore si applicano anche all’assunzione delle cariche di Governo (Presidente del Consiglio dei ministri, Ministri, Viceministri e Sottosegretari) alle medesime condizioni.

 

Si osserva, in proposito, che dal momento che i membri del Governo possono essere scelti non solo tra i membri delle Camere, andrebbe valutata la possibilità di fare riferimento, anziché alle condizioni di incandidabilità, al divieto di ricoprire cariche di governo, anche in analogia alla definizione utilizzata nel comma 1 e nella rubrica dell’articolo.

L’incandidabilità a livello locale (comma 2, lett. g)-h

La lettera g) prevede che il testo unico operi una completa ricognizione delle disposizioni vigenti in materia di:

§         incandidabilità alle seguenti elezioni di enti locali:

-         provinciali;

-         comunali;

-         circoscrizionali;

§         divieto a ricoprire le seguenti cariche:

-         presidente della provincia;

-         sindaco;

-         assessore provinciale e comunale;

-         consigliere provinciale e comunale;

-         presidente e componente del consiglio circoscrizionale;

-         presidente e componente del consiglio di amministrazione dei consorzi;

-         presidente e componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni;

-         consigliere di amministrazione e presidente delle aziende speciali e delle istituzioni di cui all'articolo 114 del testo unico degli enti locali (D.Lgs. 267/2000);

-         presidente e componente degli organi delle comunità montane.

 

A differenza dell’incandidabilità parlamentare, istituto completamente nuovo, l’ordinamento vigente già prevede alcune cause ostative alla candidatura negli enti locali derivanti da condanna definitiva.

 

Si ricorda che l'art. 58 del testo unico degli enti locali (d.lgs. 267/2000) prevede che non possono essere candidati alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali, e non possono comunque ricoprire le cariche di presidente della provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale, presidente e componente del consiglio circoscrizionale, presidente e componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, presidente e componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, consigliere di amministrazione e presidente delle aziende speciali e delle istituzioni di cui all'art. 114 TU, presidente e componente degli organi delle comunità montane coloro che hanno riportato una condanna definitiva per uno dei seguenti delitti:

§       associazione di tipo mafioso o associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti; delitto concernente l’importazione, l’esportazione, la produzione, la vendita di armi; delitto di favoreggiamento personale o reale commesso in relazione a tali reati;

§       peculato, malversazione a danno dello Stato, concussione, corruzione per un atto d’ufficio, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione in atti giudiziari, corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio;

§       delitti, diversi da quelli di cui al punto precedente, commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio per i quali sia stata comminata definitivamente la pena della reclusione non inferiore a sei mesi;

§       delitti non colposi per i quali sai stata inflitta una pena della reclusione non inferiore a due anni.

Le medesime condizioni di non candidabilità sussistono anche per coloro nei confronti dei quali sia stata applicata, con provvedimento definitivo, una misura di prevenzione, in quanto indiziati di appartenere ad una associazione di stampo mafioso.

L'eventuale elezione di coloro che si trovano nelle condizioni descritte è nulla. L'organo che ha convalidato l'elezione è tenuto a revocarla non appena viene a conoscenza della loro esistenza.

In caso di sentenza non definitiva si applica la sospensione dalle carica e con il passaggio in giudicato della sentenza di condanna è prevista la decadenza di diritto (art. 59 TUEL).

Il testo attuale della disposizione suddetta è stato introdotto dall'art. 1 della legge 13 dicembre 1999, n. 475, per conformare il testo alla sentenza della Corte costituzionale n. 141 del 1996 che aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale della precedente formulazione (che ancorava la situazione ostativa anche a decisioni non irrevocabili). La Corte ha affermato che l'incandidabilità va considerata come una particolarissima causa di ineleggibilità che va valutata alla luce del diritto di elettorato passivo, che l'art. 51 Cost. assicura in via generale. Secondo la Corte, solo una sentenza irrevocabile può giustificare l'esclusione dei cittadini che intendono concorrere alle cariche elettive; né vale obiettare che si tratta di elezioni amministrative, e non di quelle politiche generali, perché pure in questo caso è in gioco il principio democratico, assistito dal riconoscimento costituzionale delle autonomie locali.

 

Oltre a disporre la ricognizione delle norme vigenti, si prevede (lettera h) la possibilità di introdurre ulteriori ipotesi di incandidabilità, in coerenza con quanto previsto per le incandidabilità dei parlamentari (di cui alla lett. a) per le incandidabilità alle elezioni regionali (vedi oltre lett. i). Tuttavia, mentre per le incandidabilità parlamentari, come si è visto, vengono indicati espressamente i delitti sui quali fondare le cause ostative alla candidatura, nel caso degli enti locali, il criterio di delega si limita ad evocare le condanne derivanti da delitti di grave allarme sociale lasciando indeterminate, e quindi alla scelta del legislatore delegato, l’individuazione di tali delitti.

Si rileva, inoltre, che viene fatto riferimento, ai fini della coerenza dell’intervento normativo, solamente alle ipotesi di cui alla lettera a) e non anche a quelle della lettera b), che riguarda i delitti contro la pubblica amministrazione.

L’incandidabilità regionale (comma 2, lett. i)

Anche per le incandidabilità regionali, come per quelle locali, il provvedimento in esame (lettera i) non individua specifiche cause ostative, ma si limita a affidare al legislatore delegato il compito di individuare, in presenza di sentenze definitive di condanna, le ipotesi di:

§         incandidabilità alle elezioni regionali;

§         divieto di ricoprire cariche negli “organi politici di vertice delle regioni” (il riferimento è presumibilmente agli organi esecutivi).

 

La disposizione fa salva la competenza legislativa regionale sul sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del presidente e degli altri componenti della giunta regionale nonché dei consiglieri regionali.

 

L'incandidabilità era originariamente disciplinata congiuntamente per le elezioni regionali e locali dall'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 552, come modificato dalla legge 18 gennaio 1992, n. 16. Tuttavia, l'art. 274 del Testo unico degli enti locali di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 ha abrogato il suddetto art. 15 "salvo per quanto riguarda gli amministratori e i componenti degli organi comunque denominati delle aziende sanitarie locali e ospedaliere, i consiglieri regionali". Una disciplina analoga è stata inserita, come si è detto sopra negli artt. 58 e 59 dello stesso TUEL. L'incandidabilità ha dunque oggi due fonti normative diverse, a seconda che si tratti di elezioni regionali o di elezioni locali, anche se la portata è analoga

L’art. 15 riguarda la non candidatura alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali e il divieto a ricoprire le cariche di presidente della giunta regionale, assessore e consigliere regionale, presidente della giunta provinciale, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale, presidente e componente del consiglio circoscrizionale, presidente e componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, presidente e componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, consigliere di amministrazione e presidente delle aziende speciali e delle istituzioni, amministratore e componente degli organi comunque denominati delle unità sanitarie locali, presidente e componente degli organi esecutivi delle comunità montane.

L’incandidabilità e il divieto di cui sopra scatta per coloro che hanno riportato una sentenza definitiva per gli stessi delitti indicati dal’art. 58 TUEL, sopra esaminato.

L'art. 122, primo comma, Cost. (come sostituito dalla legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1) stabilisce che i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del presidente e degli altri componenti della giunta regionale, nonchè dei consiglieri regionali sono disciplinati con legge della regione nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi elettivi.

La legge 2 luglio 2004, n. 165, recante le disposizioni di attuazione del suddetto art. 122, primo comma, Cost., fa salve le disposizioni legislative statali in materia di incandidabilità per coloro che hanno riportato sentenze di condanna o nei cui confronti sono state applicate misure di prevenzione (art. 2).

Disposizioni comuni (comma 2, lett. l) e m))

Il comma in esame reca alcuni principi e criteri direttivi di carattere generale.

Il primo (lettera l) prevede, in ossequio alle disposizioni relative alla redazione tecnica degli atti normativi, l’abrogazione espressa delle disposizioni incompatibili con quelle recate dal testo unico.

 

La seconda (lettera m) disciplina l’ipotesi di incandidabilità sopravvenuta, ossia il caso in cui la condanna definitiva per delitti non colposi che causa l’incandidabilità o all’interdizione sopraggiunga in un momento successivo alla candidatura (in caso di cariche elettive) o all’affidamento della carica (in caso di cariche non elettive). Il principio di delega prevede che in questi casi si procede alla sospensione o alla decadenza di diritto dalla carica.

La disposizione non fornisce ulteriori dettagli in ordine ai casi in cui si applica l’una o l’altre delle due fattispecie, anche se sembrerebbe plausibile l’applicazione della sospensione in caso di cariche elettive (anche in relazione alla temporaneità dell’incandidabilità prevista dalle lettere a) e b) e della decadenza per le cariche non elettive (di governo).

 

Andrebbe valutata, in proposito, la possibilità di chiarire l’ambito di applicazione delle due fattispecie. Come pure andrebbe valutata l’applicazione della sospensione e della decadenza dei parlamentari alla luce dell’art. 66 Cost. che prevede la competenza delle Camere per il giudizio, oltre che dei titoli di ammissione dei suoi componenti, sia delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità.

Il parere parlamentare (comma 3)

Il comma 3 disciplina il procedimento relativo al parere parlamentare come segue:

§      lo schema di testo unico è corredato della relazione tecnica (art. 17, co. 3, L. 196/2009);

§      è trasmesso alle Camere che esprimono il parere attraverso le competenti commissioni per materia e per i profili finanziari entro 60 giorni;

§      decorso tale termine il testo unico può essere comunque emanato anche in assenza dei predetti pareri.

 


Art. 9.
(Modifiche al codice penale).

1. Al libro II, titolo II, del codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all'articolo 314, primo comma, la parola: «tre» è sostituita dalla seguente: «quattro»;

b) all'articolo 316, le parole: «da sei mesi a tre anni» sono sostituite dalle seguenti: «da uno a quattro anni»;

c) all'articolo 316-bis, le parole: «da sei mesi a quattro anni» sono sostituite dalle seguenti: «da uno a cinque anni»;

d) all'articolo 316-ter, primo comma, le parole: «da sei mesi a tre anni» sono sostituite dalle seguenti: «da uno a quattro anni»;

e) all'articolo 318, primo comma, le parole: «da sei mesi a tre anni» sono sostituite dalle seguenti: «da uno a quattro anni»;

f) all'articolo 318, secondo comma, le parole: «fino a un anno» sono sostituite dalle seguenti: «fino a un anno e sei mesi»;

g) all'articolo 319, le parole: «da due a cinque anni» sono sostituite dalle seguenti: «da tre a sei anni»;

h) all'articolo 319-ter, primo comma, le parole: «da tre a otto anni» sono sostituite dalle seguenti: «da quattro a otto anni»;

i) nel capo I, dopo l'articolo 335-bis, è aggiunto il seguente:
«Art. 335-ter. – (Circostanze aggravanti). – Per i delitti previsti dal presente capo, le pene per il solo pubblico ufficiale sono aumentate in caso di atti particolarmente lesivi per la pubblica amministrazione ovvero commessi al fine di far conseguire indebitamente contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee»;

l) all'articolo 354, le parole: «sino a sei mesi o con la multa fino a euro 516» sono sostituite dalle seguenti: «fino a un anno»;

m) all'articolo 356, primo comma, le parole: «da uno a cinque anni» sono sostituite dalle seguenti: «da due a sei anni».

 

L’articolo 9 novella il titolo II del codice penale, relativo ai delitti contro la pubblica amministrazione.

 

In particolare, le lettere da a) ad h)aumentano le pene attualmente previste dal codice penale (v. testo a fronte).per una serie di delitti contro la pubblica amministrazione (peculato, peculato mediante profitto dell’errore altrui, malversazione a danno dello Stato, indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, corruzione per un atto d'ufficio, corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, corruzione in atti giudiziari).

 

 

Codice penale

Normativa vigente

A.C. 4434

Art. 314

Peculato

Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da tre a dieci anni.

Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni.

Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.

Identico.

 

 

Art. 316

Peculato mediante profitto dell’errore altrui

Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, il quale, nell'esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell'errore altrui, riceve o ritiene indebitamente, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, il quale, nell'esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell'errore altrui, riceve o ritiene indebitamente, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

 

 

Art. 316-bis

Malversazione a danno dello Stato

Chiunque, estraneo alla pubblica amministrazione, avendo ottenuto dallo Stato o da altro ente pubblico o dalle Comunità europee contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere od allo svolgimento di attività di pubblico interesse, non li destina alle predette finalità, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni.

Chiunque, estraneo alla pubblica amministrazione, avendo ottenuto dallo Stato o da altro ente pubblico o dalle Comunità europee contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere od allo svolgimento di attività di pubblico interesse, non li destina alle predette finalità, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.

 

 

Art. 316-ter

Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato

Salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall'articolo 640-bis, chiunque mediante l'utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l'omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall'articolo 640-bis, chiunque mediante l'utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l'omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

Quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a euro 3.999,96 si applica soltanto la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro da euro 5.164 a euro 25.822. Tale sanzione non può comunque superare il triplo del beneficio conseguito.

Identico.

 

 

Art. 318

Corruzione per un atto d'ufficio

Il pubblico ufficiale, che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in denaro od altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Il pubblico ufficiale, che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in denaro od altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

Se il pubblico ufficiale riceve la retribuzione per un atto d'ufficio da lui già compiuto, la pena è della reclusione fino a un anno.

Se il pubblico ufficiale riceve la retribuzione per un atto d'ufficio da lui già compiuto, la pena è della reclusione fino a un anno e sei mesi.

 

 

Art. 319

Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio

Il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da due a cinque anni.

Il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da tre a sei anni.

 

 

Art. 319-ter

Corruzione in atti giudiziari

Se i fatti indicati negli articoli 318 e 319 sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica la pena della reclusione da tre a otto anni.

Se i fatti indicati negli articoli 318 e 319 sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica la pena della reclusione da quattro a otto anni.

Se dal fatto deriva l'ingiusta condanna di taluno alla reclusione non superiore a cinque anni, la pena è della reclusione da quattro a dodici anni; se deriva l'ingiusta condanna alla reclusione superiore a cinque anni o all'ergastolo, la pena è della reclusione da sei a venti anni.

Identico.

 

 

L’innalzamento da tre a quattro anni di reclusione del minimo edittale previsto per il reato di peculato (art. 314 c.p.) rende più difficile l’applicazione dell’art. 317-bis (Pene accessorie), laddove prevede, per i reati di peculato e concussione, l’applicazione dell’interdizione temporanea, anziché perpetua, dai pubblici uffici quando per circostanze attenuanti viene inflitta la reclusione per un tempo inferiore a tre anni.

 

Con riferimento al reato di corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter), l’innalzamento del minimo edittale (da tre a quattro anni) riguarda solo la fattispecie di cui al primo comma, ma non quella più grave prevista dalla prima parte del secondo comma, che riguarda il caso in cui dal fatto deriva l'ingiusta condanna alla reclusione non superiore a cinque anni. Il minimo edittale per l’ipotesi più grave resta di quattro anni e viene così a coincidere con quello introdotto per la fattispecie del primo comma (la quale comunque ha un massimo edittale ben più elevato: dodici anni, rispetto agli otto previsti dal primo comma).

 

La lettera i) introduce invece, a chiusura del capo relativo ai delitti dei pubblici ufficiali contro la PA, una nuova circostanza aggravante (art. 335-ter, c.p.), ad effetto comune riferita a chi riveste la qualifica di pubblico ufficiale.

Tale nuova circostanza inasprisce le pene per delitti previsti nel Capo I:

§         in caso “atti particolarmente lesivi per la pubblica amministrazione”;

Si valuti l’opportunità di meglio definire il concetto di ‘particolare lesività per la pubblica amministrazione’.

§         i fatti sono commessi al fine di far conseguire indebitamente contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dall’Unione europea.

Dal punto di vista della formulazione tecnica, la disposizione fa riferimento alle “Comunità europee”. Tale richiamo – attualmente previsto anche da altre disposizioni del codice penale (es. art. 322-bis c.p.) – andrebbe oggi più correttamente riferito all’Unione europea.

 

La nuova circostanza aggravante non si applica invece agli incaricati di pubblico servizio.

Essa non sembrerebbe inoltre applicabile ai membri ed ai funzionari delle istituzioni dell’UE, cui l’art. 322-bis estende l’applicabilità dei delitti di peculato, concussione, corruzione e istigazione alla corruzione, assimilandoli ai pubblici ufficiali, qualora esercitino funzioni corrispondenti.

 

Le lettere l) ed m) intervengono invece sulla disciplina dei delitti dei privati contro la PA per innalzare la pena attualmente prevista per le fattispecie di astensione dagli incantie di frode nelle pubbliche forniture (v. testo a fronte).

 

 

Codice penale

Normativa vigente

A.C. 4434

Art. 354

Astensione dagli incanti

Chiunque, per denaro, dato o promesso a lui o ad altri, o per altra utilità a lui o ad altri data o promessa, si astiene dal concorrere agli incanti o alle licitazioni indicati nell'articolo precedente, è punito con la reclusione sino a sei mesi o con la multa fino a euro 516.

Chiunque, per denaro, dato o promesso a lui o ad altri, o per altra utilità a lui o ad altri data o promessa, si astiene dal concorrere agli incanti o alle licitazioni indicati nell'articolo precedente, è punito con la reclusione fino a un anno.

 

 

Art. 356

Frode nelle pubbliche forniture

Chiunque commette frode nell'esecuzione dei contratti di fornitura o nell'adempimento degli altri obblighi contrattuali indicati nell'articolo precedente, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa non inferiore a euro 1.032.

Chiunque commette frode nell'esecuzione dei contratti di fornitura o nell'adempimento degli altri obblighi contrattuali indicati nell'articolo precedente, è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa non inferiore a euro 1.032.

La pena è aumentata nei casi preveduti dal primo capoverso dell'articolo precedente.

Identico.

 

 


Art. 10.
(Clausola di invarianza).

1. Dall'attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

2. Le amministrazioni competenti provvedono allo svolgimento delle attività previste dalla presente legge con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

 

L’articolo 10 contiene la clausola di invarianza finanziaria.

Pertanto, per le attività previste dalle disposizioni del disegno di legge in esame, le competenti amministrazioni possono utilizzare unicamente le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

 

 

 


 



[1]     Legge 29 settembre 2000, n. 300 “Ratifica ed esecuzione dei seguenti Atti internazionali elaborati in base all'articolo K.3 del Trattato sull'Unione europea: Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, del suo primo Protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996, del Protocollo concernente l'interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee, di detta Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996, nonché della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell'Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997. Delega al Governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica”

[2]    Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell'articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300.

[3]    Il testo delle risposte ed il rapporto finale del GRECO sull’Italia sono disponibili all’indirizzo internet: http://www.anticorruzione.it/site/1/default.aspx.

 

[4]    Legge 3 agosto 2009, n. 116, Ratifica ed esecuzione della Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell'ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003, nonché norme di adeguamento interno e modifiche al codice penale e al codice di procedura penale”.

[5]    Peraltro, si segnala che sono attualmente all’esame del Senato due proposte di legge (AS 850 e AS 2058), di ratifica della Convenzione penale sulla corruzione (fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999) che, introducendo norme di adeguamento interno, reca in particolare sostanziali modifiche al codice penale che ridisegnano complessivamente il quadro dei delitti contro la pubblica amministrazione.

[6]    L. 16 gennaio 2003, n. 3, Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica amministrazione.

[7]    Ai sensi di tali disposizioni l'Alto Commissario poteva, tra l’altro, avvalersi degli uffici e degli organi ispettivi e di verifica delle amministrazioni pubbliche e dei servizi di controllo interno, poteva effettuare accertamenti diretti, anche mediante audizioni di soggetti appartenenti alle pubbliche amministrazioni o di privati interessati alle procedure amministrative o contabili in corso di esame. Egli poteva altresì delegare specifici accertamenti a singoli funzionari delle pubbliche amministrazioni interessate, nonché accedere: a) ai documenti delle pubbliche amministrazioni, con il limite per il materiale documentale per il quale operi il segreto di Stato; b) alle banche dati delle pubbliche amministrazioni.

[8]    D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni.

[9]    La Commissione è organo collegiale composto da cinque componenti scelti tra esperti di elevata professionalità, anche estranei all'amministrazione con comprovate competenze in Italia e all'estero, sia nel settore pubblico che in quello privato in tema di servizi pubblici, management, misurazione della performance, nonché di gestione e valutazione del personale. I componenti sono nominati, tenuto conto del principio delle pari opportunità di genere, con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, di concerto con il Ministro per l'attuazione del programma di Governo, previo parere favorevole delle Commissioni parlamentari competenti espresso a maggioranza dei due terzi dei componenti. I componenti sono nominati per un periodo di sei anni e possono essere confermati una sola volta.

[10]   Si v. in proposito, il testo delle Osservazioni sulle disposizioni contenute nel ddl anticorruzione depositate nell’ambito dell’audizione del Presidente della Corte dei Conti presso la Commissione 1ª e 2ª del Senato.

[11]Il comma 6 stabilisce che le norme contenute nell’articolo 53 (commi 7-13) si applicano ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2 del D.lgs. 165/2001 (su cui vedi nota n. 2), nonché il personale in regime di diritto pubblico di cui all’articolo 3, precisando che sono esclusi dalle disposizioni in tema di autorizzazioni agli incarichi, i dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno, i docenti universitari a tempo definito e le altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali.

Viene inoltre specificato che per incarico retribuito si devono intendere tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso, fatta esclusione per i compensi derivanti da: collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili; utilizzazione economica da parte dell'autore o inventore di opere dell'ingegno e di invenzioni industriali; partecipazione a convegni e seminari; incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate; incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o fuori ruolo; incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita; attività di formazione rivolta ai dipendenti della P.A..

[12]Secondo la disposizione richiamata per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al D.lgs. 300/1999. Inoltre, fino alla revisione organica della disciplina di settore, le disposizioni del D.lgs. 165/2001 si applicano anche al CONI.

 

[13]   La calunnia è il reato di colui che, con denuncia, querela o istanza (calunnia diretta o formale)- anche se anonima o sotto falso nome – diretta all’autorità giudiziaria (o altra autorità che a quella debba poi riferirne) incolpa di un reato qualcuno che sa essere innocente ovvero simula a suo carico tracce di un reato che questi non ha commesso (calunnia indiretta o materiale); la pena prevista è la reclusione da 2 a 6 anni, aumentata ove il reato attribuito preveda pene superiori a 5 anni ovvero l’ergastolo (art. 368 c.p.).

Il reato di diffamazione, di cui all’art. 595 c.p., a differenza della calunnia – reato contro la P.A. - rientra nella categoria dei delitti contro l’onore e consiste nel fatto di chiunque, fuori dai casi di ingiuria di cui all’articolo 594, comunicando con più persone offende l’altrui reputazione. Oltre a tale elemento, il reato è caratterizzato altresì dall’assenza dell’offeso (tale caratteristica distingue il delitto in esame da quello dell’ingiuria di cui all’articolo 594), vale a dire che occorre che questi non sia presente al momento della condotta criminosa e che non si verifichino quei fatti che la legge equipara alla presenza (comunicazioni telefoniche, telegrafiche, scritti o disegni diretti alla persona offesa), nonché dalla comunicazione con più persone ovvero dalla presa di contatto (mediante parole, scritti, disegni e gesti) con soggetti diversi dall’offeso al fine di renderli partecipi di fatti lesivi della reputazione di costui. La pena-base prevista dal codice consiste nella reclusione fino ad un anno o nella multa fino a 1.032 euro; circostanze aggravanti del reato di diffamazione sussistono se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico o, ancora, se l’offesa è diretta ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio.

 

[14]   Infatti, l’art. 331 c.p. prevede in capo a tali soggetti l’obbligo di denunciare all'autorità giudiziaria (o ad un'altra autorità che a quella abbia l'obbligo di riferire), la notizia di ogni reato perseguibile d'ufficio di cui siano venuti a conoscenza nell'esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio; tale denunzia va fatta per iscritto anche quando non sia individuata la persona alla quale il reato è attribuito e va presentata o trasmessa senza ritardo al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria.

[15]   L. 14 gennaio 1994, n. 20, Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti.

[16]   D.L. 3 agosto 2009, n. 103, convertito dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, che ha modificato l’art. 17, comma 30-ter del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78.

[17]    Vale a dire quelli di peculato (art. 314 e 316), malversazione a danno dello Stato (art. 316 bis), indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316 ter), concussione (art. 317), corruzione per un atto d’ufficio (art. 318), corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319), corruzione in atti giudiziari (art. 319 ter), corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio (art. 320), istigazione alla corruzione (art. 322), peculato, concussione, corruzione e istigazione alla corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri (art. 322 bis), abuso d’ufficio (art. 323), utilizzazione d’invenzioni o scoperte conosciute per ragioni di ufficio (art. 325), rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio (art. 326), rifiuto di atti d’ufficio. Omissione (art. 328), rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un militare o da un agente della forza pubblica (art. 329), interruzione di un servizio pubblico o di pubblica necessità (art. 331), sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall’autorità amministrativa (art. 334), violazione colposa di doveri inerenti alla custodia di cose sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall’autorità amministrativa (art. 335).

[18]   In particolare, l'art. 1, comma 2, L 20/94 prevede che il diritto al risarcimento del danno si prescriva in ogni caso in 5 anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta.

[19]   Segnatamente, la Corte afferma che «non vi è dubbio che la formulazione della disposizione non consente di ritenere che, in presenza di fattispecie distinte da quelle espressamente contemplate dalla norma impugnata, la domanda di risarcimento del danno per lesione dell'immagine dell'amministrazione possa essere proposta innanzi ad un organo giurisdizionale diverso dalla Corte dei conti, adita in sede di giudizio per responsabilità amministrativa ai sensi dell'art. 103 Cost. Deve, quindi, ritenersi che il legislatore non abbia inteso prevedere una limitazione della giurisdizione contabile a favore di altra giurisdizione, e segnatamente di quella ordinaria, bensì circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in presenza della lesione dell'immagine dell'amministrazione imputabile a un dipendente di questa».