Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento istituzioni
Titolo: Norme sulla cittadinanza - A.C. 103 e abb. - Normativa di riferimento e giurisprudenza
Riferimenti:
AC N. 103/XVI   AC N. 104/XVI
AC N. 457/XVI   AC N. 566/XVI
AC N. 718/XVI   AC N. 995/XVI
AC N. 1048/XVI   AC N. 1592/XVI
Serie: Progetti di legge    Numero: 96    Progressivo: 1
Data: 10/12/2008
Descrittori:
CITTADINANZA     
Organi della Camera: I-Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni


Camera dei deputati

XVI LEGISLATURA

 

SERVIZIO STUDI

 

Progetti di legge

Norme sulla cittadinanza

A.C. 103 e abb.

Normativa di riferimento e giurisprudenza

 

 

 

 

n. 96/1

 

 

10 Dicembre 2008

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DIPARTIMENTO istituzioni

SIWEB

 

 

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File: ac0216a.doc

 

 


INDICE

Normativa di riferimento

§      Costituzione (artt. 3, 22 e 54)3

§      Codice penale (artt. 241-300, 416 bis, 575, 600-602, 609-bis, 609-quater, 609-octies e 630)4

§      Legge 5 agosto 1978, n. 468. Riforma di alcune norme di contabilità generale dello Stato in materia di bilancio (artt. 7 e 11-ter)47

§      Legge 14 marzo 1985, n. 132. Ratifica ed esecuzione della Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979  51

§      Legge 23 agosto 1988, n. 400. Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri (art. 17)65

§      D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza (artt. 73, 74, 80)68

§      Legge 5 febbraio 1992, n. 91. Nuove norme sulla cittadinanza  73

§      D.P.R. 12 ottobre 1993, n. 572. Regolamento di esecuzione della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza (art. 7)83

§      D.P.R. 18 aprile 1994, n. 362. Regolamento recante disciplina dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana  85

§      Legge 22 dicembre 1994, n. 736. Modifica dell'art. 17 della L. 5 febbraio 1992, n. 91, concernente la proroga del termine per il riacquisto della cittadinanza italiana  89

§      Legge 23 dicembre 1996, n. 662. Misure di razionalizzazione della finanza pubblica (art. 2, co. 195)90

§      D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286. Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (artt. 9, 23)92

§      D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394. Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell'art. 1, comma 6, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (art. 34)97

§      Legge 10 marzo 2000, n. 62. Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all'istruzione  100

Giurisprudenza

§      Corte Costituzionale. Sentenza 28 gennaio 1983, n. 30  107

§      Corte di Cassazione. Sentenza 10 luglio 1996, n. 6297  114

 

 


 

Normativa di riferimento

 


 

Costituzione
(artt. 3, 22 e 54)

 

 

Art. 3.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

 

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

 

 

Art. 22.

Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica della cittadinanza, del nome.

 

 

Art. 54.

Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.

 

I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle, con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.

 


 

Codice penale
(artt. 241-300, 416 bis, 575, 600-602, 609-bis, 609-quater,
609-octies e 630)

 

LIBRO SECONDO

DEI DELITTI IN PARTICOLARE

 

TITOLO I

Dei delitti contro la personalità dello Stato (1)

 

Capo I

Dei delitti contro la personalità internazionale dello Stato

 

Art. 241

Attentati contro l'integrità, l'indipendenza e l'unità dello Stato. (2)

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti violenti diretti e idonei a sottoporre il territorio dello Stato [c.p. 4] o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l'indipendenza o l'unità dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a dodici anni.

 

La pena è aggravata se il fatto è commesso con violazione dei doveri inerenti l'esercizio di funzioni pubbliche (2).

 

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(1) Vedi l'art. 1, D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, convertito, con modificazioni, in L. 6 febbraio 1980, n. 15, per la tutela dell'ordine democratico e della sicurezza pubblica.

(2) Articolo così sostituito dall'art. 1, L. 24 febbraio 2006, n. 85.

Il testo del presente articolo, in vigore prima della sostituzione disposta dalla citata legge n. 85 del 2006, era il seguente: «Chiunque commette un fatto diretto a sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l'indipendenza dello Stato, è punito con la morte.

Alla stessa pena soggiace chiunque commette un fatto diretto a disciogliere l'unità dello Stato, o a distaccare dalla madre Patria una colonia o un altro territorio soggetto, anche temporaneamente, alla sua sovranità.».

Vedi gli artt. 11 e 43, R.D. 18 giugno 1931, n. 773, di approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e l'art. 15 della L.Cost. 11 marzo 1953, n. 1, nonché l'art. 9, primo comma, L. 18 aprile 1975, n. 110, per il controllo delle armi, munizioni ed esplosivi e la L. 5 giugno 1989, n. 219 recante nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall'articolo 90 della Costituzione.

L'art. 3, L. 8 agosto 1977, n. 533, in materia di ordine pubblico, così dispone: «Nel corso del procedimento per i reati concernenti le armi e gli esplosivi, nonché per quelli previsti dagli artt. 241, 285, 286 e 306 c.p. e dalla L. 20 giugno 1952, n. 645 e successive modificazioni, l'autorità giudiziaria dispone sempre, con decreto motivato, il sequestro dell'immobile, che sia sede di enti, associazioni o gruppi, quando in tale sede siano rinvenuti armi da sparo, esplosivi o ordigni esplosivi o incendiari, ovvero quando l'immobile sia pertinente al reato. Non può essere nominato custode dell'immobile sequestrato l'indiziato o l'imputato dei reati, per cui si procede, né persona aderente agli enti, associazioni o gruppi suddetti. Nella flagranza del reato, gli ufficiali di pubblica sicurezza procedono allo stesso modo trasmettendo, nelle quarantotto ore, il processo verbale all'autorità giudiziaria, indicata nel primo capoverso dell'art. 238 c.p.p. Quando il procedimento è definito con sentenza di condanna è sempre ordinata la confisca dell'immobile di cui al primo comma, se appartenente al condannato. Nel corso del procedimento il giudice deve disporre la restituzione dell'immobile sequestrato non appartenente all'imputato a chi provi di averne diritto, sempre che il mantenimento del sequestro non sia necessario per il procedimento».

Vedi, anche, la L. 22 dicembre 1980, n. 932, recante provvidenze a favore dei perseguitati politici e razziali. L'art. 5, secondo comma, L. 29 maggio 1982, n. 304 (terroristi pentiti), per la difesa dell'ordinamento costituzionale, così dispone: «Se il colpevole di uno dei delitti previsti dagli articoli 241, 276, 280, 283, 284, 285, 286, 289 e 295 del codice penale coopera efficacemente ad impedire l'evento cui gli atti da lui commessi sono diretti soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso». La decadenza da questi benefici in caso di false o reticenti dichiarazioni è regolata dall'art. 10 della stessa legge n. 304 del 1982, il cui art. 12 limita la applicazione del provvedimento solo ai reati che siano stati commessi o la cui permanenza sia iniziata entro il 31 gennaio 1982, purché i comportamenti cui è condizionata la loro applicazione vengano tenuti entro centoventi giorni dall'entrata in vigore della legge (3 giugno 1982), termine differito di ulteriori centoventi giorni, con l'art. 1 del D.L. 1 ottobre 1982, n. 695, convertito nella L. 29 novembre 1982, n. 882. Vedi gli artt. 9-17, D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modificazioni in L. 15 marzo 1991, n. 82, in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e protezione di coloro che collaborano con la giustizia. Vedi l'art. 8, L. 18 febbraio 1987, n. 34, sulla dissociazione dal terrorismo.

 

 

Art. 242

Cittadino che porta le armi contro lo Stato italiano. (1)

Il cittadino (2) che porta le armi contro lo Stato o presta servizio nelle forze armate di uno Stato in guerra contro lo Stato italiano, è punito con l'ergastolo [c.p. 7, n. 1, 22, 29, 32]. Se esercita un comando superiore o una funzione direttiva è punito con la morte [c.p. 364] (3).

 

Non è punibile chi, trovandosi, durante le ostilità, nel territorio dello Stato nemico, ha commesso il fatto per esservi stato costretto da un obbligo impostogli dalle leggi dello Stato medesimo.

 

Agli effetti delle disposizioni di questo titolo, è considerato cittadino (4) anche chi ha perduto per qualunque causa la cittadinanza italiana.

 

Agli effetti della legge penale, sono considerati Stati in guerra contro lo Stato italiano [c.p. 268] anche gli aggregati politici che, sebbene dallo Stato italiano non riconosciuti come Stati, abbiano tuttavia il trattamento di belligeranti [c.p. 302, 311, 312; c.n. 1088].

 

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(1) Vedi la L. 2 ottobre 1967, n. 895, sul controllo delle armi; la L. 23 dicembre 1974, n. 694, sul porto d'armi a bordo di aeromobili, e gli artt. 18 e 20, L. 22 maggio 1975, n. 152, in materia di ordine pubblico.

(2) Vedi, la L. 5 febbraio 1992, n. 91, sulla cittadinanza.

(3) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita, dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena dell'ergastolo.

(4) Vedi, la L. 5 febbraio 1992, n. 91, sulla cittadinanza.

 

 

Art. 243

Intelligenze con lo straniero a scopo di guerra contro lo Stato italiano.

Chiunque tiene intelligenze con lo straniero affinché uno Stato estero muova guerra o compia atti di ostilità contro lo Stato italiano, ovvero commette altri fatti diretti allo stesso scopo, è punito con la reclusione non inferiore a dieci anni [c.p. 29, 32].

 

Se la guerra segue, si applica la pena di morte (1); se le ostilità si verificano si applica l'ergastolo [c.p. 22, 29, 32, 245, 302, 311, 312, 364].

 

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(1) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita, dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena dell'ergastolo.

 

 

Art. 244

Atti ostili verso uno Stato estero, che espongono lo Stato italiano al pericolo di guerra.

Chiunque, senza l'approvazione del Governo, fa arruolamenti o compie altri atti ostili contro uno Stato estero, in modo da esporre lo Stato italiano al pericolo di una guerra, è punito con la reclusione da sei a diciotto anni; se la guerra avviene, è punito con l'ergastolo [c.p. 15, 22, 364].

 

Qualora gli atti ostili siano tali da turbare soltanto le relazioni con un Governo estero, ovvero da esporre lo Stato italiano o i suoi cittadini [c.p. 4, 242], ovunque residenti, al pericolo di rappresaglie o di ritorsioni, la pena è della reclusione da tre a dodici anni. Se segue la rottura delle relazioni diplomatiche, o se avvengono le rappresaglie o le ritorsioni, la pena è della reclusione da cinque a quindici anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32, 302, 311, 312] (1).

 

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(1) Articolo così modificato dall'art. 7, primo comma, L. 12 maggio 1995, n. 210. Il testo precedente così disponeva: «Chiunque, senza l'approvazione del Governo, fa arruolamenti o compie altri atti ostili contro uno Stato estero, in modo da esporre lo Stato italiano al pericolo di una guerra, è punito con la reclusione da cinque a dodici anni; se la guerra avviene, è punito con l'ergastolo. Qualora gli atti ostili siano tali da turbare soltanto le relazioni con un Governo estero, ovvero da esporre lo Stato italiano o i suoi cittadini, ovunque residenti, al pericolo di rappresaglie o di ritorsioni, la pena è della reclusione da due a otto anni. Se segue la rottura delle relazioni diplomatiche, o se avvengono le rappresaglie o le ritorsioni, la pena è della reclusione da tre a dieci anni».

 

 

Art. 245

Intelligenze con lo straniero per impegnare lo Stato italiano alla neutralità o alla guerra.

Chiunque tiene intelligenze con lo straniero per impegnare o per compiere atti diretti a impegnare lo Stato italiano alla dichiarazione o al mantenimento della neutralità, ovvero alla dichiarazione di guerra, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32].

 

La pena è aumentata se le intelligenze hanno per oggetto una propaganda col mezzo della stampa [c.p. 302, 311, 312] (1).

 

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(1) Vedi l'art. 1, L. 8 febbraio 1948, n. 47, sulla stampa.

 

 

Art. 246

Corruzione del cittadino da parte dello straniero.

Il cittadino [c.p. 242] che, anche indirettamente, riceve o si fa promettere dallo straniero, per sé o per altri, denaro o qualsiasi utilità, o soltanto ne accetta la promessa, al fine di compiere atti contrari agli interessi nazionali, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione da tre a dieci anni [c.p. 29, 32] e con la multa da euro 516 a euro 2.065 (1).

 

Alla stessa pena soggiace lo straniero che dà o promette il denaro o l'utilità.

 

La pena è aumentata [c.p. 64, 70, n. 1]:

 

1. se il fatto è commesso in tempo di guerra [c.p. 310];

 

2. se il denaro o l'utilità sono dati o promessi per una propaganda col mezzo della stampa [c.p. 302, 311, 312] (2).

 

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(1) La multa risulta così aumentata, da ultimo, ai sensi dell'art. 113, L. 24 novembre 1981, n. 689, che modifica il sistema penale.

(2) Vedi l'art. 1, L. 8 febbraio 1948, n. 47, sulla stampa.

 

 

Art. 247

Favoreggiamento bellico.

Chiunque, in tempo di guerra [c.p. 310], tiene intelligenze con lo straniero per favorire le operazioni militari del nemico a danno dello Stato italiano, o per nuocere altrimenti alle operazioni militari dello Stato italiano, ovvero commette altri fatti diretti agli stessi scopi, è punito con la reclusione non inferiore a dieci anni; e, se raggiunge l'intento, con la morte [c.p. 7, n. 1, 22, 29, 32, 70, n. 2, 302, 311, 312, 364] (1).

 

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(1) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita, dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena dell'ergastolo.

 

 

Art. 248

Somministrazione al nemico di provvigioni.

Chiunque, in tempo di guerra [c.p. 310], somministra, anche indirettamente, allo Stato nemico provvigioni, ovvero altre cose, le quali possano essere usate a danno dello Stato italiano [c.p. 268], è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32, 248, 302, 311, 312].

 

Tale disposizione non si applica allo straniero che commette il fatto all'estero [c.p. 7, 8, 10].

 

 

Art. 249

Partecipazione a prestiti a favore del nemico.

Chiunque, in tempo di guerra [c.p. 310], partecipa a prestiti o a versamenti a favore dello Stato nemico, o agevola le operazioni ad essi relative, è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni [c.p. 29, 32, 268, 302, 311, 312].

 

Tale disposizione non si applica allo straniero che commette il fatto all'estero [c.p. 7, 8, 10].

 

 

Art. 250

Commercio col nemico.

Il cittadino [c.p. 4, 242], o lo straniero dimorante nel territorio dello Stato, il quale, in tempo di guerra [c.p. 310] e fuori dei casi indicati nell'articolo 248, commercia, anche indirettamente, con sudditi dello Stato nemico, ovunque dimoranti, ovvero con altre persone dimoranti nel territorio dello Stato nemico, è punito con la reclusione da due a dieci anni e con la multa pari al quintuplo del valore della merce e, in ogni caso, non inferiore a euro 1.032 [c.p. 7, n. 1, 29, 32, 268, 302, 311, 312] (1).

 

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(1) La multa risulta così aumentata, da ultimo, ai sensi dell'art. 113, L. 24 novembre 1981, n. 689, che modifica il sistema penale.

 

 

Art. 251

Inadempimento di contratti di forniture in tempo di guerra.

Chiunque, in tempo di guerra [c.p. 310], non adempie in tutto o in parte gli obblighi che gli derivano da un contratto di fornitura di cose o di opere concluso con lo Stato [c.p. 268] o con un altro ente pubblico o con un'impresa esercente servizi pubblici o di pubblica necessità [c.p. 359], per i bisogni delle forze armate dello Stato o della popolazione, è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa pari al triplo del valore della cosa o dell'opera che egli avrebbe dovuto fornire e, in ogni caso non inferiore a euro 1.032 [c.p. 7, n. 1, 268, 302, 311, 312, 355; c.p.m.g. 162] (1).

 

Se l'inadempimento, totale o parziale, del contratto, è dovuto a colpa, le pene sono ridotte alla metà.

 

Le stesse disposizioni si applicano ai subfornitori, ai mediatori e ai rappresentanti dei fornitori, allorché essi, violando i loro obblighi contrattuali, hanno cagionato l'inadempimento del contratto di fornitura.

 

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(1) La multa risulta così aumentata, da ultimo, ai sensi dell'art. 113, L. 24 novembre 1981, n. 689, che modifica il sistema penale.

 

 

 

Art. 252

Frode in forniture in tempo di guerra.

Chiunque, in tempo di guerra [c.p. 310], commette frode nell'esecuzione dei contratti di fornitura o nell'adempimento degli altri obblighi contrattuali indicati nell'articolo precedente è punito con la reclusione non inferiore a dieci anni e con la multa pari al quintuplo del valore della cosa o dell'opera che avrebbe dovuto fornire e, in ogni caso, non inferiore a euro 2.065 [c.p. 7, n. 1, 268, 302, 311, 312, 356; c.p.m.g. 163] (1).

 

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(1) La multa risulta così aumentata, da ultimo, ai sensi dell'art. 113, L. 24 novembre 1981, n. 689, che modifica il sistema penale.

 

 

Art. 253

Distruzione o sabotaggio di opere militari.

Chiunque distrugge, o rende inservibili, in tutto o in parte, anche temporaneamente, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle forze armate dello Stato [c.p. 268] è punito (1) con la reclusione non inferiore a otto anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32, 268, 311, 312].

 

Si applica la pena di morte (2):

 

1. se il fatto è commesso nell'interesse di uno Stato in guerra contro lo Stato italiano [c.p. 242];

 

2. se il fatto ha compromesso la preparazione o l'efficienza bellica dello Stato, ovvero le operazioni militari [c.p. 302, 312, 364; c.n. 1112, 1121].

 

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(1) Vedi l'art. unico, D.Lgs.Lgt. 12 aprile 1945, n. 194, sulla non punibilità delle azioni di guerra di patrioti nell'Italia occupata.

(2) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita, dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena dell'ergastolo.

 

 

 

Art. 254

Agevolazione colposa.

Quando l'esecuzione del delitto preveduto dall'articolo precedente è stata resa possibile, o soltanto agevolata, per colpa di chi era in possesso o aveva la custodia o la vigilanza delle cose ivi indicate, questi è punito con la reclusione da uno a cinque anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32, 302, 311, 312].

 

 

Art. 255

Soppressione, falsificazione o sottrazione di atti o documenti concernenti la sicurezza dello Stato. (1)

Chiunque, in tutto o in parte, sopprime, distrugge o falsifica, ovvero carpisce, sottrae o distrae, anche temporaneamente, atti o documenti concernenti la sicurezza dello Stato [c.p. 268] od altro interesse politico, interno o internazionale, dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a otto anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32, 302, 311, 312].

 

Si applica la pena di morte (2) se il fatto ha compromesso la preparazione o l'efficienza bellica dello Stato, ovvero le operazioni militari.

 

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(1) Gli artt. 12 e 18, L. 24 ottobre 1977, n. 801, sull'istituzione e l'ordinamento dei servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato, così dispongono:

«Art. 12 - Sono coperti dal segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recar danno alla integrità dello Stato democratico, anche in relazione ad accordi internazionali alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, al libero esercizio delle funzioni degli organi costituzionali, alla indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato. In nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell'ordine costituzionale».

«Art. 18 - Sino alla data di emanazione di una nuova legge organica relativa alla materia del segreto, le fattispecie previste e punite dal libro II, titolo I, capi primo e quinto del codice penale, concernenti il segreto politico interno internazionale, debbono essere riferite alla definizione di cui agli articoli 1 e 12 della presente legge». Vedi l'art. 2, comma primo, L. 18 febbraio 1987, n. 34, sulla dissociazione dal terrorismo.

(2) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita, dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena dell'ergastolo.

 

 

Art. 256

Procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato.

Chiunque si procura notizie che, nell'interesse della sicurezza dello Stato o, comunque, nell'interesse politico, interno o internazionale, dello Stato, debbono rimanere segrete è punito con la reclusione da tre a dieci anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32, 262, 302, 311, 312].

 

Agli effetti delle disposizioni di questo titolo, fra le notizie che debbono rimanere segrete nell'interesse politico dello Stato sono comprese quelle contenute in atti del Governo, da esso non pubblicati per ragioni d'ordine politico, interno o internazionale.

 

Se si tratta di notizie di cui l'Autorità competente ha vietato la divulgazione, la pena è della reclusione da due a otto anni.

 

Si applica la pena di morte (1) se il fatto ha compromesso la preparazione o l'efficienza bellica dello Stato, ovvero le operazioni militari [c.p. 364].

 

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(1) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita, dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena dell'ergastolo.

 

 

Art. 257

Spionaggio politico o militare.

Chiunque si procura, a scopo di spionaggio politico o militare, notizie che, nell'interesse della sicurezza dello Stato, o comunque, nell'interesse politico, interno o internazionale, dello Stato, debbono rimanere segrete [c.p. 256] è punito con la reclusione non inferiore a quindici anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32, 255, 268, 302, 311, 312].

 

Si applica la pena di morte (1):

 

1. se il fatto è commesso nell'interesse di uno Stato in guerra con lo Stato italiano [c.p. 242];

 

2. se il fatto ha compromesso la preparazione o l'efficienza bellica dello Stato, ovvero le operazioni militari [c.p. 364].

 

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(1) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita, dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena dell'ergastolo.

 

 

Art. 258

Spionaggio di notizie di cui è stata vietata la divulgazione.

Chiunque si procura, a scopo di spionaggio politico o militare, notizie di cui l'autorità competente ha vietato la divulgazione è punito con la reclusione non inferiore a dieci anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32, 268, 302, 311, 312].

 

Si applica l'ergastolo se il fatto è commesso nell'interesse di uno Stato in guerra con lo Stato italiano [c.p. 242, 364].

 

Si applica la pena di morte (1) se il fatto ha compromesso la preparazione o l'efficienza bellica dello Stato, ovvero le operazioni militari.

 

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(1) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita, dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena dell'ergastolo.

 

Art. 259

Custodia delle cose sequestrate.

1. Le cose sequestrate sono affidate in custodia alla cancelleria o alla segreteria. Quando ciò non è possibile o non è opportuno, l'autorità giudiziaria dispone che la custodia avvenga in luogo diverso, determinandone il modo e nominando un altro custode, idoneo a norma dell'articolo 120.

 

2. All'atto della consegna, il custode è avvertito dell'obbligo di conservare e di presentare le cose a ogni richiesta dell'autorità giudiziaria nonché delle pene previste dalla legge penale per chi trasgredisce ai doveri della custodia. Quando la custodia riguarda dati, informazioni o programmi informatici, il custode è altresì avvertito dell’obbligo di impedirne l’alterazione o l’accesso da parte di terzi, salva, in quest’ultimo caso, diversa disposizione dell’autorità giudiziaria. Al custode può essere imposta una cauzione. Dell'avvenuta consegna, dell'avvertimento dato e della cauzione imposta è fatta menzione nel verbale. La cauzione è ricevuta, con separato verbale, nella cancelleria o nella segreteria (1).

 

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(1) Comma così modificato dal comma 7 dell'art. 8, L. 18 marzo 2008, n. 48, che ha ratificato la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla criminalità informatica. Vedi l'art. 301-bis, D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, di approvazione del testo unico delle leggi in materia doganale; nonché il D.L. 14 giugno 1989, n. 230, convertito in L. 4 agosto 1989, n. 282, sull'amministrazione dei beni confiscati alla criminalità mafiosa. Vedi, inoltre, l'art. 58 del testo unico in materia di spese di giustizia di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

Il testo del presente comma, in vigore prima della modifica disposta dalla citata legge n. 48 del 2008, era il seguente: «2. All'atto della consegna, il custode è avvertito dell'obbligo di conservare e di presentare le cose a ogni richiesta dell'autorità giudiziaria nonché delle pene previste dalla legge penale per chi trasgredisce ai doveri della custodia. Al custode può essere imposta una cauzione. Dell'avvenuta consegna, dell'avvertimento dato e della cauzione imposta è fatta menzione nel verbale. La cauzione è ricevuta, con separato verbale, nella cancelleria o nella segreteria.».

 

 

Art. 260

Introduzione clandestina in luoghi militari e possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio.

È punito con la reclusione da uno a cinque anni [c.p. 29, 32, 268] chiunque:

 

1. si introduce clandestinamente o con inganno in luoghi o zone di terra, di acqua o di aria, in cui è vietato l'accesso nell'interesse militare dello Stato [c.p. 269];

 

2. è còlto, in tali luoghi o zone, o in loro prossimità, in possesso ingiustificato di mezzi idonei a commettere alcuno dei delitti preveduti dagli articoli 256, 257 e 258;

 

3. è còlto in possesso ingiustificato di documenti o di qualsiasi altra cosa atta a fornire le notizie indicate nell'articolo 256.

 

Se alcuno dei fatti preveduti dai numeri precedenti è commesso in tempo di guerra [c.p. 310], la pena è della reclusione da tre a dieci anni [c.p. 311, 312, 682].

 

Art. 261

Rivelazione di segreti di Stato. (1)

Chiunque rivela taluna delle notizie di carattere segreto indicate nell'art. 256 è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni [c.p. 29, 32].

 

Se il fatto è commesso in tempo di guerra [c.p. 310], ovvero ha compromesso la preparazione o l'efficienza bellica dello Stato [c.p. 268], o le operazioni militari, la pena della reclusione non può essere inferiore a dieci anni.

 

Se il colpevole ha agito a scopo di spionaggio politico [c.p. 8] o militare, si applica, nel caso preveduto dalla prima parte di questo articolo, la pena dell'ergastolo; e, nei casi preveduti dal primo capoverso, la pena di morte [c.p. 364] (2).

 

Le pene stabilite nelle disposizioni precedenti si applicano anche a chi ottiene la notizia [c.p. 7, n. 1, 302, 311, 312].

 

Se il fatto è commesso per colpa, la pena è della reclusione da sei mesi a due anni, nel caso preveduto dalla prima parte di questo articolo, e da tre a quindici anni qualora concorra una delle circostanze indicate nel primo capoverso [c.p. 326].

 

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(1) Gli artt. 12 e 18, L. 24 ottobre 1977, n. 801, sull'istituzione e l'ordinamento dei servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato, così dispongono:

«Art. 12 - Sono coperti dal segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recar danno alla integrità dello Stato democratico, anche in relazione ad accordi internazionali alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, al libero esercizio delle funzioni degli organi costituzionali, alla indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato.

In nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell'ordine costituzionale».

«Art. 18 - Sino alla data di emanazione di una nuova legge organica relativa alla materia del segreto, le fattispecie previste e punite dal libro II, titolo I, capi primo e quinto del codice penale, concernenti il segreto politico interno internazionale, debbono essere riferite alla definizione di cui agli articoli 1 e 12 della presente legge». Vedi il D.L. 29 ottobre 1991, n. 345, convertito, con modificazioni, con L. 30 dicembre 1991, n. 410, per il coordinamento delle attività informative e investigative nella lotta contro la criminalità organizzata.

(2) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita, dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena dell'ergastolo.

 

 

Art. 262

Rivelazione di notizie di cui sia stata vietata la divulgazione.

Chiunque rivela notizie, delle quali l'Autorità competente ha vietato la divulgazione, è punito con la reclusione non inferiore a tre anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32].

 

Se il fatto è commesso in tempo di guerra [c.p. 310], ovvero ha compromesso la preparazione o l'efficienza bellica dello Stato [c.p. 268] o le operazioni militari, la pena è della reclusione non inferiore a dieci anni.

 

Se il colpevole ha agito a scopo di spionaggio politico [c.p. 8] o militare, si applica, nel caso preveduto dalla prima parte di questo articolo, la reclusione non inferiore a quindici anni; e, nei casi preveduti dal primo capoverso, la pena di morte [c.p. 364] (1).

 

Le pene stabilite nelle disposizioni precedenti si applicano anche a chi ottiene la notizia [c.p. 302, 311, 312].

 

Se il fatto è commesso per colpa, la pena è della reclusione da sei mesi a due anni, nel caso preveduto dalla prima parte di questo articolo, e da tre a quindici anni qualora concorra una delle circostanze indicate nel primo capoverso [c.p. 326] (2).

 

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(1) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita, dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena dell'ergastolo.

(2) La Corte costituzionale, con sentenza 19-28 giugno 2002, n. 295 (Gazz. Uff. 3 luglio 2002, n. 26 - Prima serie speciale), ha dichiarato: a) non fondata la questione di legittimità del presente articolo in riferimento all'art. 25 Cost.; b) la manifesta inammissibilità della questione di legittimità del presente articolo, nella parte relativa al trattamento sanzionatorio, in riferimento agli artt. 3 e 25 Cost.

 

 

Art. 263

Utilizzazione dei segreti di Stato. (1)

Il pubblico ufficiale [c.p. 357, 360] o l'incaricato di un pubblico servizio [c.p. 358] che impiega a proprio o altrui profitto invenzioni o scoperte scientifiche o nuove applicazioni industriali che egli conosca per ragioni del suo ufficio o servizio, e che debbano rimanere segrete nell'interesse della sicurezza dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni e con la multa non inferiore a euro 1.032 (2).

 

Se il fatto è commesso nell'interesse di uno Stato in guerra con lo Stato italiano [c.p. 242], o se ha compromesso la preparazione o l'efficienza bellica dello Stato, ovvero le operazioni militari, il colpevole è punito con la morte [c.p. 7, n. 1, 22, 29, 32, 268, 302, 311, 312, 325, 364] (3).

 

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(1) Gli artt. 12 e 18, L. 24 ottobre 1977, n. 801, sull'istituzione e l'ordinamento dei servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato, così dispongono:

«Art. 12 - Sono coperti dal segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recar danno alla integrità dello Stato democratico, anche in relazione ad accordi internazionali alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, al libero esercizio delle funzioni degli organi costituzionali, alla indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato.

In nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell'ordine costituzionale».

«Art. 18 - Sino alla data di emanazione di una nuova legge organica relativa alla materia del segreto, le fattispecie previste e punite dal libro II, titolo I, capi primo e quinto del codice penale, concernenti il segreto politico interno internazionale, debbono essere riferite alla definizione di cui agli articoli 1 e 12 della presente legge». Vedi il D.L. 29 ottobre 1991, n. 345, convertito, con modificazioni, con L. 30 dicembre 1991, n. 410, per il coordinamento delle attività informative e investigative nella lotta contro la criminalità organizzata.

 

 

(2) La multa risulta così aumentata, da ultimo, ai sensi dell'art. 113, L. 24 novembre 1981, n. 689, che modifica il sistema penale.

(3) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita, dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena dell'ergastolo.

 

 

Art. 264

Infedeltà in affari di Stato.

Chiunque, incaricato dal Governo italiano di trattare all'estero affari di Stato, si rende infedele al mandato è punito, se dal fatto possa derivare nocumento all'interesse nazionale, con la reclusione non inferiore a cinque anni [c.p. 29, 32, 268, 302, 311, 312].

 

 

Art. 265

Disfattismo politico.

Chiunque in tempo di guerra [c.p. 310, 656], diffonde o comunica voci o notizie false esagerate o tendenziose, che possano destare pubblico allarme o deprimere lo spirito pubblico o altrimenti menomare la resistenza della nazione di fronte al nemico, o svolge comunque un'attività tale da recare nocumento agli interessi nazionali, è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32, 268, 269, 302, 303, 304, 305, 306, 311, 312; c.p.p. 275].

 

La pena è non inferiore a quindici anni:

 

1. se il fatto è commesso con propaganda o comunicazioni dirette a militari [c.p.m.p. 2; c.p.m.g. 7];

 

2. se il colpevole ha agito in seguito a intelligenze con lo straniero.

 

La pena è dell'ergastolo se il colpevole ha agito in seguito a intelligenza col nemico [c.p. 364].

 

 

Art. 266

Istigazione di militari a disobbedire alle leggi.

Chiunque [c.p. 327] istiga i militari a disobbedire alle leggi [c.p. 415] o a violare il giuramento dato o i doveri della disciplina militare o altri doveri inerenti al proprio stato, ovvero fa a militari l'apologia di fatti contrari alle leggi, al giuramento, alla disciplina o ad altri doveri militari, è punito, per ciò solo, se il fatto non costituisce un più grave delitto, con la reclusione da uno a tre anni [c.p. 115, 265, 272].

 

La pena è della reclusione da due a cinque anni se il fatto è commesso pubblicamente [c.p. 265, 268, 269, 272, 302, 327, 654; c.p.m.p. 8, 9, 214].

 

Le pene sono aumentate [c.p. 63, 64] se il fatto è commesso in tempo di guerra [c.p. 310].

 

Agli effetti della legge penale, il reato si considera avvenuto pubblicamente quando il fatto è commesso:

 

1. col mezzo della stampa, o con altro mezzo di propaganda (1);

 

2. in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone;

 

3. in una riunione che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od oggetto di essa, abbia carattere di riunione non privata [c.p. 7, n. 1] (2).

 

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(1) Vedi l'art. 1, L. 8 febbraio 1948, n. 47, sulla stampa.

(2) La Corte costituzionale, con sentenza 8-21 marzo 1989, n. 139 (Gazz. Uff. 29 marzo 1989, n. 12 - Prima serie speciale), ha dichiarato l'illegittimità del presente articolo, nella parte in cui non prevede che per la istigazione di militari a commettere un reato militare la pena sia «sempre applicata in misura inferiore alla metà della pena stabilita per il reato al quale si riferisce la istigazione». Precedentemente la stessa Corte, con sentenza 14-27 febbraio 1973, n. 16 (Gazz. Uff. 7 marzo 1973, n. 62), aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità del presente articolo, in riferimento all'art. 21 Cost.; con sentenza 28 giugno-18 luglio 1973, n. 142 (Gazz. Uff. 25 luglio 1973, n. 191), aveva dichiarato, tra l'altro, non fondata la questione di legittimità del presente articolo, in riferimento all'art. 3 Cost.; con sentenza 23 maggio-5 giugno 1978, n. 71 (Gazz. Uff. 8 giugno 1978, n. 158), aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità del presente articolo, in riferimento all'art. 21, prima parte Cost., e all'art. 25, secondo comma, Cost.; con sentenza 20 gennaio-11 febbraio 1982, n. 29 (Gazz. Uff. 17 febbraio 1982, n. 47), aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità del presente articolo, in riferimento all'art. 21, comma primo, Cost.

 

 

Art. 267

Disfattismo economico.

Chiunque, in tempo di guerra [c.p. 310], adopera mezzi diretti a deprimere il corso dei cambi, o ad influire sul mercato dei titoli o dei valori, pubblici o privati, in modo da esporre a pericolo la resistenza della nazione di fronte al nemico, è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni e con la multa non inferiore a euro 3.098 (1).

 

Se il colpevole ha agito in seguito a intelligenze con lo straniero, la reclusione non può essere inferiore a dieci anni [c.p. 29, 32; c.p.p. 275].

 

La reclusione è non inferiore a quindici anni se il colpevole ha agito in seguito a intelligenze col nemico [c.p. 7, n. 1, 268, 302, 311, 312].

 

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(1) La multa risulta così aumentata, da ultimo, ai sensi dell'art. 113, L. 24 novembre 1981, n. 689, che modifica il sistema penale.

 

 

Art. 268

Parificazione degli Stati alleati.

Le pene stabilite negli articoli 247 e seguenti si applicano anche quando il delitto è commesso a danno di uno Stato estero alleato o associato, a fine di guerra, con lo Stato italiano.

 

 

Art. 269

Attività antinazionale del cittadino all'estero.

[Il cittadino, che, fuori del territorio dello Stato [c.p. 4, 242], diffonde o comunica voci o notizie false, esagerate o tendenziose sulle condizioni interne dello Stato per modo da menomare il credito o il prestigio dello Stato all'estero, o svolge comunque un'attività tale da recare nocumento agli interessi nazionali, è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32, 265, 302, 311, 312, 656; c.p.p. 275]] (1).

 

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(1) Articolo abrogato dall'art. 12, L. 24 febbraio 2006, n. 85.

 

 

Art. 270

Associazioni sovversive (1).

Chiunque nel territorio dello Stato [c.p. 4] promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette e idonee a sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato ovvero a sopprimere violentemente l'ordinamento politico e giuridico dello Stato, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni (2).

 

Chiunque partecipa alle associazioni di cui al primo comma è punito con la reclusione da uno a tre anni.

 

Le pene sono aumentate per coloro che ricostituiscono, anche sotto falso nome o forma simulata, le associazioni di cui al primo comma, delle quali sia stato ordinato lo scioglimento[Cost. 18; c.p. 302, 311, 312] (3).

 

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(1) Per i casi di non punibilità di coloro che hanno commesso, per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale, uno o più fra i reati previsti in questo articolo, vedi l'art. 1, L. 29 maggio 1982, n. 304, sull'ordinamento costituzionale (terroristi pentiti), il cui comma terzo, lettera a), esclude la non punibilità per le ipotesi di importazione, esportazione, rapina e furto di armi, munizioni od esplosivi. La decadenza da questi benefici in caso di false o reticenti dichiarazioni è regolata dall'art. 10 della stessa legge il cui art. 12 limita l'applicazione del provvedimento solo ai reati che siano stati commessi o la cui permanenza sia iniziata entro il 31 gennaio 1982, purché i comportamenti cui è condizionata la loro applicazione vengano tenuti entro centoventi giorni dall'entrata in vigore della legge (3 giugno 1982), termine differito di ulteriori centoventi giorni, con l'art. 1, del D.L. 1 ottobre 1982, n. 695, convertito nella L. 29 novembre 1982, n. 882.

(2) L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente comma, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

(3) Articolo così sostituito dall'art. 2, L. 24 febbraio 2006, n. 85.

Vedi l'art. 210, R.D. 18 giugno 1931, n. 773, di approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza; la L. 3 dicembre 1947, n. 1546 e la L. 20 giugno 1952, n. 645, sulla repressione del fascismo, nonché gli artt. 18 e 20, L. 22 maggio 1975, n. 152, e l'art. 3, L. 8 agosto 1977, n. 533, in materia di ordine pubblico. Sul divieto di costituire associazioni a carattere militare vedi, anche, il D.Lgs. 14 febbraio 1948, n. 43 e la L. 25 gennaio 1982, n. 17, in materia di associazioni segrete e scioglimento della Loggia P2.

Il testo del presente articolo, in vigore prima della sostituzione disposta dalla citata legge n. 85 del 2006, era il seguente: «Chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette a stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sulle altre, ovvero a sopprimere violentemente una classe sociale o, comunque, a sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, è punito con la reclusione da cinque a dodici anni.

Alla stessa pena soggiace chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni aventi per fine la soppressione violenta di ogni ordinamento politico e giuridico della società.

Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da uno a tre anni.

Le pene sono aumentate per coloro che ricostituiscono, anche sotto falso nome o forma simulata, le associazioni predette, delle quali sia stato ordinato lo scioglimento.».

Di tale formulazione la Corte costituzionale, con sentenza 28 giugno-18 luglio 1973, n. 142 (Gazz. Uff. 25 luglio 1973, n. 191), aveva dichiarato, tra l'altro, non fondata la questione di legittimità, in riferimento all'art. 3 Cost.

 

 

Art. 270-bis

(Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico).

Chiunque promuove, costituisce, organizza, dirige o finanzia associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico è punito con la reclusione da sette a quindici anni.

 

Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.

 

Ai fini della legge penale, la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un'istituzione o un organismo internazionale.

 

Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l'impiego (1).

 

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(1) Il presente articolo, aggiunto dall'art. 3, D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, convertito, con modificazioni, in L. 6 febbraio 1980, n. 15, è stato così modificato dall'art. 1, D.L. 18 ottobre 2001, n. 374, come modificato dalla legge di conversione 15 dicembre 2001, n. 438. L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente comma, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge. Il testo del presente articolo in vigore dopo le modifiche introdotte dall'art. 1 del citato D.L. n. 374 del 2001 (ma prima della sua conversione in legge) era il seguente:

«Associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico.

Chiunque promuove, costituisce, organizza, finanzia anche indirettamente o dirige associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con fini di eversione dell'ordine democratico è punito con la reclusione da sette a quindici anni.

Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da cinque a dieci anni».

Il testo in vigore prima delle modifiche disposte dal suddetto D.L. n. 374 del 2001 era il seguente:

«Associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico.

Chiunque promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con fini di eversione dell'ordine democratico è punito con la reclusione da sette a quindici anni.

Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da quattro a otto anni».

 

 

Art. 270-ter

Assistenza agli associati.

Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento, dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione a taluna

 

delle persone che partecipano alle associazioni indicate negli articoli 270 e 270-bis è punito con la reclusione fino a quattro anni.

 

La pena è aumentata se l'assistenza è prestata continuativamente.

 

Non è punibile chi commette il fatto in favore di un prossimo congiunto (1).

 

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(1) Articolo aggiunto dall'art. 1, D.L. 18 ottobre 2001, n. 374, come modificato dalla legge di conversione 15 dicembre 2001, n. 438. Nei procedimenti per i delitti previsti dal presente articolo si applicano le disposizioni di cui all'art. 13, D.L. 13 maggio 1991, n. 152, ai sensi di quanto disposto dall'art. 3 del citato D.L. n. 374/2001.

Il testo del presente articolo introdotto dal suddetto D.L. n. 374 del 2001 prima della sua conversione in legge, era il seguente:

«Associazioni con finalità di terrorismo internazionale.

1. Chiunque promuove, costituisce, organizza, dirige, finanzia anche indirettamente associazioni che si propongono il compimento all'estero, o comunque ai danni di uno Stato estero, di un'istituzione o di un organismo internazionale, di atti di violenza su persone o cose, con finalità di terrorismo, è punito con la reclusione da sette a quindici anni.

2. Chiunque partecipa alle associazioni indicate nel comma 1 è punito con la reclusione da cinque a dieci anni».

 

 

Art. 270-quater

Arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale.

Chiunque, al di fuori dei casi di cui all'articolo 270-bis, arruola una o più persone per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalitàdi terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un'istituzione o un organismo internazionale, è punito con la reclusione da sette a quindici anni (1).

 

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(1) Articolo aggiunto dall'art. 15, D.L. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, con L. 31 luglio 2005, n. 155. L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente comma, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

Il testo del presente articolo, in vigore prima della conversione in legge del citato decreto, era il seguente: «Chiunque, al di fuori dei casi di cui all'articolo 270-bis, arruola una o più persone per il compimento di atti di violenza con finalitàdi terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un'istituzione o un organismo internazionale, è punito con la reclusione da sette a quindici anni».

Precedentemente il presente articolo era stato aggiunto dall'art. 1, D.L. 18 ottobre 2001, n. 374. Peraltro la L. 15 dicembre 2001, n. 438, nel convertire in legge il suddetto decreto aveva modificato il citato articolo 1 il quale, nella nuova formulazione, non prevedeva più l'introduzione del presente articolo le cui disposizioni sono confluite nell'art. 270-ter c.p.

 

 

Art. 270-quinquies

Addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale.

Chiunque, al di fuori dei casi di cui all'articolo 270-bis, addestra o comunque fornisce istruzioni sulla preparazione o sull'uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco o di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un'istituzione o un organismo internazionale, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. La stessa pena si applica nei confronti della persona addestrata (1).

 

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(1) Articolo aggiunto dall'art. 15, D.L. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, con L. 31 luglio 2005, n. 155. L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente comma, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

Il testo del presente articolo, in vigore prima della conversione in legge del citato decreto, era il seguente: «Chiunque, al di fuori dei casi di cui all'articolo 270-bis, addestra o comunque fornisce istruzioni sulla preparazione o sull'uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco o di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un'istituzione o un organismo internazionale, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. La stessa pena si applica nei confronti della persona addestrata.».

 

 

Art. 270-sexies

Condotte con finalità di terrorismo.

1. Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un'organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un'organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l'Italia (1).

 

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(1) Articolo aggiunto dall'art. 15, D.L. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, con L. 31 luglio 2005, n. 155.

 

 

Art. 271

Associazioni antinazionali.

Chiunque, fuori dei casi previsti dall'articolo precedente, nel territorio dello Stato [c.p. 4] promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni che si propongano di svolgere o che svolgano una attività diretta a distruggere o deprimere il sentimento nazionale è punito con la reclusione da uno a tre anni (1).

 

Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.

 

Si applica l'ultimo capoverso dell'articolo precedente (2) (3) [c.p. 7, n. 1, 302, 311, 312].

 

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(1) Vedi l'art. 211, R.D. 18 giugno 1931, n. 773, di approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Vedi, anche, il D.Lgs. 14 febbraio 1948, n. 43, sul divieto di costituire associazioni di carattere militare; la L. 3 dicembre 1947, n. 1546 e la L. 20 giugno 1952, n. 645, per la repressione del fascismo; nonché gli artt. 18 e 20, L. 22 maggio 1975, n. 152, in materia di ordine pubblico.

(2) Deve intendersi l'art. 270 c.p.

(3) La Corte costituzionale, con sentenza 5-12 luglio 2001, n. 243 (Gazz. Uff. 18 luglio 2001, n. 28 - Prima serie speciale), ha dichiarato l'illegittimità del presente articolo.

 

 

Art. 272

Propaganda ed apologia sovversiva o antinazionale.

[Chiunque nel territorio dello Stato [c.p. 4] fa propaganda per l'instaurazione violenta della dittatura di una classe sociale sulle altre, o per la soppressione violenta di una classe sociale o, comunque, per il sovvertimento violento degli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, ovvero fa propaganda per la distruzione di ogni ordinamento politico e giuridico della società, è punito con la reclusione da uno a cinque anni [c.p. 29, 32].

 

Se la propaganda è fatta per distruggere o deprimere il sentimento nazionale, la pena è della reclusione da sei mesi a due anni (1).

 

Alle stesse pene soggiace chi fa apologia dei fatti preveduti dalle disposizioni precedenti [c.p. 7, n. 1, 302, 311, 312]] (2).

 

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(1) La Corte costituzionale, con sentenza 22 giugno-6 luglio 1966, n. 87 (Gazz. Uff. 9 luglio 1966, n. 168), ha dichiarato, fra l'altro, l'illegittimità costituzionale del secondo comma dell'art. 272 c.p. in riferimento all'art. 21 della Costituzione.

(2) Articolo abrogato dall'art. 12, L. 24 febbraio 2006, n. 85. In precedenza la Corte costituzionale, con sentenza 28 giugno-18 luglio 1973, n. 142 (Gazz. Uff. 25 luglio 1973, n. 191), aveva dichiarato, tra l'altro, non fondata la questione di legittimità del presente articolo, in riferimento all'art. 3 Cost.

 

 

Art. 273

Illecita costituzione di associazioni aventi carattere internazionale. (1)

Chiunque senza autorizzazione del Governo promuove, costituisce, organizza o dirige nel territorio dello Stato [c.p. 4] associazioni, enti o istituti di carattere internazionale, o sezioni di essi, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da lire un milione a quattro milioni (2).

 

Se l'autorizzazione è stata ottenuta per effetto di dichiarazioni false o reticenti, la pena è della reclusione da uno a cinque anni e della multa non inferiore a lire due milioni [c.p. 7, n. 1, 302, 311, 312] (3).

 

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(1) Vedi la L. 25 gennaio 1982, n. 17, in materia di associazioni segrete e scioglimento della Loggia P2.

(2) La multa risulta così aumentata, da ultimo, ai sensi dell'art. 113, L. 24 novembre 1981, n. 689, che modifica il sistema penale.

La Corte costituzionale, con sentenza 28 giugno-3 luglio 1985, n. 193 (Gazz. Uff. 10 luglio 1985, n. 161-bis), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 273 c.p. e ha dichiarato altresì, ai sensi dell'art. 27, L. 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale degli articoli 274 c.p. e 211, R.D. 18 giugno 1931, n. 773 (T.U. delle leggi di pubblica sicurezza).

(3) La multa risulta così aumentata, da ultimo, ai sensi dell'art. 113, L. 24 novembre 1981, n. 689, che modifica il sistema penale.

La Corte costituzionale, con sentenza 28 giugno-3 luglio 1985, n. 193 (Gazz. Uff. 10 luglio 1985, n. 161-bis), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 273 c.p. e ha dichiarato altresì, ai sensi dell'art. 27, L. 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale degli articoli 274 c.p. e 211, R.D. 18 giugno 1931, n. 773 (T.U. delle leggi di pubblica sicurezza).

 

 

Art. 274

Illecita partecipazione ad associazioni aventi carattere internazionale. (1)

Chiunque partecipa nel territorio dello Stato [c.p. 4] ad associazioni, enti o istituti o sezioni di essi, di carattere internazionale, per i quali non sia stata conceduta l'autorizzazione del Governo, è punito con la multa da lire duecentomila a due milioni (2).

 

La stessa pena si applica al cittadino [c.p. 242], residente nel territorio dello Stato, che senza l'autorizzazione del Governo partecipa ad associazioni, enti o istituti di carattere internazionale, che abbiano sede all'estero [c.p. 7, n. 1, 302, 311, 312] (3).

 

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(1) Vedi la L. 25 gennaio 1982, n. 17, in materia di associazioni segrete e scioglimento della Loggia P2.

(2) La Corte costituzionale, con sentenza 28 giugno-3 luglio 1985, n. 193 (Gazz. Uff. 10 luglio 1985, n. 161-bis), ha dichiarato, fra l'altro, l'illegittimità, ai sensi dell'art. 27, L. 11 marzo 1953, n. 87, dell'art. 274 c.p. La multa risulta così aumentata, da ultimo, ai sensi dell'art. 113, L. 24 novembre 1981, n. 689, che modifica il sistema penale.

(3) La Corte costituzionale, con sentenza 28 giugno-3 luglio 1985, n. 193 (Gazz. Uff. 10 luglio 1985, n. 161-bis), ha dichiarato, fra l'altro, l'illegittimità, ai sensi dell'art. 27, L. 11 marzo 1953, n. 87, dell'art. 274 c.p. La multa risulta così aumentata, da ultimo, ai sensi dell'art. 113, L. 24 novembre 1981, n. 689, che modifica il sistema penale.

 

 

Art. 275

Accettazione di onorificenze o utilità da uno Stato nemico. (1)

[Il cittadino [c.p. 4, 242], che, da uno Stato in guerra con lo Stato italiano, accetta gradi o dignità accademiche, titoli, decorazioni o altre pubbliche insegne onorifiche, pensioni o altre utilità, inerenti ai predetti gradi, dignità, titoli, decorazioni od onorificenze, è punito con la reclusione fino a un anno [c.p. 7, n. 1, 302, 311, 312] (2)] (3).

 

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(1) Vedi la L. 22 dicembre 1980, n. 932, sulle provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti e razziali.

(2) Vedi l'art. 7, L. 3 marzo 1951, n. 178, sul conferimento delle onorificenze.

(3) Articolo abrogato dall'art. 18, L. 25 giugno 1999, n. 205.

 

 

Capo II

Dei delitti contro la personalità interna dello Stato

 

Art. 276

Attentato contro il presidente della Repubblica.

Chiunque attenta alla vita, alla incolumità o alla libertà personale del Presidente della Repubblica, è punito con l'ergastolo [c.p. 7, n. 1, 22, 302, 311, 312, 360, 364] (1).

 

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(1) Articolo così sostituito dall'art. 2, L. 11 novembre 1947, n. 1317, di modifica al codice penale per la parte riguardante i delitti contro le istituzioni Costituzionali dello Stato. L'art. 4 di detta legge stabilisce che ai fini dell'applicazione di questo articolo, alla carica di presidente della Repubblica è equiparata quella di capo provvisorio dello Stato.

L'art. 5, secondo comma, L. 29 maggio 1982, n. 304, sull'ordinamento costituzionale, così dispone: «Se il colpevole di uno dei delitti previsti dagli articoli 241, 276, 280, 283, 284, 285, 286, 289 e 295 del codice penale coopera efficacemente ad impedire l'evento cui gli atti da lui commessi sono diretti soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti qualora questi costituiscano per sé un reato diverso».

La decadenza da questi benefici in caso di false o reticenti dichiarazioni è regolato dall'art. 10 della stessa legge, il cui art. 12 limita la applicazione del provvedimento solo ai reati che siano stati commessi o la cui permanenza sia iniziata entro il 31 gennaio 1982, purché i comportamenti cui è condizionata la loro applicazione vengano tenuti entro centoventi giorni dall'entrata in vigore della legge (3 giugno 1982), termine differito di ulteriori centoventi giorni, con l'art. 1, D.L. 1 ottobre 1982, n. 695, convertito nella L. 29 novembre 1982, n. 882. Sulla tutela della persona del Sommo Pontefice vedi l'art. 8 del Trattato reso esecutivo con L. 27 maggio 1929, n. 810 e la L. 25 marzo 1985, n. 121. Vedi, anche, la L. 25 gennaio 1982, n. 17, in materia di associazioni segrete e scioglimento della Loggia P2.

 

 

Art. 277

Offesa alla libertà del presidente della Repubblica.

Chiunque, fuori dei casi preveduti dall'articolo precedente, attenta alla libertà del presidente della Repubblica, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni [c.p. 29, 32, 302, 311, 312; c.p.m.p. 79] (1).

 

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(1) Articolo così sostituito dall'art. 2, L. 11 novembre 1947, n. 1317, di modifica al codice penale per la parte riguardante i delitti contro le istituzioni costituzionali dello Stato. L'art. 4 di detta legge stabilisce che ai fini dell'applicazione di questo articolo, alla carica di presidente della Repubblica è equiparata quella di capo provvisorio dello Stato. Sulla tutela penale della persona del Sommo Pontefice vedi l'art. 8 del Trattato reso esecutivo con L. 27 maggio 1929, n. 810 e la L. 25 marzo 1985, n. 121. Vedi, anche, la L. 25 gennaio 1982, n. 17, in materia di associazioni segrete e scioglimento della Loggia P2.

 

 

Art. 278

Offese all'onore o al prestigio del presidente della Repubblica.

Chiunque offende l'onore o il prestigio del presidente della Repubblica, è punito con la reclusione da uno a cinque anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32, 360; c.p.m.p. 8, 79] (1).

 

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(1) Articolo così sostituito dall'art. 2, L. 11 novembre 1947, n. 1317, di modifica al codice penale per la parte riguardante i delitti contro le istituzioni costituzionali dello Stato. L'art. 4 di detta legge stabilisce che ai fini dell'applicazione di questo articolo, alla carica di Presidente della Repubblica è equiparata quella di Capo provvisorio dello Stato. Sulla tutela penale della persona del Sommo Pontefice vedi l'art. 8 del Trattato reso esecutivo con L. 27 maggio 1929, n. 810.

 

 

Art. 279

Lesa prerogativa della irresponsabilità del presidente della Repubblica.

[Chiunque pubblicamente [c.p. 266], fa risalire al presidente della Repubblica il biasimo o la responsabilità degli atti del Governo, è punito con la reclusione fino ad un anno e con la multa da euro 103 a euro 1.032 [Cost. 90; c.p. 7, n. 1, 301, 311, 312, 360] (1)] (2).

 

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(1) La multa risulta così aumentata, da ultimo, ai sensi dell'art. 113, L. 24 novembre 1981, n. 689, che modifica il sistema penale.

(2) Articolo abrogato dall'art. 12, L. 24 febbraio 2006, n. 85.

 

 

Art. 280

Attentato per finalità terroristiche o di eversione (1)

Chiunque per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico attenta alla vita od alla incolumità di una persona, è punito, nel primo caso, con la reclusione non inferiore ad anni venti e, nel secondo caso, con la reclusione non inferiore ad anni sei.

 

Se dall'attentato alla incolumità di una persona deriva una lesione gravissima, si applica la pena della reclusione non inferiore ad anni diciotto; se ne deriva una lesione grave, si applica la pena della reclusione non inferiore ad anni dodici.

 

Se i fatti previsti nei commi precedenti sono rivolti contro persone che esercitano funzioni giudiziarie o penitenziarie ovvero di sicurezza pubblica nell'esercizio o a causa delle loro funzioni, le pene sono aumentate di un terzo.

 

Se dai fatti di cui ai commi precedenti deriva la morte della persona si applicano nel caso di attentato alla vita, l'ergastolo e, nel caso di attentato alla incolumità, la reclusione di anni trenta.

 

Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114, concorrenti con le aggravanti di cui al secondo e al quarto comma, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alle predette aggravanti (2) (3).

 

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(1) L'art. 5, secondo comma, L. 29 maggio 1982, n. 304, per la difesa dell'ordinamento costituzionale, (terroristi pentiti), così dispone: «Se il colpevole di uno dei delitti previsti dagli articoli 241, 276, 280, 283, 284, 285, 286, 289 e 295 del codice penale coopera efficacemente ad impedire l'evento cui gli atti da lui commessi sono diretti soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti qualora questi costituiscano per sé un reato diverso».

La decadenza da questi benefici in caso di false o reticenti dichiarazioni è regolato dall'art. 10 della stessa legge, il cui art. 12 limita la applicazione del provvedimento solo ai reati che siano stati commessi o la cui permanenza sia iniziata entro il 31 gennaio 1982, purché i comportamenti cui è condizionata la loro applicazione vengano tenuti entro centoventi giorni dall'entrata in vigore della legge (3 giugno 1982), termine differito di ulteriori centoventi giorni, con l'art. 1 del D.L. 1 ottobre 1982, n. 695, convertito nella L. 29 novembre 1982, n. 882.

(2) Comma così sostituito dall'art. 4, L. 14 febbraio 2003, n. 34. Il testo precedentemente in vigore era il seguente: «Le circostanze attenuanti concorrenti con le circostanze aggravanti previste nel secondo e quarto comma non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste».

(3) Articolo aggiunto dall'art. 2, D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, sulla tutela dell'ordine democratico e della sicurezza pubblica. Il presente articolo, nel testo originario (Attentato contro il Capo del Governo), era stato abrogato dall'art. 3, D.Lgs.Dlgt. 14 settembre 1944, n. 288. La Corte costituzionale, con sentenza 28 giugno-3 luglio 1985, n. 194 (Gazz. Uff. 17 luglio 1985, n. 167-bis), ha dichiarato, tra l'altro, non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità dell'ultimo comma del presente articolo, in riferimento all'art. 3, primo comma, Cost. L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente comma, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

 

 

Art. 280-bis

Atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi.

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque per finalità di terrorismo compie qualsiasi atto diretto a danneggiare cose mobili o immobili altrui, mediante l'uso di dispositivi esplosivi o comunque micidiali, è punito con la reclusione da due a cinque anni.

 

Ai fini del presente articolo, per dispositivi esplosivi o comunque micidiali si intendono le armi e le materie ad esse assimilate indicate nell'articolo 585 e idonee a causare importanti danni materiali.

 

Se il fatto è diretto contro la sede della Presidenza della Repubblica, delle Assemblee legislative, della Corte costituzionale, di organi del Governo o comunque di organi previsti dalla Costituzione o da leggi costituzionali, la pena è aumentata fino alla metà.

 

Se dal fatto deriva pericolo per l'incolumità pubblica ovvero un grave danno per l'economia nazionale, si applica la reclusione da cinque a dieci anni.

 

Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114, concorrenti con le aggravanti di cui al terzo e al quarto comma, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alle predette aggravanti (1).

 

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(1) Articolo aggiunto dall'art. 3, L. 14 febbraio 2003, n. 34. Nei procedimenti per i delitti previsti dal presente articolo si applicano le disposizioni di cui all'art. 13, D.L.13 maggio 1991, n. 152, ai sensi di quanto disposto dall'art. 3, D.L. 18 ottobre 2001, n. 374, come modificato dall'art. 6 della citata legge n. 34 del 2003. L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente comma, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

 

 

Art. 281

Offesa alla libertà del Capo del Governo.

[Chiunque, fuori dei casi preveduti dall'articolo precedente, attenta alla libertà del Capo del Governo è punito con la reclusione da quattro a dodici anni] (1).

 

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(1) Articolo abrogato dall'art. 3, D.Lgs.Lgt. 14 settembre 1944, n. 288, che riforma la legislazione penale.

 

 

Art. 282

Offesa all'onore del Capo del Governo.

[Chiunque offende l'onore o il prestigio del Capo del Governo è punito con la reclusione da uno a cinque anni] (1).

 

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(1) Articolo abrogato dall'art. 3, D.Lgs.Lgt. 14 settembre 1944, n. 288, che riforma la legislazione penale.

 

 

Art. 283

Attentato contro la costituzione dello Stato. (1)

Chiunque, con atti violenti, commette un fatto diretto e idoneo a mutare la Costituzione dello Stato o la forma di Governo, è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32, 302, 311, 312] (2).

 

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(1) Vedi gli artt. 73 e 74, L. 1 aprile 1981, n. 121, sull'Amministrazione della pubblica sicurezza. Ai sensi dell'art. 80 dello stesso provvedimento, per questi reati si procede in ogni caso col giudizio direttissimo.

L'art. 5, secondo comma, L. 29 maggio 1982, n. 304, per la tutela dell'ordinamento costituzionale, (terroristi pentiti), così dispone: «Se il colpevole di uno dei delitti previsti dagli articoli 241, 276, 280, 283, 284, 285, 286, 289 e 295 del codice penale coopera efficacemente ad impedire l'evento cui gli atti da lui commessi sono diretti soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti qualora questi costituiscano per sé un reato diverso».

La decadenza da questi benefici in caso di false o reticenti dichiarazioni è regolato dall'art. 10 della stessa legge, il cui art. 12 limita la applicazione del provvedimento solo ai reati che siano stati commessi o la cui permanenza sia iniziata entro il 31 gennaio 1982, purché i comportamenti cui è condizionata la loro applicazione vengano tenuti entro centoventi giorni dall'entrata in vigore della legge (3 giugno 1982), termine differito di ulteriori centoventi giorni, con l'art. 1 del D.L. 1 ottobre 1982, n. 695, convertito nella L. 29 novembre 1982, n. 882.

(2) Articolo così sostituito prima dall'art. 2, L. 11 novembre 1947, n. 1317 e poi dall'art. 3, L. 24 febbraio 2006, n. 85. L'art. 4 della suddetta legge n. 1317 del 1947 stabilisce che, ai fini dell'applicazione di questo articolo, alla carica di Presidente della Repubblica è equiparata quella di Capo provvisorio dello Stato.

l testo del presente articolo, in vigore prima della sostituzione disposta dalla citata legge n. 85 del 2006, era il seguente: «Chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette a stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sulle altre, ovvero a sopprimere violentemente una classe sociale o, comunque, a sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, è punito con la reclusione da cinque a dodici anni.».

 

 

Art. 284

Insurrezione armata contro i poteri dello Stato. (1)

Chiunque promuove un'insurrezione armata [c.p. 585] contro i poteri dello Stato è punito con l'ergastolo e, se l'insurrezione avviene, con la morte [c.p. 364] (2).

 

Coloro che partecipano all'insurrezione sono puniti con la reclusione da tre a quindici anni; coloro che la dirigono, con la morte [c.p. 7, n. 1, 29, 32] (3).

 

L'insurrezione si considera armata anche se le armi sono soltanto tenute in un luogo di deposito [c.p. 302, 311, 312] (4).

 

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(1) L'art. 5, secondo comma, L. 29 maggio 1982, n. 304, per la tutela dell'ordinamento costituzionale, (terroristi pentiti), così dispone: «Se il colpevole di uno dei delitti previsti dagli articoli 241, 276, 280, 283, 284, 285, 286, 289 e 295 del codice penale coopera efficacemente ad impedire l'evento cui gli atti da lui commessi sono diretti soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti qualora questi costituiscano per sé un reato diverso».

La decadenza da questi benefici in caso di false o reticenti dichiarazioni è regolato dall'art. 10 della stessa legge, il cui art. 12 limita la applicazione del provvedimento solo ai reati che siano stati commessi o la cui permanenza sia iniziata entro il 31 gennaio 1982, purché i comportamenti cui è condizionata la loro applicazione vengano tenuti entro centoventi giorni dall'entrata in vigore della legge (3 giugno 1982), termine differito di ulteriori centoventi giorni, con l'art. 1 del D.L. 1 ottobre 1982, n. 695, convertito nella L. 29 novembre 1982, n. 882.

(2) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena all'ergastolo.

(3) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena all'ergastolo.

(4) Vedi gli artt. 21 e 29, L. 18 aprile 1975, n. 110, sul controllo delle armi, munizioni, ed esplosivi, e gli artt. 18 e 20, L. 22 maggio 1975, n. 152, sulla tutela dell'ordine pubblico.

 

 

Art. 285

Devastazione, saccheggio e strage. (1)

Chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato [c.p. 4] o in una parte di esso è punito con la morte [c.p. 7, n. 1, 29, 32, 302, 311, 312, 364; c.p.p. 275] (2).

 

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(1) Vedi l'art. 2, secondo comma, L. 18 febbraio 1987, n. 34, sulla dissociazione dal terrorismo. L'art. 5, secondo comma, L. 29 maggio 1982, n. 304, sull'ordinamento costituzionale (terroristi pentiti), così dispone: «Se il colpevole di uno dei delitti previsti dagli articoli 241, 276, 280, 283, 284, 285, 286, 289 e 295 del codice penale coopera efficacemente ad impedire l'evento cui gli atti da lui commessi sono diretti soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti qualora questi costituiscano per sé un reato diverso».

La decadenza da questi benefici in caso di false o reticenti dichiarazioni è regolato dall'art. 10 della stessa legge n. 304 del 1982, il cui art. 12 limita la applicazione del provvedimento solo ai reati che siano stati commessi o la cui permanenza sia iniziata entro il 31 gennaio 1982, purché i comportamenti cui è condizionata la loro applicazione vengano tenuti entro centoventi giorni dall'entrata in vigore della legge (3 giugno 1982), termine differito di ulteriori centoventi giorni, con l'art. 1 del D.L. 1 ottobre 1982, n. 695, convertito nella L. 29 novembre 1982, n. 882. L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente comma, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge. Vedi, anche, l'art. 39, L. 3 agosto 2007, n. 124, sulla disciplina del segreto di Stato.

(2) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena all'ergastolo. Vedi gli artt. 21 e 29, L. 18 aprile 1975, n. 110, sul controllo di armi, munizioni ed esplosivi, e gli artt. 18 e 20, L. 22 maggio 1975, n. 152, sulla tutela dell'ordine pubblico. L'art. 1, L. 28 settembre 1998, n. 336 (Gazz. Uff. 30 settembre 1998, n. 228) ha disposto che, nei procedimenti penali in corso alla data della sua entrata in vigore, aventi ad oggetto i reati di cui agli articoli 285 e 422 del codice penale, commessi anteriormente alla data di entrata in vigore del codice di procedura penale, approvato con D.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, il termine di durata massima delle indagini preliminari è di tre anni ove ricorra l'ipotesi di cui alla lettera b) del comma 2 dell'articolo 407 del codice di procedura penale. Il termine di durata delle indagini preliminari per le suddette ipotesi di reato è stato poi aumentato: a quattro anni dall'art. 1, D.L. 27 settembre 1999, n. 330 (Gazz. Uff. 27 settembre 1999, n. 227) convertito in legge dall'art. 1, L. 23 novembre 1999, n. 438 (Gazz. Uff. 26 novembre 1999, n. 278); a cinque anni dall'art. 9, D.L. 24 novembre 2000, n. 341, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 19 gennaio 2001, n. 4 e a sei anni dall'art. 13, D.L. 25 ottobre 2002, n. 236, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 27 dicembre 2002, n. 284.

 

 

Art. 286

Guerra civile. (1)

Chiunque commette un fatto diretto a suscitare la guerra civile nel territorio dello Stato [c.p. 4] è punito con l'ergastolo [c.p. 29, 32; c.p.p. 275].

 

Se la guerra civile avviene, il colpevole è punito con la morte [c.p. 7, n. 1, 302, 311, 312, 364] (2).

 

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(1) L'art. 5, secondo comma, L. 29 maggio 1982, n. 304, sull'ordinamento costituzionale (terroristi pentiti), così dispone: «Se il colpevole di uno dei delitti previsti dagli articoli 241, 276, 280, 283, 284, 285, 286, 289 e 295 del codice penale coopera efficacemente ad impedire l'evento cui gli atti da lui commessi sono diretti soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti qualora questi costituiscano per sé un reato diverso».

La decadenza da questi benefici in caso di false o reticenti dichiarazioni è regolato dall'art. 10 della stessa legge n. 304 del 1982, il cui art. 12 limita la applicazione del provvedimento solo ai reati che siano stati commessi o la cui permanenza sia iniziata entro il 31 gennaio 1982, purché i comportamenti cui è condizionata la loro applicazione vengano tenuti entro centoventi giorni dall'entrata in vigore della legge (3 giugno 1982), termine differito di ulteriori centoventi giorni, con l'art. 1, D.L. 1 ottobre 1982, n. 695, convertito nella L. 29 novembre 1982, n. 882.

(2) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena all'ergastolo. Vedi gli artt. 21 e 29, L. 18 aprile 1975, n. 110, sul controllo di armi, munizioni ed esplosivi, gli artt. 18 e 20, L. 22 maggio 1975, n. 152, sulla tutela dell'ordine pubblico, l'art. 2, secondo comma, L. 18 febbraio 1987, n. 34, sulla dissociazione dal terrorismo. Il delitto previsto in questo articolo, consumato o tentato, è attribuito al tribunale in composizione collegiale, ai sensi dell'art. 33-bis del codice di procedura penale, a decorrere dalla sua entrata in vigore.

 

 

Art. 287

Usurpazione di potere politico o di comando militare. (1)

Chiunque usurpa un potere politico, ovvero persiste nell'esercitarlo indebitamente è punito con la reclusione da sei a quindici anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32; c.p.p. 275].

 

Alla stessa pena soggiace chiunque indebitamente assume un alto comando militare.

 

Se il fatto è commesso in tempo di guerra [c.p. 310], il colpevole è punito con l'ergastolo; ed è punito con la morte (2), se il fatto ha compromesso l'esito delle operazioni militari [c.p. 302, 311, 312, 364].

 

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(1) Vedi l'art. 75, L. 1 aprile 1981, n. 121, sull'Amministrazione della pubblica sicurezza, nonché l'art. 80 dello stesso provvedimento.

(2) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena all'ergastolo.

 

 

Art. 288

Arruolamenti o armamenti non autorizzati a servizio di uno Stato estero.

Chiunque nel territorio dello Stato [c.p. 4] e senza approvazione del Governo arruola o arma cittadini, perché militino al servizio o a favore dello straniero, è punito con la reclusione da quattro a quindici anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32; c.p.p. 275] (1).

 

La pena è aumentata [c.p. 64] se fra gli arruolati sono militari in servizio, o persone tuttora soggette agli obblighi del servizio militare [c.p. 302, 311, 312].

 

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(1) Comma così modificato dall'art. 7, secondo comma, L. 12 maggio 1995, n. 210. La precedente formulazione, per la commissione del presente reato, prevedeva la pena della reclusione da tre a sei anni.

 

 

Art. 289

Attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali (1).

È punito con la reclusione da uno a cinque anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette atti violenti diretti ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente:

 

1) al Presidente della Repubblica o al Governo [Cost. 92; c.p. 360] l'esercizio delle attribuzioni o delle prerogative conferite dalla legge (2);

 

2) alle assemblee legislative o ad una di queste, o alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali l'esercizio delle loro funzioni (3).

 

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(1) L'art. 5, secondo comma, L. 29 maggio 1982, n. 304, sull'ordinamento costituzionale (terroristi pentiti), così dispone: «Se il colpevole di uno dei delitti previsti dagli articoli 241, 276, 280, 283, 284, 285, 286, 289 e 295 del codice penale coopera efficacemente ad impedire l'evento cui gli atti da lui commessi sono diretti soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti qualora questi costituiscano per sé un reato diverso».

La decadenza da questi benefici in caso di false o reticenti dichiarazioni è regolato dall'art. 10 della stessa legge n. 304 del 1982, il cui art. 12 limita la applicazione del provvedimento solo ai reati che siano stati commessi o la cui permanenza sia iniziata entro il 31 gennaio 1982, purché i comportamenti cui è condizionata la loro applicazione vengano tenuti entro centoventi giorni dall'entrata in vigore della legge (3 giugno 1982), termine differito di ulteriori centoventi giorni, con l'art. 1 del D.L. 1 ottobre 1982, n. 695, convertito nella L. 29 novembre 1982, n. 882.

(2) Per la persona del Sommo Pontefice vedi l'art. 8 del Concordato lateranense reso esecutivo con L. 27 maggio 1929, n. 810 e la L. 25 marzo 1985, n. 121.

(3) Articolo sostituito prima dall'art. 2, L. 11 novembre 1947, n. 1317, di modifica al codice penale per la parte riguardante i delitti contro le istituzioni costituzionali dello Stato, poi dall'art. 1, L. 30 luglio 1957, n. 655, di modifica alle norme riguardanti i delitti di attentato e vilipendio degli organi costituzionali ed infine dall'art. 4, L. 24 febbraio 2006, n. 85.

Il testo in vigore prima di qust'ultima sostituzione era il seguente: «È punito con la reclusione non inferiore a dieci anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette un fatto diretto a impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente:

1. al presidente della Repubblica o al Governo, l'esercizio delle attribuzioni o delle prerogative conferite dalla legge;

2. alle assemblee legislative o ad una di queste, o alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali, l'esercizio delle loro funzioni.

La pena è della reclusione da uno a cinque anni se il fatto è diretto soltanto a turbare l'esercizio delle attribuzioni, prerogative o funzioni suddette.».

 

 

Art. 289-bis

Sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione. (1)

Chiunque, per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico sequestra una persona è punito con la reclusione da venticinque a trenta anni.

 

Se dal sequestro deriva comunque la morte, quale conseguenza non voluta dal reo, della persona sequestrata, il colpevole è punito con la reclusione di anni trenta.

 

Se il colpevole cagiona la morte del sequestrato si applica la pena dell'ergastolo.

 

Il concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera in modo che il soggetto passivo riacquisti la libertà è punito con la reclusione da due a otto anni; se il soggetto passivo muore, in conseguenza del sequestro, dopo la liberazione, la pena è della reclusione da otto a diciotto anni (2).

 

Quando ricorre una circostanza attenuante, alla pena prevista dal secondo comma è sostituita la reclusione da venti a ventiquattro anni; alla pena prevista dal terzo comma è sostituita la reclusione da ventiquattro a trenta anni. Se concorrono più circostanze attenuanti, la pena da applicare per effetto delle diminuzioni non può essere inferiore a dieci anni, nell'ipotesi prevista dal secondo comma, ed a quindici anni, nell'ipotesi prevista dal terzo comma (3).

 

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(1) Per le attenuanti, vedi gli artt. 2 e 3, L. 29 maggio 1982, n. 304, sull'ordinamento costituzionale.

(2) Vedi l'art. 4, D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, convertito con modificazioni in L. 6 febbraio 1980, n. 15, sulla tutela della sicurezza pubblica (corrispondendo alla espressione «eversione dell'ordine democratico» quella di «eversione dell'ordine costituzionale», ai sensi dell'art. 11 della L. 29 maggio 1982, n. 304).

(3) Articolo aggiunto dall'art. 2, D.L. 21 marzo 1978, n. 59, sulla prevenzione e repressione di reati gravi. L'art. 10 dello stesso provvedimento, così dispone: «Nei procedimenti per il delitto previsto dall'articolo 289-bis del codice penale si applicano le disposizioni processuali vigenti per il delitto previsto dall'articolo 630 del codice penale». L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente comma, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

 

 

Art. 290

Vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate. (1)

Chiunque pubblicamente [c.p. 266] vilipende la Repubblica, le Assemblee legislative o una di queste [Cost. 55], ovvero il Governo [Cost. 92], o la Corte costituzionale o l'ordine giudiziario [Cost. 104], è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000 (2).

 

La stessa pena si applica a chi pubblicamente vilipende le forze armate dello Stato o quelle della liberazione [c.p. 302, 311, 312; c.p.m.p. 81] (3).

 

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(1) Vedi l'art. 4-bis, L. 26 luglio 1975, n. 354, sull'ordinamento penitenziario e gli artt. 2 e 6, D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e protezione di coloro che collaborano con la giustizia.

(2) Comma così modificato dall'art. 11, L. 24 febbraio 2006, n. 85.

Il testo precedentemente in vigore era il seguente: «Chiunque pubblicamente vilipende la Repubblica, le Assemblee legislative o una di queste, ovvero il Governo, o la Corte costituzionale o l'ordine giudiziario, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.».

(3) Articolo così sostituito prima dall'art. 2, L. 11 novembre 1947, n. 1317, di modifica al codice penale per la parte riguardante i delitti contro le istituzioni costituzionali dello Stato, e poi dall'art. 1, L. 30 luglio 1957, n. 655, di modifica alle norme riguardanti i delitti di attentato e vilipendio degli organi costituzionali. Successivamente la Corte costituzionale, con sentenza 24-30 gennaio 1974, n. 20 (Gazz. Uff. 6 febbraio 1974, n. 35), ha dichiarato, tra l'altro, non fondate, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità del presente articolo, nella parte in cui prevede il reato di vilipendio del Governo, dell'ordine giudiziario e delle forze armate dello Stato, in riferimento agli artt. 4, primo comma, 21, primo comma, e 25, secondo comma, Cost. La stessa Corte, con sentenza 8-16 marzo 1983, n. 57 (Gazz. Uff. 23 marzo 1983, n. 81), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità del presente articolo, in riferimento agli artt. 3 e 21 Cost.

 

 

Art. 290-bis

Parificazione al Presidente della Repubblica di chi ne fa le veci.

Agli effetti degli articoli 276, 277, 278, 279, 289, è parificato al presidente della Repubblica chi ne fa le veci [Cost. 86] (1).

 

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(1) Articolo aggiunto dall'art. 2, L. 11 novembre 1947, n. 1317, di modifica al codice penale nella parte riguardante i delitti contro le istituzioni costituzionali dello Stato.

 

 

Art. 291

Vilipendio alla nazione italiana.

 

Chiunque pubblicamente [c.p. 266] vilipende la nazione italiana è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000 (1).

 

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(1) Articolo così modificato dall'art. 11, L. 24 febbraio 2006, n. 85.

Il testo precedentemente in vigore era il seguente: «Chiunque pubblicamente vilipende la nazione italiana è punito con la reclusione da uno a tre anni.».

 

 

Art. 292

Vilipendio o danneggiamento alla bandiera o ad altro emblema dello Stato.

Chiunque vilipende con espressioni ingiuriose la bandiera nazionale [Cost. 12] o un altro emblema dello Stato (1) è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000. La pena è aumentata da euro 5.000 a euro 10.000 nel caso in cui il medesimo fatto sia commesso in occasione di una pubblica ricorrenza o di una cerimonia ufficiale.

 

Chiunque pubblicamente e intenzionalmente distrugge, disperde, deteriora, rende inservibile o imbratta la bandiera nazionale o un altro emblema dello Stato è punito con la reclusione fino a due anni.

 

Agli effetti della legge penale per bandiera nazionale si intende la bandiera ufficiale dello Stato e ogni altra bandiera portante i colori nazionali [c.p. 302, 311, 312] (2).

 

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(1) Sulle bandiere delle Forze armate, vedi il D.Lgs.C.P.S. 25 ottobre 1947, n. 1152 e il D.Lgs.C.P.S. 9 novembre 1947.

(2) Articolo così sostituito dall'art. 5, L. 24 febbraio 2006, n. 85.

Il testo precedentemente in vigore era il seguente: «Vilipendio alla bandiera o ad altro emblema dello Stato.

Chiunque vilipende la bandiera nazionale o di un altro emblema dello Stato è punito con la reclusione da uno a tre anni.

Agli effetti della legge penale, per bandiera nazionale s'intende la bandiera ufficiale dello Stato e ogni altra bandiera portante i colori nazionali.

Le disposizioni di questo articolo si applicano anche a chi vilipende i colori nazionali raffigurati su cosa diversa da una bandiera.».

 

 

Art. 292-bis

Circostanza aggravante.

[La pena prevista nei casi indicati dall'articolo 278 (offesa all'onore o al prestigio del presidente della Repubblica), dall'art. 290, comma secondo (vilipendio delle forze armate), e dall'art. 292 (vilipendio della bandiera o di altro emblema dello Stato), è aumentata, se il fatto è commesso dal militare in congedo.

 

Si considera militare in congedo chi, non essendo in servizio alle armi, non ha cessato di appartenere alle forze armate dello Stato, ai sensi degli articoli 8 e 9 del codice penale militare di pace] (1).

 

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(1) Articolo aggiunto dall'art. 9, L. 23 marzo 1956, n. 167 e poi abrogato dall'art. 12, L. 24 febbraio 2006, n. 85.

 

 

Art. 293

Circostanza aggravante.

[Nei casi indicati dai due articoli precedenti (1), la pena è aumentata [c.p. 64] se il fatto è commesso dal cittadino in territorio estero [c.p. 4, 242]] (2).

 

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(1) Il riferimento deve intendersi fatto agli artt. 291 e 292 c.p., dato che l'art. 292-bis è stato aggiunto successivamente.

(2) Articolo abrogato dall'art. 12, L. 24 febbraio 2006, n. 85.

 

 

Capo III

Dei delitti contro i diritti politici del cittadino

 

Art. 294

Attentati contro i diritti politici del cittadino.

Chiunque con violenza, minaccia o inganno impedisce in tutto o in parte l'esercizio di un diritto politico, ovvero determina taluno a esercitarlo in senso difforme dalla sua volontà, è punito con la reclusione da uno a cinque anni [Cost. 48, 49; c.p. 7, n. 1, 29, 32, 311, 312; c.p.p. 275] (1).

 

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(1) Vedi la L. 6 febbraio 1948, n. 29, sull'elezione del Senato della Repubblica; la L. 8 marzo 1951, n. 122, sull'elezione dei consigli provinciali; il D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, di approvazione del Testo unico per l'elezione della Camera dei deputati (i reati previsti in questo testo sono esclusi dalla depenalizzazione, ai sensi dell'art. 34 della L. 24 novembre 1981, n. 689, che modifica il sistema penale; il D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali, e il D.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, per la disciplina dell'elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali.

 

 

 

Capo IV

Dei delitti contro gli Stati esteri, i loro Capi e i loro rappresentanti

 

Art. 295

Attentato contro i Capi di Stati esteri.

Chiunque nel territorio dello Stato [c.p. 4] attenta alla vita, alla incolumità o alla libertà personale del capo di uno Stato estero è punito, nel caso di attentato alla vita, con la reclusione non inferiore a venti anni e, negli altri casi, con la reclusione non inferiore a quindici anni. Se dal fatto è derivata la morte del capo dello Stato estero (1) il colpevole è punito con la morte (2), nel caso di attentato alla vita; negli altri casi è punito con l'ergastolo (3).

 

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(1) Per la persona del Sommo Pontefice vedi l'art. 8 del Trattato reso esecutivo con la L. 27 maggio 1929, n. 810 e la L. 25 marzo 1985, n. 121. Vedi, anche, la L. 25 marzo 1985, n. 107, di attuazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione dei reati contro le persone internazionalmente protette, compresi gli agenti diplomatici, adottata a New York il 14 dicembre 1973.

(2) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita dall'art. 1, D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224, che ad essa ha sostituito la pena dell'ergastolo.

(3) L'art. 5, secondo comma, L. 29 maggio 1982, n. 304, per la difesa dell'ordinamento costituzionale, (terroristi pentiti), così dispone: «Se il colpevole di uno dei delitti previsti dagli articoli 241, 276, 280, 283, 284, 285, 286, 289 e 295 del codice penale coopera efficacemente ad impedire l'evento cui gli atti da lui commessi sono diretti soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti qualora questi costituiscano per sé un reato diverso».

La decadenza da questi benefici in caso di false o reticenti dichiarazioni è regolato dall'art. 10 della stessa legge, il cui art. 12 limita la applicazione del provvedimento solo ai reati che siano stati commessi o la cui permanenza sia iniziata entro il 31 gennaio 1982, purché i comportamenti cui è condizionata la loro applicazione vengano tenuti entro centoventi giorni dall'entrata in vigore della legge (3 giugno 1982), termine differito di ulteriori centoventi giorni, con l'art. 1 del D.L. 1 ottobre 1982, n. 695, convertito nella L. 29 novembre 1982, n. 882.

 

 

Art. 296

Offesa alla libertà dei capi di Stati esteri.

Chiunque nel territorio dello Stato [c.p. 4], fuori dei casi preveduti dall'articolo precedente, attenta alla libertà del capo di uno Stato estero è punito con la reclusione da tre a dieci anni [c.p. 7, n. 1, 29, 32, 302, 311, 312; c.p.p. 275] (1).

 

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(1) Per quanto riguarda la persona del Sommo Pontefice vedi l'art. 8 del Trattato reso esecutivo con L. 27 maggio 1929, n. 810 e la L. 25 marzo 1985, n. 121.

 

 

Art. 297

Offesa all'onore dei capi di Stati esteri.

[Chiunque nel territorio dello Stato [c.p. 4] offende l'onore o il prestigio del capo di uno Stato estero è punito con la reclusione da uno a tre anni [c.p. 7, n. 1, 29, 302, 311, 312; c.p.p. 275] (1)] (2).

 

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(1) Per quanto riguarda la persona del Sommo Pontefice vedi l'art. 8 del Trattato reso esecutivo con L. 27 maggio 1929, n. 810 e la L. 25 marzo 1985, n. 121.

(2) Articolo abrogato dall'art. 18, L. 25 giugno 1999, n. 205.

 

 

Art. 298

Offese contro i rappresentanti di Stati esteri. (1)

[Le disposizioni dei tre articoli precedenti si applicano anche se i fatti, ivi preveduti, sono commessi contro i rappresentanti di Stati esteri, accreditati presso il Governo della Repubblica, in qualità di capi di missione diplomatica, a causa o nell'esercizio delle loro funzioni [c.p. 303, 311, 312] (2)] (3).

 

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(1) Per la persona del Sommo Pontefice vedi gli artt. 12 e 19 del Trattato reso esecutivo con la L. 27 maggio 1929, n. 810 e la L. 25 marzo 1985, n. 121.

(2) Articolo così sostituito dall'art. 2, L. 11 novembre 1947, n. 1317, di modifica al codice penale nella parte riguardante le istituzioni costituzionali dello Stato.

(3) Articolo abrogato dall'art. 18, L. 25 giugno 1999, n. 205.

 

 

Art. 299

Offesa alla bandiera o ad altro emblema di uno Stato estero.

Chiunque nel territorio dello Stato [c.p. 4] vilipende, con espressioni ingiuriose, in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, la bandiera ufficiale o un altro emblema di uno Stato estero (1), usati in conformità del diritto interno dello Stato italiano, è punito con l'ammenda da euro 100 a euro 1.000 (2).

 

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(1) Sulle bandiere e gli emblemi vedi il D.Lgs.C.P.S. 25 ottobre 1947, n. 1152, e il D.Lgs.C.P.S. 9 novembre 1947.

(2) Articolo così sostituito dall'art. 6, L. 24 febbraio 2006, n. 85.

Il testo precedentemente in vigore era il seguente: «Chiunque nel territorio dello Stato vilipende, in un luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, la bandiera ufficiale o un altro emblema di uno Stato estero, usati in conformità del diritto interno dello Stato italiano, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.».

 

 

Art. 300

Condizioni di reciprocità.

Le disposizioni degli articoli 295, 296, 297 e 299 si applicano solo in quanto la legge straniera garantisca, reciprocamente, al capo dello Stato italiano o alla bandiera italiana parità di tutela penale.

 

I capi di missione diplomatica sono equiparati ai capi di Stati esteri, a norma dell'articolo 298, soltanto se lo Stato straniero concede parità di tutela penale ai capi di missione diplomatica italiana.

 

Se la parità della tutela penale non esiste, si applicano le disposizioni dei titoli dodicesimo [c.p. 575] e tredicesimo [c.p. 624]; ma la pena è aumentata [c.p. 64].

 

 

Art. 416-bis.

Associazioni di tipo mafioso anche straniere. (1)

Chiunque fa parte di un'associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da sette a dodici anni (2).

 

Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l'associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da nove a quattordici anni (3).

 

L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali (4).

 

Se l'associazione è armata si applica la pena della reclusione da nove a quindici anni nei casi previsti dal primo comma e da dodici a ventiquattro anni nei casi previsti dal secondo comma (5).

 

L'associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell'associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito (6).

 

Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà.

 

Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l'impiego. [Decadono inoltre di diritto le licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all'ingrosso, le concessioni di acque pubbliche e i diritti ad esse inerenti nonché le iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui il condannato fosse titolare] (7).

 

Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso (8) (9).

 

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(1) Rubrica così sostituita dal numero 5) della lettera b-bis) del comma 1 dell’art. 1, D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge, con modificazioni, con L. 24 luglio 2008, n. 125. Le pene stabilite per i delitti previsti in questo articolo sono aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione (art. 7, L. 31 maggio 1965, n. 575, recante disposizioni contro la mafia, come modificato dall'art. 7, L. 11 agosto 2003, n. 228). L'art. 7, primo comma, D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni in L. 12 luglio 1991, n. 203, in tema di lotta alla criminalità organizzata, così dispone: «1. Per i delitti punibili con la pena diversa dall'ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà». Vedi, anche, l'art. 39, L. 3 agosto 2007, n. 124, sulla disciplina del segreto di Stato.

Il testo della rubrica in vigore prima della suddetta sostituzione era il seguente: «Associazione di tipo mafioso».

(2) Comma così modificato dall'art. 1, L. 5 dicembre 2005, n. 251 e poi dal numero 1) della lettera b-bis) del comma 1 dell’art. 1, D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge, con modificazioni, con L. 24 luglio 2008, n. 125.

Il testo in vigore prima delle modifiche disposte dal citato D.L. n. 92 del 2008 era il seguente: « Chiunque fa parte di un'associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.».

Il testo in vigore prima delle modifiche disposte dalla suddetta L. n. 251 del 2005 era il seguente:

«Chiunque fa parte di un'associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da tre a sei anni.».

(3) Comma così modificato prima dall'art. 1, L. 5 dicembre 2005, n. 251 e poi dal numero 2) della lettera b-bis) del comma 1 dell’art. 1, D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge, con modificazioni, con L. 24 luglio 2008, n. 125.

Il testo in vigore prima delle modifiche disposte dal citato D.L. n. 92 del 2008 era il seguente:

«Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l'associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da sette a dodici anni.».

Il testo in vigore prima delle modifiche disposte dalla suddetta L. n. 251 del 2005 era il seguente: «Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l'associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da quattro a nove anni.».

(4) Comma così modificato dall'art. 11-bis, D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni in L. 7 agosto 1992, n. 356, recante provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa.

(5) Comma così modificato prima dall'art. 1, L. 5 dicembre 2005, n. 251 e poi dal numero 3) della lettera b-bis) del comma 1 dell’art. 1, D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge, con modificazioni, con L. 24 luglio 2008, n. 125.

Il testo in vigore prima delle modifiche disposte dal citato D.L. n. 92 del 2008 era il seguente: «Se l'associazione è armata si applica la pena della reclusione da sette a quindici anni nei casi previsti dal primo comma e da dieci a ventiquattro anni nei casi previsti dal secondo comma.».

Il testo in vigore prima delle modifiche disposte dalla suddetta L. n. 251 del 2005 era il seguente: «Se l'associazione è armata si applica la pena della reclusione da quattro a dieci anni nei casi previsti dal primo comma e da cinque a quindici anni nei casi previsti dal secondo comma.».

(6) I condannati per delitto previsto in questo articolo sono esclusi dal beneficio della liberazione condizionale (art. 2, D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, in L. 12 luglio 1991, n. 203, in tema di lotta alla criminalità organizzata). Vedi, anche, l'art. 4-bis, L. 26 luglio 1975, n. 354, sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure limitative della libertà.

(7) Parte soppressa dall'art. 36, comma 2, L. 19 marzo 1990, n. 55, per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di pericolosità sociale, che ha inoltre disposto che «restano tuttavia ferme le decadenze di diritto ivi previste conseguenti a sentenze divenute irrevocabili anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge».

(8) Comma così modificato dal numero 4) della lettera b-bis) del comma 1 dell’art. 1, D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge, con modificazioni, con L. 24 luglio 2008, n. 125.

Il testo in vigore prima delle modifiche disposte dal citato D.L. n. 92 del 2008 era il seguente: «Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.».

(9) Articolo aggiunto dall'art. 1, L. 13 settembre 1982, n. 646, in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale. La condanna per il delitto previsto in questo articolo, se commesso in danno o a vantaggio di una attività imprenditoriale, o comunque in relazione ad essa, importa l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (art. 32-quater c.p.). Il delitto previsto in questo articolo, consumato o tentato, è attribuito al tribunale in composizione collegiale, ai sensi dell'art. 33-bis del codice di procedura penale, a decorrere dalla sua entrata in vigore. Vedi, anche, l'art. 12-sexies, D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge, con modificazioni, con L. 7 agosto 1992, n. 356. Vedi, inoltre, l'art. 10, L. 16 marzo 2006, n. 146. L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente comma, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

 

 

TITOLO XII

Dei delitti contro la persona (1)

 

Capo I

Dei delitti contro la vita e l'incolumità individuale

 

 

Art. 575.

Omicidio.

Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno [c.p. 32, 276, 295, 301, 306] (2).

 

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(1) L'art. 36, L. 5 febbraio 1992, n. 104, l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, così dispone: «1. Per i reati di cui agli articoli 527 e 628 del codice penale, nonché per i delitti non colposi contro la persona, di cui al titolo XII del libro secondo del codice penale, e per i reati di cui alla L. 20 febbraio 1958, n. 75, qualora l'offeso sia una persona handicappata la pena è aumentata da un terzo alla metà. 2. Per i procedimenti penali per i reati di cui al comma 1 è ammessa la costituzione di parte civile del difensore civico, nonché dell'associazione alla quale risulti iscritta la persona handicappata o un suo familiare».

(2) Le pene stabilite per i delitti previsti in questo articolo sono aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione (art. 7, L. 31 maggio 1965, n. 575, recante disposizioni contro la mafia, come modificato dall'art. 7, L. 11 agosto 2003, n. 228). Il delitto previsto in questo articolo, consumato o tentato, è attribuito al tribunale in composizione collegiale, ai sensi dell'art. 33-bis del codice di procedura penale, a decorrere dalla sua entrata in vigore.

 

 

Capo III

 

Dei delitti contro la libertà individuale

 

Sezione I

 

Dei delitti contro la personalità individuale

 

 

Art. 600.

Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù.

Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, è punito con la reclusione da otto a venti anni.

 

La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona.

 

La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi (1).

 

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(1) Articolo così sostituito dall'art. 1, L. 11 agosto 2003, n. 228. Le pene stabilite per i delitti previsti in questo articolo sono aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione (art. 7, L. 31 maggio 1965, n. 575, recante disposizioni contro la mafia, come modificato dall'art. 7, L. 11 agosto 2003, n. 228). Vedi, anche, l'art. 12-sexies, D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge, con modificazioni, con L. 7 agosto 1992, n. 356. Vedi, in merito alla riduzione in schiavitù, il R.D. 26 aprile 1928, n. 1723, di approvazione della Convenzione stipulata in Ginevra fra l'Italia ed altri Stati, il 25 settembre 1926; l'art. 4, della Convenzione resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848; l'art. 1, della Convenzione resa esecutiva con L. 20 dicembre 1957, n. 1304; la L. 13 luglio 1966, n. 653; la L. 2 gennaio 1989, n. 8. Vedi, inoltre, l'art. 9, L. 16 marzo 2006, n. 146. L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente comma, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

Il testo in vigore prima della sostituzione disposta dalla citata legge n. 228 del 2003 era il seguente: «600. Riduzione in schiavitù.

Chiunque riduce una persona in schiavitù o in una condizione analoga alla schiavitù, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni.».

 

 

Art. 600-bis.

Prostituzione minorile.

Chiunque induce all prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto ovvero ne favorisce o sfrutta la prostituzione è punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 15.493 a euro 154.937.

 

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di denaro o di altra utilità economica, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa non inferiore a euro 5.164 (1).

 

Nel caso in cui il fatto di cui al secondo comma sia commesso nei confronti di persona che non abbia compiuto gli anni sedici, si applica la pena della reclusione da due a cinque anni (2).

 

Se l'autore del fatto di cui al secondo comma è persona minore di anni diciotto si applica la pena della reclusione o della multa, ridotta da un terzo a due terzi (3) (4).

 

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(1) Gli attuali secondo, terzo e quarto comma così sostituiscono l'originario secondo comma ai sensi di quanto disposto dall'art. 1, L. 6 febbraio 2006, n. 38.

Il testo del secondo comma precedentemente in vigore era il seguente: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa fra i quattordici ed i sedici anni, in cambio di denaro o di altra utilità economica, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa non inferiore a euro 5.164. La pena è ridotta di un terzo se colui che commette il fatto è persona minore degli anni diciotto.».

(2) Gli attuali secondo, terzo e quarto comma così sostituiscono l'originario secondo comma ai sensi di quanto disposto dall'art. 1, L. 6 febbraio 2006, n. 38.

Il testo del secondo comma precedentemente in vigore era il seguente: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa fra i quattordici ed i sedici anni, in cambio di denaro o di altra utilità economica, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa non inferiore a euro 5.164. La pena è ridotta di un terzo se colui che commette il fatto è persona minore degli anni diciotto.».

(3) Gli attuali secondo, terzo e quarto comma così sostituiscono l'originario secondo comma ai sensi di quanto disposto dall'art. 1, L. 6 febbraio 2006, n. 38.

Il testo del secondo comma precedentemente in vigore era il seguente: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa fra i quattordici ed i sedici anni, in cambio di denaro o di altra utilità economica, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa non inferiore a euro 5.164. La pena è ridotta di un terzo se colui che commette il fatto è persona minore degli anni diciotto.».

(4) Articolo aggiunto dall'art. 2, L. 3 agosto 1998, n. 269. I delitti previsti in questo articolo, consumati o tentati, puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, sono attribuiti al tribunale in composizione collegiale, ai sensi dell'art. 33-bis del codice di procedura penale, a decorrere dalla sua entrata in vigore. Vedi, anche, l'art. 9, L. 16 marzo 2006, n. 146. L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente comma, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

 

 

Art. 600-ter.

Pornografia minorile.

Chiunque, utilizzando minori degli anni diciotto, realizza esibizioni pornografiche o produce materiale pornografico ovvero induce minori di anni diciotto a partecipare ad esibizioni pornografiche è punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 25.822 a euro 258.228 (1).

 

Alla stessa pena soggiace chi fa commercio del materiale pornografico di cui al primo comma.

 

Chiunque, al di fuori delle ipotesi di cui al primo e al secondo comma, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza il materiale pornografico di cui al primo comma, ovvero distribuisce o divulga notizie o informazioni finalizzate all'adescamento o allo sfruttamento sessuale di minori degli anni diciotto, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 2.582 a euro 51.645 (2).

 

Chiunque, al di fuori delle ipotesi di cui ai commi primo, secondo e terzo, offre o cede ad altri, anche a titolo gratuito, il materiale pornografico di cui al primo comma, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da euro 1.549 a euro 5.164 (3).

 

Nei casi previsti dal terzo e dal quarto comma la pena è aumentata in misura non eccedente i due terzi ove il materiale sia di ingente quantità (4) (5).

 

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(1) Comma così sostituito dall'art. 2, L. 6 febbraio 2006, n. 38.

Il testo precedentemente in vigore era il seguente: «Chiunque sfrutta minori degli anni diciotto al fine di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre materiale pornografico è punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 25.822 a euro 258.228.».

(2) Comma così modificato dall'art. 2, L. 6 febbraio 2006, n. 38.

Il testo precedentemente in vigore era il seguente: «Chiunque, al di fuori delle ipotesi di cui al primo e al secondo comma, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga o pubblicizza il materiale pornografico di cui al primo comma, ovvero distribuisce o divulga notizie o informazioni finalizzate all'adescamento o allo sfruttamento sessuale di minori degli anni diciotto, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 25.822 a euro 258.228.».

(3) Comma così sostituito dall'art. 2, L. 6 febbraio 2006, n. 38.

Il testo precedentemente in vigore era il seguente: «Chiunque, al di fuori delle ipotesi di cui ai commi primo, secondo e terzo, consapevolmente cede ad altri, anche a titolo gratuito, materiale pornografico prodotto mediante lo sfruttamento sessuale dei minori degli anni diciotto, è punito con la reclusione fino a tre anni o con la multa da euro 1.549 a euro 5.164».

(4) Comma aggiunto dall'art. 2, L. 6 febbraio 2006, n. 38.

(5) Articolo aggiunto dall'art. 3, L. 3 agosto 1998, n. 269. I delitti previsti in questo articolo, consumati o tentati, puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, sono attribuiti al tribunale in composizione collegiale, ai sensi dell'art. 33-bis del codice di procedura penale, a decorrere dalla sua entrata in vigore. Vedi, anche, l'art. 9, L. 16 marzo 2006, n. 146. L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente comma, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

 

 

Art. 600-quinquies.

Iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile.

Chiunque organizza o propaganda viaggi finalizzati alla fruizione di attività di prostituzione a danno di minori o comunque comprendenti tale attività è punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 15.493 e euro 154.937 (1).

 

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(1) Articolo aggiunto dall'art. 5, L. 3 agosto 1998, n. 269. I delitti previsti in questo articolo, consumati o tentati, puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, sono attribuiti al tribunale in composizione collegiale, ai sensi dell'art. 33-bis del codice di procedura penale, a decorrere dalla sua entrata in vigore. Vedi, anche, l'art. 9, L. 16 marzo 2006, n. 146. L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente articolo, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

 

 

Art. 601.

Tratta di persone.

Chiunque commette tratta di persona che si trova nelle condizioni di cui all'articolo 600 ovvero, al fine di commettere i delitti di cui al primo comma del medesimo articolo, la induce mediante inganno o la costringe mediante violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante promessa o dazione di somme di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità, a fare ingresso o a soggiornare o a uscire dal territorio dello Stato o a trasferirsi al suo interno, è punito con la reclusione da otto a venti anni.

 

La pena è aumentata da un terzo alla metà se i delitti di cui al presente articolo sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi (1).

 

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(1) Articolo prima modificato dall'art. 9, L. 3 agosto 1998, n. 269 e poi così sostituito dall'art. 2, L. 11 agosto 2003, n. 228. Le pene stabilite per i delitti previsti in questo articolo sono aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione (art. 7, L. 31 maggio 1965, n. 575, recante disposizioni contro la mafia, come modificato dall'art. 7, L. 11 agosto 2003, n. 228). Vedi, anche, l'art. 12-sexies, D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge, con modificazioni, con L. 7 agosto 1992, n. 356. Vedi, in merito alla riduzione in schiavitù, il R.D. 26 aprile 1928, n. 1723, di approvazione della Convenzione stipulata in Ginevra fra l'Italia ed altri Stati, il 25 settembre 1926; l'art. 4, della Convenzione resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848; l'art. 1, della Convenzione resa esecutiva con L. 20 dicembre 1957, n. 1304; la L. 13 luglio 1966, n. 653; la L. 2 gennaio 1989, n. 8. Vedi, inoltre, l'art. 9, L. 16 marzo 2006, n. 146. L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente articolo, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

Il testo in vigore prima della sostituzione disposta dalla citata legge n. 228 del 2003 era il seguente: «601. Tratta e commercio di schiavi.

Chiunque commette tratta o comunque fa commercio di schiavi o di persone in condizione analoga alla schiavitù è punito con la reclusione da cinque a venti anni.

Chiunque commette tratta o comunque fa commercio di minori degli anni diciotto al fine di indurli alla prostituzione è punito con la reclusione da sei a venti anni.».

Il testo in vigore prima della modifica disposta dalla citata legge n. 269 del 1998 era il seguente: «601. Tratta e commercio di schiavi.

Chiunque commette tratta o comunque fa commercio di schiavi o di persone in condizione analoga alla schiavitù è punito con la reclusione da cinque a venti anni.».

 

 

Art. 602.

Acquisto e alienazione di schiavi.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 601, acquista o aliena o cede una persona che si trova in una delle condizioni di cui all'articolo 600 è punito con la reclusione da otto a venti anni.

 

La pena è aumentata da un terzo alla metà se la persona offesa è minore degli anni diciotto ovvero se i fatti di cui al primo comma sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi (1).

 

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(1) Articolo così sostituito dall'art. 3, L. 11 agosto 2003, n. 228. Le pene stabilite per i delitti previsti in questo articolo sono aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione (art. 7, L. 31 maggio 1965, n. 575, recante disposizioni contro la mafia, come modificato dall'art. 7, L. 11 agosto 2003, n. 228). Vedi, anche, l'art. 12-sexies, D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge, con modificazioni, con L. 7 agosto 1992, n. 356. Vedi, anche, l'art. 9, L. 16 marzo 2006, n. 146. L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente articolo, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

Il testo precedentemente in vigore era il seguente: «602. Alienazione e acquisto di schiavi.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, aliena o cede una persona che si trova in stato di schiavitù o in una condizione analoga alla schiavitù o se ne impossessa o ne fa acquisto o la mantiene nello stato di schiavitù, o nella condizione predetta, è punito con la reclusione da tre a dodici anni. Vedi, in merito alla riduzione in schiavitù, il R.D. 26 aprile 1928, n. 1723, di approvazione della Convenzione stipulata in Ginevra fra l'Italia ed altri Stati, il 25 settembre 1926; l'art. 4, della Convenzione resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848; l'art. 1, della Convenzione resa esecutiva con L. 20 dicembre 1957, n. 1304; la L. 13 luglio 1966, n. 653; la L. 2 gennaio 1989, n. 8.

 

 

Art. 609-bis.

Violenza sessuale.

Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.

 

Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:

 

1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;

 

2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

 

Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi [c.p. 734-bis; c.p.p. 392, 398] (1).

 

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(1) Articolo aggiunto dall'art. 3, L. 15 febbraio 1996, n. 66 (Gazz. Uff. 20 febbraio 1996, n. 42). L'art. 16 della stessa legge, come modificato dall'art. 15, L. 3 agosto 1998, n. 269, ha così disposto «1. L'imputato per i delitti di cui agli articoli 600-bis, secondo comma, 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies del codice penale è sottoposto, con le forme della perizia, ad accertamenti per l'individuazione di patologie sessualmente trasmissibili, qualora le modalità del fatto possano prospettare un rischio di trasmissione delle patologie medesime». Il delitto previsto in questo articolo, consumato o tentato, è attribuito al tribunale in composizione collegiale, ai sensi dell'art. 33-bis del codice di procedura penale, a decorrere dalla sua entrata in vigore. L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente articolo, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

 

 

Art. 609-quater.

Atti sessuali con minorenne.

Soggiace alla pena stabilita dall'articolo 609-bis chiunque, al di fuori delle ipotesi previste in detto articolo, compie atti sessuali con persona che, al momento del fatto:

 

1) non ha compiuto gli anni quattordici;

 

2) non ha compiuto gli anni sedici, quando il colpevole sia l'ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui convivente, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest'ultimo, una relazione di convivenza (1).

 

Al di fuori delle ipotesi previste dall'articolo 609-bis, l'ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui convivente, o il tutore che, con l'abuso dei poteri connessi alla sua posizione, compie atti sessuali con persona minore che ha compiuto gli anni sedici, è punito con la reclusione da tre a sei anni (2).

 

Non è punibile il minorenne che, al di fuori delle ipotesi previste nell'articolo 609-bis, compie atti sessuali con un minorenne che abbia compiuto gli anni tredici, se la differenza di età tra i soggetti non è superiore a tre anni.

 

Nei casi di minore gravità la pena è diminuita fino a due terzi.

 

Si applica la pena di cui all'articolo 609-ter, secondo comma, se la persona offesa non ha compiuto gli anni dieci [c.p. 734-bis; c.p.p. 392, 398] (3).

 

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(1) Numero così sostituito dall'art. 6, L. 6 febbraio 2006, n. 38.

Il testo precedentemente in vigore era il seguente: «2) non ha compiuto gli anni sedici, quando il colpevole sia l'ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest'ultimo, una relazione di convivenza.».

(2) Comma aggiunto dall'art. 6, L. 6 febbraio 2006, n. 38.

(3) Articolo aggiunto dall'art. 5, L. 15 febbraio 1996, n. 66 (Gazz. Uff. 20 febbraio 1996, n. 42). L'art. 16 della stessa legge, come modificato dall'art. 15, L. 3 agosto 1998, n. 269, ha così disposto: «1. L'imputato per i delitti di cui agli articoli 600-bis, secondo comma, 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies del codice penale è sottoposto, con le forme della perizia, ad accertamenti per l'individuazione di patologie sessualmente trasmissibili, qualora le modalità del fatto possano prospettare un rischio di trasmissione delle patologie medesime». Il delitto previsto in questo articolo, consumato o tentato, è attribuito al tribunale in composizione collegiale, ai sensi dell'art. 33-bis del codice di procedura penale, a decorrere dalla sua entrata in vigore. L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente articolo, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

 

 

Art. 609-octies.

Violenza sessuale di gruppo.

La violenza sessuale di gruppo consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all'articolo 609-bis.

 

Chiunque commette atti di violenza sessuale di gruppo è punito con la reclusione da sei a dodici anni.

 

La pena è aumentata se concorre taluna delle circostanze aggravanti previste dall'articolo 609-ter.

 

La pena è diminuita per il partecipante la cui opera abbia avuto minima importanza nella preparazione o nella esecuzione del reato. La pena è altresì diminuita per chi sia stato determinato a commettere il reato quando concorrono le condizioni stabilite dai numeri 3) e 4) del primo comma e dal terzo comma dell'articolo 112 [c.p. 734-bis; c.p.p. 392, 398] (1).

 

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(1) Articolo aggiunto dall'art. 9, L. 15 febbraio 1996, n. 66 (Gazz. Uff. 20 febbraio 1996, n. 42). L'art. 16 della stessa legge, come modificato dall'art. 15, L. 3 agosto 1998, n. 269, come modificato dall'art. 15, L. 3 agosto 1998, n. 269, ha così disposto: «1. L'imputato per i delitti di cui agli articoli 600-bis, secondo comma, 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies del codice penale è sottoposto, con le forme della perizia, ad accertamenti per l'individuazione di patologie sessualmente trasmissibili, qualora le modalità del fatto possano prospettare un rischio di trasmissione delle patologie medesime». Successivamente la Corte costituzionale, con sentenza 13-26 luglio 2005, n. 325 (Gazz. Uff. 3 agosto 2005, n. 31 - Prima serie speciale), ha dichiarato non fondata la questione di legittimità del presente articolo in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, Cost. L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente articolo, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

 

 

Art. 630.

Sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione (1)

Chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione, è punito con la reclusione da venticinque a trenta anni (2).

 

Se dal sequestro deriva comunque la morte, quale conseguenza non voluta dal reo, della persona sequestrata, il colpevole è punito con la reclusione di anni trenta (3).

 

Se il colpevole cagiona la morte del sequestrato si applica la pena dell'ergastolo (4).

 

Al concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera in modo che il soggetto passivo riacquisti la libertà, senza che tale risultato sia conseguenza del prezzo della liberazione, si applicano le pene previste dall'articolo 605. Se tuttavia il soggetto passivo muore, in conseguenza del sequestro, dopo la liberazione, la pena è della reclusione da sei a quindici anni.

 

Nei confronti del concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera, al di fuori del caso previsto dal comma precedente, per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiuta concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l'individuazione o la cattura dei concorrenti, la pena dell'ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dodici a venti anni e le altre pene sono diminuite da un terzo a due terzi.

 

Quando ricorre una circostanza attenuante, alla pena prevista dal secondo comma è sostituita la reclusione da venti a ventiquattro anni; alla pena prevista dal terzo comma è sostituita la reclusione da ventiquattro a trenta anni. Se concorrono più circostanze attenuanti, la pena da applicare per effetto delle diminuzioni non può essere inferiore a dieci anni, nell'ipotesi prevista dal secondo comma, ed a quindici anni, nell'ipotesi prevista dal terzo comma.

 

I limiti di pena preveduti nel comma precedente possono essere superati allorché ricorrono le circostanze attenuanti di cui al quinto comma del presente articolo (5).

 

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(1) Vedi la L. 26 novembre 1985, n. 718, di ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale contro la cattura degli ostaggi, aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979; l'art. 1, primo comma e l'art. 7, D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, in L. 15 marzo 1991, n. 82, in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia.

Aumenti di pena per questo reato sono previsti dall'art. 1, L. 25 marzo 1985, n. 107, sulla repressione dei reati contro le persone internazionalmente protette. Le pene stabilite per i delitti previsti in questo articolo sono aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione (art. 7, L. 31 maggio 1965, n. 575, recante disposizioni contro la mafia, come modificato dall'art. 7, L. 11 agosto 2003, n. 228). L'art. 2, D.L. 13 maggio 1991, n. 152, dispone, inoltre, che i condannati per il delitto previsto nel presente articolo sono esclusi dal beneficio della liberazione condizionale.

(2) L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente comma, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

(3) L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente comma, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge.

(4) L'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti previsti dal presente comma, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1 della stessa legge. La Corte costituzionale, con sentenza 10-16 maggio 1984, n. 143 (Gazz. Uff. 23 maggio 1984, n. 141), ha dichiarato, tra l'altro: a) inammissibile la questione di legittimità, in parte qua, del presente comma, in riferimento all'art. 27, terzo comma, Cost.; b) non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità, in parte qua, del presente comma, in riferimento all'art. 3 Cost.

(5) Articolo, da ultimo, così sostituito dall'articolo unico, L. 30 dicembre 1980, n. 894. Il delitto previsto in questo articolo, consumato o tentato, è attribuito al tribunale in composizione collegiale, ai sensi dell'art. 33-bis del codice di procedura penale, a decorrere dalla sua entrata in vigore. Vedi, anche, l'art. 12-sexies, D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge, con modificazioni, con L. 7 agosto 1992, n. 356.

 

 


 

Legge 5 agosto 1978, n. 468.
Riforma di alcune norme di contabilità generale dello Stato in materia di bilancio
(artt. 7 e 11-ter)

 

 

(1) (2) (3)

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(1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 22 agosto 1978, n. 233.

(2) Vedi, anche, il D.Lgs. 7 agosto 1997, n. 279.

(3) Con riferimento al presente provvedimento sono state emanate le seguenti istruzioni:

- Ministero del lavoro e della previdenza sociale: Circ. 6 febbraio 1998, n. 16/98;

- Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica: Circ. 15 maggio 1998, n. 44; Circ. 2 agosto 1999, n. 42; Circ. 3 aprile 2000, n. 17; Circ. 27 marzo 2001, n. 19; Circ. 20 marzo 2001, n. 16;

- Ministero del tesoro: Circ. 16 dicembre 1996, n. 223057; Circ. 26 maggio 1997, n. 149569; Circ. 2 giugno 1997, n. 42; Circ. 22 agosto 1997, n. 65; Circ. 25 settembre 1997, n. 191614; Circ. 22 gennaio 1998, n. 4;

- Ministero dell'economia e delle finanze: Circ. 16 ottobre 2001, n. 33; Circ. 25 marzo 2002, n. 15; Circ. 15 novembre 2002, n. 35; Circ. 26 febbraio 2003, n. 11; Circ. 31 marzo 2003, n. 18; Circ. 2 aprile 2003, n. 22; Ris. 2 dicembre 2003, n. 216/E; Circ. 5 febbraio 2004, n. 6; Circ. 5 aprile 2004, n. 11; Circ. 5 aprile 2004, n. 12; Circ. 7 aprile 2005, n. 13;

- Ministero dell'interno: Circ. 12 dicembre 1998, n. F.L.35/98;

- Ministero della pubblica istruzione: Circ. 24 maggio 1996, n. 202; Circ. 15 luglio 1996, n. 345; Circ. 20 gennaio 1998, n. 23;

- Ministero delle finanze: Circ. 15 ottobre 1997, n. 265/P; Circ. 16 marzo 1998, n. 86/D;

- Ministero per i beni culturali e ambientali: Circ. 29 aprile 1997, n. 7;

- Presidenza del Consiglio dei Ministri: Circ. 24 agosto 1998, n. DIE/ARE/1/3123; Circ. 25 settembre 1998, n. DIE/ARE/1/3484;

- Ragioneria generale dello Stato: Circ. 18 marzo 1996, n. 27; Circ. 6 giugno 1996, n. 46; Circ. 21 marzo 1997, n. 22; Circ. 28 marzo 1997, n. 26.

(omissis)

Art. 7

Fondo di riserva per le spese obbligatorie e di ordine.

Nello stato di previsione della spesa del Ministero del tesoro è istituito, nella parte corrente, un «Fondo di riserva per le spese obbligatorie e d'ordine» le cui dotazioni sono annualmente determinate, con apposito articolo, dalla legge di approvazione del bilancio.

 

Con decreti del Ministro del tesoro, da registrarsi alla Corte dei conti, sono trasferite dal predetto fondo ed iscritte in aumento sia delle dotazioni di competenza che di cassa dei competenti capitoli le somme necessarie:

 

1) per il pagamento dei residui passivi di parte corrente, eliminati negli esercizi precedenti per perenzione amministrativa, [in caso di richiesta da parte degli aventi diritto, con reiscrizione ai capitoli di provenienza, ovvero a capitoli di nuova istituzione nel caso in cui quello di provenienza sia stato nel frattempo soppresso] (41);

 

2) per aumentare gli stanziamenti dei capitoli di spesa aventi carattere obbligatorio o connessi con l'accertamento e la riscossione delle entrate.

 

Allo stato di previsione della spesa del Ministero del tesoro è allegato l'elenco dei capitoli di cui al precedente numero 2), da approvarsi, con apposito articolo, dalla legge di approvazione del bilancio.

 

 

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(41)  Le parole tra parentesi quadre sono state abrogate dall'art. 6, D.P.R. 24 aprile 2001, n. 270.

(omissis)

Art. 11-ter

Copertura finanziaria delle leggi.

1. In attuazione dell'articolo 81, quarto comma, della Costituzione, ciascuna legge che comporti nuove o maggiori spese indica espressamente, per ciascun anno e per ogni intervento da essa previsto, la spesa autorizzata, che si intende come limite massimo di spesa, ovvero le relative previsioni di spesa, definendo una specifica clausola di salvaguardia per la compensazione degli effetti che eccedano le previsioni medesime. La copertura finanziaria delle leggi che importino nuove o maggiori spese, ovvero minori entrate, è determinata esclusivamente attraverso le seguenti modalità (57):

 

a) mediante utilizzo degli accantonamenti iscritti nei fondi speciali previsti dall'articolo 11-bis, restando precluso sia l'utilizzo di accantonamenti del conto capitale per iniziative di parte corrente, sia l'utilizzo per finalità difformi di accantonamenti per regolazioni contabili e per provvedimenti in adempimento di obblighi internazionali;

 

b) mediante riduzione di precedenti autorizzazioni legislative di spesa; ove dette autorizzazioni fossero affluite in conti correnti o in contabilità speciali presso la Tesoreria statale, si procede alla contestuale iscrizione nello stato di previsione della entrata delle risorse da utilizzare come copertura;

 

c) [a carico o mediante riduzione di disponibilità formatesi nel corso dell'esercizio sui capitoli di natura non obbligatoria, con conseguente divieto, nel corso dello stesso esercizio, di variazioni volte ad incrementare i predetti capitoli. Ove si tratti di oneri continuativi pluriennali, nei due esercizi successivi al primo, lo stanziamento di competenza dei suddetti capitoli, detratta la somma utilizzata come copertura, potrà essere incrementato in misura non superiore al tasso di inflazione programmato in sede di relazione previsionale e programmatica. A tale forma di copertura si può fare ricorso solo dopo che il Governo abbia accertato, con la presentazione del disegno di legge di assestamento del bilancio, che le disponibilità esistenti presso singoli capitoli non debbano essere utilizzate per far fronte alle esigenze di integrazione di altri stanziamenti di bilancio che in corso di esercizio si rivelino sottostimati. In nessun caso possono essere utilizzate per esigenze di altra natura le economie che si dovessero realizzare nella categoria «interessi» e nei capitoli di stipendi del bilancio dello Stato. Le facoltà di cui agli articoli 9 e 12, primo comma, non possono essere esercitate per l'iscrizione di somme a favore di capitoli le cui disponibilità siano state in tutto o in parte utilizzate per la copertura di nuove o maggiori spese disposte con legge] (58);

 

d) mediante modificazioni legislative che comportino nuove o maggiori entrate; resta in ogni caso esclusa la copertura di nuove e maggiori spese correnti con entrate in conto capitale.

 

2. I disegni di legge, gli schemi di decreto legislativo e gli emendamenti di iniziativa governativa che comportino conseguenze finanziarie devono essere corredati da una relazione tecnica, predisposta dalle amministrazioni competenti e verificata dal Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica sulla quantificazione delle entrate e degli oneri recati da ciascuna disposizione, nonché delle relative coperture, con la specificazione, per la spesa corrente e per le minori entrate, degli oneri annuali fino alla completa attuazione delle norme e, per le spese in conto capitale, della modulazione relativa agli anni compresi nel bilancio pluriennale e dell'onere complessivo in relazione agli obiettivi fisici previsti. Nella relazione sono indicati i dati e i metodi utilizzati per la quantificazione, le loro fonti e ogni elemento utile per la verifica tecnica in sede parlamentare secondo le norme da adottare con i regolamenti parlamentari (59).

 

3. Le Commissioni parlamentari competenti possono richiedere al Governo la relazione di cui al comma 2 per tutte le proposte legislative e gli emendamenti al loro esame ai fini della verifica tecnica della quantificazione degli oneri da essi recati.

 

4. I disegni di legge di iniziativa regionale e del CNEL devono essere corredati, a cura dei proponenti, da una relazione tecnica formulata nei modi previsti dal comma 2.

 

5. Per le disposizioni legislative in materia pensionistica la relazione di cui ai commi 2 e 3 contiene un quadro analitico di proiezioni finanziarie almeno decennali, riferite all'andamento delle variabili collegate ai soggetti beneficiari. Per le disposizioni legislative in materia di pubblico impiego la relazione contiene i dati sul numero dei destinatari, sul costo unitario, sugli automatismi diretti e indiretti che ne conseguono fino alla loro completa attuazione, nonché sulle loro correlazioni con lo stato giuridico ed economico di categorie o fasce di dipendenti pubblici omologabili. Per le disposizioni legislative recanti oneri a carico dei bilanci di enti appartenenti al settore pubblico allargato la relazione riporta la valutazione espressa dagli enti interessati.

 

6. Ogni quattro mesi la Corte dei conti trasmette al Parlamento una relazione sulla tipologia delle coperture adottate nelle leggi approvate nel periodo considerato e sulle tecniche di quantificazione degli oneri. La Corte riferisce, inoltre, su richiesta delle Commissioni parlamentari competenti nelle modalità previste dai Regolamenti parlamentari, sulla congruenza tra le conseguenze finanziarie dei decreti legislativi e le norme di copertura recate dalla legge di delega (60).

 

6-bis. Le disposizioni che comportano nuove o maggiori spese hanno effetto entro i limiti della spesa espressamente autorizzata nei relativi provvedimenti legislativi. Con decreto dirigenziale del Ministero dell'economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale, è accertato l'avvenuto raggiungimento dei predetti limiti di spesa. Le disposizioni recanti espresse autorizzazioni di spesa cessano di avere efficacia a decorrere dalla data di pubblicazione del decreto per l'anno in corso alla medesima data (61).

 

6-ter. Per le Amministrazioni dello Stato, il Ministero dell'economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, anche attraverso gli uffici centrali del bilancio e le ragionerie provinciali dello Stato, vigila sulla corretta applicazione delle disposizioni di cui al comma 6-bis. Per gli enti ed organismi pubblici non territoriali gli organi interni di revisione e di controllo provvedono agli analoghi adempimenti di vigilanza e segnalazione al Parlamento e al Ministero dell'economia e delle finanze (62).

 

7. Qualora nel corso dell'attuazione di leggi si verifichino o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alle previsioni di spesa o di entrata indicate dalle medesime leggi al fine della copertura finanziaria, il Ministro competente ne dà notizia tempestivamente al Ministro dell'economia e delle finanze, il quale, anche ove manchi la predetta segnalazione, riferisce al Parlamento con propria relazione e assume le conseguenti iniziative legislative. La relazione individua le cause che hanno determinato gli scostamenti, anche ai fini della revisione dei dati e dei metodi utilizzati per la quantificazione degli oneri autorizzati dalle predette leggi. Il Ministro dell'economia e delle finanze può altresì promuovere la procedura di cui al presente comma allorché riscontri che l'attuazione di leggi rechi pregiudizio al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica indicati dal Documento di programmazione economico-finanziaria e da eventuali aggiornamenti, come approvati dalle relative risoluzioni parlamentari. La stessa procedura è applicata in caso di sentenze definitive di organi giurisdizionali e della Corte costituzionale recanti interpretazioni della normativa vigente suscettibili di determinare maggiori oneri (63) (64).

 

 

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(57)  Alinea così modificato dal comma 1 dell'art. 1, D.L. 6 settembre 2002, n. 194, come sostituito dalla relativa legge di conversione

(58)  Lettera abrogata dall'art. 1-bis, D.L. 20 giugno 1996, n. 323, nel testo aggiunto dalla relativa legge di conversione.

(59)  Comma così modificato dall'art. 3, L. 25 giugno 1999, n. 208.

(60)  Comma così modificato dall'art. 13, L. 29 luglio 2003, n. 229.

(61)  Comma aggiunto dal comma 1 dell'art. 1, D.L. 6 settembre 2002, n. 194, come sostituito dalla relativa legge di conversione. In attuazione di quanto disposto dal presente comma vedi il Decr. 5 maggio 2003, il Decr. 15 luglio 2003 e il Decr. 1° giugno 2006.

(62)  Comma aggiunto dal comma 1 dell'art. 1, D.L. 6 settembre 2002, n. 194, come sostituito dalla relativa legge di conversione.

(63)  Comma così modificato dal comma 2 dell'art. 1, D.L. 6 settembre 2002, n. 194, come modificato dalla relativa legge di conversione.

(64)  Articolo aggiunto dall'art. 7, L. 23 agosto 1988, n. 362 (Gazz. Uff. 25 agosto 1988, n. 199, S.O.).

(omissis)

 


 

Legge 14 marzo 1985, n. 132.
Ratifica ed esecuzione della Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979


 

(1) (2)

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(1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 15 aprile 1985, n. 89, S.O.

(2)  Si riporta soltanto il testo della traduzione non ufficiale.

(omissis)

 

Art. 1

Il Presidente della Repubblica è autorizzato a ratificare la Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979.

 

 

Art. 2

Piena ed intera esecuzione è data alla Convenzione di cui all'articolo precedente a decorrere dalla sua entrata in vigore in conformità all'articolo 27 della convenzione stessa.

 

Traduzione non ufficiale

 

CONVENZIONE

sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna

 

Gli Stati parte della presente Convenzione,

 

Visto lo Statuto delle Nazioni Unite che riafferma la fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana e nella eguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna;

 

Vista la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo che afferma il principio della non discriminazione e dichiara che tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritto e che a ciascuno spettano tutti i diritti e tutte le libertà ivi enunciate senza distinzione alcuna, in particolare basata sul sesso;

 

Visto che gli Stati firmatari dei Patti internazionali sui diritti dell'uomo hanno il dovere di garantire l'uguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna nell'esercizio di tutti i diritti economici, sociali, culturali, civili e politici;

 

Considerate le Convenzioni internazionali concluse sotto l'egida dell'Organizzazione delle Nazioni Unite e degli Istituti specializzati al fine di promuovere l'uguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna;

 

Tenute altresì presenti le risoluzioni, dichiarazioni e raccomandazioni adottate dall'Organizzazione delle Nazioni Unite e dagli Istituti specializzati al fine di promuovere l'uguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna;

 

Preoccupati tuttavia di constatare che nonostante l'esistenza di tali strumenti le donne continuano ad essere oggetto di gravi discriminazioni;

 

Ricordando che la discriminazione nei confronti della donna viola i princìpi dell'eguaglianza dei diritti e del rispetto della dignità umana, ostacola la partecipazione della donna, alle stesse condizioni dell'uomo, alla vita politica, sociale, economica e culturale del suo paese, rende più difficoltosa la crescita del benessere della società e della famiglia ed impedisce alle donne di servire il loro paese e l'umanità tutta nella misura della loro possibilità;

 

Preoccupati del fatto che, nelle zone di povertà, le donne non accedono che in misura minima agli alimenti, ai servizi medici, alla educazione, alla formazione, alle possibilità di impiego ed alla soddisfazione di altre necessità;

 

Convinti che l'instaurazione di un nuovo ordine economico internazionale basato sull'equità e sulla giustizia contribuirà in maniera significativa a promuovere l'uguaglianza tra l'uomo e la donna;

 

Sottolineando che l'eliminazione dell'apartheid, di ogni forma di razzismo, di discriminazione razziale, di colonialismo, di neo-colonialismo, d'aggressione, d'occupazione e dominio straniero o ingerenza negli affari interni degli Stati è indispensabile perché uomini e donne possano pienamente godere dei loro diritti;

 

Affermando che il rafforzamento della pace e della sicurezza internazionali, l'attenuarsi della tensione internazionale, la cooperazione tra tutti gli Stati, indipendentemente dai loro sistemi sociali ed economici, il disarmo generale e completo e, in particolare, il disarmo nucleare sotto controllo internazionale rigoroso ed efficace, l'affermazione dei princìpi della giustizia, dell'uguaglianza e del reciproco interesse nelle relazioni tra paesi, nonché la realizzazione del diritto dei popoli soggetti a dominio straniero e coloniale o ad occupazione straniera all'autodeterminazione e all'indipendenza, il rispetto della sovranità nazionale e dell'integrità territoriale favoriranno il progresso sociale e lo sviluppo e contribuiranno di conseguenza alla realizzazione della piena parità tra uomo e donna;

 

Convinti che lo sviluppo completo di un paese, il benessere del mondo intero e la causa della pace esigono la partecipazione totale delle donne, in condizioni di parità con l'uomo, in tutti i campi;

 

Tenendo presente l'importanza del contributo delle donne al benessere della famiglia ed al progresso della società, che finora non è stato pienamente riconosciuto, l'importanza del ruolo sociale della maternità e del ruolo dei genitori nella famiglia e nell'educazione dei figli, e consapevoli del fatto che il ruolo procreativo della donna non deve essere all'origine di discriminazioni e che l'educazione dei fanciulli richiede una suddivisione di responsabilità tra uomini, donne e società nel suo insieme;

 

Consapevoli che il ruolo tradizionale dell'uomo nella famiglia e nella società deve evolversi insieme a quello della donna se si vuole effettivamente addivenire ad una reale parità tra uomo e donna;

 

Risoluti a mettere in opera i princìpi enunciati nella Dichiarazione sull'eliminazione della discriminazione nei confronti della donna e, a questo fine, ad adottare le misure necessarie a sopprimere tale discriminazione in ogni sua forma e ogni sua manifestazione;

 

Convengono quanto segue:

 

PRIMA PARTE

 

Art. 1

Ai fini della presente Convenzione, l'espressione «discriminazione nei confronti della donna» concerne ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, di compromettere o distruggere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, da parte delle donne quale che sia il loro stato matrimoniale, dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo, su una base di parità tra l'uomo e la donna.

 

 

Art. 2

Gli Stati parte condannano la discriminazione nei confronti della donna in ogni sua forma, convengono di perseguire, con ogni mezzo appropriato e senza indugio, una politica tendente ad eliminare la discriminazione nei confronti della donna e, a questo scopo, si impegnano a:

 

a) iscrivere nella loro Costituzione nazionale, o in ogni altra disposizione legislativa appropriata, il principio dell'uguaglianza tra uomo e donna, se questo non è ancora stato fatto, e garantire per mezzo della legge, o con ogni altro mezzo appropriato, l'applicazione effettiva del suddetto principio;

 

b) adottare tutte le misure legislative e ogni altro mezzo adeguato, comprese, se necessario, le sanzioni tendenti a proibire ogni discriminazione nei confronti delle donne;

 

c) instaurare una protezione giuridica dei diritti delle donne su un piede di parità con gli uomini al fine di garantire, attraverso i tribunali nazionali competenti ed altre istanze pubbliche, l'effettiva protezione delle donne da ogni atto discriminatorio;

 

d) astenersi da qualsiasi atto o pratica discriminatoria nei confronti della donna ed agire in maniera da indurre autorità ed enti pubblici a conformarsi a tale obbligo;

 

e) prendere ogni misura adeguata per eliminare la discriminazione praticata nei confronti della donna da persone, organizzazioni o enti di ogni tipo;

 

 

f) prendere ogni misura adeguata, comprese le disposizioni di legge, per modificare o abrogare ogni legge, disposizione, regolamento, consuetudine o pratica che costituisca discriminazione nei confronti della donna;

 

g) abrogare tutte le disposizioni penali che costituiscono discriminazione nei confronti della donna.

 

 

Art. 3

Gli Stati parte prendono in ogni campo, ed in particolare nei campi politico, sociale, economico e culturale, ogni misura adeguata, incluse le disposizioni legislative, al fine di assicurare il pieno sviluppo ed il progresso delle donne e garantire loro, su una base di piena parità con gli uomini, l'esercizio e il godimento dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

 

 

Art. 4

1. L'adozione, da parte degli Stati, di misure temporanee speciali, tendenti ad accelerare il processo di instaurazione di fatto dell'eguaglianza tra gli uomini e le donne non è considerato atto discriminatorio, secondo la definizione della presente Convenzione, ma non deve assolutamente dar luogo al permanere di norme ineguali o distinte; le suddette misure devono essere abrogate non appena gli obiettivi in materia di uguaglianza, di opportunità e di trattamento, siano raggiunti.

 

2. L'adozione da parte degli Stati di misure speciali, comprese le misure previste dalla presente Convenzione, tendenti a proteggere la maternità non è considerato un atto discriminatorio.

 

 

Art. 5

Gli Stati parte prendono ogni misura adeguata:

 

a) al fine di modificare gli schemi e i modelli di comportamento socio-culturale degli uomini e delle donne e giungere ad una eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere, che siano basate sulla convinzione dell'inferiorità o della superiorità dell'uno o dell'altro sesso o sull'idea di ruoli stereotipati degli uomini e delle donne;

 

b) al fine di far sì che l'educazione familiare contribuisca alla comprensione del fatto che la maternità è una funzione sociale e che uomini e donne hanno responsabilità comuni nella cura di allevare i figli e di assicurare il loro sviluppo, restando inteso che l'interesse dei figli è in ogni caso la considerazione principale.

 

 

Art. 6

Gli Stati parte prendono ogni misura adeguata, comprese le disposizioni legislative, per reprimere, in ogni sua forma, il traffico e lo sfruttamento della prostituzione delle donne.

SECONDA PARTE

 

Art. 7

Gli Stati parte prendono ogni misura adeguata ad eliminare la discriminazione nei confronti delle donne nella vita politica e pubblica del paese e, in particolare, assicurano loro, in condizioni di parità con gli uomini, il diritto:

 

a) di votare in tutte le elezioni ed in tutti i referendum pubblici e di essere eleggibili in tutti gli organi pubblicamente eletti;

 

b) di prendere parte all'elaborazione della politica dello Stato ed alla sua esecuzione, di occupare gli impieghi pubblici e di esercitare tutte le funzioni pubbliche ad ogni livello di governo;

 

c) di partecipare alle organizzazioni ed associazioni non governative che si occupano della vita pubblica e politica del paese.

 

 

Art. 8

Gli Stati parte prendono ogni misura adeguata affinché le donne, in condizione di parità con gli uomini e senza discriminazione alcuna, abbiano la possibilità di rappresentare i loro governi a livello internazionale e di partecipare ai lavori delle organizzazioni internazionali.

 

 

Art. 9

1. Gli Stati parte accordano alle donne diritti uguali a quelli degli uomini in materia di acquisto, mutamento e conservazione della cittadinanza. In particolare, garantiscono che né il matrimonio con uno straniero, né il mutamento di cittadinanza del marito nel corso del matrimonio possa influire automaticamente sulla cittadinanza della moglie, sia rendendola apolide sia trasmettendole la cittadinanza del marito.

 

2. Gli Stati parte accordano alla donna diritti uguali a quelli dell'uomo in merito alla cittadinanza dei loro figli.

 

 

TERZA PARTE

 

Art. 10

Gli Stati parte prendono tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti delle donne al fine di assicurare loro gli stessi diritti degli uomini per quanto concerne l'educazione e, in particolare, per garantire, su basi uguali tra l'uomo e la donna:

 

a) le medesime condizioni di orientamento professionale, accesso agli studi e conseguimento dei titoli di studio negli istituti di insegnamento di ogni ordine e grado, tanto nelle zone rurali che nelle zone urbane. L'uguaglianza deve essere garantita sia nell'insegnamento pre-scolastico, generale, tecnico, professionale e superiore, sia in ogni altro ambito di formazione professionale;

 

b) l'accesso agli stessi programmi, agli stessi esami, ad un personale docente avente le qualifiche dello stesso grado, a locali scolastici e ad attrezzature della medesima qualità;

 

c) l'eliminazione di ogni concezione stereotipata dei ruoli dell'uomo e della donna a tutti i livelli ed in ogni forma di insegnamento, incoraggiando l'educazione mista e altri tipi di educazione che tendano a realizzare tale obiettivo e, in particolare, rivedendo i testi ed i programmi scolastici ed adattando i metodi pedagogici in conformità;

 

d) le medesime possibilità nel campo della concessione di borse e altre sovvenzioni di studio;

 

e) le medesime possibilità di accesso ai programmi di educazione permanente, compresi i programmi di alfabetizzazione per adulti e di alfabetizzazione funzionale, in particolare allo scopo di ridurre nel più breve tempo la differenza di livello di istruzione che oggi esiste tra uomini e donne;

 

f) la riduzione del tasso d'abbandono femminile degli studi e l'organizzazione di programmi di recupero per le bambine e le donne che hanno abbandonato prematuramente la scuola;

 

g) le medesime possibilità di partecipare attivamente agli sports e all'educazione fisica;

 

h) l'accesso alle specifiche informazioni di carattere educativo tendenti a garantire la salute ed il benessere familiare, comprese le informazioni ed i consigli relativi alla pianificazione familiare.

 

 

Art. 11

1. Gli Stati parte si impegnano a prendere ogni misura adeguata al fine di eliminare la discriminazione nei confronti della donna nel campo dell'impiego ed assicurare, sulla base della parità tra uomo e donna, gli stessi diritti, in particolare:

 

a) il diritto al lavoro, che è diritto inalienabile di ogni essere umano;

 

b) il diritto ad usufruire delle medesime opportunità di impiego, inclusa l'adozione dei medesimi criteri in materia di selezione nel campo dell'impiego;

 

c) il diritto alla libera scelta della professione e dell'impiego, il diritto alla promozione, alla stabilità dell'impiego ed a tutte le prestazioni e condizioni di lavoro, il diritto alla formazione professionale ed all'aggiornamento, compreso l'apprendistato, il perfezionamento professionale e la formazione permanente;

 

d) il diritto alla parità di remunerazione, comprese le prestazioni, ed all'uguaglianza di trattamento per un lavoro di eguale valore, nonché il diritto all'uguaglianza di trattamento nel campo della valutazione della qualità del lavoro;

 

e) il diritto alla sicurezza sociale, alle prestazioni di pensionamento, di disoccupazione, di malattia, di invalidità e di vecchiaia e per ogni altra perdita di capacità lavorativa, nonché il diritto alle ferie pagate;

 

f) il diritto alla tutela della salute ed alla sicurezza delle condizioni di lavoro, inclusa la tutela della funzione riproduttiva.

 

2. Per prevenire la discriminazione nei confronti delle donne a causa del loro matrimonio o della loro maternità e garantire il loro diritto effettivo al lavoro, gli Stati parte si impegnano a prendere misure appropriate tendenti a:

 

a) proibire, sotto pena di sanzione, il licenziamento per causa di gravidanza o di congedo di maternità e la discriminazione nei licenziamenti fondata sullo stato matrimoniale;

 

b) istituire la concessione di congedi di maternità pagati o che diano diritto a prestazioni sociali corrispondenti, con la garanzia del mantenimento dell'impiego precedente, dei diritti di anzianità e dei vantaggi sociali;

 

c) incoraggiare l'istituzione di servizi sociali di sostegno necessari affinché i genitori possano conciliare i loro obblighi familiari con le responsabilità professionali e la partecipazione alla vita pubblica, in particolare favorendo l'istituzione e lo sviluppo di una rete di asili-nido;

 

d) assicurare una protezione speciale alle donne incinte per le quali è stato dimostrato che il lavoro è nocivo.

 

3. Le leggi di tutela della donna, nei settori considerati dal presente articolo, saranno riviste periodicamente in funzione delle conoscenze scientifiche e tecniche e saranno sottoposte a revisione, abrogazione o rinnovo, a seconda delle necessità.

 

 

Art. 12

1. Gli Stati parte prenderanno tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti delle donne nel campo delle cure sanitarie al fine di assicurare loro, in condizione di parità con gli uomini, i mezzi per accedere ai servizi sanitari, compresi quelli che si riferiscono alla pianificazione familiare.

 

2. Nonostante quanto disposto nel paragrafo 1 del presente articolo, gli Stati parte forniranno alle donne, durante la gravidanza, al momento del parto e dopo il parto, i servizi appropriati e, se necessario, gratuiti, ed una alimentazione adeguata sia durante la gravidanza che durante l'allattamento.

 

 

Art. 13

Gli Stati parte si impegnano a prendere tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti delle donne negli altri campi della vita economica e sociale, al fine di assicurare, sulla base dell'uguaglianza tra l'uomo e la donna, i medesimi diritti ed in particolare:

 

a) il diritto agli assegni familiari;

 

b) il diritto ad ottenere prestiti bancari, prestiti ipotecari ed altre forme di credito finanziario;

 

c) il diritto di partecipare alle attività ricreative, agli sports ed a tutte le forme di vita culturale.

 

 

Art. 14

1. Gli Stati parte tengono conto dei problemi particolari che sono propri alle donne delle zone rurali e del ruolo importante che queste donne hanno per la sopravvivenza economica delle loro famiglie, particolarmente grazie al loro lavoro nei settori non monetari dell'economia, e prendono ogni misura adeguata per garantire l'applicazione delle disposizioni della presente Convenzione alle donne delle zone rurali.

 

2. Gli Stati parte prendono ogni misura adeguata per eliminare la discriminazione nei confronti delle donne nelle zone rurali al fine di assicurare, su base di parità tra uomo e donna, la loro partecipazione allo sviluppo rurale ed ai suoi benefìci, in particolare garantendo loro il diritto:

 

a) di partecipare pienamente all'elaborazione ed all'esecuzione dei piani di sviluppo ad ogni livello;

 

b) di poter accedere ai servizi appropriati nel campo della sanità, comprese le informazioni, i consigli ed i servizi in materia di pianificazione familiare;

 

c) di beneficiare direttamente dei programmi di sicurezza sociale;

 

d) di ricevere ogni tipo di formazione e di educazione, scolastica e non, compresi i programmi di alfabetizzazione funzionale e di poter beneficiare di tutti i servizi comunitari e di volgarizzazione, anche per accrescere le loro competenze tecniche;

 

e) di organizzare gruppi di mutuo soccorso e cooperative, al fine di consentire l'uguaglianza di opportunità nel campo economico sia per il lavoro salariato sia per il lavoro autonomo;

 

f) di partecipare ad ogni attività comunitaria;

 

g) d'aver accesso al credito ed ai prestiti agricoli, ai servizi di commercializzazione ed alle tecnologie adeguate; nonché di ricevere un trattamento eguale nelle riforme fondiarie ed agrarie e nei progetti di pianificazione rurale;

 

h) di beneficiare di condizioni di vita decenti, in particolare per quanto concerne l'alloggio, il risanamento, la fornitura dell'acqua e dell'elettricità, i trasporti e le comunicazioni.

 

 

QUARTA PARTE

 

Art. 15

1. Gli Stati parte riconoscono alla donna la parità con l'uomo di fronte alla legge.

 

2. Gli Stati parte riconoscono alla donna, in materia civile, una capacità giuridica identica a quella dell'uomo e le medesime possibilità di esercitare tale capacità. Le riconoscono in particolare diritti eguali per quanto concerne la conclusione di contratti e l'amministrazione dei beni, accordandole il medesimo trattamento in tutti gli stadi del procedimento giudiziario.

 

3. Gli Stati parte convengono che ogni contratto e ogni altro strumento privato, di qualunque tipo esso sia, avente un effetto giuridico diretto a limitare la capacità giuridica della donna, deve essere considerato nullo.

 

4. Gli Stati parte riconoscono all'uomo e alla donna i medesimi diritti nel campo della legislazione relativa al diritto che ogni individuo ha di circolare liberamente e di scegliere la propria residenza ed il domicilio.

 

 

Art. 16

1. Gli Stati parte prendono tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari e, in particolare, assicurano, in condizioni di parità con gli uomini: 

a) lo stesso diritto di contrarre matrimonio;

 

b) lo stesso diritto di scegliere liberamente il proprio congiunto e di contrarre matrimonio soltanto con libero e pieno consenso;

 

c) gli stessi diritti e le stesse responsabilità nell'ambito del matrimonio ed all'atto del suo scioglimento;

 

d) gli stessi diritti e le stesse responsabilità come genitori, indipendentemente dalla situazione matrimoniale, nelle questioni che si riferiscono ai figli. In ogni caso, l'interesse dei figli sarà la considerazione preminente;

 

e) gli stessi diritti di decidere liberamente, e con cognizione di causa, il numero e l'intervallo delle nascite e di accedere alle informazioni, all'educazione ed ai mezzi necessari per esercitare tali diritti;

 

f) i medesimi diritti e responsabilità in materia di tutela, curatela, affidamento ed adozione di minori, o simili istituti, allorché questi esistano nella legislazione nazionale. In ogni caso, l'interesse dei fanciulli sarà la considerazione preminente; 

 

g) gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome, di una professione o di una occupazione;

 

h) gli stessi diritti ad ambedue i coniugi in materia di proprietà, di acquisizione, gestione, amministrazione, godimento e disponibilità dei beni, tanto a titolo gratuito quanto oneroso.

 

2. I fidanzamenti e i matrimoni tra fanciulli non avranno effetti giuridici e tutte le misure necessarie, comprese le disposizioni legislative, saranno prese al fine di fissare un'età minima per il matrimonio, rendendo obbligatoria l'iscrizione del matrimonio su un registro ufficiale.

 

 

QUINTA PARTE

 

Art. 17

1. Al fine di esaminare i progressi realizzati nell'applicazione della presente Convenzione, viene istituito un Comitato per l'eliminazione della discriminazione nei confronti della donna (qui di seguito detto il Comitato) composto, al momento dell'entrata in vigore della Convenzione, di 18, e dopo la ratifica o l'adesione del trentacinquesimo Stato parte, di 23 esperti di alta autorità morale ed eminentemente competenti nel campo nel quale si applica la presente Convenzione, eletti dagli Stati parte tra i loro cittadini e che siederanno a titolo personale, tenendo conto del principio di una equa ripartizione geografica e della rappresentatività delle diverse forme di cultura e dei principali sistemi giuridici.

 

2. I membri del Comitato sono eletti a scrutinio segreto su una lista di candidati designati dagli Stati parte. Ciascuno Stato parte può designare un candidato scelto tra i suoi cittadini.

 

3. La prima elezione ha luogo sei mesi dopo la data di entrata in vigore della presente Convenzione. Almeno tre mesi prima della data di ciascuna elezione, il Segretario Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite indirizza una lettera agli Stati parte per invitarli a proporre le loro candidature entro due mesi. Il Segretario Generale stabilisce un elenco in ordine alfabetico di tutti i candidati, con l'indicazione degli Stati dai quali sono stati designati, e comunica la lista degli Stati parte.

 

4. I membri del Comitato sono eletti nel corso di una riunione degli Stati parte convocata dal Segretario Generale nella sede dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. A questa riunione, dove il quorum è costituito dai due terzi degli Stati parte, vengono eletti membri del Comitato i candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti e la maggioranza assoluta dei voti dei rappresentanti degli Stati parte presenti e votanti.

 

5. I membri del Comitato sono eletti per quattro anni. Tuttavia, il mandato di nove dei membri eletti alla prima elezione terminerà dopo due anni. Il presidente estrarrà a sorte i nomi di questi nove membri immediatamente dopo la prima elezione.

 

6. L'elezione dei cinque membri aggiunti del Comitato verrà effettuata in conformità alle disposizioni contenute nei paragrafi 2, 3 e 4 del presente articolo, in seguito alla trentacinquesima ratifica o adesione. Il mandato di due dei membri aggiunti eletti in questa occasione terminerà dopo due anni. Il nome di questi due membri sarà estratto a sorte dal Presidente del Comitato.

 

7. Per coprire le vacanze fortuite, lo Stato parte il cui esperto ha cessato di esercitare le proprie funzioni di membro del Comitato nominerà un altro esperto tra i suoi cittadini, con riserva di approvazione da parte del Comitato.

 

8. I membri del Comitato riceveranno, con l'approvazione dell'Assemblea Generale, degli emolumenti prelevati dalle risorse dell'Organizzazione delle Nazioni Unite alle condizioni fissate dall'Assemblea considerata l'importanza delle funzioni del comitato.

 

9. Il Segretario Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite mette a disposizione del Comitato il personale ed i mezzi materiali necessari per l'espletamento efficace delle funzioni che gli sono affidate in virtù della presente Convenzione.

 

 

Art. 18

1. Gli Stati Parte si impegnano a presentare al Segretario Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, per esame da parte del Comitato, un rapporto sulle misure di ordine legislativo, giudiziario, amministrativo o di altro genere che hanno adottato per dar seguito alle disposizioni della presente Convenzione e sui progressi realizzati in merito:

 

a) durante l'anno seguente all'entrata in vigore della Convenzione nello Stato interessato;

 

b) quindi ogni quattro anni, ovvero su richiesta del Comitato.

 

2. I rapporti possono indicare i fattori e le difficoltà che influiscono sulle condizioni di applicazione degli obblighi previsti dalla presente Convenzione.

 

 

Art. 19

1. Il Comitato adotta il proprio regolamento interno.

 

2. Il Comitato elegge il proprio ufficio per un periodo di due anni.

 

 

Art. 20

1. Il Comitato si riunisce normalmente durante un periodo di due settimane, al massimo, ogni anno per esaminare i rapporti presentati in conformità all'art. 18 della presente Convenzione.

 

2. Le sessioni del Comitato hanno luogo normalmente nella sede dell'Organizzazione delle Nazioni Unite o in altro luogo adatto stabilito dal Comitato stesso.

 

 

Art. 21

1. Il Comitato rende conto ogni anno all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, attraverso il comitato economico e sociale delle Nazioni Unite, delle sue attività ed ha facoltà di formulare suggerimenti e raccomandazioni generali basati sull'esame dei rapporti e delle informazioni ricevuti dagli Stati parte. Questi suggerimenti e raccomandazioni sono inclusi nel rapporto del Comitato, accompagnati, se del caso, dalle osservazioni degli Stati parte.

 

2. Il Segretario Generale trasmette, per informazione, i rapporti del Comitato alla Commissione della condizione della donna.

 

 

Art. 22

Gli Istituti specializzati hanno diritto di essere rappresentati in occasione dell'esame dell'applicazione di ogni disposizione della presente Convenzione che rientri nell'ambito delle loro competenze. Il Comitato può invitare gli Istituti specializzati a presentare dei rapporti sulla applicazione della Convenzione nei campi che rientrano nell'ambito delle loro attività.

 

 

SESTA PARTE

 

Art. 23

Nessuna disposizione della presente Convenzione pregiudicherà le eventuali disposizioni più favorevoli a realizzare l'uguaglianza tra l'uomo e la donna già contenute:

 

a) nella legislazione di uno Stato parte, oppure

 

b) in ogni altra Convenzione, trattato o accordo internazionale in vigore in tale Stato.

 

 

Art. 24

Gli Stati parte si impegnano ad adottare ogni misura necessaria, sul piano nazionale, a garantire il pieno esercizio dei diritti riconosciuti nella presente Convenzione.

 

 

Art. 25

1. La presente Convenzione è aperta alla firma di tutti gli Stati.

 

2. Il Segretario Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite è designato come depositario della presente Convenzione.

 

3. La presente Convenzione è soggetta a ratifica e gli strumenti di ratifica saranno depositati presso il Segretario Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.

 

4. La presente Convenzione sarà aperta all'adesione di tutti gli Stati. L'adesione si effettuerà con il deposito degli strumenti di adesione presso il Segretario Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.

 

 

Art. 26

1. Ogni Stato parte può richiedere, in qualsiasi momento, la revisione della presente Convenzione indirizzando una comunicazione scritta in tale senso al Segretario Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.

 

2. L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite decide sulle misure da prendere, se del caso, in merito ad una richiesta di questo tipo.

 

 

Art. 27

1. La presente Convenzione entrerà in vigore il trentesimo giorno dalla data del deposito presso il Segretario Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite del ventesimo strumento di ratifica o di adesione.

 

2. Per ciascuno degli Stati che ratificheranno la presente Convenzione, o che vi aderiranno dopo il deposito del ventesimo strumento di ratifica o di adesione, la Convenzione entrerà in vigore dopo trenta giorni dalla data del deposito dello strumento di ratifica o d'adesione dello Stato medesimo.

 

 

Art. 28

1. Il Segretario Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite riceverà e comunicherà a tutti gli Stati il testo delle riserve che saranno fatte al momento della ratifica o dell'adesione.

 

2. Non sarà autorizzata nessuna riserva incompatibile con l'oggetto e lo scopo della presente Convenzione.

 

3. Le riserve potranno essere ritirate in qualsiasi momento per mezzo di notifica indirizzata al Segretario Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, che informerà tutti gli Stati parte della Convenzione. La notifica avrà effetto alla data di ricezione.

 

 

Art. 29

1. Ogni controversia tra due o più Stati parte concernente l'interpretazione o l'applicazione della presente Convenzione, che non sia regolata per via negoziale, sarà sottoposta ad arbitrato, a richiesta di una delle parti. Se nei sei mesi che seguono la data della domanda di arbitrato le parti non giungono ad un accordo sull'organizzazione dell'arbitrato, una qualsiasi delle parti può sottoporre la controversia alla Corte internazionale di giustizia, depositando una richiesta conforme allo statuto della Corte.

 

2. Ogni Stato parte potrà dichiarare, al momento della firma, della ratifica o dell'adesione alla presente Convenzione, che non si considera vincolato alle disposizioni del paragrafo 1 del presente articolo. Gli altri Stati parte non saranno vincolati dalle suddette disposizioni nei confronti di uno Stato parte che avrà formulato tali riserve.

 

3. Ogni Stato parte che avrà formulato una riserva in conformità alle disposizioni del paragrafo 2 del presente articolo, potrà, in qualsiasi momento, togliere tale riserva, per mezzo di una notifica indirizzata al Segretario Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.

 

 

Art. 30

La presente Convenzione, i cui testi inglese, arabo, cinese, spagnolo, francese e russo fanno ugualmente fede, sarà depositata presso il Segretario Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.

 

In fede di che i sottoscritti, debitamente autorizzati, hanno firmato la presente Convenzione.

 

 


 

Legge 23 agosto 1988, n. 400.
Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri
(art. 17)

 

 

(1) (2) (3)

----------------------------------------

 

(1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 12 settembre 1988, n. 214, S.O.

(2)  Vedi, anche, il D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 303.

(3)  Con riferimento al presente provvedimento sono state emanate le seguenti circolari:

- I.N.P.S. (Istituto nazionale previdenza sociale): Circ. 23 gennaio 1997, n. 13; Circ. 6 aprile 1998, n. 76;

- Ministero dei trasporti e della navigazione: Circ. 18 novembre 1996, n. 7;

- Ministero del lavoro e della previdenza sociale: Circ. 21 novembre 1996, n. 5/27319/70/OR;

- Ministero del tesoro: Circ. 6 agosto 1998, n. 70;

- Ministero delle finanze: Circ. 9 maggio 1996, n. 111/E; Circ. 13 agosto 1996, n. 199/E; Circ. 16 settembre 1996, n. 225/E; Circ. 31 dicembre 1996, n. 307/E; Circ. 28 maggio 1998, n. 134/E; Circ. 4 giugno 1998, n. 141/E; Circ. 26 giugno 1998, n. 168/E; Circ. 27 agosto 1998, n. 209/E;

- Ministero per i beni culturali e ambientali: Circ. 4 ottobre 1996, n. 117;

- Ministero della pubblica istruzione: Circ. 3 aprile 1996, n. 135; Circ. 3 aprile 1996, n. 133; Circ. 17 aprile 1996, n. 147; Circ. 3 ottobre 1996, n. 627; Circ. 17 ottobre 1996, n. 654; Circ. 16 dicembre 1996, n. 750; Circ. 19 febbraio 1998, n. 60;

- Presidenza del Consiglio dei Ministri: Circ. 27 marzo 1997, n. 62; Circ. 3 giugno 1997, n. 117; Circ. 18 giugno 1997, n. 116; Circ. 5 gennaio 1998, n. DIE/ARE/1/51; Circ. 30 gennaio 1998, n. DIE/ARE/1/452; Circ. 16 febbraio 1998, n. DIE/ARE/1/687; Circ. 5 marzo 1998, n. DIE/ARE/1/994; Circ. 5 marzo 1998, n. DIE/ARE/1/995; Circ. 12 marzo 1998, n. AGP/2/584/SF.49.2/CH; Circ. 19 marzo 1998, n. DIE/ARE/1/12.03; Circ. 14 maggio 1998, n. DIE/ARE/1/1942; Circ. 24 agosto 1998, n. DIE/ARE/1/3124; Circ. 25 settembre 1998, n. DIE/ARE/1/3484; Circ. 17 giugno 1998, n. AGP/1/2/2154/98/AR2.1; Circ. 5 maggio 1988, n. AGP/1/2/1531/98/AR.2.1; Circ. 2 maggio 2001, n. 1/1.1.26/10888/9.92;

- Presidenza del Consiglio dei Ministri: Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi: Circ. 17 febbraio 1999, n. DAGL041290/10.3.1;

- Presidenza del Consiglio dei Ministri: Dipartimento per la funzione pubblica e gli affari regionali: Circ. 27 novembre 1995, n. 22/95; Circ. 16 maggio 1996, n. 30692; Circ. 12 dicembre 1996, n. 610.

(omissis)

Art. 17

Regolamenti.

1. Con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di Stato che deve pronunziarsi entro novanta giorni dalla richiesta, possono essere emanati regolamenti per disciplinare:

 

a) l'esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi, nonché dei regolamenti comunitari (34);

 

b) l'attuazione e l'integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio, esclusi quelli relativi a materie riservate alla competenza regionale;

 

 

c) le materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge;

 

d) l'organizzazione ed il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge;

 

e) [l'organizzazione del lavoro ed i rapporti di lavoro dei pubblici dipendenti in base agli accordi sindacali] (35).

 

2. Con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio di Stato, sono emanati i regolamenti per la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le quali le leggi della Repubblica, autorizzando l'esercizio della potestà regolamentare del Governo, determinano le norme generali regolatrici della materia e dispongono l'abrogazione delle norme vigenti, con effetto dall'entrata in vigore delle norme regolamentari (36).

 

3. Con decreto ministeriale possono essere adottati regolamenti nelle materie di competenza del ministro o di autorità sottordinate al ministro, quando la legge espressamente conferisca tale potere. Tali regolamenti, per materie di competenza di più ministri, possono essere adottati con decreti interministeriali, ferma restando la necessità di apposita autorizzazione da parte della legge. I regolamenti ministeriali ed interministeriali non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo. Essi debbono essere comunicati al Presidente del Consiglio dei ministri prima della loro emanazione.

 

4. I regolamenti di cui al comma 1 ed i regolamenti ministeriali ed interministeriali, che devono recare la denominazione di «regolamento», sono adottati previo parere del Consiglio di Stato, sottoposti al visto ed alla registrazione della Corte dei conti e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale.

 

4-bis. L'organizzazione e la disciplina degli uffici dei Ministeri sono determinate, con regolamenti emanati ai sensi del comma 2, su proposta del Ministro competente d'intesa con il Presidente del Consiglio dei ministri e con il Ministro del tesoro, nel rispetto dei princìpi posti dal decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, con i contenuti e con l'osservanza dei criteri che seguono:

 

a) riordino degli uffici di diretta collaborazione con i Ministri ed i Sottosegretari di Stato, stabilendo che tali uffici hanno esclusive competenze di supporto dell'organo di direzione politica e di raccordo tra questo e l'amministrazione;

 

b) individuazione degli uffici di livello dirigenziale generale, centrali e periferici, mediante diversificazione tra strutture con funzioni finali e con funzioni strumentali e loro organizzazione per funzioni omogenee e secondo criteri di flessibilità eliminando le duplicazioni funzionali;

 

c) previsione di strumenti di verifica periodica dell'organizzazione e dei risultati;

 

d) indicazione e revisione periodica della consistenza delle piante organiche;

 

e) previsione di decreti ministeriali di natura non regolamentare per la definizione dei compiti delle unità dirigenziali nell'ambito degli uffici dirigenziali generali (37).

 

 

-------------------------------------

 

(34)  Lettera così modificata dall'art. 11, L. 5 febbraio 1999, n. 25.

(35)  Lettera abrogata dall'art. 74, D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, e dall'art. 72, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

(36) La Corte costituzionale, con sentenza 7-22 luglio 2005, n. 303 (Gazz. Uff. 27 luglio 2005, n. 30, 1ª Serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 17, comma 2, sollevata in riferimento agli artt. 23, 70, 76 e 77 della Costituzione.

(37)  Comma aggiunto dall'art. 13, L. 15 marzo 1997, n. 59.

(omissis)


 

D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza
(artt. 73, 74, 80)

 

 

(1) (2) (3)

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(1) Pubblicato nella Gazz. Uff. 31 ottobre 1990, n. 255, S.O.

(2)  Con riferimento al presente provvedimento sono state emanate le seguenti istruzioni:

- AIMA (Azienda di Stato per gli Interventi nel mercato agricolo): Circ. 12 maggio 1998, n. 18;

- Ministero della giustizia: Circ. 29 dicembre 1999, n. 578455/14;

- Ministero della pubblica istruzione: Circ. 19 aprile 1996, n. 156; Circ. 11 giugno 1996, n. 225; Circ. 18 giugno 1996, n. 235; Circ. 2 luglio 1996, n. 308; Circ. 16 dicembre 1996, n. 750; Circ. 24 aprile 1997, n. 280; Circ. 31 luglio 1997, n. 466; Circ. 28 ottobre 1997, n. 664; Circ. 27 febbraio 1998, n. 78; Circ. 22 luglio 1998, n. 321; Nota 30 ottobre 1998, n. 3755/99;

- Ministero per le Politiche agricole: Circ. 2 dicembre 1997, n. 0734; Circ. 20 aprile 1999, n. 4;

- Presidenza del Consiglio dei Ministri: Dipartimento per gli Affari Sociali: Circ. 19 dicembre 1997, n. DAS/IV/2926/PROG/GEST.

(3) Vedi, anche, gli artt. 1 e 3, D.P.R. 28 marzo 2007, n. 75.

(omissis)

Art. 73

Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope (66).

(Legge 26 giugno 1990, n. 162, art. 14, comma 1)

1. Chiunque, senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall'articolo 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000 (67).

 

1-bis. Con le medesime pene di cui al comma 1 è punito chiunque, senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17, importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene:

 

a) sostanze stupefacenti o psicotrope che per quantità, in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia sentita la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento nazionale per le politiche antidroga, ovvero per modalità di presentazione, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per altre circostanze dell'azione, appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale (68);

 

b) medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella II, sezione A, che eccedono il quantitativo prescritto. In questa ultima ipotesi, le pene suddette sono diminuite da un terzo alla metà (69).

 

2. Chiunque, essendo munito dell'autorizzazione di cui all'articolo 17, illecitamente cede, mette o procura che altri metta in commercio le sostanze o le preparazioni indicate nelle tabelle I e II di cui all'articolo 14, è punito con la reclusione da sei a ventidue anni e con la multa da euro 26.000 a euro 300.000 (70).

 

2-bis. Le pene di cui al comma 2 si applicano anche nel caso di illecita produzione o commercializzazione delle sostanze chimiche di base e dei precursori di cui alle categorie 1, 2 e 3 dell'allegato I al presente testo unico, utilizzabili nella produzione clandestina delle sostanze stupefacenti o psicotrope previste nelle tabelle di cui all'articolo 14 (71).

 

3. Le stesse pene si applicano a chiunque coltiva, produce o fabbrica sostanze stupefacenti o psicotrope diverse da quelle stabilite nel decreto di autorizzazione (72).

 

4. Quando le condotte di cui al comma 1 riguardano i medicinali ricompresi nella tabella II, sezioni A, B e C, di cui all'articolo 14 e non ricorrono le condizioni di cui all'articolo 17, si applicano le pene ivi stabilite, diminuite da un terzo alla metà (73).

 

5. Quando, per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo sono di lieve entità, si applicano le pene della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000 (74).

 

5-bis. Nell'ipotesi di cui al comma 5, limitatamente ai reati di cui al presente articolo commessi da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope, il giudice, con la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, su richiesta dell'imputato e sentito il pubblico ministero, qualora non debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena, può applicare, anziché le pene detentive e pecuniarie, quella del lavoro di pubblica utilità di cui all'articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, secondo le modalità ivi previste. Con la sentenza il giudice incarica l'Ufficio locale di esecuzione penale esterna di verificare l'effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. L'Ufficio riferisce periodicamente al giudice. In deroga a quanto disposto dall'articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, il lavoro di pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata. Esso può essere disposto anche nelle strutture private autorizzate ai sensi dell'articolo 116, previo consenso delle stesse. In caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, in deroga a quanto previsto dall'articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, su richiesta del pubblico ministero o d'ufficio, il giudice che procede, o quello dell'esecuzione, con le formalità di cui all'articolo 666 del codice di procedura penale, tenuto conto dell'entità dei motivi e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della pena con conseguente ripristino di quella sostituita. Avverso tale provvedimento di revoca è ammesso ricorso per cassazione, che non ha effetto sospensivo. Il lavoro di pubblica utilità può sostituire la pena per non più di due volte (75).

 

6. Se il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro, la pena è aumentata.

 

7. Le pene previste dai commi da 1 a 6 sono diminuite dalla metà a due terzi per chi si adopera per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti (76).

 

 

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(66)  Rubrica così sostituita dall'art. 4-bis, D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione.

(67)  Comma prima modificato dal D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 (Gazz. Uff. 5 giugno 1993, n. 130) e poi così sostituito dall'art. 4-bis, D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione.

(68)  Con D.M. 11 aprile 2006 (Gazz. Uff. 24 aprile 2006, n. 95), modificato dall'art. 1, D.M. 4 agosto 2006 (Gazz. Uff. 17 novembre 2006, n. 268), sono stati indicati i limiti massimi di cui alla presente lettera. Successivamente, il citato D.M. 4 agosto 2006, la cui efficacia era stata sospesa dal Tar Lazio, sezione terza quater, in data 15 marzo 2007, è stato annullato dalla stessa sezione con sentenza 21 marzo 2007, n. 2487.

(69)  Comma aggiunto dall'art. 4-bis, D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione.

(70)  Comma così modificato dall'art. 4-bis, D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione.

(71)  Comma aggiunto dall'art. 4-bis, D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione.

(72)  Comma così sostituito dall'art. 4-bis, D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione.

(73)  Comma così sostituito dall'art. 4-bis, D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione.

(74)  Comma così sostituito dall'art. 4-bis, D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione.

(75)  Comma aggiunto dall'art. 4-bis, D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione.

(76)  L’indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per i delitti riguardanti la produzione, il traffico e la detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui al presente articolo, ai sensi di quanto disposto dall’art. 1 della stessa legge. La Corte costituzionale con sentenza 13-24 luglio 1995, n. 360 (Gazz. Uff. 16 agosto 1995, n. 34, Serie speciale) ha dichiarato, fra l'altro, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 73, sollevata in riferimento agli artt. 13, 25 e 27 della Costituzione. Successivamente la Corte, chiamata a pronunciarsi sulla stessa questione, con ordinanza 11-24 dicembre 1996, n. 414 (Gazz. Uff. 8 gennaio 1997, n. 2, Serie speciale), ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 28, 73 e 75, come modificati a seguito del D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171.

 

 

Art. 74

Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope.

(Legge 26 giugno 1990, n. 162, articoli 14, comma 1, e 38, comma 2)

1. Quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti tra quelli previsti dall'articolo 73, chi promuove, costituisce, dirige, organizza o finanzia l'associazione è punito per ciò solo con la reclusione non inferiore a venti anni.

2. Chi partecipa all'associazione è punito con la reclusione non inferiore a dieci anni.

 

3. La pena è aumentata se il numero degli associati è di dieci o più o se tra i partecipanti vi sono persone dedite all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope.

 

4. Se l'associazione è armata la pena, nei casi indicati dai commi 1 e 3, non può essere inferiore a ventiquattro anni di reclusione e, nel caso previsto dal comma 2, a dodici anni di reclusione. L'associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito.

 

5. La pena è aumentata se ricorre la circostanza di cui alla lettera e) del comma 1 dell'articolo 80.

 

6. Se l'associazione è costituita per commettere i fatti descritti dal comma 5 dell'articolo 73, si applicano il primo e il secondo comma dell'articolo 416 del codice penale.

 

7. Le pene previste dai commi da 1 a 6 sono diminuite dalla metà a due terzi per chi si sia efficacemente adoperato per assicurare le prove del reato o per sottrarre all'associazione risorse decisive per la commissione dei delitti.

 

8. Quando in leggi e decreti è richiamato il reato previsto dall'articolo 75 della legge 22 dicembre 1975, n. 685, abrogato dall'articolo 38, comma 1, della legge 26 giugno 1990, n. 162, il richiamo si intende riferito al presente articolo (77).

 

 

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(77)  L’indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241 non si applica per il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope in tutte le ipotesi previste dai commi 1, 4 e 5 del presente articolo, ai sensi di quanto disposto dall’art. 1 della stessa legge. Vedi, anche, l'art. 10, L. 16 marzo 2006, n. 146.

(omissis)

Art. 80

Aggravanti specifiche.

(Legge 26 giugno 1990, n. 162, art. 18, comma 1)

1. Le pene previste per i delitti di cui all'articolo 73 sono aumentate da un terzo alla metà;

 

a) nei casi in cui le sostanze stupefacenti e psicotrope sono consegnate o comunque destinate a persona di età minore;

 

b) nei casi previsti dai numeri 2), 3) e 4) del primo comma dell'art. 112 del codice penale;

 

c) per chi ha indotto a commettere il reato, o a cooperare nella commissione del reato, persona dedita all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope;

 

d) se il fatto è stato commesso da persona armata o travisata;

 

e) se le sostanze stupefacenti o psicotrope sono adulterate o commiste ad altre in modo che ne risulti accentuata la potenzialità lesiva;

 

f) se l'offerta o la cessione è finalizzata ad ottenere prestazioni sessuali da parte di persona tossicodipendente;

 

g) se l'offerta o la cessione è effettuata all'interno o in prossimità di scuole di ogni ordine o grado, comunità giovanili, caserme, carceri, ospedali, strutture per la cura e la riabilitazione dei tossicodipendenti.

 

2. Se il fatto riguarda quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope, le pene sono aumentate dalla metà a due terzi; la pena è di trenta anni di reclusione quando i fatti previsti dai commi 1, 2 e 3 dell'art. 73 riguardano quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope e ricorre l'aggravante di cui alla lettera e) del comma 1.

 

3. Lo stesso aumento di pena si applica se il colpevole per commettere il delitto o per conseguirne per sé o per altri il profitto, il prezzo o l'impunità ha fatto uso di armi.

 

4. Si applica la disposizione del secondo comma dell'art. 112 del codice penale.

 

[5. Le sanzioni previste dall'art. 76 sono aumentate nella misura stabilita dal presente articolo quando ricorrono le circostanze ivi previste, eccettuata quella indicata dal comma 2] (84).

 

 

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(84)  Il D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 (Gazz. Uff. 5 giugno 1993, n. 130), in esito al referendum del 25 febbraio 1993, ha disposto l'abrogazione dell'art. 78, primo comma, lett. b) e c), e dell'art. 80, quinto comma, del presente decreto, con effetto a decorrere dal giorno successivo a quello della pubblicazione del sopracitato decreto n. 171 del 1993 nella Gazzetta Ufficiale.

(omissis)


 

Legge 5 febbraio 1992, n. 91.
Nuove norme sulla cittadinanza

 

 

(1) (2) (3)

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(1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 15 febbraio 1992, n. 38.

(2)  Per il regolamento di esecuzione, vedi il D.P.R. 12 ottobre 1993, n. 572.

(3)  Con riferimento al presente provvedimento sono state emanate le seguenti istruzioni:

- Ministero dell'interno: Circ. 2 gennaio 2001, n. K.84; Circ. 2 maggio 2001, n. K60.1; Circ. 24 febbraio 2003, n. K.28.111;

- Ministero della difesa: Circ. 12 giugno 1997, n. LEV.-C-56/U.D.G.; Circ. 17 ottobre 1997, n. Lev.-C.-58/U.D.G.; Circ. 27 settembre 1999, n. LEV.C.72/UDG.

 

 

Art. 1

1. È cittadino per nascita:

 

a) il figlio di padre o di madre cittadini;

 

b) chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono.

 

2. È considerato cittadino per nascita il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga provato il possesso di altra cittadinanza.

 

 

Art. 2

1. Il riconoscimento o la dichiarazione giudiziale della filiazione durante la minore età del figlio ne determina la cittadinanza secondo le norme della presente legge.

 

2. Se il figlio riconosciuto o dichiarato è maggiorenne conserva il proprio stato di cittadinanza, ma può dichiarare, entro un anno dal riconoscimento o dalla dichiarazione giudiziale, ovvero dalla dichiarazione di efficacia del provvedimento straniero, di eleggere la cittadinanza determinata dalla filiazione.

 

3. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche ai figli per i quali la paternità o maternità non può essere dichiarata, purché sia stato riconosciuto giudizialmente il loro diritto al mantenimento o agli alimenti.

 

 

Art. 3

1. Il minore straniero adottato da cittadino italiano acquista la cittadinanza.

 

2. La disposizione del comma 1 si applica anche nei confronti degli adottati prima della data di entrata in vigore della presente legge.

 

3. Qualora l'adozione sia revocata per fatto dell'adottato, questi perde la cittadinanza italiana, sempre che sia in possesso di altra cittadinanza o la riacquisti.

 

4. Negli altri casi di revoca l'adottato conserva la cittadinanza italiana. Tuttavia, qualora la revoca intervenga durante la maggiore età dell'adottato, lo stesso, se in possesso di altra cittadinanza o se la riacquisti, potrà comunque rinunciare alla cittadinanza italiana entro un anno dalla revoca stessa.

 

 

Art. 4

1. Lo straniero o l'apolide, del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, diviene cittadino:

 

a) se presta effettivo servizio militare per lo Stato italiano e dichiara preventivamente di voler acquistare la cittadinanza italiana;

 

b) se assume pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche all'estero, e dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana;

 

c) se, al raggiungimento della maggiore età, risiede legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica e dichiara, entro un anno dal raggiungimento, di voler acquistare la cittadinanza italiana.

 

2. Lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data.

 

 

Art. 5

1. Il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano acquista la cittadinanza italiana quando risiede legalmente da almeno sei mesi nel territorio della Repubblica, ovvero dopo tre anni dalla data del matrimonio, se non vi è stato scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili e se non sussiste separazione legale.

 

 

Art. 6

1. Precludono l'acquisto della cittadinanza ai sensi dell'articolo 5:

 

a) la condanna per uno dei delitti previsti nel libro secondo, titolo I, capi I, II e III, del codice penale;

 

b) la condanna per un delitto non colposo per il quale la legge preveda una pena edittale non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione; ovvero la condanna per un reato non politico ad una pena detentiva superiore ad un anno da parte di una autorità giudiziaria straniera, quando la sentenza sia stata riconosciuta in Italia;

 

c) la sussistenza, nel caso specifico, di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica.

 

2. Il riconoscimento della sentenza straniera è richiesto dal procuratore generale del distretto dove ha sede l'ufficio dello stato civile in cui è iscritto o trascritto il matrimonio, anche ai soli fini ed effetti di cui al comma 1, lettera b).

 

3. La riabilitazione fa cessare gli effetti preclusivi della condanna.

 

4. L'acquisto della cittadinanza è sospeso fino a comunicazione della sentenza definitiva, se sia stata promossa azione penale per uno dei delitti di cui al comma 1, lettera a) e lettera b), primo periodo, nonché per il tempo in cui è pendente il procedimento di riconoscimento della sentenza straniera, di cui al medesimo comma 1, lettera b), secondo periodo.

 

 

Art. 7

1. Ai sensi dell'articolo 5, la cittadinanza si acquista con decreto del Ministro dell'interno, a istanza dell'interessato, presentata al sindaco del comune di residenza o alla competente autorità consolare (4).

 

2. Si applicano le disposizioni di cui all'articolo 3 della legge 12 gennaio 1991, n. 13 .

 

 

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(4)  L'istanza per l'acquisto o la concessione della cittadinanza italiana va, ora, presentata al prefetto competente per territorio in relazione alla residenza dell'istante, ovvero, qualora ne ricorrano i presupposti, all'autorità consolare, in virtù di quanto disposto dall'art. 1, D.P.R. 18 aprile 1994, n. 362. Vedi, anche, l'art. 8 dello stesso decreto.

 

 

Art. 8

1. Con decreto motivato, il Ministro dell'interno respinge l'istanza di cui all'articolo 7 ove sussistano le cause ostative previste nell'articolo 6. Ove si tratti di ragioni inerenti alla sicurezza della Repubblica, il decreto è emanato su conforme parere del Consiglio di Stato. L'istanza respinta può essere riproposta dopo cinque anni dall'emanazione del provvedimento.

 

2. L'emanazione del decreto di rigetto dell'istanza è preclusa quando dalla data di presentazione dell'istanza stessa, corredata dalla prescritta documentazione, sia decorso il termine di due anni.

 

 

Art. 9

1. La cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell'interno:

 

a) allo straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica e, in entrambi i casi, vi risiede legalmente da almeno tre anni, comunque fatto salvo quanto previsto dall'articolo 4, comma 1, lettera c);

 

b) allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione (5);

 

c) allo straniero che ha prestato servizio, anche all'estero, per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato;

 

d) al cittadino di uno Stato membro delle Comunità europee se risiede legalmente da almeno quattro anni nel territorio della Repubblica;

 

e) all'apolide che risiede legalmente da almeno cinque anni nel territorio della Repubblica;

 

f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.

 

2. Con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato e previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro degli affari esteri, la cittadinanza può essere concessa allo straniero quando questi abbia reso eminenti servizi all'Italia, ovvero quando ricorra un eccezionale interesse dello Stato.

 

 

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(5)  La Corte costituzionale, con sentenza 10 luglio-4 agosto 2003, n. 293 (Gazz. Uff. 13 agosto 2003, n. 32, 1ª Serie speciale), ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, lettera b) sollevata in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione.

 

 

Art. 10

1. Il decreto di concessione della cittadinanza non ha effetto se la persona a cui si riferisce non presta, entro sei mesi dalla notifica del decreto medesimo, giuramento di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato (6).

 

 

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(6)  Per le modalità della prestazione del giuramento di cui al presente articolo vedi l'art. 7, D.M. 27 febbraio 2001.

 

 

Art. 11

1. Il cittadino che possiede, acquista o riacquista una cittadinanza straniera conserva quella italiana, ma può ad essa rinunciare qualora risieda o stabilisca la residenza all'estero.

 

 

Art. 12

1. Il cittadino italiano perde la cittadinanza se, avendo accettato un impiego pubblico od una carica pubblica da uno Stato o ente pubblico estero o da un ente internazionale cui non partecipi l'Italia, ovvero prestando servizio militare per uno Stato estero, non ottempera, nel termine fissato, all'intimazione che il Governo italiano può rivolgergli di abbandonare l'impiego, la carica o il servizio militare.

 

2. Il cittadino italiano che, durante lo stato di guerra con uno Stato estero, abbia accettato o non abbia abbandonato un impiego pubblico od una carica pubblica, od abbia prestato servizio militare per tale Stato senza esservi obbligato, ovvero ne abbia acquistato volontariamente la cittadinanza, perde la cittadinanza italiana al momento della cessazione dello stato di guerra.

 

 

Art. 13

1. Chi ha perduto la cittadinanza la riacquista:

 

a) se presta effettivo servizio militare per lo Stato italiano e dichiara previamente di volerla riacquistare;

 

b) se, assumendo o avendo assunto un pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche all'estero, dichiara di volerla riacquistare;

 

c) se dichiara di volerla riacquistare ed ha stabilito o stabilisce, entro un anno dalla dichiarazione, la residenza nel territorio della Repubblica;

 

d) dopo un anno dalla data in cui ha stabilito la residenza nel territorio della Repubblica, salvo espressa rinuncia entro lo stesso termine;

 

e) se, avendola perduta per non aver ottemperato all'intimazione di abbandonare l'impiego o la carica accettati da uno Stato, da un ente pubblico estero o da un ente internazionale, ovvero il servizio militare per uno Stato estero, dichiara di volerla riacquistare, sempre che abbia stabilito la residenza da almeno due anni nel territorio della Repubblica e provi di aver abbandonato l'impiego o la carica o il servizio militare, assunti o prestati nonostante l'intimazione di cui all'articolo 12, comma 1.

 

2. Non è ammesso il riacquisto della cittadinanza a favore di chi l'abbia perduta in applicazione dell'articolo 3, comma 3, nonché dell'articolo 12, comma 2.

 

3. Nei casi indicati al comma 1, lettera c), d) ed e), il riacquisto della cittadinanza non ha effetto se viene inibito con decreto del Ministro dell'interno, per gravi e comprovati motivi e su conforme parere del Consiglio di Stato. Tale inibizione può intervenire entro il termine di un anno dal verificarsi delle condizioni stabilite.

 

Art. 14

1. I figli minori di chi acquista o riacquista la cittadinanza italiana, se convivono con esso, acquistano la cittadinanza italiana, ma, divenuti maggiorenni, possono rinunciarvi, se in possesso di altra cittadinanza.

 

 

Art. 15

1. L'acquisto o il riacquisto della cittadinanza ha effetto, salvo quanto stabilito dall'articolo 13, comma 3, dal giorno successivo a quello in cui sono adempiute le condizioni e le formalità richieste.

 

 

Art. 16

1. L'apolide che risiede legalmente nel territorio della Repubblica è soggetto alla legge italiana per quanto si riferisce all'esercizio dei diritti civili ed agli obblighi del servizio militare (7).

 

2. Lo straniero riconosciuto rifugiato dallo Stato italiano secondo le condizioni stabilite dalla legge o dalle convenzioni internazionali è equiparato all'apolide ai fini dell'applicazione della presente legge, con esclusione degli obblighi inerenti al servizio militare.

 

 

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(7)  La Corte costituzionale, con sentenza 10-18 maggio 1999, n. 172 (Gazz. Uff. 26 maggio 1999, n. 21, Serie speciale), ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 16, comma 1, sollevata in riferimento agli artt. 10 e 52 della Costituzione.

 

 

Art. 17

1. Chi ha perduto la cittadinanza in applicazione degli articoli 8 e 12 della legge 13 giugno 1912, n. 555, o per non aver reso l'opzione prevista dall'articolo 5 della legge 21 aprile 1983, n. 123, la riacquista se effettua una dichiarazione in tal senso entro due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge (8).

 

2. Resta fermo quanto disposto dall'articolo 219 della legge 19 maggio 1975, n. 151.

 

 

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(8)  Termine prorogato fino al 15 agosto 1995 dall'art. 1, L. 22 dicembre 1994, n. 736 (Gazz. Uff. 4 gennaio 1995, n. 3). Per l'ulteriore proroga del termine al 31 dicembre 1997, vedi l'art. 2, comma 195, L. 23 dicembre 1996, n. 662.

 

 

 

Art. 17-bis

1. Il diritto alla cittadinanza italiana è riconosciuto:

 

a) ai soggetti che siano stati cittadini italiani, già residenti nei territori facenti parte dello Stato italiano successivamente ceduti alla Repubblica jugoslava in forza del Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, reso esecutivo dal decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 28 novembre 1947, n. 1430, ratificato dalla legge 25 novembre 1952, n. 3054, ovvero in forza del Trattato di Osimo del 10 novembre 1975, reso esecutivo dalla legge 14 marzo 1977, n. 73, alle condizioni previste e in possesso dei requisiti per il diritto di opzione di cui all'articolo 19 del Trattato di pace di Parigi e all'articolo 3 del Trattato di Osimo;

 

b) alle persone di lingua e cultura italiane che siano figli o discendenti in linea retta dei soggetti di cui alla lettera a) (9).

 

 

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(9)  Articolo aggiunto dall'art. 1, L. 8 marzo 2006, n. 124 (Gazz. Uff. 28 marzo 2006, n. 73).

 

 

Art. 17-ter

1. Il diritto al riconoscimento della cittadinanza italiana di cui all'articolo 17- bis è esercitato dagli interessati mediante la presentazione di una istanza all'autorità comunale italiana competente per territorio in relazione alla residenza dell'istante, ovvero, qualora ne ricorrano i presupposti, all'autorità consolare, previa produzione da parte dell'istante di idonea documentazione, ai sensi di quanto disposto con circolare del Ministero dell'interno, emanata di intesa con il Ministero degli affari esteri (10).

 

2. Al fine di attestare la sussistenza dei requisiti di cui alla lettera a) del comma 1 dell'articolo 17- bis, all'istanza deve essere comunque allegata la certificazione comprovante il possesso, all'epoca, della cittadinanza italiana e della residenza nei territori facenti parte dello Stato italiano e successivamente ceduti alla Repubblica jugoslava in forza dei Trattati di cui al medesimo comma 1 dell'articolo 17-bis.

 

3. Al fine di attestare la sussistenza dei requisiti di cui alla lettera b) del comma 1 dell'articolo 17- bis, all'istanza deve essere comunque allegata la seguente documentazione:

 

a) i certificati di nascita attestanti il rapporto di discendenza diretta tra l'istante e il genitore o l'ascendente;

 

b) la certificazione storica, prevista per l'esercizio del diritto di opzione di cui alla lettera a) del comma 1 dell'articolo 17- bis, attestante la cittadinanza italiana del genitore dell'istante o del suo ascendente in linea retta e la residenza degli stessi nei territori facenti parte dello Stato italiano e successivamente ceduti alla Repubblica jugoslava in forza dei Trattati di cui al medesimo comma 1 dell'articolo 17- bis;

 

c) la documentazione atta a dimostrare il requisito della lingua e della cultura italiane dell'istante (11).

 

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(10)  Il comma 2 dell'art. 1, L. 8 marzo 2006, n. 124 (Gazz. Uff. 28 marzo 2006, n. 73) ha disposto che la circolare prevista dal presente comma sia emanata entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della stessa legge n. 124 del 2006.

(11)  Articolo aggiunto dall'art. 1, L. 8 marzo 2006, n. 124 (Gazz. Uff. 28 marzo 2006, n. 73).

 

 

Art. 18

[1. Le persone già residenti nei territori che sono appartenuti alla monarchia austroungarica ed emigrate all'estero prima del 16 luglio 1920 ed i loro discendenti in linea retta sono equiparati, ai fini e per gli effetti dell'articolo 9, comma 1, lettera a), agli stranieri di origine italiana o nati nel territorio della Repubblica] (12).

 

 

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(12)  Articolo abrogato dall'art. 1, L. 14 dicembre 2000, n. 379.

 

 

Art. 19

1. Restano salve le disposizioni della legge 9 gennaio 1956, n. 27 , sulla trascrizione nei registri dello stato civile dei provvedimenti di riconoscimento delle opzioni per la cittadinanza italiana, effettuate ai sensi dell'articolo 19 del Trattato di pace tra le potenze alleate ed associate e l'Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

 

 

Art. 20

1. Salvo che sia espressamente previsto, lo stato di cittadinanza acquisito anteriormente alla presente legge non si modifica se non per fatti posteriori alla data di entrata in vigore della stessa.

 

 

Art. 21

1. Ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 9, la cittadinanza italiana può essere concessa allo straniero che sia stato affiliato da un cittadino italiano prima della data di entrata in vigore della legge 4 maggio 1983, n. 184 , e che risieda legalmente nel territorio della Repubblica da almeno sette anni dopo l'affiliazione.

 

 

Art. 22

1. Per coloro i quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, abbiano già perduto la cittadinanza italiana ai sensi dell'articolo 8 della legge 13 giugno 1912, n. 555, cessa ogni obbligo militare.

 

 

 

Art. 23

1. Le dichiarazioni per l'acquisto, la conservazione, il riacquisto e la rinunzia alla cittadinanza e la prestazione del giuramento previste dalla presente legge sono rese all'ufficiale dello stato civile del comune dove il dichiarante risiede o intende stabilire la propria residenza, ovvero, in caso di residenza all'estero, davanti all'autorità diplomatica o consolare del luogo di residenza.

 

2. Le dichiarazioni di cui al comma 1, nonché gli atti o i provvedimenti attinenti alla perdita, alla conservazione e al riacquisto della cittadinanza italiana vengono trascritti nei registri di cittadinanza e di essi viene effettuata annotazione a margine dell'atto di nascita.

 

 

Art. 24

[1. Il cittadino italiano, in caso di acquisto o riacquisto di cittadinanza straniera o di opzione per essa, deve darne, entro tre mesi dall'acquisto, riacquisto o opzione, o dal raggiungimento della maggiore età, se successivo, comunicazione mediante dichiarazione all'ufficiale dello stato civile del luogo di residenza, ovvero, se residente all'estero, all'autorità consolare competente.

 

2. Le dichiarazioni di cui al comma 1 sono soggette alla medesima disciplina delle dichiarazioni di cui all'articolo 23.

 

3. Chiunque non adempia agli obblighi indicati nel comma 1 è assoggettato alla sanzione amministrativa pecuniaria da lire duecentomila a lire duemilioni. Competente all'applicazione della sanzione amministrativa è il prefetto] (13).

 

 

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(13)  Articolo abrogato dall'art. 110, D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396.

 

 

Art. 25

1. Le disposizioni necessarie per l'esecuzione della presente legge sono emanate, entro un anno dalla sua entrata in vigore, con decreto del Presidente della Repubblica, udito il parere del Consiglio di Stato e previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta dei Ministri degli affari esteri e dell'interno, di concerto con il Ministro di grazia e giustizia.

 

 

Art. 26

1. Sono abrogati la legge 13 giugno 1912, n. 555, la legge 31 gennaio 1926, n. 108 , il regio decreto-legge 1° dicembre 1934, n. 1997 (14), convertito dalla legge 4 aprile 1935, n. 517, l'articolo 143-ter del codice civile, la legge 21 aprile 1983, n. 123, l'articolo 39 della legge 4 maggio 1983, n. 184 , la legge 15 maggio 1986, n. 180 , e ogni altra disposizione incompatibile con la presente legge.

 

2. È soppresso l'obbligo dell'opzione di cui all'articolo 5, comma secondo, della legge 21 aprile 1983, n. 123, e all'articolo 1, comma 1, della legge 15 maggio 1986, n. 180 .

 

3. Restano salve le diverse disposizioni previste da accordi internazionali.

 

 

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(14)  Recava «Modificazioni alla L. 13 giugno 1912, n. 555, sulla cittadinanza».

 

 

Art. 27

1. La presente legge entra in vigore sei mesi dopo la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

 


 

D.P.R. 12 ottobre 1993, n. 572.
Regolamento di esecuzione della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza
(art. 7)

 

 

(1)

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(1) Pubblicato nella Gazz. Uff. 4 gennaio 1994, n. 2.

(omissis)

Art. 7

Notifica e giuramento.

1. La notifica del decreto di conferimento della cittadinanza deve essere effettuata dall'autorità competente ai sensi dell'art. 23 della legge entro novanta giorni dalla ricezione del decreto medesimo (6).

 

2. Il giuramento di cui all'art. 10 della legge deve essere prestato entro sei mesi dalla notifica all'intestatario del decreto di cui agli articoli 7 e 9 della legge.

 

3. Il giuramento di cui al comma 2 deve essere prestato, in Italia, dinanzi all'ufficiale dello stato civile del comune di residenza e, all'estero, dinanzi all'autorità diplomatica o consolare italiana competente per la località straniera di residenza, la quale rilascia all'interessato copia del verbale di giuramento e trasmette copia di questo e del decreto di concessione all'ufficiale dello stato civile del comune della Repubblica competente secondo le norme dell'ordinamento dello stato civile.

 

4. L'ufficiale dello stato civile dinanzi al quale è stato prestato il giuramento, o al quale è stata trasmessa copia del verbale di cui al comma 3, provvede per la trascrizione e l'annotazione del decreto negli atti dello stato civile e ne dà immediata notizia al Ministero dell'interno.

 

5. Trascorsi sei mesi dalla data della notifica del decreto, l'interessato non è ammesso a prestare giuramento se non dimostri, con la produzione di nuovi documenti al Ministero dell'interno, la permanenza dei requisiti in base ai quali gli fu accordata la cittadinanza.

 

6. Il giuramento deve essere preceduto dal pagamento della tassa di concessione governativa e dell'imposta di bollo assolta a norma delle vigenti disposizioni in materia (7).

 

 

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(6)  Per le attuali modalità relative all'istruttoria dei procedimenti di acquisto della cittadinanza, vedi gli artt. 2, 3 e 4, D.P.R. 18 aprile 1994, n. 362. Vedi, inoltre, l'art. 8 dello stesso decreto.

(7)  Per le attuali modalità relative all'istruttoria dei procedimenti di acquisto della cittadinanza, vedi gli artt. 2, 3 e 4, D.P.R. 18 aprile 1994, n. 362. Vedi, inoltre, l'art. 8 dello stesso decreto.

(omissis)

 


 

D.P.R. 18 aprile 1994, n. 362.
Regolamento recante disciplina dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana

 

 

(1) (2)

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(1) Pubblicato nella Gazz. Uff. 13 giugno 1994, n. 136, S.O.

(2)  Si ritiene opportuno riportare anche la premessa del presente decreto.

 

 

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

 

Visto l'articolo 87, comma quinto, della Costituzione;

 

Visto l'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400;

 

Vista la legge 7 agosto 1990, n. 241;

 

Vista la legge 24 dicembre 1993, n. 537, ed in particolare l'articolo 2, commi 7, 8 e 9;

 

Vista la legge 5 febbraio 1992, n. 91;

 

Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 22 febbraio 1994;

 

Acquisito il parere della competente commissione della Camera dei deputati;

 

Considerato che il termine per l'emissione del parere della competente commissione del Senato della Repubblica ai sensi dell'articolo 2 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, è scaduto in data 30 marzo 1994;

 

Udito il parere del Consiglio di Stato, espresso nell'adunanza generale del 13 aprile 1994;

 

Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 14 aprile 1994;

 

Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con il Ministro dell'interno e con il Ministro degli affari esteri;

 

Emana il seguente regolamento:

 

 

Art. 1

Presentazione della domanda.

1. L'istanza per l'acquisto o la concessione della cittadinanza italiana, di cui all'articolo 7 ed all'articolo 9 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 , si presenta al prefetto competente per territorio in relazione alla residenza dell'istante, ovvero, qualora ne ricorrano i presupposti, all'autorità consolare.

 

2. Nell'istanza devono essere indicati i presupposti in base ai quali l'interessato ritiene di aver titolo all'acquisto o alla concessione della cittadinanza.

 

3. L'istanza dev'essere corredata della seguente documentazione, in forma autentica:

 

a) estratto dell'atto di nascita, o equivalente;

 

b) stato di famiglia;

 

c) documentazione relativa alla cittadinanza dei genitori, limitatamente all'ipotesi in cui trattisi di elemento rilevante per l'acquisto della cittadinanza;

 

d) certificazioni dello Stato estero, o degli Stati esteri, di origine e di residenza, relative ai precedenti penali ed ai carichi penali pendenti;

 

e) certificato penale dell'autorità giudiziaria italiana;

 

f) certificato di residenza;

 

g) copia dell'atto di matrimonio o estratto per riassunto del registro dei matrimoni, limitatamente all'ipotesi di acquisto della cittadinanza per matrimonio.

 

4. Ai fini della concessione, di cui all'articolo 9 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 , il Ministro dell'interno è autorizzato ad emanare, con proprio decreto, disposizioni concernenti l'allegazione di ulteriori documenti.

 

 

Art. 2

Istruttoria.

1. L'autorità che ha ricevuto l'istanza di cui all'articolo 1 ne trasmette in ogni caso immediatamente copia al Ministero dell'interno, ed entro trenta giorni dalla presentazione, salvo il caso previsto dal comma 2, inoltra al Ministero stesso la relativa documentazione con le proprie osservazioni.

 

2. Nel caso di incompletezza o irregolarità della domanda o della relativa documentazione, entro trenta giorni l'autorità invita il richiedente ad integrarla e regolarizzarla, dando le opportune indicazioni ed i termini del procedimento restano interrotti fino all'adempimento.

 

3. Una volta che l'interessato abbia adempiuto a quanto richiesto, l'autorità procede a norma del comma 1, seconda parte. Qualora l'adempimento risulti insufficiente, o la nuova documentazione prodotta sia a sua volta irregolare, l'autorità dichiara inammissibile l'istanza, con provvedimento motivato, dandone comunicazione all'interessato ed al Ministero.

 

 

Art. 3

Definizione del procedimento.

1. Per quanto previsto dagli articoli 2 e 4 della legge 7 agosto 1990, n. 241 , il termine per la definizione dei procedimenti di cui al presente regolamento è di settecentotrenta giorni dalla data di presentazione della domanda.

 

 

Art. 4

Comunicazioni e notificazioni.

1. Ai fini previsti dall'articolo 7 del regolamento emanato con decreto del Presidente della Repubblica 12 ottobre 1993, n. 572 , il decreto del Ministro è immediatamente trasmesso all'autorità che ha ricevuto la domanda. Quest'ultima ne cura la notifica all'interessato, entro i successivi quindici giorni.

 

 

Art. 5

Disposizioni sul termine.

1. Il Ministro dell'interno, entro quindici giorni dall'entrata in vigore del presente regolamento, provvede alla modifica del decreto ministeriale 2 febbraio 1993, n. 284 , di attuazione degli articoli 2 e 4 della legge 7 agosto 1990, n. 241 , indicando i termini previsti dal presente regolamento.

 

2. Resta salva la facoltà del Ministro, ai sensi dell'articolo 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241 , di stabilire ulteriori riduzioni dei termini.

 

 

Art. 6

Verifiche periodiche.

1. Il Ministro dell'interno verifica periodicamente la funzionalità, la trasparenza e la speditezza dei procedimenti disciplinati dal presente regolamento e adotta tutte le misure di propria competenza per l'adeguamento della relativa disciplina ai princìpi ed alle disposizioni delle leggi 7 agosto 1990, n. 241 , e 24 dicembre 1993, n. 537 , e del presente regolamento.

 

2. I risultati delle verifiche svolte e le misure adottate in esito ad esse sono illustrate in un'apposita relazione che viene inviata, entro il 31 marzo di ogni anno, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica.

 

 

Art. 7

Disposizioni transitorie.

1. Dalla data di entrata in vigore del presente regolamento, per i procedimenti già in corso, iniziano a decorrere i termini previsti dal regolamento stesso, purché più favorevoli per l'interessato rispetto a quelli indicati dalle norme previgenti.

 

 

Art. 8

Norme abrogate.

1. Ai sensi dell'articolo 2, comma 8, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 , a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente regolamento sono abrogate, limitatamente alle parti modificate con il presente regolamento, le seguenti norme: l'articolo 7, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 91 , e gli articoli 4, 7, 14, commi 1, 2 e 4 del decreto del Presidente della Repubblica 12 ottobre 1993, n. 572 .

 

 

Art. 9

Entrata in vigore.

1. Il presente regolamento entra in vigore centottanta giorni dopo la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

 

 


 

Legge 22 dicembre 1994, n. 736.
Modifica dell'art. 17 della L. 5 febbraio 1992, n. 91, concernente la proroga del termine per il riacquisto della cittadinanza italiana

 

 

(1) (2)

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(1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 4 gennaio 1995, n. 3.

(2)  Il presente provvedimento è anche citato, per coordinamento, in nota all'art. 17, L. 5 febbraio 1992, n. 91.

 

 

Art. 1

1. Il termine di due anni previsto dall'art. 17 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, per il riacquisto della cittadinanza italiana è prorogato fino al 15 agosto 1995.

 

 

Art. 2

1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

 


 

Legge 23 dicembre 1996, n. 662.
Misure di razionalizzazione della finanza pubblica
(art. 2, co. 195)

 

 

(1) (2)

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(1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 28 dicembre 1996, n. 303, S.O.

(2)  Con riferimento al presente provvedimento sono state emanate le seguenti istruzioni:

- I.N.A.I.L. (Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro): Circ. 8 maggio 1997, n. 50; Circ. 7 agosto 1997, n. 73; Circ. 12 marzo 1998, n. 14;

- I.N.P.D.A.P. (Istituto nazionale previdenza dipendenti amministrazione pubblica): Circ. 19 febbraio 1999, n. 9; Circ. 15 marzo 1999, n. 15; Informativa 2 dicembre 1999, n. 24; Informativa 18 settembre 2001, n. 47; Informativa 22 gennaio 2002, n. 2; Informativa 15 dicembre 2003, n. 61;

- I.N.P.S. (Istituto nazionale previdenza sociale): Circ. 23 dicembre 1996, n. 162; Circ. 18 marzo 1997, n. 65; Circ. 13 marzo 1997, n. 59; Circ. 27 maggio 1997, n. 120; Circ. 23 ottobre 1997, n. 208; Circ. 27 novembre 1997, n. 240; Msg. 23 giugno 1998, n. 24142; Msg. 30 giugno 1998, n. 24914; Circ. 15 febbraio 1999, n. 32; Circ. 17 marzo 1999, n. 62; Msg. 18 marzo 1999, n. 24111; Circ. 22 ottobre 1999, n. 190; Circ. 25 novembre 1999, n. 203; Circ. 16 febbraio 2000, n. 38; Circ. 24 febbraio 2000, n. 49; Circ. 16 marzo 2000, n. 62; Circ. 27 marzo 2000, n. 68; Circ. 28 giugno 2000, n. 124; Circ. 17 novembre 2000, n. 190; Circ. 14 giugno 2001, n. 124; Circ. 3 giugno 2003, n. 94; Circ. 6 novembre 2003, n. 171;

- Ministero degli affari esteri: Circ. 7 giugno 1999, n. 9;

- Ministero dei lavori pubblici: Circ. 27 luglio 1998, n. 1982;

- Ministero dei trasporti e della navigazione: Circ. 24 settembre 1997, n. 99/97; Circ. 10 dicembre 1997, n. 131/97;

- Ministero del lavoro e della previdenza sociale: Circ. 29 dicembre 1999, n. 84/99;

- Ministero del lavoro e delle politiche sociali: Circ. 28 dicembre 2001, n. 100/2001;

- Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica: Circ. 13 aprile 2000, n. 19;

- Ministero del tesoro: Circ. 30 gennaio 1997, n. 737; Circ. 27 febbraio 1997, n. 17; Circ. 17 marzo 1997, n. 21; Circ. 1 luglio 1997, n. 7071925;

- Ministero dell'economia e delle finanze: Circ. 25 gennaio 2002, n. 7/E;

- Ministero dell'interno: Circ. 1 gennaio 1997, n. F.L.1/97; Circ. 3 gennaio 1997, n. F.L.2/97; Circ. 23 gennaio 1997, n. F.L.4/97; Circ. 7 febbraio 1997, n. 7/1997; Circ. 7 aprile 1997, n. 15/97; Circ. 22 aprile 1997, n. 18/FL; Circ. 15 gennaio 1998, n. 1/1998; Circ. 11 ottobre 1999, n. 121; Circ. 9 giugno 2000, n. 333-G/2.2.05.01.Coll.33/2000/16-00; Circ. 24 marzo 2000, n. 333-G/2.2.05.01.Coll.33/2000;

- Ministero della giustizia: Circ. 27 novembre 2003;

- Ministero della pubblica istruzione: Circ. 3 aprile 1997, n. 1255; Nota 17 settembre 1997, n. 19700/BL; Circ. 20 gennaio 1998, n. 18; Circ. 28 febbraio 2000, n. 50;

- Ministero delle finanze: Nota 14 gennaio 1997, n. II/4-033; Circ. 17 gennaio 1997, n. 10/E; Circ. 4 febbraio 1997, n. 20/T; Circ. 5 febbraio 1997, n. 22/E; Circ. 6 febbraio 1997, n. 25/E; Circ. 7 febbraio 1997, n. 29/E; Circ. 8 luglio 1997, n. 196/E; Circ. 9 gennaio 1998, n. 3/E; Circ. 15 gennaio 1998, n. 11/T; Circ. 22 gennaio 1998, n. 26/E; Circ. 6 marzo 1998, n. 76/E; Circ. 3 settembre 1998, n. 211/E; Circ. 18 novembre 1998, n. 265/E; Circ. 5 febbraio 1999, n. 28/E; Circ. 25 marzo 1999, n. 69/E; Circ. 27 aprile 1999, n. 94/T; Circ. 11 novembre 1999, n. 218/T; Circ. 16 maggio 2000, n. 96/T; Circ. 6 giugno 2000, n. 116/E; Circ. 24 novembre 2000, n. 213/E;

- Ministero di grazia e giustizia: Circ. 31 marzo 1999;

- Ministero per i beni culturali e ambientali: Circ. 9 aprile 1997, n. 99; Circ. 30 maggio 1997, n. 121; Circ. 5 giugno 1997, n. 127; Circ. 18 luglio 1997, n. 166; Nota 22 luglio 1998, n. 59/106/18851/98;

- Presidenza del Consiglio dei Ministri: Dipartimento per la funzione pubblica e gli affari regionali: Circ. 19 febbraio 1997, n. 3/97; Circ. 15 marzo 1997, n. 4/97; Circ. 18 luglio 1997, n. 6/97; Circ. 21 gennaio 1998, n. 1/98; Circ. 10 febbraio 2000, n. DICA1459/II.4.13.1;

- Ragioneria generale dello Stato: Circ. 29 gennaio 1997, n. 9; Circ. 26 febbraio 1997, n. 16; Circ. 28 marzo 1997, n. 26; Circ. 3 aprile 1997, n. 27; Circ. 14 gennaio 1998, n. 3;

- Ufficio italiano Cambi: Circ. 5 maggio 1997, n. 374.

(omissis)

Art. 2

(omissis)

195. Il termine per la presentazione della dichiarazione di cui al comma 1 dell'articolo 17 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 , già prorogato con la legge 22 dicembre 1994, n. 736, è ulteriormente prorogato al 31 dicembre 1997.

(omissis)

 


 

D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286.
Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero
(artt. 9, 23)

 

 

(1) (2) (3)

---------------------------------------

 

(1) Pubblicato nella Gazz. Uff. 18 agosto 1998, n. 191, S.O.

(2)  Con riferimento al presente provvedimento sono state emanate le seguenti istruzioni:

- I.N.P.S. (Istituto nazionale previdenza sociale): Circ. 17 dicembre 1998, n. 258; Circ. 26 marzo 1999, n. 67; Circ. 3 giugno 1999, n. 123; Circ. 20 febbraio 2001, n. 44; Circ. 27 marzo 2001, n. 75; Circ. 22 marzo 2002, n. 56; Circ. 9 giugno 2003, n. 99; Circ. 8 luglio 2003, n. 122; Msg. 19 febbraio 2004, n. 4674;

- Ministero del lavoro e della previdenza sociale: Circ. 24 marzo 1999, n. 23/99; Circ. 30 marzo 1999, n. 27/99; Circ. 12 aprile 1999, n. 31/99; Circ. 30 luglio 1999, n. 63/99; Circ. 13 settembre 1999, n. 69/99; Circ. 2 dicembre 1999, n. 81/99; Circ. 17 febbraio 2000, n. 11/2000; Circ. 5 giugno 2000, n. 34/2000; Circ. 12 luglio 2000, n. 47/2000; Circ. 21 luglio 2000, n. 54/2000; Circ. 27 luglio 2000, n. 3562; Circ. 28 luglio 2000, n. 55/2000; Circ. 29 settembre 2000, n. 67/2000; Lett.Circ. 2 ottobre 2000, n. 4851; Circ. 23 novembre 2000, n. 82/2000; Circ. 22 gennaio 2001, n. 13/2001; Nota 30 gennaio 2001, n. VII/A3-1/210; Circ. 5 febbraio 2001, n. 20/2001; Circ. 23 febbraio 2001, n. 25/2001; Lett.Circ. 23 febbraio 2001, n. VII/3/I/381; Circ. 28 febbraio 2001, n. 26/2001; Circ. 8 marzo 2001, n. 30/2001;

- Ministero del lavoro e delle politiche sociali: Lett.Circ. 2 luglio 2001, n. VII/3.1/1234; Circ. 12 luglio 2001, n. 69/2001; Circ. 6 agosto 2001, n. 78/2001; Circ. 30 ottobre 2001, n. 84/2001; Circ. 14 gennaio 2002, n. 2/2002; Circ. 21 gennaio 2002, n. 4/2002; Circ. 13 marzo 2002, n. 15/2002; Circ. 8 ottobre 2002, n. 51/2002;

- Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato: Circ. 4 aprile 2000, n. 3484/C;

- Ministero dell'interno: Circ. 27 maggio 1999, n. 300/C/227729/12/207; Circ. 27 maggio 1999, n. 3123/50; Circ. 22 marzo 2000, n. 300/C/2000; Nota 31 ottobre 2002; Circ. 7 novembre 2000, n. 300/C/2000/5464/A/12.229.52/1DIV; Circ. 12 settembre 2000, n. 300/C/2000/4761/A/12.214.19/1DIV; Circ. 24 agosto 2000, n. 300/C/2000/4742/A/12.229.52/1DIV; Circ. 2 agosto 2000, n. 300C/2000/4038/A/12.229.52/1DIV; Circ. 12 aprile 2001, n. 1650/50; Circ. 4 dicembre 2002, n. 48145/30-I.A.; Circ. 19 giugno 2003, n. 14/2003; Circ. 28 aprile 2004, n. 400/C/2004/500/P/10.2.45.1;

- Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca: Nota 13 novembre 2002, n. 9551; Nota 3 aprile 2003, n. 1576; Nota 16 dicembre 2003, n. 3969;

- Ministero della sanità: Circ. 31 marzo 1999, n. 400.3/114.9/1290; Circ. 24 marzo 2000, n. 5; Circ. 14 aprile 2000, n. DPS/III/L.40/00-1259;

- Ministero della università e della ricerca scientifica e tecnologica: Circ. 3 agosto 1999, n. 1315/22-SP;

- Presidenza del Consiglio dei Ministri: Circ. 13 febbraio 2003.

(3)  La Corte costituzionale, con ordinanza 24 marzo-6 aprile 2005, n. 140 (Gazz. Uff. 13 aprile 2005, n. 15, 1ª Serie speciale), ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 sollevata in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione.

(omissis)

Art. 9

Permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo.

1. Lo straniero in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità, che dimostra la disponibilità di un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un reddito sufficiente secondo i parametri indicati nell'articolo 29, comma 3, lettera b) e di un alloggio idoneo che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica ovvero che sia fornito dei requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dall'Azienda unità sanitaria locale competente per territorio, può chiedere al questore il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, per sè e per i familiari di cui all'articolo 29, comma 1 (50) (51).

 

2. Il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo è a tempo indeterminato ed è rilasciato entro novanta giorni dalla richiesta.

 

3. La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli stranieri che:

 

a) soggiornano per motivi di studio o formazione professionale;

 

b) soggiornano a titolo di protezione temporanea o per motivi umanitari ovvero hanno chiesto il permesso di soggiorno a tale titolo e sono in attesa di una decisione su tale richiesta;

 

c) soggiornano per asilo ovvero hanno chiesto il riconoscimento dello status di rifugiato e sono ancora in attesa di una decisione definitiva circa tale richiesta;

 

d) sono titolari di un permesso di soggiorno di breve durata previsto dal presente testo unico e dal regolamento di attuazione;

 

e) godono di uno status giuridico previsto dalla convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche, dalla convenzione di Vienna del 1963 sulle relazioni consolari, dalla convenzione del 1969 sulle missioni speciali o dalla convenzione di Vienna del 1975 sulla rappresentanza degli Stati nelle loro relazioni con organizzazioni internazionali di carattere universale.

 

4. Il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo non può essere rilasciato agli stranieri pericolosi per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. Nel valutare la pericolosità si tiene conto anche dell'appartenenza dello straniero ad una delle categorie indicate nell'articolo 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come sostituito dall'articolo 2 della legge 3 agosto 1988, n. 327, o nell'articolo 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, come sostituito dall'articolo 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646, ovvero di eventuali condanne anche non definitive, per i reati previsti dall'articolo 380 del codice di procedura penale, nonchè, limitatamente ai delitti non colposi, dall'articolo 381 del medesimo codice. Ai fini dell'adozione di un provvedimento di diniego di rilascio del permesso di soggiorno di cui al presente comma il questore tiene conto altresì della durata del soggiorno nel territorio nazionale e dell'inserimento sociale, familiare e lavorativo dello straniero.

 

5. Ai fini del calcolo del periodo di cui al comma 1, non si computano i periodi di soggiorno per i motivi indicati nelle lettere d) ed e) del comma 3.

 

6. Le assenze dello straniero dal territorio nazionale non interrompono la durata del periodo di cui al comma 1 e sono incluse nel computo del medesimo periodo quando sono inferiori a sei mesi consecutivi e non superano complessivamente dieci mesi nel quinquennio, salvo che detta interruzione sia dipesa dalla necessità di adempiere agli obblighi militari, da gravi e documentati motivi di salute ovvero da altri gravi e comprovati motivi.

 

7. Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 è revocato:

 

a) se è stato acquisito fraudolentemente;

 

b) in caso di espulsione, di cui al comma 9;

 

c) quando mancano o vengano a mancare le condizioni per il rilascio, di cui al comma 4;

 

d) in caso di assenza dal territorio dell'Unione per un periodo di dodici mesi consecutivi;

 

e) in caso di conferimento di permesso di soggiorno di lungo periodo da parte di altro Stato membro dell'Unione europea, previa comunicazione da parte di quest'ultimo, e comunque in caso di assenza dal territorio dello Stato per un periodo superiore a sei anni.

 

8. Lo straniero al quale è stato revocato il permesso di soggiorno ai sensi delle lettere d) ed e) del comma 7, può riacquistarlo, con le stesse modalità di cui al presente articolo. In tal caso, il periodo di cui al comma 1, è ridotto a tre anni.

 

9. Allo straniero, cui sia stato revocato il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo e nei cui confronti non debba essere disposta l'espulsione è rilasciato un permesso di soggiorno per altro tipo in applicazione del presente testo unico.

 

10. Nei confronti del titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, l'espulsione può essere disposta:

 

a) per gravi motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato;

 

b) nei casi di cui all'articolo 3, comma 1, del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155;

 

c) quando lo straniero appartiene ad una delle categorie indicate all'articolo 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, ovvero all'articolo 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, sempre che sia stata applicata, anche in via cautelare, una delle misure di cui all'articolo 14 della legge 19 marzo 1990, n. 55.

 

11. Ai fini dell'adozione del provvedimento di espulsione di cui al comma 10, si tiene conto anche dell'età dell'interessato, della durata del soggiorno sul territorio nazionale, delle conseguenze dell'espulsione per l'interessato e i suoi familiari, dell'esistenza di legami familiari e sociali nel territorio nazionale e dell'assenza di tali vincoli con il Paese di origine.

 

12. Oltre a quanto previsto per lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, il titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo può:

 

a) fare ingresso nel territorio nazionale in esenzione di visto e circolare liberamente sul territorio nazionale salvo quanto previsto dall'articolo 6, comma 6;

 

b) svolgere nel territorio dello Stato ogni attività lavorativa subordinata o autonoma salvo quelle che la legge espressamente riserva al cittadino o vieta allo straniero. Per lo svolgimento di attività di lavoro subordinato non è richiesta la stipula del contratto di soggiorno di cui all'articolo 5-bis;

 

c) usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale, di quelle relative ad erogazioni in materia sanitaria, scolastica e sociale, di quelle relative all'accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico, compreso l'accesso alla procedura per l'ottenimento di alloggi di edilizia residenziale pubblica, salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l'effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale;

 

d) partecipare alla vita pubblica locale, con le forme e nei limiti previsti dalla vigente normativa.

 

13. È autorizzata la riammissione sul territorio nazionale dello straniero espulso da altro Stato membro dell'Unione europea titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo di cui al comma 1 che non costituisce un pericolo per l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato (52).

 

 

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(50) La Corte Costituzionale, con sentenza 29-30 luglio 2008, n. 306 (Gazz. Uff. 6 agosto 2008, n. 33 - Prima serie speciale), ha dichiarato l’illegittimità del presente comma – come modificato dall'art. 9, comma 1, della L. 30 luglio 2002, n. 189 e poi sostituito dall'art. 1, comma 1, del D.Lgs. 8 gennaio 2007, n. 3 – e dell’art. 80, comma 19, L. 23 dicembre 2000, n. 388, nella parte in cui escludono che l'indennità di accompagnamento, di cui all'art. 1 della L. 11 febbraio 1980, n. 18, possa essere attribuita agli stranieri extracomunitari soltanto perché essi non risultano in possesso dei requisiti di reddito già stabiliti per la carta di soggiorno ed ora previsti, per effetto del D.Lgs. 8 gennaio 2007, n. 3 per il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo.

(51) La Corte costituzionale, con sentenza 2-6 ottobre 2006, n. 324 (Gazz. Uff. 11 ottobre 2006, n. 41, 1ª Serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, come modificato dall'art. 9 della legge 30 luglio 2002, n. 189, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 32, 35, terzo comma, 38, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione.

(52) Articolo prima modificato dal comma 1 dell'art. 9, L. 30 luglio 2002, n. 189 e poi così sostituito dall'art. 1, D.Lgs. 8 gennaio 2007, n. 3. Vedi, anche, il D.M. 3 agosto 2004.

 

(omissis)

Art. 23

Titoli di prelazione.

1. Nell'àmbito di programmi approvati, anche su proposta delle regioni e delle province autonome, dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca e realizzati anche in collaborazione con le regioni, le province autonome e altri enti locali, organizzazioni nazionali degli imprenditori e datori di lavoro e dei lavoratori, nonché organismi internazionali finalizzati al trasferimento dei lavoratori stranieri in Italia ed al loro inserimento nei settori produttivi del Paese, enti ed associazioni operanti nel settore dell'immigrazione da almeno tre anni, possono essere previste attività di istruzione e di formazione professionale nei Paesi di origine.

 

2. L'attività di cui al comma 1 è finalizzata:

 

a) all'inserimento lavorativo mirato nei settori produttivi italiani che operano all'interno dello Stato;

 

b) all'inserimento lavorativo mirato nei settori produttivi italiani che operano all'interno dei Paesi di origine;

 

c) allo sviluppo delle attività produttive o imprenditoriali autonome nei Paesi di origine.

 

3. Gli stranieri che abbiano partecipato alle attività di cui al comma 1 sono preferiti nei settori di impiego ai quali le attività si riferiscono ai fini della chiamata al lavoro di cui all'articolo 22, commi 3, 4 e 5, secondo le modalità previste nel regolamento di attuazione del presente testo unico.

 

4. Il regolamento di attuazione del presente testo unico prevede agevolazioni di impiego per i lavoratori autonomi stranieri che abbiano seguito i corsi di cui al comma 1 (206).

 

 

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(206)  Articolo così sostituito dal comma 1 dell'art. 19, L. 30 luglio 2002, n. 189. Vedi, anche, l'art. 38 della stessa legge.

(omissis)

 

 


 

D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394.
Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell'art. 1, comma 6, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286
(art. 34)

 

 

(1) (2) (3)

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(1) Pubblicato nella Gazz. Uff. 3 novembre 1999, n. 258, S.O.

(2)  Nel testo del presente decreto le parole: «Ministro o Ministero del lavoro e della previdenza sociale» e «Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per gli affari sociali» sono state sostituite dalle parole: «Ministro o Ministero del lavoro e delle politiche sociali.», ai sensi di quanto disposto dall'art. 47, D.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334 (Gazz. Uff. 10 febbraio 2005, n. 33, S.O.).

(3)  Con riferimento al presente provvedimento sono state emanate le seguenti istruzioni:

- Ministero del lavoro e della previdenza sociale: Circ. 22 marzo 2000, n. 300/C/2000; Circ. 5 giugno 2000, n. 34/2000; Circ. 12 luglio 2000, n. 47/2000; Circ. 21 luglio 2000, n. 54/2000; Circ. 28 luglio 2000, n. 55/2000; Circ. 28 luglio 2000, n. 56/2000; Circ. 14 dicembre 2000, n. 89/2000; Circ. 6 marzo 2001, n. 29/2001; Nota 13 novembre 2002, n. 9551;

- Ministero del lavoro e delle politiche sociali: Circ. 18 giugno 2001, n. 62/2001; Lett.Circ. 23 maggio 2002, n. 1459; Circ. 11 febbraio 2005, n. 6/2005;

- Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato: Circ. 4 aprile 2000, n. 3484/C;

- Ministero dell'interno: Circ. 23 dicembre 1999, n. 300/C/227729/12/207; Circ. 22 marzo 2000, n. 300/C/2000; Circ. 4 luglio 2000, n. 300/C/2000/3623/A/12.229.52/1DIV; Circ. 25 marzo 2004, n. 400/A/2004/278/P/12.229.52; Circ. 30 maggio 2005;

- Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca: Nota 3 aprile 2003, n. 1576.

(omissis)

Art. 34

Titoli di prelazione.

1. Con decreti del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di intesa con la Conferenza Stato-Regioni, sono fissate le modalità di predisposizione e di svolgimento dei programmi di formazione e di istruzione da effettuarsi nel Paese di origine ai sensi dell'articolo 23, comma 1, del testo unico, e sono stabiliti i criteri per la loro valutazione. I programmi sono presentati al Ministero del lavoro e delle politiche sociali che, sentito il Ministero degli affari esteri, procede all'istruttoria e, congiuntamente con il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, provvede alla relativa valutazione e all'eventuale approvazione, dando precedenza ai programmi validati dalle regioni e che siano coerenti con il fabbisogno da queste formalizzato ai sensi dell'articolo 21, comma 4-ter, del testo unico (90).

 

2. I lavoratori in possesso dell'attestato di qualifica ovvero di frequenza con certificazione delle competenze acquisite, conseguito nell'àmbito dei predetti programmi, sono inseriti in apposite liste istituite presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

 

3. Le liste di cui al comma 2, distinte per Paesi di origine, constano di un elenco di nominativi contenente il Paese di origine, le complete generalità, la qualifica professionale, il grado di conoscenza della lingua italiana, il tipo di rapporto di lavoro preferito, stagionale, a tempo determinato o indeterminato, nonché l'indicazione del programma formativo svolto e del rispettivo settore di impiego di destinazione.

 

4. I dati inseriti in tali liste sono posti a disposizione, tramite il sistema informativo delle Direzioni provinciali del lavoro, dei datori di lavoro, che possono procedere con la richiesta di nullaosta al lavoro ai sensi dell'articolo 22, commi 3, 4 e 5, del testo unico, oppure nei casi in cui abbiano conoscenza diretta degli stranieri, con la richiesta nominativa di nullaosta di cui all'articolo 22, comma 2, del testo unico. Il nullaosta al lavoro per tali lavoratori è rilasciato senza il preventivo espletamento degli adempimenti previsti dall'articolo 22, comma 4, del testo unico.

 

5. I lavoratori inseriti nell'elenco hanno un diritto di priorità, rispetto ai cittadini del loro stesso Paese, secondo l'ordine di iscrizione nelle liste, ai fini della chiamata numerica di cui all'articolo 22, comma 3, del testo unico.

 

6. Nel caso di richieste numeriche di nullaosta per lavoro stagionale, tale diritto di priorità opera esclusivamente rispetto ai lavoratori che non si trovano nella condizione prevista dall'articolo 24, comma 4, del testo unico.

 

7. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di cui all'articolo 3, comma 4, del testo unico, è riservata una quota di ingressi per lavoro subordinato non stagionale ai lavoratori inseriti nell'elenco che abbiano partecipato all'attività formativa nei Paesi di origine, anche sulla base delle indicazioni fornite dalle regioni, ai sensi dell'articolo 21, comma 4-ter, del testo unico. Qualora si verifichino residui nell'utilizzo della quota riservata, trascorsi nove mesi dalla data di entrata in vigore del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, la stessa rientra nella disponibilità della quota di lavoro subordinato.

 

8. Entro i limiti della riserva fissata ai sensi del comma 7, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali provvederà alla ripartizione della relativa quota di ingressi, tenendo conto in via prioritaria delle richieste di manodopera da impiegare nelle aree di destinazione lavorativa dei cittadini extracomunitari, individuate nei programmi di istruzione e formazione professionale approvati ai sensi del comma 1.

 

9. Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri può prevedere che, in caso di esaurimento della quota riservata prevista al comma 7, siano ammessi ulteriori ingressi, sulla base di effettive richieste di lavoratori formati ai sensi dell'articolo 23 del testo unico.

 

10. Ai partecipanti ai corsi di formazione destinati ai lavoratori autonomi stranieri, inseriti in appositi elenchi, è riservata, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di cui all'articolo 3, comma 4, del testo unico, una quota stabilita a livello nazionale (91).

 

 

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(90) In attuazione di quanto disposto dal presente comma vedi il D.M. 22 marzo 2006.

(91)  Articolo così sostituito dall'art. 29, D.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334 (Gazz. Uff. 10 febbraio 2005, n. 33, S.O.).

(omissis)

 


 

Legge 10 marzo 2000, n. 62.
Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all'istruzione


 

(1) (2)

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(1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 21 marzo 2000, n. 67.

(2)  Con riferimento al presente provvedimento sono state emanate le seguenti istruzioni:

- I.N.P.D.A.P. (Istituto nazionale previdenza dipendenti amministrazione pubblica): Informativa 30 ottobre 2002, n. 25; Informativa 24 luglio 2003, n. 33;

- Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca: Lett.Circ. 30 agosto 2001, n. 333; Nota 21 settembre 2001, n. 456; Nota 28 settembre 2001, n. 2238; Lett.Circ. 29 ottobre 2001, n. 2668; Lett.Circ. 12 novembre 2001, n. 704; Lett.Circ. 24 gennaio 2002, n. 119; Nota 29 gennaio 2002, n. 111; Lett.Circ. 20 febbraio 2002, n. 245/Uff.I; Circ. 18 marzo 2003, n. 31; Nota 15 maggio 2003, n. 2021;

- Ministero della pubblica istruzione: Circ. 15 giugno 2000, n. 163; Circ. 20 ottobre 2000, n. 235; Lett.Circ. 29 dicembre 2000, n. 10432; Nota 23 gennaio 2001, n. 185; Circ. 14 febbraio 2001, n. 30; Nota 27 febbraio 2001, n. 488; Circ. 14 maggio 2001, n. 87.

 

 

Art. 1

1. Il sistema nazionale di istruzione, fermo restando quanto previsto dall'articolo 33, secondo comma, della Costituzione, è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali. La Repubblica individua come obiettivo prioritario l'espansione dell'offerta formativa e la conseguente generalizzazione della domanda di istruzione dall'infanzia lungo tutto l'arco della vita (3).

 

2. Si definiscono scuole paritarie, a tutti gli effetti degli ordinamenti vigenti, in particolare per quanto riguarda l'abilitazione a rilasciare titoli di studio aventi valore legale, le istituzioni scolastiche non statali, comprese quelle degli enti locali, che, a partire dalla scuola per l'infanzia, corrispondono agli ordinamenti generali dell'istruzione, sono coerenti con la domanda formativa delle famiglie e sono caratterizzate da requisiti di qualità ed efficacia di cui ai commi 4, 5 e 6.

 

3. Alle scuole paritarie private è assicurata piena libertà per quanto concerne l'orientamento culturale e l'indirizzo pedagogico-didattico. Tenuto conto del progetto educativo della scuola, l'insegnamento è improntato ai princìpi di libertà stabiliti dalla Costituzione. Le scuole paritarie, svolgendo un servizio pubblico, accolgono chiunque, accettandone il progetto educativo, richieda di iscriversi, compresi gli alunni e gli studenti con handicap. Il progetto educativo indica l'eventuale ispirazione di carattere culturale o religioso. Non sono comunque obbligatorie per gli alunni le attività extra-curriculari che presuppongono o esigono l'adesione ad una determinata ideologia o confessione religiosa.

 

4. La parità è riconosciuta alle scuole non statali che ne fanno richiesta e che, in possesso dei seguenti requisiti, si impegnano espressamente a dare attuazione a quanto previsto dai commi 2 e 3:

 

a) un progetto educativo in armonia con i princìpi della Costituzione; un piano dell'offerta formativa conforme agli ordinamenti e alle disposizioni vigenti; attestazione della titolarità della gestione e la pubblicità dei bilanci;

 

b) la disponibilità di locali, arredi e attrezzature didattiche propri del tipo di scuola e conformi alle norme vigenti;

 

c) l'istituzione e il funzionamento degli organi collegiali improntati alla partecipazione democratica;

 

d) l'iscrizione alla scuola per tutti gli studenti i cui genitori ne facciano richiesta, purché in possesso di un titolo di studio valido per l'iscrizione alla classe che essi intendono frequentare;

 

e) l'applicazione delle norme vigenti in materia di inserimento di studenti con handicap o in condizioni di svantaggio;

 

f) l'organica costituzione di corsi completi: non può essere riconosciuta la parità a singole classi, tranne che in fase di istituzione di nuovi corsi completi, ad iniziare dalla prima classe;

 

g) personale docente fornito del titolo di abilitazione;

 

h) contratti individuali di lavoro per personale dirigente e insegnante che rispettino i contratti collettivi nazionali di settore (4).

 

4-bis. Ai fini di cui al comma 4 il requisito del titolo di abilitazione deve essere conseguito, dal personale in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge presso le scuole secondarie che chiedono il riconoscimento, al termine dell'anno accademico in corso alla data di conclusione su tutto il territorio nazionale della prima procedura concorsuale per titoli ed esami che verrà indetta successivamente alla data sopraindicata. Per il personale docente in servizio nelle scuole dell'infanzia riconosciute paritarie si applica l'articolo 334 del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado, approvato con decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297. Tale disposizione si applica fino alla conclusione dei corsi abilitanti appositamente istituiti (5).

 

5. Le istituzioni di cui ai commi 2 e 3 sono soggette alla valutazione dei processi e degli esiti da parte del sistema nazionale di valutazione secondo gli standard stabiliti dagli ordinamenti vigenti. Tali istituzioni, in misura non superiore a un quarto delle prestazioni complessive, possono avvalersi di prestazioni volontarie di personale docente purché fornito di relativi titoli scientifici e professionali ovvero ricorrere anche a contratti di prestazione d'opera di personale fornito dei necessari requisiti (6).

 

6. Il Ministero della pubblica istruzione accerta l'originario possesso e la permanenza dei requisiti per il riconoscimento della parità.

 

7. Alle scuole non statali che non intendano chiedere il riconoscimento della parità, seguitano ad applicarsi le disposizioni di cui alla parte II, titolo VIII del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado, approvato con decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297. [Allo scadere del terzo anno scolastico successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro della pubblica istruzione presenta al Parlamento una relazione sul suo stato di attuazione e, con un proprio decreto, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, propone il definitivo superamento delle citate disposizioni del predetto testo unico approvato con decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, anche al fine di ricondurre tutte le scuole non statali nelle due tipologie delle scuole paritarie e delle scuole non paritarie] (7).

 

8. Alle scuole paritarie, senza fini di lucro, che abbiano i requisiti di cui all'articolo 10 del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, è riconosciuto il trattamento fiscale previsto dallo stesso decreto legislativo n. 460 del 1997, e successive modificazioni.

 

9. Al fine di rendere effettivo il diritto allo studio e all'istruzione a tutti gli alunni delle scuole statali e paritarie nell'adempimento dell'obbligo scolastico e nella successiva frequenza della scuola secondaria e nell'ambito dell'autorizzazione di spesa di cui al comma 12, lo Stato adotta un piano straordinario di finanziamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano da utilizzare a sostegno della spesa sostenuta e documentata dalle famiglie per l'istruzione mediante l'assegnazione di borse di studio di pari importo eventualmente differenziate per ordine e grado di istruzione. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, emanato su proposta del Ministro della pubblica istruzione entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono stabiliti i criteri per la ripartizione di tali somme tra le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e per l'individuazione dei beneficiari, in relazione alle condizioni reddituali delle famiglie da determinare ai sensi dell'articolo 27 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, nonché le modalità per la fruizione dei benefìci e per la indicazione del loro utilizzo (8) (9) (10).

 

10. I soggetti aventi i requisiti individuati dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 9 possono fruire della borsa di studio mediante detrazione di una somma equivalente dall'imposta lorda riferita all'anno in cui la spesa è stata sostenuta. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano disciplinano le modalità con le quali sono annualmente comunicati al Ministero delle finanze e al Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica i dati relativi ai soggetti che intendono avvalersi della detrazione fiscale. Il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica provvede al corrispondente versamento delle somme occorrenti all'entrata del bilancio dello Stato a carico dell'ammontare complessivo delle somme stanziate ai sensi del comma 12 (11).

 

11. Tali interventi sono realizzati prioritariamente a favore delle famiglie in condizioni svantaggiate. Restano fermi gli interventi di competenza di ciascuna regione e delle province autonome di Trento e di Bolzano in materia di diritto allo studio.

 

12. Per le finalità di cui ai commi 9, 10 e 11 è autorizzata la spesa di lire 250 miliardi per l'anno 2000 e di lire 300 miliardi annue a decorrere dall'anno 2001.

 

13. A decorrere dall'esercizio finanziario successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della presente legge, gli stanziamenti iscritti alle unità previsionali di base 3.1.2.1 e 10.1.2.1 dello stato di previsione del Ministero della pubblica istruzione sono incrementati, rispettivamente, della somma di lire 60 miliardi per contributi per il mantenimento di scuole elementari parificate e della somma di lire 280 miliardi per spese di partecipazione alla realizzazione del sistema prescolastico integrato (12) (13).

 

14. È autorizzata, a decorrere dall'anno 2000, la spesa di lire 7 miliardi per assicurare gli interventi di sostegno previsti dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104, e successive modificazioni, nelle istituzioni scolastiche che accolgono alunni con handicap.

 

15. All'onere complessivo di lire 347 miliardi derivante dai commi 13 e 14 si provvede mediante corrispondente riduzione delle proiezioni per gli anni 2000 e 2001 dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 1999-2001, nell'àmbito dell'unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica per l'anno 1999, allo scopo parzialmente utilizzando quanto a lire 327 miliardi l'accantonamento relativo al Ministero della pubblica istruzione e quanto a lire 20 miliardi l'accantonamento relativo al Ministero dei trasporti e della navigazione (14).

 

16. All'onere derivante dall'attuazione dei commi 9, 10, 11 e 12, pari a lire 250 miliardi per l'anno 2000 e lire 300 miliardi per l'anno 2001, si provvede mediante corrispondente riduzione delle proiezioni per gli stessi anni dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 1999-2001, nell'àmbito dell'unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica per l'anno 1999, allo scopo parzialmente utilizzando quanto a lire 100 miliardi per l'anno 2000 e lire 70 miliardi per l'anno 2001 l'accantonamento relativo al Ministero degli affari esteri, quanto a lire 100 miliardi per l'anno 2001 l'accantonamento relativo al Ministero dei trasporti e della navigazione, quanto a lire 150 miliardi per il 2000 e 130 miliardi per il 2001 l'accantonamento relativo al Ministero della pubblica istruzione. A decorrere dall'anno 2002 si provvede ai sensi dell'articolo 11, comma 3, lettera d), della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni.

 

17. Il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.

 

 

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(3)  La Corte costituzionale, con sentenza 30 gennaio-6 febbraio 2003, n. 42 (Gazz. Uff. 11 febbraio 2003, ediz. straord. - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione, nelle parti indicate nella stessa sentenza, dell'articolo 1, commi 1, 5, 9 e 15 della presente legge, nonché dell'intero comma 13 dell'articolo 1; richiesta dichiarata legittima con ordinanza del 9 dicembre 2002 dall'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione.

(4)  La Corte costituzionale, con sentenza 12-26 gennaio 2005, n. 33 (Gazz. Uff. 2 febbraio 2005, n. 5, 1ª Serie speciale), ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 4, 9 e 10, sollevate in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 Cost., in relazione agli artt. 17, 42 e 45 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 e agli artt. 2 e 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, dalla Regione Lombardia.

(5)  Comma aggiunto dall'art. 51, comma 10, L. 23 dicembre 2000, n. 388 e poi così modificato dal comma 8 dell'art. 1, D.L. 7 settembre 2007, n. 147, come modificato dalla relativa legge di conversione.

(6)  La Corte costituzionale, con sentenza 30 gennaio-6 febbraio 2003, n. 42 (Gazz. Uff. 11 febbraio 2003, ediz. straord. - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione, nelle parti indicate nella stessa sentenza, dell'articolo 1, commi 1, 5, 9 e 15 della presente legge, nonché dell'intero comma 13 dell'articolo 1; richiesta dichiarata legittima con ordinanza del 9 dicembre 2002 dall'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione.

(7)  Periodo soppresso dal comma 7 dell'art. 1-bis, D.L. 5 dicembre 2005, n. 250, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione.

(8)  In attuazione di quanto disposto dal presente comma, vedi il D.P.C.M. 14 febbraio 2001, n. 106.

(9)  La Corte costituzionale, con sentenza 30 gennaio-6 febbraio 2003, n. 42 (Gazz. Uff. 11 febbraio 2003, ediz. straord. - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione, nelle parti indicate nella stessa sentenza, dell'articolo 1, commi 1, 5, 9 e 15 della presente legge, nonché dell'intero comma 13 dell'articolo 1; richiesta dichiarata legittima con ordinanza del 9 dicembre 2002 dall'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione.

(10)  La Corte costituzionale, con sentenza 12-26 gennaio 2005, n. 33 (Gazz. Uff. 2 febbraio 2005, n. 5, 1ª Serie speciale), ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 4, 9 e 10, sollevate in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 Cost., in relazione agli artt. 17, 42 e 45 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 e agli artt. 2 e 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, dalla Regione Lombardia.

(11)  La Corte costituzionale, con sentenza 12-26 gennaio 2005, n. 33 (Gazz. Uff. 2 febbraio 2005, n. 5, 1ª Serie speciale), ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 4, 9 e 10, sollevate in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 Cost., in relazione agli artt. 17, 42 e 45 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 e agli artt. 2 e 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, dalla Regione Lombardia.

(12)  Il disposto di cui al presente comma, si applica a decorrere dall'esercizio finanziario 2000 ai sensi di quanto disposto dall'art. 1, comma 1, L. 14 agosto 2000, n. 247.

(13)  La Corte costituzionale, con sentenza 30 gennaio-6 febbraio 2003, n. 42 (Gazz. Uff. 11 febbraio 2003, ediz. straord. - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione, nelle parti indicate nella stessa sentenza, dell'articolo 1, commi 1, 5, 9 e 15 della presente legge, nonché dell'intero comma 13 dell'articolo 1; richiesta dichiarata legittima con ordinanza del 9 dicembre 2002 dall'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione.

(14)  La Corte costituzionale, con sentenza 30 gennaio-6 febbraio 2003, n. 42 (Gazz. Uff. 11 febbraio 2003, ediz. straord. - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione, nelle parti indicate nella stessa sentenza, dell'articolo 1, commi 1, 5, 9 e 15 della presente legge, nonché dell'intero comma 13 dell'articolo 1; richiesta dichiarata legittima con ordinanza del 9 dicembre 2002 dall'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione.

 

 

 


Giurisprudenza

 


 

Corte Costituzionale.
Sentenza 28 gennaio 1983, n. 30

 

 

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Deposito in cancelleria: 9 febbraio 1983.

Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 46 del 16 febbraio 1983.

 

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori: Prof. LEOPOLDO ELIA, Presidente - Prof. ANTONINO DE STEFANO - Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN - Avv. ORONZO REALE - Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - Avv. ALBERTO MALAGUGINI - Prof. LIVIO PALADIN - Prof. ANTONIO LA PERGOLA - Prof. VIRGILIO ANDRIOLI - Prof. GIUSEPPE FERRARI - Dott. FRANCESCO SAJA - Prof. GIOVANNI CONSO, Giudici,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale: 1) dell'art. 1, n. 2, della legge 13 giugno 1912, n. 555, sulla cittadinanza italiana, e dell'art. 20 delle disposizioni preliminari al codice civile; 2) degli artt. 1, n. 1, e 2, comma 2, della detta legge 13 giugno 1912, n. 555, promossi con le seguenti ordinanze:

 

1) ordinanza emessa il 23 gennaio 1978 dal Tribunale per i minorenni di Firenze sul ricorso proposto da Bettalli Maria Silvia, iscritta al n. 167 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 154 del 5 giugno 1978;

 

2) ordinanza emessa il 3 ottobre 1980 dal Tribunale per i minorenni di Milano sul ricorso proposto da Velonas Sotiris, iscritta al n. 232 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 234 del 26 agosto 1981;

 

3) ordinanza emessa il 18 febbraio 1981 dal Tribunale di Milano nel procedimento civile vertente tra Pincella Anna Maria, esercente la patria potestà sul figlio minore Rahmani Ahmed e l'Amministrazione degli Affari Interni, iscritta al n. 633 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 345 del 16 dicembre 1981.

 

Visti l'atto di costituzione di Pincella Anna Maria e l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 5 maggio 1982 il Giudice relatore Leopoldo Elia;

 

udito l'avvocato dello Stato Renato Carafa, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto:

 

1. - Il Tribunale per i minorenni di Firenze, decidendo su un'istanza per la dichiarazione di decadenza della potestà del padre su figlio naturale riconosciuto da madre italiana e da padre portoghese, rilevato che nella specie avrebbe dovuto trovare applicazione la legge portoghese, in virtù dell'art. 20 delle disposizioni preliminari al codice civile, con ordinanza emessa il 23 gennaio 1978, sollevava questione di legittimità costituzionale di tale norma e dell'art. 1, n. 2, della legge 13 giugno 1912, n. 555, per contrasto con gli artt. 2 e 3 della Costituzione.

 

Osservava al riguardo che a giustificare sia l'attribuzione della cittadinanza del padre al figlio naturale sia la preferenza della legge di nazionalità del padre per regolare i rapporti tra genitori e figli sarebbe vano invocare il principio di salvaguardia dell'unità familiare posto dall'art. 29 della Costituzione, trattandosi nella specie di filiazione naturale cui tale principio è estraneo. In realtà la scelta del legislatore sembra ispirata, come in altra specie si è espressa la Corte costituzionale con sentenza numero 87 del 1975, alla "concezione imperante nel 1912 di considerare la donna come giuridicamente inferiore all'uomo e addirittura come persona non avente la completa capacità giuridica, (...) concenzione che non risponde anzi contrasta coi principi della Costituzione, che attribuisce pari dignità sociale ed eguaglianza davanti alla legge a tutti i cittadini senza distinzione di sesso".

 

Una corretta applicazione del principio di eguaglianza, invece, dovrebbe importare che il figlio naturale è cittadino italiano per nascita non solo se è figlio di padre (naturale) italiano ma anche quando è figlio di madre (naturale) italiana, indipendentemente dal non - riconoscimento paterno o dal fatto che, per la legge nazionale del padre naturale, il figlio non possa seguire la cittadinanza paterna: d'altronde il fenomeno della doppia cittadinanza - peraltro, introdotto dall'art. 143 ter del codice civile relativamente alla donna italiana che sposi uno straniero - non sarebbe più un problema in un'epoca quale è la nostra.

 

Lo stesso discorso varrebbe per l'art. 20 preleggi: scegliere la legge nazionale del padre naturale quale quella che regola i rapporti tra genitori e figli, anche quando il figlio è riconosciuto dalla madre di diversa cittadinanza, sarebbe discriminatorio per la donna, la quale ha il diritto costituzionale garantito ad una posizione di eguaglianza rispetto all'uomo.

 

La scelta in questione sarebbe poi ulteriormente discriminatoria fra figli naturali minori e figli legittimi minori di genitori di cittadinanza diversa. Infatti mentre questi ultimi, in caso di sciolgimento del matrimonio dei genitori, divengono cittadini italiani se la madre italiana esercita su di loro la potestà parentale, i primi restano per sempre stranieri, anche se l'unione di fatto dei genitori sia venuta meno e salva la naturalizzazione di cui all'art. 3 della legge n. 555 del 1912.

 

Infine, stabilire che i rapporti tra figli minori e genitori naturali siano regolati sempre e comunque dalla legge del padre e non dalla legge nazionale del genitore con il quale il minore vive sarebbe gravemente lesivo del diritto del minore strsso a svolgere la sua personalità nella formazione sociale familiare, in contrasto con l'art. 2 della Costituzione.

 

2. - L'ordinanza è stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale. Dinanzi alla Corte costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.

 

Nel chiedere che le questioni siano dichiarate non fondate, l'Avvocatura osserva, quanto all'art. 20 delle disposizioni preliminari al codice civile, che il legislatore, nel determinare nella legge nazionale del padre quella applicabile ai rapporti tra genitori e figli, ha operato una scelta non irrazionale né discriminatoria come non irrazionale né discriminatorio sarebbe stato optare a favore della legge nazionale della madre.

 

D'altronde, se si dovesse optare per la legge nazionale del minore (che, nella supposizione dell'illegittimità costituzionale dell'art. 1, n. 2, della legge n. 555 del 1912, sarebbe quella italiana) o del genitore col quale il minore vive, tale scelta non risponderebbe di per sé all'interesse del minore a sviluppare la propria personalità nell'ambiente sociale in cui è inserito.

 

Rileva infatti l'Avvocatura che solo occasionalmente, nella fattispecie, la legge nazionale del minore - ipotizzata dal tribunale come la più idonea a risolvere il caso - si identifica con quella italiana; che se il minore nella medesima situazione si trovasse a vivere con la madre in un Paese terzo (esclusi cioè il Portogallo e l'Italia) il giudice colà adito, in virtù delle norme del proprio ordinamento interno, potrebbe ritenere che la salvaguardia dei principi più sopra enunciati sia garantita unicamente dalla legge del Paese ove il minore effettivamente risiede.

 

Per quanto attiene, poi, alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, n. 2, della legge sulla cittadinanza italiana, una volta che l'art. 20 delle preleggi appare costituzionalmente legittimo, tale questione sembra irrilevante, poiché in ogni caso nella specie dovrà trovare applicazione la legge portoghese, la legge cioè del padre naturale del minore, legittimamente scelta dal legislatore ordinario come legge regolatrice nel caso di diversa cittadinanza dei genitori.

 

3. - Nel corso di un procedimento per riconoscimento di paternità promosso da Velonas Sotiris, cittadino greco, nei confronti del figlio naturale Mori Giorgio, resistendo la madre Giulia Mori alla domanda di sostituzione del cognome del figlio e dovendosi applicare la legge dello Stato cui il minore appartiene (art. 17 disp. prel. cod. civ.; diritto sostanziale greco che prevede in caso di riconoscimento la automatica assunzione del solo cognome paterno), il Tribunale per i minorenni di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, n. 2, della legge 13 giugno 1912, n. 555, nella parte in cui collega al riconoscimento paterno l'effetto automatico dell'acquisto della cittadinanza del padre e la perdita di quella della madre.

 

Il Tribunale dubita della compatibilità della norma denunziata con gli artt. 3 e 29 della Costituzione, in primo luogo in quanto essa sarebbe ispirata dalle norme di diritto familiare in vigore nel 1912, che prevedevano il solo padre quale titolare normale della patria potestà. Ciò peraltro nell'attuale assetto normativo appare del tutto ingiustificato e immotivatamente riduttivo della posizione della madre naturale. A questo proposito ritiene il tribunale che il principio di uguaglianza morale e giuridica tra uomo e donna affermato dall'art. 3 della Costituzione e, per quanto riguarda i rapporti familiari, dall'art. 29, deve essere applicato anche al di fuori dell'istituto matrimoniale, a situazioni di libera unione. Infatti non potrebbe ammettersi che solo all'interno del matrimonio la donna trovi garanzia e riconoscimento della sua pari dignit', e che, al di fuori di esso, rimanga, per quanto attiene ai rapporti familiari, la prevalenza maschile, astrattamente prevista senza tenere conto del concreto interesse del minore. Ma anche sotto un altro profilo la norma in esame sembra censurabile: non è infatti motivata la diversità di trattamento prevista a seconda che il figlio riconosciuto abbia o meno compiuto il 18 anno di età. Nel primo caso infatti il riconosciuto mantiene la possibilità di scegliere tra la cittadinanza italiana e quella diversa del padre, mentre se il figlio è minorenne tale possibilità non esiste, e la scelta effettuata dal genitore è per lui definitiva.

 

L'ordinanza è stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale. Nessuno si è costituito dinanzi alla Corte costituzionale.

 

4. - Nel corso del procedimento civile promosso da Anna Maria Pincella, cittadina italiana, madre esercente la potestà sul minore Ahmed Rahamani, figlio di cittadino marocchino, e volto ad ottenere la cittadinanza italiana del minore, il Tribunale di Milano, con ordinanza emessa il 18 febbraio 1981, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, n. 1, della legge 13 giugno 1912, n. 555, nella parte in cui non prevede che il figlio di cittadina italiana, che abbia conservato la cittadinanza anche dopo il matrimonio con lo straniero, abbia la cittadinanza italiana, in riferimento agli artt. 3 e 29, 2 comma, della Costituzione.

 

Secondo il Tribunale, la norma denunziata, superstite espressione di una diversa posizione morale e giuridica dei coniugi, non appare giustificabile con il superiore principio dell'unità familiare e come tale attua una disparità non motivata di trattamento tra marito e moglie.

 

5. - L'ordinanza è stata regolamente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale. Dinanzi alla Corte costituzionale si è costituita Anna Maria Pincella, rappresentata e difesa dall'avv. Giovanni Merla che, ribadendo le argomentazioni svolte dall'ordinanza, insiste per l'accoglimento della questione.

 

 

Considerato in diritto:

 

1. - Le tre ordinanze riassunte in narrativa sollevano questioni di legittimità costituzionale eguali o connesse; perciò i relativi giudizi possono essere riuniti e definiti con unica sentenza.

 

2. - Deve innanzitutto essere verificata la ammissibilità delle questioni sollevate con l'ordinanza del Tribunale per i minorenni di Firenze. Infatti la rilevanza del petitum in ordine all'art. 1, n. 2, legge 13 giugno 1912, n. 555, dipende dalla possibilità di sottoporre al sindacato di costituzionalità l'art. 20 delle disposizioni prel iminari al co dice civile (in relazione, nei due casi, agli artt. 2 e 3 Cost.), art. 20 che comporterebbe l'applicazione alla specie della legge portoghese; e ciò in contrasto con l'istanza della madre italiana per la dichiarazione di decadenza dalla potestà sul figlio naturale del padre straniero. Peraltro la questione di legittimità costituzionale nei confronti dell'art. 20 preleggi è sollevata in riferimento a contenuti normativi che risultano al tempo stesso diversi e considerati, per così dire, alla pari: in effetti l'art. 20 è impugnato "o nella parte in cui stabilisce che i rapporti tra i genitori e figli naturali sono regolati dalla legge nazionale del padre anche quando la madre italiana abbia riconosciuto il figlio o perché non stabilisce che la legge regolatrice dei rapporti tra i genitori e figli naturali è quella del genitore con cui il figlio, se minore, vive". Ma l'ambivalenza della questione in ordine all'art. 20 preleggi non può in questa sede essere superata, sicché riesce non identificabile il thema decidendum sottoposto al giudice della costituzionalità delle leggi.

 

Pertanto le questioni sollevate dal Tribunale per i minorenni di Firenze devono essere dichiarate inammissibili.

 

3. - Per la sua priorità nell'ordine logico, e perché concerne l'art. 1, n. 1, della legge n. 555 del 1912, va esaminata per prima la questione sollevata dal Tribunale di Milano (in causa Pincella contro Ministero Interno) in riferimento alla disposizione ora citata "nella parte in cui non prevede che il figlio di cittadina italiana, che abbia conservato la cittadinanza anche dopo il matrimonio con lo straniero, abbia la cittadinanza italiana". In realtà tale norma differenzia la situazione del marito straniero da quello della moglie italiana quanto all'acquisto della cittadinanza italiana da parte dei discendenti diretti del cittadino. Questa discriminazione tra coniugi in ordine alla determinazione dello status civitatis dei figli legittimi comporta inoltre conseguenze molteplici e di non secondario rilievo, quando si consideri che alla cittadinanza si riconnettono situazioni soggettive di segno diverso e di disparato contenuto, ma tutte raggruppabili in una condizione complessivamente positiva nell'ambito dell'ordinamento italiano.

 

L'art. 1, n. 1, della legge n. 555 del 1912 è in chiaro contrasto con l'art. 3, 1 comma, (eguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso) e con l'art. 29, 2 comma, (eguaglianza morale e giuridica dei coniugi).

 

Né giustifica la differenziata disciplina in tema di acquisto della cittadinanza per nascita il richiamo ad un limite all'eguaglianza tra i coniugi, stabilito dalla legge a garanzia della unità familiare. Tra l'altro non si vede come la diversità di cittadinanza tra i coniugi, ammessa dalla sentenza n. 87/1975 e dall'art. 143 ter codice civile (introdotto dalla legge 19 maggio 1975, n. 151, sulla riforma del diritto di famiglia), sia stata ritenuta compatibile con l'unità familiare, mentre non potrebbe esserlo l'attribuzione congiunta al figlio minore della cittadinanza paterna e di quella materna.

 

Nemmeno varrebbe poi, a giustificare il mancato ossequio ai principi degli artt. 3, primo comma, e 29, secondo comma, l'esigenza di evitare i fenomeni di doppia cittadinanza, per gli impegni assunti anche in sede internazionale (cfr. Convenzione di Strasburgo del 1963, la cui ratifica fu autorizzata con L. 4 ottobre 1966, n. 876, e depositata dall'Italia con alcune riserve). Deve infatti riconoscersi come prevalente, rispetto ad inconvenienti pur seri, la necessità di realizzare il principio costituzionale di eguaglianza anche a proposito di acquisto dello status civitatis per nascita. Né fanno difetto al legislatore i mezzi per ridurre in limiti tollerabili le difficoltà nascenti dalla pluralità di cittadinanze in capo al figlio.

 

Del resto anche la sentenza n. 87 del 1975 e l'art. 143 ter del codice civile danno luogo a casi di doppia cittadinanza senza che ciò sia valso a porre in dubbio il fondamento costituzionale delle soluzioni adottate. In questo senso la odierna pronuncia costituisce la logica proiezione, in tema di acquisto della cittadinanza per nascita, della ratio decidendi accolta nella sentenza n. 87 del 1975. Tale ratio, più che porre in rilievo la volontà del soggetto, consiste proprio nel riconoscimento delle conseguenze che derivano dai principi affermati nell'art. 3, primo comma, e nell'art. 29, secondo comma, della Costituzione. Invero, anche nella fattispecie ora esaminata, ciò che si valorizza è l'esigenza di una assimilazione giuridica nella comunità statale di coloro che vengono considerati, effettivamente o potenzialmente, integrati nella realtà socio - politica che l'ordinamento deve regolare. Tale rilievo, accolto dalla dottrina italiana che più si è occupata delle tendenze evolutive del diritto della cittadinanza in ambito europeo, corrisponde anche alla evoluzione del nostro diritto quale emerge dalla legge di riforma del diritto di famiglia del 1975 e dalla giurisprudenza di questa Corte.

 

Certo non si può parlare, in senso tecnicamente proprio, di un diritto dei genitori di "trasmettere ai figli" i rispettivi status civitatis: è sempre l'ordinamento statale a prevedere le fattispecie nelle quali si realizza l'acquisto della cittadinanza jure sanguinis, acquisto che, dal punto di vista giuridico, esclude ogni trasferimento o trasmissione. Ciò non toglie che la disciplina attuale, con il prevedere l'acquisto originario soltanto della cittadinanza del padre, lede da più punti di vista la posizione giuridica della madre nei suoi rapporti con lo Stato e con la famiglia. In particolare non può contestarsi l'interesse, giuridicamente rilevante, di entrambi i genitori a che i loro figli siano cittadini e cioè membri di quella stessa comunità statale di cui essi fanno parte e che possano godere della tutela collegata a tale appartenenza. Del pari la disciplina vigente lede la posizione della madre nella famiglia, se si considera la parità nei doveri e nella responsabilità verso i figli ormai affermata negli ordinamenti giuridici del nostro tempo (per l'Italia valgono soprattutto i novellati artt. 143 e 147 del codice civile).

 

In definitiva, l'art. 1, n. 1, della legge n. 555 del 1912 rappresenta una tipica espressione della diversità di posizione giuridica e morale dei coniugi, ritenuta necessaria dal legislatore di quel tempo per realizzare l'unità familiare, mediante l'assoggettamento della moglie e dei figli alla condizione, rispettivamente, del marito e del padre. Né va dimenticato che la disciplina impugnata contrasta con il principio di eguaglianza, giacché tratta in modo diverso i figli legittimi di padre italiano e di madre straniera rispetto ai figli legittimi di padre straniero e madre italiana.

 

Pertanto deve essere dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 1, n. 1, della legge n. 555 del 1912, nella parte in cui non prevede che sia cittadino per nascita anche il figlio di madre cittadina.

 

In applicazione, poi, dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, va pure dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, n. 2, della legge sulla cittadinanza, che collega l'acquisto della cittadinanza materna da parte del figlio soltanto ad ipotesi di carattere residuale.

 

4. - L'ordinanza del Tribunale per i minorenni di Milano solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, 2 comma, della legge n. 555 del 1912, in riferimento agli artt. 3 e 29 della Costituzione. Lasciando da parte l'art. 29, che riguarda la famiglia fondata sul matrimonio, è da chiedersi se la citata disposizione, prevedendo che il riconoscimento del padre, nella fattispecie straniero, abbia l'effetto automatico e necessario di fare acquisire al figlio minore la cittadinanza straniera e di fargli perdere quella italiana acquisita per il previo riconoscimento materno, risulti in armonia con l'art. 3, primo comma, della Costituzione.

 

Quanto si è detto sopra vale a fortiori per escludere la legittimità costituzionale del precetto impugnato. In effetti, cade in questa fattispecie anche il richiamo alla ratio dell'unità familiare, posta a fondamento della disciplina dell'art. 1, n. 1. Viene qui in evidenza la disparità di trattamento in ragione di sesso e la discriminazione conseguenziale in ordine allo status dei figli minori, senza che sia necessario indugiare sui gravi inconvenienti pratici sottolineati nell'ordinanza. Deve quindi dichiararsi l'illegittimità costituzionale del 2 comma dell'art. 2 della legge n. 555 del 1912.

 

5. - La Corte è consapevole del travagliato iter che in sede parlamentare, nel corso di più legislature si è svolto e si svolge tuttora in tema di riforma delle leggi sulla cittadinanza e sul suo adeguamento alla Costituzione, agli accordi internazionali ed alle mutate condizioni di vita nella famiglia e fuori di essa. Pur tenuto conto della complessità della materia, essa ritiene tuttavia che sia quanto mai necessaria ed urgente una revisione organica dell'intera normativa sulla cittadinanza, revisione che tenga conto di tutti i collegamenti tra una nuova disciplina e le regole del diritto internazionale privato.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, n. 2, della legge 13 giugno 1912, n. 555, e dell'art. 20 delle disposizioni preliminari al codice civile, sollevate in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione dal Tribunale per i minorenni di Firenze;

 

2) dichiara l'illegittimità costituzionale:

 

a) dell'art. 1, n. 1, della legge 13 giugno 1912, n. 555, nella parte in cui non prevede che sia cittadino per nascita anche il figlio di madre cittadina;

 

b) dell'art. 2, comma 2, della legge predetta;

 

3) dichiara - in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 - l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, n. 2, della legge 13 giugno 1912, n. 555.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 1983.

 

F.to: LEOPOLDO ELIA - ANTONINO DE STEFANO - GUGLIELMO ROEHRSSEN - ORONZO REALE - BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - ALBERTO MALAGUGINI - LIVIO PALADIN - ANTONIO LA PERGOLA - VIRGILIO ANDRIOLI - GIUSEPPE FERRARI - FRANCESCO SAJA - GIOVANNI CONSO.

 

GIOVANNI VITALE - Cancelliere

 


 

Corte di Cassazione.
Sentenza 10 luglio 1996, n. 6297

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

SEZIONE I

 

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Pellegrino SENOFONTE Presidente, Consiglieri Angelo GRIECO, Mario R. VIGNALE, Antonio CATALANO, Salvatore DI PALMA Relatore

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

sul ricorso proposto

 

da

MINISTERO DELL'INTERNO, in persona del Ministro p.t., elettivamente domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, c-o l'Avvocatura Generale dello Stato che lo rappresenta e difende ope legis;

Ricorrente

contro

VIRASORO MIGUEL ANGEL JOSÈ;

PROC. GEN. C-O CORTE APPELLO DI ROMA

Intimati

avverso la sentenza n. 2523-91 della Corte di Appello di Roma, depositata il 5.8.1991;

udita la relazione della causa svolta il 3.11.95 dal Consigliere Relatore dr. Di Palma;

udito il P.M. nella persona del Sostituto Procuratore Generale dr. Nardi che ha concluso per il rigetto del ricorso.

FATTO

1. Con citazione del 15 luglio 1983, Miguel Angel josè Virasoro - premesso che egli era nato a Buenos Aires in data 9 maggio 1940 da Miguel Virasoro, cittadino argentino, e da Maria Caterina Regnasco, cittadina italiana, e che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 30 del 1983 egli, in quanto figlio di madre cittadina, doveva considerarsi cittadino per nascita - convenne dinanzi al Tribunale di Roma il Ministro degli Interni, chiedendo, fra l'altro, che venisse accertato il suo "status" di cittadino italiano.

In contraddittorio con il pubblico ministero e con il Ministro degli Interni - che, costituitosi, instò per la reiezione della domanda - il Tribunale adito, con sentenza del 7 gennaio 18 maggio 1987, rigettò la domanda.

Proposto appello dal Virasoro dinanzi alla Corte di Roma cui resistette il Ministro degli Interni, ed intervenuto il P.M., la Corte adita, con sentenza del 5 giugno - 5 agosto 1991, in accoglimento del gravame e della domanda, dichiarò il Virasoro cittadino Italiano, in quanto nato da madre cittadina al momento della nascita.

In particolare, la Corte romana ha confutato la tesi, posta a fondamento della decisione di primo grado, secondo la quale - dal momento che la dichiarazione di incostituzionalità di una norma di legge anteriore all'entrata in vigore della Costituzione non estende i suoi effetti alle situazioni, anche se pendenti, venute in essere antecedentemente al 1 gennaio 1948 - la sentenza della Corte costituzionale n. 30 del 1983 non è idonea ad incidere sullo "status civitatis" del Virasoro, essendo quest'ultimo nato in data 9 maggio 1940) precedente all'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, ed essendosi il predetto "status" cristallizzato al momento della nascita sulla base di una disciplina che escludeva, in quel momento, l'acquisto della cittadinanza italiana del figlio di madre cittadina.

La Corte ha così argomentato in contrario: a) - la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una qualsiasi legge, anteriore o posteriore alla Costituzione, produce l'indefettibile conseguenza che essa non può più regolare alcuna situazione giuridica ancora produttiva di effetti al momento della declaratoria di incostituzionalità; sicché, in tali ipotesi, valgono le regole relative al fenomeno della successione delle leggi nel tempo, in forza delle quali la legge sopravvenuta si applica, in genere, anche ai rapporti giuridici ad essa antecedenti, purché non ancora "esauriti"; b) - la sentenza di incostituzionalità n. 30 del 1983 "ha introdotto nel sistema normativo vigente una nuova disposizione, che, adeguando l'art. 1 comma 1 n. 1 l. n. 555 del 1912 ai precetti degli artt. 3 e 29 comma 2 della Costituzione, ha equiparato, ai fini del conseguimento della cittadinanza "Jure sanguinis', i figli di madre cittadina e quelli di padre cittadino, "e" la forza precettiva di tale disposizione si estende a disciplinare tutti i fatti giuridici di nascita da madre cittadina ancora attuali ed in grado di produrre le conseguenze che l'ordinamento, con la norma sopravvenuta, fa scaturire dagli stessi"; c) - la nascita da madre italiana, che non abbia esaurito i suoi effetti per la morte del figlio, anche se anteriore alla data della pronuncia del giudice delle leggi, è da questa disciplinata; sicché, tutti i nati da madre cittadina ancora viventi alla data di pubblicazione della sentenza di illegittimità costituzionale "debbono essere considerati titolari del diritto all'acquisto della cittadinanza italiana"; d) la tesi contraria a quella sostenuta colliderebbe con la "ratio decidendi" della pronuncia di incostituzionalità - che ha "inteso salvaguardare, in assoluto, l'interesse, giuridicamente rilevante e paritario, di entrambi i genitori e che i loro figli acquisiscano la cittadinanza della comunità statuale cui essi appartengono, e la piena parità della posizione della madre nella famiglia" - e contribuirebbe a perpetuare l'intollerabile discriminazione in danno dei figli di madre cittadina rispetto ai figli di genitori cittadini, ancorché nati prima del 1 gennaio 1948.

Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione il Ministro degli Interni, deducendo un unico motivo di censura. DIRITTO

2.1. Con l'unico motivo (con cui deduce "violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 29 e 136 Cost. e 11 e 15 delle preleggi in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c."), il Ministero ricorrente censura la decisione impugnata sotto un duplice profilo. In primo luogo, la conseguenza pratica che deriva dalla tesi affermata dalla Corte romana sarebbe che "non solo i nati da madre cittadina tuttora viventi potrebbero rivendicare la cittadinanza italiana, ma anche tutti i loro discendenti, senza limiti di generazioni, con conseguente innesco di un contenzioso perpetuo di dubbia auspicabilità".

In secondo luogo, e sul piano dei principi, l'Amministrazione ricorrente sostiene - contrariamente a quanto argomentato dai giudici d'appello - che la "nuova norma", introdotta con la sentenza additiva della Corte costituzionale, dovrebbe essere applicata secondo i principi che disciplinano la successione delle leggi nel tempo;

sicché, la pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma, contenuta, come nel caso di specie, in una legge anteriore alla Costituzione, non potrebbe retroagire, anche rispetto ai rapporti ancora pendenti, oltre il momento in cui si è venuto a verificare il contrasto tra detta norma e quella costituzionale, e, quindi, oltre la data di entrata in vigore della Costituzione medesima (1 gennaio 1948); con l'ulteriore conseguenza che, per il periodo anteriore a tale data, l'effetto della pronuncia di incostituzionalità equivarrebbe a quello abrogativo, proprio del fenomeno della successione delle leggi nel tempo, e che, quindi, per il periodo stesso, opererebbe normalmente il principio di irretroattività della legge.

2.2. Il ricorso deve essere respinto.

La questione che viene posta, per la prima volta, a questa Corte consiste nello stabilire se al figlio legittimo (nella specie, straniero di nazionalità argentina per discendenza paterna) di madre cittadina al momento della nascita (nella specie, lo "status civitatis" della madre costituisce circostanza incontestata fra le parti), nato (il 9 maggio 1940) in data anteriore all'entrata in vigore della Costituzione 1 gennaio 1948: art. XVIII comma 1 disp. trans. e finali Cost.) debba essere riconosciuto lo "status" di cittadino italiano "Jure sanguinis", per effetto della sentenza di illegittimità costituzionale n. 30 del 1983.

2.2. - 1. Che, nella specie, la disciplina applicabile sia costituita proprio (anche) dalla citata pronuncia della Corte costituzionale, risulta dalle preliminari, indispensabili (alla ricostruzione del quadro normativo rilevante per la decisione) considerazioni che seguono.

L'art. 1 comma 1 n. 1 l. n. 555 del 13 giugno 1912 (disposizioni in materia di cittadinanza italiana) statuiva che è cittadino "per nascita" il figlio di padre cittadino.

Con sentenza n. 30 del 28 gennaio - 9 febbraio 1983 (l'annuncio di cui dispositivo è stato pubblicato nella G.U. 46 del 16 febbraio 1983, ed spec.), la Corte costituzionale, fra l'altro, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 comma 1 e 29 comma 2 Cost., dell'art. 1 comma 1 n. 1 l. n. 555 del 1912 "nella parte in cui non prevede che sia cittadino per nascita anche il figlio di madre cittadina"; e, conseguenzialmente (ex art. 27 l. n. 87 del 1953), dell'art. 1 comma 1 n. 2 della legge stessa. L'art. 5 l. 21 aprile 1983 n. 123 (pubblicata nella G. U. del 26 aprile 1983 ed entrata in vigore il successivo 27 aprile: cfr art. 9) stabiliva che è cittadino italiano il figlio minorenne, anche adottivo, di padre cittadino o di madre cittadina; e che, nel caso di doppia cittadinanza, il figlio avrebbe dovuto optare per una sola entro un anno dal raggiungimento della maggiore età (termine poi prorogato dall'art. 1 l. 15 maggio 1986 n. 180 fino alla data dell'entrata in vigore della nuova legge organica sulla cittadinanza). Siffatto obbligo di opzione è stato espresso dall'art. 26 comma 2 l. n. 91 del 1992.

L'art. 1 comma 1 lett. a) l. 5 febbraio 1992 n. 91 (nuove norme sulla cittadinanza; pubblicata nella G.U. n. 38 del 15 febbraio 1992, ed entrata in vigore, ai sensi dell'art. 27, il 16 agosto 1992) dispone, infine, che è cittadino per nascita il figlio di padre o di madre cittadini.

Deve essere sottolineato, in proposito, che tale legge, per un verso, abroga espressamente le disposizioni dinanzi citate (art. 26 comma 1) e, per l'altro, non contiene disposizioni "transitorie" ed esclude esplicitamente effetti retroattivi della nuova disciplina (art. 20).

Dal quadro normativo ora sintetizzato emerge con chiarezza che la disciplina applicabile alla fattispecie sottostante al presente ricorso è rappresentata dall'(abrogato) art. 1 comma 1 n. 1 l. n. 555 del 1912 nel testo risultante dalla sentenza di illegittimità costituzionale n. 30 del 1983.

Nè, infine, è di ostacolo all'applicabilità di siffatta disciplina il vigente accordo italo - argentino sulla cittadinanza, concluso a Buenos Aires il 29 settembre 1971, reso esecutivo in Italia con l. 18 maggio 1973 n. 282 ed entrato in vigore il 12 settembre 1974, il quale si prefigge lo scopo di offrire maggiori facilitazioni ai cittadini delle due Parti per l'acquisto della cittadinanza, rispettivamente, argentina o italiana. In particolare, l'art. 1 prevede, fra l'altro, che i cittadini italiani ed argentini per nascita possono acquisire, rispettivamente, la cittadinanza argentina o italiana alle condizioni e nella forma previste dalla legislazione in vigore in ciascuna delle Parti contraenti, conservando la loro precedente cittadinanza con sospensione dell'esercizio dei diritti inerenti a quest'ultima; e che la cittadinanza di origine deve essere determinata in base alle leggi del Paese di origine. Ancor più in particolare - e con riferimento al caso di specie - l'art. 5 stabilisce che gli italiani e gli argentini, i quali, anteriormente all'entrata in vigore dell'accordo (12 settembre 1974), avessero acquisito, rispettivamente, la cittadinanza argentina o italiana, possono avvalersi dei benefici previsti dall'accordo e conservare la loro cittadinanza di origine, dichiarando la loro volontà davanti alle autorità previste dal trattato. In definitiva, siffatto Accordo - che agevola gli immigrati italiani in Argentina e quelli argentini in Italia nell'acquisto della cittadinanza dello Stato di residenza - consente, sia pure con temperamenti, la doppia cittadinanza e stabilisce, comunque, che l'acquisto della cittadinanza italiana per nascita è disciplinato anche dalla legislazione italiana.

2.2.2. Per effetto della decisione di illegittimità costituzionale n. 30 del 1983 il testo dell'art. 1 comma 1 n. 1 l. n. 555 del 1912 applicabile - come s'è dinanzi affermato - alla fattispecie, dispone(va) che è cittadino "per nascita" il figlio di (padre cittadino o) di madre cittadina (disposizione, poi, trasfusa, con formulazione identica, nel vigente art. 1 comma 1 lett. a l. n. 91 del 1992).

il problema se siffatta dichiarazione di incostituzionalità esplichi effetti nella fattispecie - caratterizzata, nei limiti dei motivi d'impugnazione proposti, dalla circostanza che il soggetto reclamante lo "status civitatis" italiano è nato in data anteriore all'entrata in vigore della Costituzione - impone qualche breve considerazione preliminare sul modo d'acquisto della cittadinanza italiana "per nascita".

Dev'esser precisato, in proposito, che il titolo di siffatto modo di acquisto - tradizionalmente definito "originario" o "di origine" - della cittadinanza italiana è costituito, non già dall'evento "nascita" (che, in quanto tale, rappresenta un mero presupposto della fattispecie acquisitiva), bensì dalla situazione di filiazione da genitore cittadino; sicché, sussistendo tale situazione (titolo), l'acquisto della cittadinanza consegue, automaticamente (effetto "ex lege"), fin dal momento della nascita (si fa riferimento, ovviamente e con riguardo alla fattispecie, all'ipotesi - base del rapporto di filiazione legittima).

Acquisita (riconosciuta), in tal modo, la cittadinanza fin dalla nascita in ragione della filiazione ("Jure sanguinis"), il cittadino è tutelato, in quanto persona appartenente alla comunità statale, come tale, e cioè per il fatto stesso di questa appartenenza, riconosciuta secondo le norme dell'ordinamento giuridico relativo, o, in altri termini, per il suo "status".

In tale prospettiva, la dichiarazione di illegittimità costituzionale contenuta nella sentenza n. 30 del 1983 - operando la "reductio ad constitutionem" della previsione dell'art. 1 comma 1 n. 1 l. n. 555 del 1912, in ossequio ai principi di eguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso e di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi - ha, in realtà, "aggiunto" un distinto titolo di acquisto della cittadinanza italiana "Jure sanguinis" (discendenza materna, appunto) rispetto a quello (discendenza paterna) originariamente previsto quale unico (e, per ciò, incostituzionale) criterio di attribuzione dello "status civitatis" in ragione della situazione di filiazione legittima.

La conseguenza della pronuncia di incostituzionalità - ai sensi degli artt. 136 comma 1 Cost. e 30 comma 3 l. n. 87 del 1953 - è che, a far data dal 17 febbraio 1983 (giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della decisione), tutte le persone nate da madre cittadina hanno acquistato "ex lege" (art. 1 comma 1 n. 1 l. n. 555 del 1912 nel testo risultante dalla decisione DIRITTO

del giudice delle leggi) la cittadinanza italiana "Jure sanguinis", fin dal momento della nascita, per discendenza materna. 2.2.3. Siffatta conseguenza, però - secondo la tesi del ricorrente, non si verificherebbe, nel caso di specie, essendo impedita dalla circostanza della nascita del reclamante lo "status civitatis" in data anteriore a quella di entrata in vigore della Costituzione; data, quest'ultima, che rappresenterebbe il limite estremo all'efficacia "retroattiva" della predetta dichiarazione di illegittimità costituzionale, avente ad oggetto una legge anteriore alla Costituzione applicabile ad una situazione sorta prima del 1 gennaio 1948.

Tale tesi trova fondamento sia in dottrina (anche se minoritaria), sia in giurisprudenza (anche di questa Corte), sia nella pressi amministrativa.

Con riferimento a quest'ultima, il Ministro dell'Interno, in data 11 novembre 1992 ha emanato una circolare (n. K. 60.1, recante:

"Legge 5 febbraio 1992 n. 91 - Nuove norme in materia di cittadinanza", pubblicata nella G.U. n. 279 del 26 novembre 1992), nella quale, fra l'altro, nel paragrafo delicato all'acquisto della cittadinanza italiana per nascita, dopo aver riprodotto la nuove disciplina, così testualmente prosegue: "L'articolo in parola art. 1 l. n. 91 del 1992!, in primo luogo, conferma il tradizionale istituto dell'acquisto della cittadinanza per discendenza, in base al criterio dello Jus sanguinis, recependo, definitivamente il principio di parità tra uomo e donna per quanto attiene a siffatta trasmissione del nostro status civitatis, in conformità alla sentenza della Corte costituzionale n. 30 del 28 gennaio 1983. Al riguardo, resta fermo il principio che è possibile attribuire dalla nascita la cittadinanza italiana solo a quelle persone nate dopo il 1 gennaio 1948 da donna che a tale momento era in possesso dello status civitatis italiano. Come, infatti, chiarito dal consiglio di Stato, l'efficacia del giudicato costituzionale non può in ogni caso retroagire oltre il momento in cui si è verificato il contrasto tra la norma di legge o di atto avente la forza di legge - anteriore all'entrata in vigore della Costituzione - dichiarata illegittima, e la norma o il principio della Costituzione, cioè non può retroagire oltre il 1 gennaio 1948, data di entrata in vigore di quest'ultima (cfr. parere n. 105 Sez. ‚, 15 aprile 1983)".

La medesima tesi, come dinanzi ricordato, è stata più volte affermata - sia pure con riferimento a fattispecie diverse da quella che forma oggetto del presente ricorso - anche da questa Corte (cfr., ex plurimis, sentt. nn. 1707 del 1963, a sez. un., 2702 e 3226 del 1963, 1959 del 1969, 2222 del 1971, 1287 del 1972, 2022 del 1974 e, da ultima, 903 del 1978, menzionata dal ricorrente). In quest'ultima sentenza - che ribadisce il precedente orientamento - la tesi viene così, testualmente, argomentata:

"Riguardo alla pronuncia di incostituzionalità è da osservare, infatti! che, se è vero che la norma dichiarata costituzionalmente illegittima, comportando la sentenza della Corte costituzionale la sua definitiva ed integrale eliminazione dall'ordinamento con efficacia erga omnes, deve essere disapplicata, anche d'ufficio, dal giorno successivo alla pubblicazione, sulla Gazz. Uff., del dispositivo della decisione della Corte costituzionale, rispetto a tutti i rapporti per i quali penda controversia giudiziale, compresi quelli precostituiti, salvo che, rispetto ad essi, si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, consolidate ed intangibili, suscettibili - come tali - di essere diversamente regolate prescindendo dalla norma dichiarata incostituzionale (come si verifica in caso di rapporti già definiti, anteriormente alla pronuncia di illegittimità costituzionale, per effetto del giudicato o di atti amministrativi non più impugnabili o di atti negoziali dei quali siano interamente esauriti gli effetti o in conseguenza della prescrizione o della decadenza già verificatasi prima della medesima pronuncia), è vero, del pari, che quando, come nel caso in esame, la pronuncia di illegittimità costituzionale abbia per oggetto una norma contenuta in una legge o in un atto avente forza di legge anteriore all'entrata in vigore della Costituzione e sia stata determinata dal contrasto della norma dichiarata illegittima con norme o principi propri della vigente Carta costituzionale, i suoi effetti, anche rispetto ai rapporti ancora pendenti non possono retroagire oltre il momento in cui il detto contrasto è venuto a verificarsi e, quindi, oltre la data dell'entrata in vigore della Costituzione (1 gennaio 1948).

In tale ipotesi, mentre rispetto ai rapporti sorti in epoca successiva a questa data, valgono i principi in tema di effetti delle pronuncie di incostituzionalità sopra richiamati, rispetto a quelli sorti in epoca anteriore, trovano applicazione i principi sulla successione delle leggi nel tempo. L'incostituzionalità sopravvenuta di una norma - una volta che sia stata pronunciata dalla Corte Costituzionale, alla quale compete, in via esclusiva, il controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge - è equiparabile, infatti, sia pure soltanto sul piano degli effetti, alla sua abrogazione: l'eliminazione delle norme dall'ordinamento, conseguente alla pronuncia di incostituzionalità, opera soltanto dalla data di entrata in vigore della Costituzione per cui, fino a tale data, la norma conserva la sua efficacia". Siffatto orientamento deve essere analiticamente esaminato, al fine di trarne ogni possibile implicazione.

Innanzitutto, esso pone una vera e propria deroga all'effetto tipico proprio della dichiarazione di illegittimità costituzionale - vale a dire la cassazione di efficacia "erga omnes", con effetto retroattivo, della norma dichiarata incostituzionale - nelle ipotesi in cui oggetto del giudizio di costituzionalità sia una norma anteriore alla data di entrata in vigore della Costituzione: infatti, in proposito, si argomenta che - siccome il controllo di costituzionalità si sostanzia in un giudizio di conformità - difformità della norma rispetto al parametro costituzionale - l'accertamento di difformità non può esplicare effetti al di là del momento in cui è entrato in vigore il parametro alla stregua del quale esso è stato effettuato, in quanto, trattandosi di legge anteriore a costituzione, solo in quel momento - e non prima, allorquando la norma era validamente vigente nel precedente ordinamento - l'antinomia si è determinata. Da tale punto di vista, siffatto orientamento presuppone, anche se non in modo del tutto esplicito, che il rapporto fra legge anteriore e Costituzione sopravvenuta si pone in termini di mera successione di leggi nel tempo: ed è soltanto grazie a questa ragione che esso può giustificare l'affermato effetto abrogativo della pronuncia di incostituzionalità.

Ma, a ben vedere, la deroga posta è solo, per così dire, "parziale": infatti, in tanto essa opera, in quanto situazioni e rapporti, ancora "pendenti", disciplinati dalla norma "anteriore" dichiarata costituzionalmente illegittima, siano sorti prima dell'entrata in vigore della Costituzione; e ciò, proprio perché, soltanto in siffatta ipotesi - e non nell'inversa: situazioni e rapporti "pendenti" sorti dopo il 1 gennaio 1948 - vale per le ragioni dianzi sottolineate, il criterio cronologico, regolatore dell'antinomia fra legge anteriore e Costituzione sopravvenuta. In secondo luogo, e conseguentemente, l'orientamento medesimo afferma che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di norma anteriore a Costituzione è idonea ad esplicare un "duplice" effetto - di inefficacia" erga omnes", incidente anche sui rapporti pendenti, secondo i principi generali; ovvero di mera abrogazione non retroattiva - a seconda se la situazione o il rapporto ancora pendente sia sorto dopo o prima il 1 gennaio 1948, corrispondente alla data di entrata in vigore della Costituzione.

2.2.4. Il Collegio ritiene che siffatto orientamento - relativo, naturalmente, alle pronuncie di incostituzionalità per vizio c.d. "materiale" della legge anteriore (relativamente ai vizi c.d. "formali" è, invece, pressoché pacifica, in dottrina e giurisprudenza, l'opinione della irretroattività della dichiarazione di illegittimità costituzionale oltre la data di entrata in vigore della Costituzione: cfr. Corte cost. le sentt. nn. 53 del 1961, 73 del 1968; 117 del 1969; 67 del 1970; 143 del 1971; 164 del 1973) - non può essere condiviso per molteplici ragioni, che attengono, per un verso, ai principi fondamentali del sindacato incidentale di costituzionalità delle leggi - così come positivamente istituito nel nostro ordinamento - e, per l'altro, anche alla specifica fattispecie oggetto di giudizio.

In primissima approssimazione, può immediatamente sottolinearsi che, in base all'orientamento qui criticato, una questione di legittimità costituzionale di una legge anteriore, applicabile a situazioni o rapporti sorti prima del 1 gennaio 1948, sarebbe, anche se "non manifestamente infondata", irrilevante per definizione, in quanto, ove anche siffatta legge fosse dichiarata costituzionalmente illegittima, la relativa pronuncia della Corte costituzionale, avente effetti meramente abrogativi, non risulterebbe idonea ad incidere nel giudizio in cui la questione stessa si è posta. In tale prospettiva, può, in generale, osservarsi che, seguendo l'orientamento in questa sede rimeditato, si determinerebbe una sorta di "vuoto" di tutela costituzionale per una serie indefinita di situazioni o rapporti per la sola circostanza della loro nascita in data anteriore all'entrata in vigore della Costituzione; e ciò, nonostante il fatto che essi siano (ancora) controversi a Costituzione vigente. Già questa prima, grave conseguenza impone un'attenta riconsiderazione del modo in cui è stato precedentemente impostato, da questa Corte, il problema del sindacato di costituzionalità delle leggi "anteriori".

Allorquando, nella prima, storica sentenza n. 1 del 1956 si pone il problema della sindacabilità, ex art. 134 Cost., delle leggi anteriori alla Costituzione, la Corte costituzionale, nell'affermare la propria competenza in materia - sia pure con qualche incertezza, presente anche nella dottrina, sullo specifico punto della qualificabilità dell'antinomia fra legge anteriore e Costituzione in termini di abrogazione, ovvero di legittimità costituzionale, poi nettamente e definitivamente superata nel secondo senso (cfr. sentt. nn. 40 del 1958; 127 del 1966; 49 del 1970 e numerose altre) - precisò che la tesi della sindacabilità delle sole leggi posteriori era insostenibile sia sul piano testuale (gli artt. 134 Cost. e 1 l. cost. n. 1 del 1948 non stabiliscono alcuna distinzione fra leggi anteriori e posteriori), sia su quello logico (" ... il rapporto tra leggi ordinarie e leggi costituzionali e il grado che ad esse rispettivamente spetta nella gerarchia delle fonti non mutano affatto, siano le leggi ordinarie anteriori, siano posteriori a quelle costituzionali ...."), concludendo nitidamente che "tanto nell'uno quanto nell'altro caso la legge costituzionale, per la sua intrinseca natura nel sistema di costituzione rigida, deve prevalere sulla legge ordinaria".

D'altro canto, la riflessione della dottrina - anche precedentemente al funzionamento della Corte - sul tema specifico si orientò nel senso, poi risultato assolutamente prevalente, che, in presenza di una nuova costituzione, l'intero ordinamento giuridico viene rinnovato, con la conseguenza che ogni norma precedente in tanto resta valida, in quanto riesca a trovare un nuovo fondamento, un nuovo titolo di validità nella costituzione medesima; e con l'ulteriore conseguenza (fra le altre) che, equiparata la pronuncia di incostituzionalità, anche di leggi anteriori, ad una decisione (accertamento) di annullamento, ne dipende necessariamente la sua efficacia anche relativamente a fatti e rapporti ad essa anteriori senza limiti di tempo e con la sola salvezza di quelli definiti in modo irretrattabile (c.d."esauriti").

La successiva riflessione di dottrina e giurisprudenza sulla natura e sugli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale - qual'è positivamente disciplinata nel nostro ordinamento - ha portato a ritenere, pressoché unanimemente, quello conseguente alla pronuncia di incostituzionalità, un effetto ammissibile all'annullamento, anziché all'abrogazione: sia perché il giudizio di difformità della norma impugnata rispetto al parametro costituzionale implica l'accertamento di un vizio (formale o materiale: di illegittimità costituzionale, appunto) della norma stessa, cioè della sua invalidità, mentre l'abrogazione ne prescinde, dipendendo esclusivamente da una libera scelta (politica) del legislatore; sia perché, mentre la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma - in quanto fondata sul predetto accertamento di invalidità "originaria" - comporta necessariamente la sua disapplicazione a qualsiasi fatto o rapporto della stessa regolato, anche se sorto anteriormente alla pronuncia di incostituzionalità (a cominciare da quello controverso nel giudizio "a quo"), l'abrogazione opera normalmente, salva espressa previsione contraria, "ex nunc"; sia, infine, perché, mentre l'effetto di annullamento consegue soltanto alla pronuncia dell'organo cui è attribuita la relativa competenza (la Corte costituzionale, appunto), quello abrogativa si produce automaticamente e può essere dichiarato caso per caso da qualunque giudice (cfr., ex pluribus, Corte cost.le n. 127 del 1966).

D'altro canto, dottrina e giurisprudenza consentono unanimamente sul punto che l'unico limite intrinseco alla c.d. "efficacia retroattiva" della dichiarazione di illegittimità costituzionale è costituito dai rapporti chiusi in modo irretrattabile, ovvero "esauriti" (cfr., ex pluribus, Corte cost.le nn. 139 del 1984 e, da ultimo, n. 3 del 1996; Cass, S.U. n. 806 del 1975), salva, ovviamente, l'espressa deroga prefigurata dall'art. 30 comma 4 l. n. 87 del 1953 in ordine alla cessazione dell'esecuzione e di tutti gli effetti penali della sentenza irrevocabile di condanna. Infine, deve rilevarsi che la Corte costituzionale - cui è attribuita, in via esclusiva, l'"interpretazione finale" della Costituzione - non si è mai, a quanto risulta, espressamente pronunciata quella questione degli effetti delle proprie pronuncie di incostituzionalità di leggi anteriori, in quanto applicabili anche a situazioni o rapporti sorti in data anteriore a quella di entrata in vigore della Costituzione. Come è stato sottolineato in dottrina, la Corte ha, però, oscillato fra l'inapplicabilità (sentt. nn. 26 del 1958; 124 del 1966; 58 del 1967) e l'applicabilità (sentt. nn. 4 del 1959; 20 del 1966; 112 del 1968; 187 del 1973; 183 del 1982; 36 del 1986; 396 del 1988) delle norme della Costituzione a fatti venuti in essere prima della sua entrata in vigore.

Ciò posto - e ribaditi i principi della sindacabilità delle leggi anteriori e degli effetti tipici prodotti dalla dichiarazione della loro illegittimità costituzionale, che, si badi, anche l'orientamento qui criticato accoglie - non v'è dubbio che la deroga a siffatti principi, affermata dall'orientamento medesimo (e fondata esclusivamente sulla circostanza dell'applicabilità della legge anteriore a situazioni o rapporti sorti in data anteriore al 1 gennaio 1948), per un verso, conduce ad aporie inconciliabili con le sue stesse promesse; per l'altro, collide, senza alcuna giustificazione, con i principi posti a base del sistema di sindacato incidentale di costituzionalità delle leggi adottato nel nostro ordinamento; e, comunque, comporta, in ultima analisi, la violazione del divieto di applicazione di leggi dichiarate costituzionalmente illegittime, quale risulta, oltreché dal sistema predetto, anche espressamente dal combinato disposto degli artt. 136 comma 1 Cost. e 30 comma 3 l. n. 87 del 1953.

Una prima, paradossale conseguenza sarebbe determinata dall'esistenza, nell'ordinamento, di una norma contemporaneamente valida ed invalida, nonostante l'accertamento della sua illegittimità costituzionale da parte dell'organo a ciò abilitato, che, dunque, sarebbe, contraddittoriamente con le premesse, parzialmente vanificato.

Una seconda, inammissibile conseguenza - già dinanzi segnalata - DIRITTO

consisterebbe nella "irrilevanza", per definizione (cfr. art. 1 l. cost. n. 1 del 1948 e 23 comma 2 l. n. 87 del 1953), di ogni questione di legittimità costituzionale di legge anteriore applicabile a situazioni o rapporti sorti anteriormente al 1 gennaio 1948, anche in ipotesi di ritenuta "non manifesta infondatezza" della questione stessa, vale a dire anche nel caso in cui la legge medesima fosse reputata collidente con la Costituzione vigente (art. 23 comma 1 lett. b. l. cit.) Il che implicherebbe non soltanto - come già rilevato - un gravissimo "vuoto" di tutela costituzionale per situazioni o rapporti predetti; ma la negazione (sia pure parziale), contraddittoria con le premesse, della stessa sindacabilità delle leggi anteriori, per di più - attraverso la pronuncia di irrilevanza (art. 24 comma 1 l. cit.) - da parte di un organo (il giudice, appunto) cui non è costituzionalmente attribuita la relativa competenza: quella, cioè, di decidere (ex artt. 134 Cost. ed 1 l. cost. n. 1 del 1948) sull'assoggettabilità di una legge del sindacato di legittimità costituzionale (principio del sindacato c.d."accentrato").

Ma è la giustificazione stessa dell'affermata deroga - nella misura in cui dà esclusivo rilievo al momento in cui è sorto il fatto od il rapporto disciplinato dalla legge anteriore - che collide con i principi del sindacato di costituzionalità delle leggi accolto nel nostro ordinamento.

Infatti - di fronte ad una pronuncia di incostituzionalità di legge anteriore a costituzione - al giudice, davanti al quale penda controversia, cui sarebbe applicabile tale legge, avente ad oggetto situazioni o rapporti sorti prima dell'entrata in vigore della Costituzione, si pone la seguente alternativa: o sollevare questione di legittimità costituzionale con riferimento specifico all'efficacia temporale della dichiarazione di illegittimità costituzionale di leggi siffatte; ovvero ottemperare al divieto di applicazione di leggi (anteriori o posteriori che siano) dichiarate costituzionalmente illegittime. Quel che certamente al giudice è inibito, in tale ipotesi, è scindere, e quindi vanificare - sulla base di un elemento (l'efficacia temporale della sentenza di incostituzionalità, appunto) rimasto estraneo al giudizio di legittimità costituzionale - il contenuto della pronuncia del giudice delle leggi, in quanto ciò comporterebbe la palese violazione del predetto divieto.

Se, dunque, sulla base delle argomentazione che precedono, la deroga, affermata nell'orientamento giurisprudenziale qui criticato, risulta incompatibile con i principi del sindacato di costituzionalità delle leggi, ne consegue che anche la dichiarazione di illegittimità Costituzionale di leggi anteriori a Costituzione esplica gli effetti propri di tale tipo di pronuncia: e cioè la cessazione di efficacia "erga omnes" con effetto retroattivo (che implica il generale divieto di applicazione) della norma dichiarata costituzionalmente illegittima relativamente a situazioni o rapporti, cui sarebbe ancora applicabile la norma stessa, ove non fosse intervenuta la pronuncia di incostituzionalità.

2.2.5. Rimosso l'ostacolo di principio al dispiegamento degli effetti della sentenza n. 30 del 1983 (cfr supra n. 2.2.2.) anche relativamente alla fattispecie sottostante al ricorso, residuerebbe il problema - che questa Corte deve porsi, d'ufficio, trattandosi di limite intrinseco all'efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale ed essendo incontestati i fatti della situazione dedotta in giudizio - se la situazione medesima potesse qualificarsi "esaurita", cioè definita in modo irretrattabile, nel momento in cui è intervenuta la predetta pronuncia di incostituzionalità.

La risposta negativa è agevole. Ribadito che l'evento "nascita" rappresenta il mero presupposto della fattispecie acquisitiva, il cui titolo è, invece, costituito dalla filiazione da madre cittadina; e che la decisione della Corte costituzionale, rimuovendo il relativo ostacolo legislativo, ha "aggiunto" siffatto titolo (discendenza materna) quale criterio di attribuzione dello "status civitatis" in ragione della situazione di filiazione legittima ed ha, in tal modo, determinato l'acquisto "ex lege" della cittadinanza italiana "Jure sanguinis", fin dal momento della nascita, per discendenza materna;

ne discende agevolmente che per siffatta situazione non è predicabile, sotto alcun profilo, il c.d. "esaurimento": non soltanto perché tale categoria non si addice ad una situazione permanente quale è lo "status", quanto anche perché la sentenza della Corte costituzionale n. 30 del 1983 - rimuovendo il predetto, incostituzionale impedimento legislativo - ha determinato, di per sè, l'acquisto di un diritto, in precedenza non previsto dall'ordinamento.

Del resto la Corte costituzionale si è mostrata pienamente consapevole delle "estese" conseguenze derivanti dalla propria pronuncia, laddove ha affermato che, nonostante l'esigenza di evitare fenomeni di doppia cittadinanza ed "inconvenienti pur seri" (quali quelli prospettati dell'Avvocatura dello Stato anche nel presente giudizio: cfr n. 2.1.), "deve ...... riconoscersi come prevalente .... la necessità di realizzare il principio costituzionale di eguaglianza anche a proposito di acquisto dello 'status civitatis' per nascita "(n. 3 del "considerato in diritto").

3. Non sussistono i presupposti per pronunciare sulle spese. P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

 

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 1 sezione civile, il 3 novembre 1995.

 

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 10 LUGLIO 1996