CAMERA DEI DEPUTATI
Martedì 3 maggio 2011
474.
XVI LEGISLATURA
BOLLETTINO
DELLE GIUNTE E DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI
Commissioni Riunite (I e II)
COMUNICATO
Pag. 6

SEDE REFERENTE

Martedì 3 maggio 2011. - Presidenza del presidente della II Commissione Giulia BONGIORNO. - Intervengono il Ministro della giustizia Angelino Alfano e i sottosegretari di Stato per la giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati e Giacomo Caliendo.

La seduta comincia alle 14.

Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione.
C. 4275 cost. Governo.
(Esame e rinvio).

Le Commissioni iniziano l'esame del provvedimento.

Giulia BONGIORNO, presidente, ricorda come all'esito della riunione congiunta degli Uffici di Presidenza, integrati dai rappresentanti dei gruppi, delle Commissioni I e II, che si è svolta il 27 aprile scorso, si sia stabilito di svolgere oggi la relazione sul provvedimento in esame.
Prima di dare la parola agli onorevoli Pecorella e Contento, rispettivamente relatori per la I e la II Commissione, saluta, anche a nome del Presidente della I Commissione, l'onorevole Bruno, il Ministro della Giustizia, che oggi partecipa ai lavori delle Commissioni.

Gaetano PECORELLA, relatore per la I Commissione, dopo aver premesso che si avvicenderà con il collega Contento, relatore per la II Commissione, nello svolgimento della relazione introduttiva, ritiene opportuno fare una precisazione, anche a nome dell'altro correlatore: in occasione dell'illustrazione di un disegno di legge, il ruolo di relatore si esplica nella mera illustrazione del testo e della ratio sottesa, secondo il presentatore (in questo caso il Governo), alle diverse disposizioni, rinviandosi ad un secondo momento quelle valutazioni di merito che al relatore non possono essere certamente precluse. Per tale ragione sarà fatto spesso riferimento, nella relazione introduttiva, alla relazione del Governo che accompagna il disegno di legge, trovandosi in essa molte spiegazioni alle ragioni che lo hanno portato a delineare un nuovo assetto costituzionale della giustizia.
Ciò premesso, osserva che riformare il Titolo IV della Parte II della Costituzione, che sancisce i princìpi che regolano la

Pag. 7

giustizia, dovrebbe rappresentare per qualsiasi parte politica un obiettivo primario al quale tendere senza indugi, al fine di adeguare la stessa Carta costituzionale alla evoluzione dei rapporti tra magistratura, potere politico e cittadini intervenuta dal 1948 ad oggi, come evidenziato nella relazione di accompagnamento al disegno di legge in esame. In particolare, il disegno di legge in esame rappresenta il naturale completamento della revisione costituzionale dell'articolo 111 della Costituzione, che ha introdotto nella Costituzione stessa i principi del giusto processo, basato sulla terzietà del giudice, e sostituito quindi al modello processuale di tipo inquisitorio un modello di tipo accusatorio. In questa luce deve essere intesa la proposta del Governo di modificare la rubrica del titolo IV intitolandola alla Giustizia.
Scopo ultimo della riforma è quello di attuare nel massimo grado l'imparzialità e l'indipendenza dei giudici e di offrire un processo giusto al cittadino che vi sia imputato o parte. Per raggiungere questo obiettivo il Governo ritiene necessaria una vera è propria riforma costituzionale che dovrà poi essere seguita da apposite leggi ordinarie, sia processuali che ordinamentali, di attuazione dei nuovi principi costituzionali. Alcune disposizioni della riforma proposta sono infatti immediatamente applicabili, mentre altre dovranno invece essere attuate da leggi ordinarie.
Nella conferenza stampa immediatamente successiva all'approvazione del disegno di legge da parte del Consiglio dei ministri, il ministro della giustizia ha così sintetizzato la riforma: «Questo nuovo sistema prevede il giudice in alto, con il pubblico ministero e il cittadino allo stesso livello». Come si è detto, per arrivare a questa parità il Governo non ritiene sufficienti la riforma del 1999 che ha stabilito in Costituzione i principi del giusto processo e le conseguenti modificazioni della legislazione ordinaria, ma ritiene di dover riformare lo stesso Titolo IV della Parte II della Costituzione. In sostanza, il Governo si assume la responsabilità di chiedere al parlamento di riformare la Costituzione. Non si tratta, come è avvenuto con la modifica dell'articolo 111, di intervenire, sia pure in maniera rilevante, su specifiche disposizioni costituzionali, ma di riformare un intero assetto di principi costituzionali, che, peraltro, nel caso in esame, attengono ad uno dei profili più delicati per ciascuna democrazia: la giustizia.
La consapevolezza di questa responsabilità ha indotto il Governo a sfatare, nella prima parte della relazione, l'assunto in base al quale toccare il Titolo IV sarebbe una sorta di attentato alla Costituzione secondo una visione di statica immobilità della Costituzione che contrasta con il naturale evolversi della società e dei rapporti politici, come è avvenuto, ad esempio, con la trasformazione del sistema politico in senso bipolare. È utile ricordare, anche qui, le parole del ministro della giustizia, il quale, in un recente convegno, ha rilevato che altro è intervenire sulla titolo I, altro sul titolo IV: alcune norme formano infatti l'ossatura, per così dire, del sistema costituzionale italiano - e spesso tali norme sono individuate dalla stessa Costituzione, là dove questa fa riferimento a valori qualificati come «inviolabili» - altre norme sono invece suscettibili di modifica con le procedure di revisione costituzionale stabilite dalla stessa Costituzione.
È interessante notare come il Governo abbia voluto porre il dibattito che si è svolto in sede costituente quale premessa della riforma odierna. Riforma, quindi, non in senso di contrapposizione ma di evoluzione rispetto alle scelte fatte dai padri costituenti. Nella relazione viene fatta quindi una rassegna delle alternative immaginate dalle diverse parti politiche del tipo di assetto da dare alla magistratura. Si ricorda, ad esempio, che Togliatti considerava «il pieno autogoverno» della magistratura una concezione democraticamente «non accettabile» e che proponeva che la vicepresidenza del Consiglio superiore della magistratura fosse affidata al Ministro della giustizia, che «deve avere una funzione preminente». Si ricorda, altresì, che esponenti della Democrazia Cristiana prefiguravano un potere giudiziario

Pag. 8

indipendente e il pubblico ministero (privato delle attribuzioni che lo accostavano al potere giudiziario) alle dipendenze del ministro della giustizia (era, come noto, la tesi di Leone).
Si è ritenuto di richiamare alcuni degli esempi riportati nella relazione ritenendo che possano essere utili a stemperare quelle critiche inamovibili al disegno di legge che partono dall'assunto di una sorta di immodificabilità del Titolo IV, come se il testo vigente esprimesse principi intoccabili e addirittura connaturati con i princìpi fondamentali della Costituzione. Ciò che non si può toccare è l'imparzialità e l'indipendenza dei giudici. Anzi, garantire questi principi potrebbe richiedere necessariamente - questo si tratterà di verificare con l'esame parlamentare - la riforma di istituti e princìpi previsti da tale Titolo. Anticipando uno dei punti fondamentali della riforma, ad esempio, è opportuno già da ora rilevare come nella relazione del Governo si affermi con forza che la riforma del giusto processo, che ha interessato sinora le regole processuali, rende ormai indifferibile la separazione in senso proprio tra l'ordine dei giudici e l'ufficio del pubblico ministero, da cui dipende l'effettiva equidistanza del giudice dalle parti, condicio sine qua non della terzietà dell'organo giudicante e della parità tra accusa e difesa. Secondo il Governo, la separazione delle carriere dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero consentirà di attuare nel massimo grado l'imparzialità e l'indipendenza dei giudici e di offrire un processo giusto al cittadino che vi sia imputato o parte.
Passiamo ora all'articolato, che si compone di sedici articoli.
L'articolo 1 è diretto a modificare la rubrica del titolo IV della parte II della Costituzione, sostituendo la denominazione «La Magistratura» con la denominazione «La Giustizia». Nella relazione si giustifica tale mutamento evidenziando come non si tratti di una novità meramente letterale. In particolare, la nuova denominazione mette «in risalto come la disciplina contenuta nel titolo IV non riguardi l'ordine giudiziario inteso come corporazione, ma un bene essenziale per la vita dei cittadini e per la Nazione: la giustizia». Questa modifica è stata interpretata da taluni come una sorta di affronto nei confronti della magistratura o, meglio, dei magistrati. L'intento sarebbe quello di cancellare la parola «magistratura» per togliere ad essa, ed alla magistratura intesa come l'insieme dei magistrati, qualsiasi rilevanza costituzionale. In realtà, se si legge la relazione si comprende come non si tratti di una scelta sovversiva, essendo stata ripresa una ipotesi che si era già affacciata nella Costituente ed addirittura adottata dalla Commissione bicamerale. Come ebbe a dire l'onorevole Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione, il termine «giustizia» è «un termine largo e solenne (...), che dà il senso alto della funzione». Fu anche specificato che «il principio supremo è la giustizia, della quale la magistratura è l'organo». Nonostante ciò venne adottato il termine «magistratura» perché venne considerato meglio coordinato rispetto a quelli che designavano gli altri titoli del testo, come ad esempio il Parlamento ed il Governo. Consequenziali sono le rubriche delle sezioni I e II, intitolate rispettivamente «Gli organi» e «La giurisdizione».
Sempre all'articolo 1 (comma 1) viene fatta una modifica all'articolo 87 sui compiti del Presidente della Repubblica, che in realtà è connessa alla scissione del Consiglio superiore della magistratura in due organi distinti.
L'articolo 2 sostituisce il secondo comma dell'articolo 101, che attualmente stabilisce che i giudici sono soggetti soltanto alla legge. La nuova formulazione stabilisce altresì che costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. Si tratta di una novità per il riferimento ai giudici anziché, come avviene nel vigente articolo 104, primo comma, alla magistratura. Si tratta di una novità di non poco conto in quanto deve essere collegata alla distinzione dei magistrati in giudici e pubblici ministeri prevista dal nuovo comma 1 dell'articolo 104. Ciò significa che i pubblici ministeri non

Pag. 9

fanno parte di quell'ordine autonomo ed indipendente al quale continuano invece ad appartenere i giudici, ma non significa neanche - è bene sottolinearlo - l'assoggettamento del pubblico ministero ad altri poteri. Come si vedrà, sul punto intervengono i nuovi secondo e terzo comma dell'articolo 104.

Manlio CONTENTO (PdL), relatore per la II Commissione, rileva come sempre legata alla suddivisione tra giudici e pubblici ministeri sia la modifica dell'articolo 102 della Costituzione prevista dall'articolo 3, in base al quale non è più la funzione giurisdizionale ad essere esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario, ma è la giurisdizione ad essere esercitata da giudici ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario. La modifica è importante perché sta a precisare come non siano anche i pubblici ministeri ad esercitare la giurisdizione, bensì i soli giudici ordinari. In particolare, ciò sta a significare che la funzione giurisdizionale può e deve essere esercitata solo da chi è terzo nel processo, come lo è il giudice, e non anche da chi è, come il pubblico ministero, una parte nel medesimo. Questo è, a suo parere, un punto fondamentale della riforma che non deve essere assolutamente frainteso. La circostanza che il pubblico ministero non eserciti la funzione giurisdizionale non significa assolutamente che questi diventi solo per tale ragione un organo dell'esecutivo ovvero una emanazione dello stesso, come avviene in altri ordinamenti stranieri. Secondo la riforma in esame, l'ufficio del pubblico ministero è un organo autonomo ed indipendente da qualsiasi altro potere, che comunque - data la sua natura di parte nel processo - non partecipa all'esercizio dell'azione giurisdizionale.
L'articolo 4, che, come si è detto, introduce uno dei principi cardine della riforma: la separazione delle carriere: i magistrati si distinguono in giudici e pubblici ministeri. Si riconosce, quindi, la diversità delle funzioni giudiziarie, secondo i modelli di ordinamento giudiziario attualmente operanti in molti Paesi europei. La separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri è assicurata dalla legge ordinaria (articolo 104, secondo comma).
La separazione delle carriere rappresenta un punto di arrivo di un percorso che prende le mosse sin dai lavori dell'Assemblea costituente e che è passato dalla separazione delle funzioni sancita negli ultimi anni dal legislatore ordinario.
Nella relazione di accompagnamento si legge che «la separazione delle carriere costituisce il naturale esito di un percorso segnato, ancora una volta, dal dibattito e dalle scelte dell'Assemblea costituente, le quali dimostrano che l'assetto del pubblico ministero, a differenza di quello del giudice, non è una conseguenza necessitata della funzione, non è regolato, cioè, da princìpi ontologici, ma da fattori storicamente determinati». A sostegno di ciò vengono richiamate due tendenze opposte emerse nell'Assemblea costituente, riconducibili ai progetti di Calamandrei e di Leone. La prima riconosceva nel pubblico ministero un organo sì indipendente, ma facente capo a un Procuratore generale commissario della giustizia, responsabile di fronte alle Camere; la seconda, invece, un organo del potere esecutivo. Prevalse, alla fine, una tesi intermedia, secondo la quale, a differenza dei giudici «soggetti soltanto alla legge» (articolo 101, secondo comma, della Costituzione vigente), il pubblico ministero doveva godere «delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario». È stata successivamente la legislazione ordinaria a marcare ancora di più la giurisdizionalizzazione del pubblico ministero e quindi l'assimilazione con il giudice, andando, in tal modo, in senso opposto rispetto agli altri sistemi europei.
Un fatto nuovo è stato il nuovo codice di procedura penale del 1989, ispirato (almeno nelle intenzioni) al modello accusatorio, nel quale il pubblico ministero è cosa diversa dal giudice terzo: è una delle parti del processo. La discrasia con il modello di pubblico ministero che si era

Pag. 10

andato sviluppando nel senso di una parificazione con il giudice, si è manifestata in tutta evidenza con l'introduzione del principio del giusto processo nel 1999. Il principio di parità tra le parti pubbliche e private e quello di terzietà del giudice assumevano una valenza costituzionale che metteva in mora non soltanto il legislatore ordinario, ma anche quello costituzionale. Si domanda quindi come possa essere veramente terzo il giudice che appartiene alla medesima carriera di una delle parti del giudizio. Chi giudica infatti deve essere equidistante da chi è giudicato e da chi accusa. Si domanda, inoltre, come senza separazione delle carriere sia possibile ottenere questo risultato.
Per quanto queste domande siano retoriche, vi sono ancora molte resistenze alla separazioni delle carriere, specialmente da parte dei magistrati. Si dice che la separazione determinerebbe una gravissima ingerenza del potere esecutivo nella giustizia, in quanto il pubblico ministero si troverebbe soggiogato al Ministro della giustizia od a quello dell'interno.
Su questo punto interviene la riforma. È vero che sono i giudici a costituire un ordine autonomo e indipendente da ogni potere e sono loro ad essere soggetti soltanto alla legge (articolo 101, secondo comma), ma è anche vero che l'ufficio del pubblico ministero è organizzato secondo le norme dell'ordinamento giudiziario che ne assicurano l'autonomia e l'indipendenza (articolo 104, terzo comma). Autonomia ed indipendenza da ogni potere.
L'autonomia e l'indipendenza, quindi, sono prerogative dell'ufficio requirente e non del singolo magistrato e sono, dunque, funzionali all'efficienza, alla responsabilità e all'eguaglianza nell'esercizio dell'azione penale, obiettivi al cui conseguimento è preordinato l'ufficio del pubblico ministero.
La scelta di soggettivizzare l'ufficio del pubblico ministero nasce dall'esigenza di superare quella frammentazione della funzione requirente che ha facilitato una sorta di deresponsabilizzazione del singolo magistrato che si è sentito non condizionato da parametri e criteri oggettivi nel ricercare notizie di reato e nel disporre direttamente della polizia giudiziaria e degli strumenti investigativi più invasivi, complessi e costosi.
Introdurre la nozione di ufficio del pubblico ministero significa rispondere a quell'esigenza di «razionalizzare e di coordinare l'attività del pubblico ministero finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell'obbligatorietà dell'azione penale e della mancanza di efficaci controlli sulla sua attività». Le ultime parole non sono dei relatori o del Governo, ma di Giovanni Falcone. In questo caso i relatori si sentono di fare un vivo apprezzamento per la scelta del Governo di richiamarle espressamente nella relazione di accompagnamento al disegno di di legge.

Gaetano PECORELLA, relatore per la I Commissione, passando agli articoli 5, 6 e 7, rileva che questi modificano profondamente l'assetto del Consiglio superiore della magistratura (CSM) fino a suddividerlo in tre organi diversi: il Consiglio superiore della magistratura giudicante, il Consiglio superiore della magistratura requirente eCorte di disciplina della magistratura giudicante e requirente.
Questa scelta è motivata da due esigenze: coerenza con il principio della separazione delle carriere e superamento della unificazione del soggetto che valuta la carriera del magistrato e di quello che giudica il suo operato sotto il profilo disciplinare. Se queste sono le due esigenze principali, ve sono altre che hanno invece condizionato la disciplina da conferire a questi nuovi organi.
La prima esigenza è quella di superare definitivamente un modello di organo di autogoverno della magistratura che sia condizionato da gruppi organizzati all'interno della magistratura, le cosiddette correnti. Un tentativo in tal senso è stato fatto dal legislatore ordinario superando il sistema elettorale delle liste contrapposte, ma alla resa dei fatti si è visto che le correnti continuano ad essere presenti nel Consiglio superiore della magistratura. Come si evidenzia nella relazione del Governo,

Pag. 11

«tale circostanza ha posto da più anni la questione dell'autonomia interna dei magistrati, ossia il fatto che le loro carriere possano essere in qualche modo condizionate dal gradimento espresso dalle diverse correnti».
Altra esigenza alla quale il disegno di legge cerca di dare una risposta è quella di superare quella funzione che si potrebbe definire «paranormativa», consistendo nell'adozione ed emanazione di atti di contenuto generale e astratto, che finiscono per avere un contenuto di indirizzo politico il cui destinatario sembra essere il Parlamento stesso.
Alla prima esigenza si è data risposta nell'ambito della disciplina della composizione dei due organi di autogoverno, facendo ricorso ad un sistema di sorteggio.
In particolare, per quanto riguarda la composizione, la Presidenza di entrambi i Consigli superiori è attribuita al Presidente della Repubblica: questa scelta, tra l'altro, è un segno forte del riconoscimento del ruolo indipendente di organo di garanzia accordato al pubblico ministero. Il Governo ritiene che la posizione super partes del Presidente della Repubblica e di raccordo tra i poteri dello Stato «continua ad essere la più idonea a garantire il necessario collegamento della magistratura con le istanze esterne, evitandone la chiusura in sé stessa».
Il primo presidente della Corte di cassazione è membro di diritto del Consiglio superiore della magistratura giudicante, mentre il procuratore generale presso la Corte di cassazione è membro di diritto del Consiglio superiore della magistratura requirente. I componenti del Consiglio superiore della magistratura giudicante e del Consiglio superiore della magistratura requirente sono nominati, per metà, dal Parlamento in seduta comune e per metà, rispettivamente, dagli appartenenti all'ordine dei giudici e dai pubblici ministeri; la presenza, quale membro di diritto, del primo presidente della Corte di cassazione e del procuratore generale presso la medesima garantisce la prevalenza numerica della componente «togata». La vice presidenza dei due organismi è attribuita, come nell'attuale testo costituzionale, a un membro laico eletto da ciascun Consiglio. Inoltre, è previsto che i componenti togati di ciascun Consiglio siano eletti, rispettivamente, dai giudici e dai magistrati del pubblico ministero previo sorteggio degli eleggibili. Per il governo, questo meccanismo «è il più idoneo a contrastare il fenomeno della «correntocrazia» e a rafforzare, quindi, l'autonomia interna della magistratura. Ciascun giudice e pubblico ministero, anche se non sia espressione delle correnti organizzate, potrà infatti esser nominato nei Consigli superiori, nel pieno rispetto del principio dell'elettività». I membri elettivi non sono più rieleggibili, mentre oggi non sono rieleggibili immediatamente.
La legge stabilirà il numero dei componenti di ciascun Consiglio superiore, che sarà necessariamente diverso, tenuto conto della sproporzione numerica tra l'organico dei giudici e quello dei pubblici ministeri.
All'esigenza di escludere che gli organi di autogoverno possano svolgere anche una funzione di indirizzo politico si è data una risposta indicando tassativamente nella Costituzione le attribuzioni proprie di tali organi. In particolare si prevede che ad essi spettino esclusivamente le funzioni amministrative riguardanti le materie già indicate nell'articolo 105 vigente. Importante è, proprio per rispondere all'esigenza di cui sopra, la previsione del divieto di adottare atti di indirizzo politico e di esercitare funzioni diverse da quelle indicate nella Costituzione.

Manlio CONTENTO (PdL), relatore per la II Commissione, osserva come altra esigenza di carattere generale riguardi, come si è visto, quella di escludere interferenze tra le funzioni amministrative esercitate dagli organi di autogoverno della magistratura e quelle disciplinari, evitando che chi è chiamato a valutare le carriere dei magistrati possa anche giudicarne i profili disciplinari.
L'articolo 7, pertanto, attribuisce la funzione disciplinare a una Corte di disciplina

Pag. 12

articolata in due sezioni: una per i giudici, l'altra per i magistrati del pubblico ministero.
Non si tratta di una novità assoluta in quanto la previsione di un organo specifico con compiti esclusivamente disciplinari era stata già prevista dalla Commissione bicamerale, superando l'attuale disciplina che rimette tali compiti ad una sezione interna del CSM.
Per quanto attiene alla composizione della Corte, i membri sono nominati, per metà, dal Parlamento in seduta comune e, per l'altra metà, rispettivamente dai giudici e dai pubblici ministeri. Nella relazione di accompagnamento si specifica che «le fonti di investitura, nonché l'attribuzione ai membri «laici» sia della presidenza della Corte sia della vicepresidenza delle due sezioni, rispondono proprio all'obiettivo di costituire una giustizia non domestica, ma bilanciata con un'adeguata presenza di soggetti qualificati (professori ordinari e avvocati) di nomina parlamentare».
Contro i provvedimenti disciplinari è ammesso ricorso per Cassazione per motivi di legittimità.
Gli articoli 8, 9 e 10, contengono disposizioni in materia di ordinamento giurisdizionale.
L'articolo 8, in particolare, estende i casi di reclutamento elettivo della magistratura onoraria, previste nell'articolo 106 della Costituzione, consentendolo per tutti gli uffici escludendo che esso possa avvenire solo per le funzioni attribuite a giudici singoli. Occorrerà peraltro verificare la compatibilità dell'articolo 106, secondo comma, vigente con le modifiche introdotte dalla riforma e, segnatamente con la suddivisione dell'organo di autogoverno della magistratura con due organi diversi, considerato che nel predetto secondo comma continua a farsi riferimento al Consiglio superiore della magistratura. Da una interpretazione sistematica si potrebbe comunque ritenere che il secondo comma si riferisca unicamente al Consiglio superiore della magistratura giudicante.
Ai fini della efficienza del servizio giustizia è sicuramente da segnalare l'articolo 9, secondo cui, ferma restando l'inamovibilità di tutti i magistrati, in caso di eccezionali esigenze relative all'organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, individuate dalla legge, i Consigli superiori possono destinare ad altre sedi sia i giudici sia i magistrati del pubblico ministero. Si interviene quindi nella delicata garanzia della inamovibilità del giudice, bilanciandola con d'esigenza «di fronteggiare eventuali situazioni di eccezionale difficoltà organizzativa - dovute, ad esempio, a rilevanti vacanze di organico o ad una straordinaria sopravvenienza di affari civili o penali - che potrebbero compromettere localmente l'effettività della funzione giudiziaria». Si pensi alla perenne carenza di organico di alcune sedi giudiziarie dove i magistrati si «rifiutano» sostanzialmente di prestare servizio, creando gravi disservizi alla giustizia e quindi alla cittadinanza. Il legislatore ordinario è più volte intervenuto, anche in questa legislatura, al fine di trovare delle soluzioni che potessero almeno alleviare questa grave situazione. Tuttavia tali soluzioni hanno sempre trovato un ostacolo insormontabile nell'attuale dettato costituzionale ovvero in interpretazioni estremamente rigorose dello stesso.
L'articolo 10 interviene sul delicato rapporto tra autorità giudiziaria e polizia giudiziaria. Il vigente articolo 109 prevede che l'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria, mentre il nuovo articolo 109 prevede che il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge.
È stato quindi soppresso l'avverbio «direttamente», che connota il rapporto tra autorità giudiziaria e polizia giudiziaria e nell'attribuzione alla legge della definizione delle modalità in cui si sostanzia tale rapporto.
Nella relazione si afferma che la «nuova disposizione deve essere coordinata con le altre, che affermano l'imparzialità dell'azione giudiziaria, in particolare delle investigazioni e delle indagini penali (il settore di maggior impegno per

Pag. 13

la polizia giudiziaria); l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, in particolare dell'ufficio del pubblico ministero; l'obbligatorietà dell'azione penale. L'insieme di queste norme, da una parte, conferma che il rapporto tra polizia giudiziaria e autorità giudiziaria è un rapporto di stretta dipendenza funzionale e che, quindi, il legislatore deve necessariamente regolarlo escludendo ogni interferenza esterna sull'attività giudiziaria; dall'altra, chiarisce che, sul piano amministrativo e su quello organizzativo, non può esservi subordinazione della polizia giudiziaria alla magistratura».
Queste previsioni completano il disegno rivolto a perfezionare la capacità repressiva dello Stato attraverso una chiara distinzione dei ruoli che spettano alla polizia e alla magistratura (in particolare, quella inquirente). Alla polizia viene riconosciuta piena autonomia nell'attività di «preinvestigazione», mentre all'ufficio del pubblico ministero sono riservate, conformemente alla sua natura di autorità giudiziaria, le attività di carattere processuale relative alla valutazione dei risultati dell'investigazione, alle richieste da presentare al giudice, all'esercizio dell'azione penale, alla funzione di accusa nel dibattimento.
L'articolo 11 stabilisce che il Ministro della giustizia riferisca annualmente alle Camere sullo stato della giustizia, sull'esercizio dell'azione penale e sull'uso dei mezzi di indagine.
Inoltre viene costituzionalizzata la funzione ispettiva del Ministro. Si ricorda che le funzioni di vigilanza e sorveglianza del Ministro della giustizia sono attualmente disciplinate a livello di legislazione ordinaria.
Nell'attuale sistema costituzionale, la funzione ispettiva trova un limite nella competenza del Ministro sull'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Tale limite sembra venir meno nel nuovo testo dell'articolo 110.

Gaetano PECORELLA, relatore per la I Commissione, passando all'articolo 12, ricorda che questo modifica l'articolo 111 della Costituzione, che sancisce i princìpi del giusto processo, introducendo un nuovo comma in materia di appellabilità delle sentenze. Il nuovo comma rappresenta una diretta attuazione del giusto processo. Nel nuovo modello processuale, infatti, la prova si forma direttamente nel dibattimento, davanti al giudice terzo e imparziale, il quale può avere così percezione diretta della attendibilità dei testimoni e della affidabilità dei consulenti. In questo modello l'esistenza di un secondo grado di giudizio in caso di assoluzione rappresenta un tradimento del giusto processo dal momento che il giudice di appello può riformare la sentenza nel merito basandosi sulle sole prove acquisite nel dibattimento di primo grado, facendo quindi riferimento a prove non formatesi davanti a lui.
In base al nuovo ultimo comma, invece, le sentenze di condanna sono sempre appellabili, salvo che la legge disponga diversamente in relazione alla natura del reato, delle pene e della decisione. Le sentenze di proscioglimento, invece, sono appellabili solo nei casi previsti dalla legge.
In tal modo viene quindi conferito rango costituzionale a una regola contenuta nell'articolo 2 del Protocollo n. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98.
Nella relazione del Governo si specifica che il principio dell'inappellabilità dei provvedimenti di assoluzione, per il quale è comunque prevista la possibilità di prevedere deroghe, «rappresenta il punto di equilibrio tra due imprescindibili interessi dello Stato liberal-democratico: la libertà del cittadino e la sicurezza dello Stato. Tale equilibrio è raggiunto assicurando al cittadino - già prosciolto da un giudice di primo grado a seguito di un regolare processo - che non potrà, salve eccezioni, essere sottoposto ad un giudizio d'appello in ordine alle stesse condotte; perseguire ancora l'ipotesi accusatoria, pur dopo che questa non ha trovato conferma processuale, farebbe infatti perdere all'azione

Pag. 14

pubblica i tratti della doverosa ricerca della verità e rischierebbe di farle assumere le vesti di un atteggiamento persecutorio». La formulazione costituzionale di questo principio rispetta la giurisprudenza della Corte costituzionale, che, nel dichiarare la illegittimità costituzionale delle norme che stabilivano in via assoluta l'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, ha in sostanza riconosciuto la possibilità di limitarne l'appellabilità ad alcuni casi.

Manlio CONTENTO (PdL), relatore per la II Commissione, rileva come l'articolo 13 modifichi l'articolo 112 della Costituzione sull'obbligo di esercitare l'azione penale. La ratio delle modifiche deve essere rinvenuta nell'esigenza di rafforzare l'efficacia dell'azione giudiziaria in un'ottica di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
La modifica più rilevante introdotta dal disegno di legge consiste nella attribuzione alla legge della determinazione dei criteri per l'esercizio obbligatorio dell'azione penale.
La relazione illustrativa evidenzia come in Italia, come negli altri Paesi, non sia praticamente possibile perseguire tutti i reati. Richiamando la relazione sul sistema delle garanzie dell'onorevole Boato, presentata il 30 giugno 1997, nell'ambito del progetto di revisione della parte seconda della Costituzione, la relazione sottolinea che è pressoché unanime il rilievo secondo cui il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale subisce in concreto, ossia nella pratica degli uffici giudiziari, attenuazioni tali da potersi affermare senza esagerazioni che, di fatto, la discrezionalità è ormai la regola.
Con la modifica dell'articolo 112 della Costituzione si stabilisce che, ferma l'obbligatorietà dell'azione penale, essa è regolata da criteri stabiliti dalla legge. In tal modo - prosegue la relazione illustrativa - si conferisce alla norma costituzionale una razionalità storico-sociale e una dimensione teleologica che rendono compatibile il principio di obbligatorietà con gli obiettivi di politica criminale. I margini di valutazione non possono essere affidati a determinazioni soggettive o casuali, ma devono trovare sempre una regolamentazione obiettiva e predeterminata che solo la legge è in grado di garantire. Particolari esigenze storiche, sociali o economiche, infatti, possono indurre il legislatore a fissare criteri in forza dei quali, ad esempio, debba esser data prioritaria trattazione ad indagini concernenti determinati reati; fermo restando l'obbligo, esaurite queste, di curare anche le indagini relative alle altre fattispecie penalmente rilevanti.
La seconda modifica all'articolo 112 riguarda il soggetto cui fa capo l'obbligo di esercizio dell'azione penale: non più direttamente il «pubblico ministero» ma l'»ufficio del pubblico ministero».

Gaetano PECORELLA (PdL), relatore per la I Commissione, con riferimento all'articolo 14, che introduce nel titolo IV della parte II della Costituzione una nuova sezione, relativa alla «Responsabilità dei magistrati», composta di un unico articolo, osserva che il nuovo articolo 113-bis prevede, al primo comma, che i magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato. Non c'è dubbio che il problema della responsabilità dei giudici, cui i cittadini sono particolarmente sensibili, è oggi uno dei nodi che la riforma della giustizia deve sciogliere.
Nell'attuale sistema costituzionale, la responsabilità dei magistrati è riconducibile alla disciplina generale dell'articolo 28 Cost., a norma del quale i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti.
Secondo il Governo si recepisce, così, un principio già desumibile dagli articoli 28 e 98 della Costituzione, che pongono sullo stesso piano gli impiegati pubblici, tra i quali i magistrati, come già stabilito in via interpretativa dalla Corte costituzionale (sentenza n. 2 del 1968).
Il nuovo articolo 113-bis, secondo comma, introduce il principio della responsabilità

Pag. 15

civile dei magistrati per i casi di ingiusta detenzione e di altra indebita limitazione della libertà personale e rimette la disciplina alla legge.
Con la distinzione tra questo tipo di violazione e le altre violazioni di diritti, il Governo vuole sottolineare la necessità di una tutela piena, anche in forma risarcitoria, del diritto che si colloca al vertice dei valori riconosciuti nella Carta costituzionale.
Per entrambe le ipotesi restano comunque riservate al legislatore le scelte sulla concreta disciplina da adottare, nel solco delle prerogative della magistratura e dei princìpi dell'ordinamento dell'Unione europea.
L'articolo 15 reca la disciplina transitoria prevedendo che i princìpi contenuti nella legge costituzionale non si applicano ai procedimenti penali in corso alla data della sua entrata in vigore.
L'articolo 16 dispone l'entrata in vigore della legge costituzionale il giorno successivo a quello della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale successiva alla promulgazione.
In conclusione, il Parlamento è chiamato a discutere una riforma che tocca l'essenza stessa dello Stato democratico. Il processo penale è lo specchio della civiltà giuridica del Paese e l'ordinamento di un Paese democraticamente maturo e giuridicamente avanzato non può non prevedere la parità di accusa e difesa, la responsabilità del giudice e, in generale, il giusto processo.

Il Ministro della Giustizia Angelino ALFANO esprime preliminarmente soddisfazione per l'ampia partecipazione alla seduta dei commissari della I e della II Commissione, sottolineando come ciò testimoni la serietà con la quale il Parlamento intende affrontare i temi oggetto del disegno di legge. Evidenzia come, nonostante vari precedenti tentativi, questa sia la prima volta dal 1948 che il Parlamento si appresta ad esaminare una riforma costituzionale della giustizia. Ringrazia quindi i relatori per lo zelo e la misura che hanno impiegato nell'illustrazione del provvedimento, esprimendo apprezzamento, in particolare, per la scelta di evidenziarne gli aspetti tecnico-giuridici. Precisa come l'ipotesi di riforma non sia politicamente blindata ma aperta al confronto e al contributo che sarà offerto dal Parlamento. Formula i migliori auspici che l'esame possa proseguire nel segno della concretezza e dell'attinenza al merito delle questioni. Dopo avere espresso apprezzamento per l'assegnazione del provvedimento alle Commissioni riunite I e II, esprime la propria volontà di partecipare al prosieguo dei lavori delle stesse.

Giulia BONGIORNO, presidente, dopo avere ricordato come, secondo quanto stabilito nell'ambito della riunione congiunta degli Uffici di Presidenza, integrati dai rappresentanti dei gruppi, delle Commissioni I e II, l'odierna seduta fosse dedicata esclusivamente allo svolgimento della relazione, rinvia il seguito dell'esame ad altra seduta.

La seduta termina alle 14.45.

UFFICIO DI PRESIDENZA INTEGRATO DAI RAPPRESENTANTI DEI GRUPPI

Martedì 3 maggio 2011.

L'ufficio di presidenza si è riunito dalle 14.45 alle 15.