CAMERA DEI DEPUTATI
Mercoledì 20 aprile 2011
471.
XVI LEGISLATURA
BOLLETTINO
DELLE GIUNTE E DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI
Lavoro pubblico e privato (XI)
ALLEGATO
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ALLEGATO 1

Documento di economia e finanza 2011 (Doc. LVII, n. 4).

PARERE APPROVATO DALLA COMMISSIONE

La XI Commissione,
esaminato il documento di economia e finanza 2011;
preso atto dei principali dati concernenti il quadro macroeconomico, tra i quali si segnalano: un incremento (in termini reali) del PIL pari all'1,1 per cento nel 2011, all'1,3 per cento nel 2012, all'1,5 per cento nel 2013 e al 1,6 per cento nel 2014; un valore del tasso di disoccupazione pari all'8,4 per cento per il 2011, all'8,3 per cento per il 2012, all'8,2 per cento per il 2013 e all'8,1 per cento per il 2014; un tasso di occupazione pari al 57,1 per cento nel 2011, al 57,5 per cento nel 2012, al 57,9 per cento nel 2013 e al 58,4 per cento nel 2014;
valutati positivamente i richiami alle misure relative al mercato del lavoro e al settore previdenziale;
preso atto che il documento indica i più rilevanti interventi fin qui realizzati, o in corso di implementazione, per contenere gli effetti della crisi sull'occupazione e rilanciare una dinamica positiva del mercato del lavoro,
esprime

PARERE FAVOREVOLE

con le seguenti osservazioni:
a) appare opportuno dare attuazione, in tempi rapidi, attraverso la predisposizione dei necessari strumenti normativi, alle misure previste nel Piano triennale del lavoro, volte alla modernizzazione del mercato del lavoro, al fine di contribuire al rilancio competitivo del sistema economico nazionale;
b) si raccomanda di provvedere, in particolare, alla presentazione al Parlamento, in tempi brevi, del disegno di legge-delega relativo allo Statuto dei lavori, al fine di assicurare che la delega stessa possa essere utilmente esercitata entro la fine della legislatura;
c) con riferimento alle deleghe conferite dall'articolo 46 della legge n.183 del 2010 (cosiddetto «collegato lavoro»), in materia di ammortizzatori sociali, servizi per l'impiego, incentivi all'occupazione, apprendistato e occupazione femminile, occorre provvedere al loro progressivo esercizio in debito anticipo rispetto al termine di 24 mesi previsto dalla norma, tenendo conto, in particolare, della necessità che l'attuale sistema di strumenti di sostegno al reddito - che ha consentito di rispondere efficacemente agli effetti immediati e più gravi della crisi, garantendo ai lavoratori di rimanere legati alle aziende di appartenenza e di non disperdere il prezioso patrimonio di competenze su cui si fonda il sistema delle PMI italiane - venga quanto prima modernizzato secondo criteri universalistici, in linea con le più avanzate legislazioni europee.

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ALLEGATO 2

Documento di economia e finanza 2011 (Doc. LVII, n. 4).

PROPOSTA ALTERNATIVA DI PARERE DEI DEPUTATI PALADINI E ANIELLO FORMISANO

La XI Commissione,
esaminato il Documento di economia e finanza 2011;
rilevato che:
il dibattito sul DEF italiano va inquadrato nella cornice europea dopo la sostituzione del Patto di stabilità (e crescita) siglato a Maastricht nel 1991 con uno strumento molto più stringente: il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) da approvare a giugno da parte del Consiglio europeo. Questo dovrebbe prevedere, tra l'altro, interventi automatici di un Fondo europeo dotato di risorse pari a 500 miliardi di euro in cambio di cure drastiche. Il primo passo in questa direzione è già stato compiuto nel Consiglio europeo del 24/25 marzo con l'accordo sul Patto Euro Plus (PEP);
le economie più in difficoltà del Continente saranno messe sotto amministrazione controllata da parte della Banca centrale europea secondo i principi di un nuovo «Frankfurt consensus»;
l'interesse a stabilizzare i sistemi finanziari di alcuni paesi europei è così forte perché, stando agli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali (giugno 2010), il sistema bancario tedesco è esposto sulla Grecia per 65,4 miliardi, sull'Irlanda per 186,4, sul Portogallo per 44,3 e sulla Spagna per 216,6, e che solo prestiti internazionali possono salvare le banche tedesche per le quali un crack finanziario dei propri debitori avrebbe effetti devastanti;
si sta in pratica edificando, come da tempo chiedevano i più illuminati fra gli economisti, un governo dell'economia europeo che si affiancherà alla moneta unica;
l'obiettivo non è più quello di un indebitamento annualmente non superiore al 3 per cento del Pil, ma è ora il pareggio annuale. E il 2015 non sarà l'anno di avvio per l'applicazione delle nuove regole, ma l'anno in cui si comincerà a verificare come le si è applicate nel triennio precedente, e quindi a partire dal 2012;
sarà introdotta la regola che qualunque entrata ulteriore a quelle poste in bilancio dovrà andare a riduzione del disavanzo, mai a copertura di nuove o maggiori spese.
c'è anche l'impegno ad introdurre in Costituzione il vincolo della disciplina di bilancio;
rappresenta un paradosso il fatto che i debiti pubblici siano fortemente cresciuti durante la crisi più che altro per gli interventi di salvataggio delle banche e di sostegno ai mercati finanziari. In sostanza, i debiti privati sono stati scaricati sugli Stati e i debiti privati sono dunque diventati debito pubblico. I mercati finanziari si rivolgono oggi proprio contro i governi che li hanno salvati (a spese dei contribuenti) perché oberati da troppi debiti. Oltretutto i Paesi in difficoltà (con l'eccezione della Grecia) erano Paesi con i conti pubblici in ordine secondo i dettami del Trattato di Maastricht;

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la soluzione che viene proposta è semplicemente quella di tagliare la spesa pubblica a partire dagli sprechi e dalle spese inutili. Andranno naturalmente valutati l'impatto sulla crescita, garantendo comunque la spesa sociale insopprimibile;
serve dunque una riflessione più approfondita. La crisi attuale è figlia sia dell'incapacità delle politiche keynesiane sia di quelle liberiste ad affrontare i problemi posti dalla globalizzazione dell'economia,
considerato che:
il Governo sostiene che non ci sarà bisogno di manovre correttive né per quest'anno né per il prossimo: in questo biennio si farà soltanto manutenzione contabile ordinaria. La Banca d'Italia ha calcolato che se si ritiene di concentrare la manovra per raggiungere il pareggio di bilancio tra il 2013 ed il 2014, questa non potrà essere inferiore ai 35 miliardi di euro nel biennio;
infatti, fra il 2010 e il 2014 la spesa pubblica al netto degli interessi dovrà scendere di 5,5 punti di Pil. Di questi 3,2 punti stanno già (secondo il Governo) nel quadro tendenziale della seconda sezione del DEF. Altri 2,3 punti deriveranno da ulteriori manovre sul 2013-2014 basate su ulteriori tagli alla spesa pubblica;
una riduzione così drastica della spesa, nonché del disavanzo al netto degli interessi, non sarà facilmente realizzabile anche in relazione al tasso di crescita previsto, di poco superiore all'1 per cento;
non è vero che l'aggiustamento è tutto rinviato ad un futuro lontano. Infatti, nel 2011 e nel 2012 la spesa al netto degli interessi dovrebbe rimanere pressoché invariata a prezzi correnti, il che ne comporta una notevole riduzione in termini reali. In gran parte i tagli sono già stati inseriti nelle tabelle approvate dal Parlamento con la legge di stabilità 2011 (legge 13 dicembre 2010, n. 220), ma quelle per ora sono scritture contabili. Sarà quindi necessario valutare chi sarà colpito e quale sarà l'impatto sull'intera economia;
i tagli non sembrano accompagnati da misure capaci di incidere sui meccanismi di spesa ed è dunque ben concreto il rischio che essi si traducano in rinvii di spese necessarie - si pensi alla spese di manutenzione degli edifici pubblici o dei beni culturali -, o in debiti sommersi verso i fornitori;
il migliore indicatore dell'azione governativa è il saldo di bilancio primario aggiustato per il ciclo economico, cioè il saldo di bilancio al netto degli interessi sul debito (il cui livello dipende solo minimamente dal governo attuale, e soprattutto dallo stock di debito accumulato in precedenza) e depurato dagli effetti del ciclo economico (il saldo peggiora automaticamente se l'economia è in recessione, senza colpa del Governo);
il Governo prevede un miglioramento costante di tale saldo, di circa tre punti percentuali da qui al 2014, in gran parte dovuto a riduzioni di spesa. Ma questo dato è da prendere con molta cautela, perché si basa su stime ottimistiche, ed è frutto in gran parte di misure saltuarie o non specificate, non di cambiamenti strutturali alla dinamica della spesa;
prendendo il 2012 come esempio, il Governo stima che i provvedimenti presi nel 2010 ridurranno il disavanzo di circa 25 miliardi, oltre 1,7 punti di Pil. Ma gran parte degli effetti sono imputati a due misure, la lotta all'evasione e il patto di stabilità con gli enti locali, entrambe basate su assunzioni da verificare;
un'altra fonte di risparmi riguarda i salari pubblici, frutto del blocco del turnover, che non può essere ripetuto all'infinito. Il Governo continua a prevedere cospicui risparmi su questa voce fino al 2014, ma non è chiaro su che base concreta;
tutto questo rende il miglioramento del saldo primario estremamente aleatorio. Ma se anche si realizzasse, poco o niente in queste misure ha la natura di una riforma strutturale che riduca finalmente il peso della spesa pubblica;

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il punto più dolente è rappresentato dalla bassa crescita prevista ad un livello che si attesta a poco più o poco meno di un punto percentuale: la metà di quel due per cento che il Governatore Draghi ha indicato come il livello minimo per potere interrompere ed invertire la corsa all'aumento del debito pubblico, e nel contempo assorbire almeno in parte una disoccupazione sempre crescente;
la disoccupazione in Italia, se viene calcolata correttamente (computando anche una grossa fetta dei cassaintegrati), supera il 10 per cento e non vi sono prospettive realistiche di un recupero. In Italia, peraltro non ci sono state crisi bancarie e necessità di salvataggi, eppure il nostro debito pubblico ha raggiunto di nuovo i livelli massimi della prima metà degli anni '90 (120 per cento del Pil rispetto ad una media europea dell'84 per cento). Il Pil pro-capite italiano a parità di potere d'acquisto è ritornato sostanzialmente ai livelli del 1999. Abbiamo perso 10 anni, e se il nostro tasso di crescita resterà inchiodato all'1 per cento, ci vorranno 6 anni per ritornare al punto di partenza;
la «scossa» all'economia che il Governo aveva promesso non c'è propria stata e il surplus di crescita necessario non può essere assicurato da un documento in cui non c'è un impegno preciso, una data, ed in cui si ritirano fuori le grandi opere infrastrutturali bloccate da questo stesso Governo e per le quali si riducono drasticamente le risorse;
le oltre 160 pagine del Piano nazionale delle riforme (PNR) indicano le misure programmatiche del Governo da qui alla fine della legislatura. Delle quattordici misure elencate come programmatiche, cioè ancora da realizzare da qui alla fine della legislatura, alcune sono semplici piani (il piano triennale del lavoro, il programma di inclusione delle donne, etc.). Altre misure sono titoli vuoti come la promozione delle energie rinnovabili;
manca qualsiasi indicazione operativa (e come tale controvertibile) per realizzare quelle generiche enunciazioni, vaghe e sommarie anche sul tema della riforma tributaria;
la bassa crescita non ha impedito che nel 2010 l'indebitamento delle pubbliche amministrazioni fosse più basso del previsto, grazie al contenimento delle spese;
negli anni a venire si prevede un ulteriore contenimento della spesa rispetto al Pil: dopo un collasso di oltre il 16 per cento nel 2010, gli investimenti fissi pubblici continueranno a cadere, anche in termini assoluti (con buona pace delle imprese di costruzione); si ridurranno in quota i redditi dei dipendenti. La pressione tributaria e quella fiscale (che include i contributi) resterà invariata al notevole livello del 42 e mezzo per cento del prodotto;
secondo gli esponenti del Governo, il testo del PNR contiene interventi organici in funzione della crescita. Con due direttrici principali: la grande riforma fiscale e una pervasiva revisione dell'impianto regolatorio dall'altra. Ma la riforma fiscale è una delega senza copertura finanziaria rinviata alle cure del prossimo Governo nel 2013, ripetendo il trucco che lo stesso Ministro dell'economia e delle finanze fece nel 2003 (legge n. 80 del 2003 - Delega al Governo per la riforma del sistema fiscale statale); l'unica misura per la crescita rimane dunque la deregolamentazione di appalti, la costituzione di aree a «burocrazia zero» nel Sud e di distretti turistico-balneari attraverso una non ben definita intenzione di ridefinire il demanio marittimo;
prosegue dunque l'unica politica «per lo sviluppo» di questo Governo, che è una spinta verso il lassismo, come le misure adottate in precedenza: abolizione del falso in bilancio, condoni, finanza creativa, tassazione dei redditi da capitale più bassa di quelli da lavoro;
il problema del perpetuarsi dell'uno virgola di crescita resta dunque irrisolto: la vaghezza del Pnr pone la sordina

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a una seria discussione di riforme mirate e non costose. «Tenere i conti» è necessario, ma non basta; alla lunga, se non riparte la crescita, non si risolve neanche il problema del debito;
non c'è solo la disoccupazione, né c'è solo la maldistribuzione delle risorse di cui il Paese dispone per finalità primarie come gli investimenti, la formazione e la ricerca. C'è la questione stessa del debito pubblico, che in assenza di crescita può finire per avvitarsi su se stessa. Se non cresciamo, il debito totale non scende neppure con un indebitamento annuo pari a zero. Mentre con un indebitamento annuo sotto controllo e un Pil che cresce di più, tutto il portato della crescita si traduce in riduzione percentuale del debito totale;
considerato, inoltre, che nell'ambito specifico delle materie di competenza della XI Commissione:
il Patto Euro plus del 25 marzo 2011 contiene diverse indicazioni;
la crescita dell'occupazione viene considerata intimamente correlata alla crescita della competitività nella zona euro, mentre i tassi di disoccupazione giovanile, quelli di lungo periodo e i tassi di attività, sono presi a parametro del buon funzionamento del mercato del lavoro;
il Governo italiano afferma di aver fatto già molto di quanto previsto dal Patto, in particolare la riforma delle pensioni, con l'allineamento dell'età pensionabile alla effettiva speranza di vita e il collegamento tra retribuzione e produttività;
tra le molte cose che rimangono da fare il Governo dichiara di puntare alla realizzazione dello Statuto del Lavoro, che tra le altre cose intende eliminare lo statuto dei lavoratori dal mondo del diritto;
se da un lato il corpus delle leggi che oggi disciplinano il diritto del lavoro è diventato ipertrofico e necessita di essere semplificato, dall'altro le garanzie per i lavoratori non possono essere ridotte ed anzi vanno accresciute a favore di quelli che oggi ne sono privi;
la deregolamentazione che continua a proporre il Governo, al contrario, rischia di diminuire le garanzie e i diritti dei lavoratori;
il Governo punta altresì sull'ulteriore incentivazione del contratto di apprendistato, che vuole rendere «il tipico e conveniente contratto di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro grazie alla semplificazione regolatoria e alla efficacia della formazione in ambiente lavorativo»;
con il contratto di apprendistato il Governo vuole illuderci che riuscirà a risolvere il problema dell'occupazione giovanile e femminile, specie nelle regioni meridionali, e di centrare così gli obiettivi europei;
al Governo sembra sfuggire che i giovani disoccupati in Italia sono più del 25 per cento, mentre l'occupazione femminile è ferma al 47 per cento e che con questi dati siamo il fanalino di coda dell'euro zona;
il Governo ignora la complessità del problema della disoccupazione e rinuncia a mettere in campo interventi e risorse consistenti, come richiesto dall'Europa, prova ne sia che nel DEF i dati relativi alla disoccupazione mostrano solo una flessione dello 0,3 per cento nel triennio, mentre l'Italia ha il numero di inattivi e di scoraggiati più alto di tutta Europa;
per questa mancanza di impegno e di prospettiva, il Governo farebbe bene a non farsi vanto delle risorse messe a disposizione per la cassa integrazione, in particolare per quella straordinaria che cresce. Il Governo trascura che la diminuzione dell'utilizzo di quella ordinaria, che da' la certezza di ritornare sul proprio posto di lavoro, cala perché le imprese hanno esaurito i periodi massimi, mentre l'aumento della cassa integrazione straordinaria e quella in deroga, sono sintomatiche di una crisi irreversibile e della

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rottura del rapporto di lavoro. Ciò dovrebbe allarmare il Governo per il rischio che la disoccupazione aumenti ancora di più;
il PNR appare molto debole sia sul piano delle diagnosi sia su quello delle proposte e ciò è vero soprattutto per il fronte del mercato del lavoro, dove mancano gli investimenti che altri governi, come quelli inglese, tedesco e francese, hanno invece inserito nei propri PNR;
sul fronte del pubblico impiego, il Governo vanta i tagli operati e il blocco del turn over, ma non svolge alcun approfondimento sulla tenuta della pubblica amministrazione in relazione ai servizi che deve erogare per legge;
gli interventi già operati in materia di pensioni mostrano che l'Italia si è assicurata un risparmio sulla spesa che inciderà meno sul PIL, ma il Governo ignora del tutto la questione della crescita dell'età media della popolazione e della riduzione degli importi delle pensioni e del loro potere d'acquisto rispetto all'inflazione;
proposto che, per le materie di sua competenza, il Governo:
adotti misure che diano risposte concrete al mondo del lavoro e ai lavoratori, al fine di aumentare la produttività del sistema;
combatta la disoccupazione, specialmente quella giovanile e quella femminile, con misure adeguate ed efficaci;
generalizzi ed estenda gli ammortizzatori sociali, con particolare riguardo alle figure precarie ed atipiche;
riveda la normativa in materia di contratti atipici al fine di ridurre la precarietà;
verifichi l'impatto sul buon andamento della pubblica amministrazione del blocco del turn-over e delle assunzioni, in particolare: rivedendo la misura delle risorse impegnate; rivedendo la normativa in materia di concorsi pubblici - al fine di indirli quando si è certi di poter assumere i vincitori e non sperperare denaro pubblico; eliminando i maggiori costi che derivano allo Stato dal ricorso a lavoratori somministrati;
unifichi gli enti di previdenza, al fine di realizzare risparmi;
rivaluti al cento per cento delle pensioni di importo fino a cinque volte il minimo,
esprime

PARERE CONTRARIO

«Paladini, Aniello Formisano».

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ALLEGATO 3

Documento di economia e finanza 2011 (Doc. LVII, n. 4).

PROPOSTA ALTERNATIVA DI PARERE DEI DEPUTATI DAMIANO ED ALTRI

La XI Commissione,
esaminato il Documento di economia e finanza 2011;
premesso che:
nello spirito della Nuova Strategia Europa 2020 (EU2020), la Commissione europea ha previsto un coordinamento strategico dei diversi momenti di definizione programmatica per i Paesi membri attraverso l'introduzione del c.d. «Semestre europeo» che ha inizio ad aprile di ogni anno, con la presentazione contestuale dei Piani nazionali di riforma (PNR) e dei Programmi di stabilità (PS);
il nuovo PNR, documento che assume un ruolo fondamentale in questo processo, deve contenere i seguenti elementi: lo scenario macro-economico, come definito nel PS; l'analisi degli squilibri macroeconomici nazionali e l'identificazione degli ostacoli principali alla crescita e all'aumento dell'occupazione; le misure strategiche di riforma da adottare per il raggiungimento degli obiettivi nazionali da perseguire di crescita produttiva e occupazionale;
la legge 196/2009 incardina la discussione del PNR all'interno di quella più generale della DEF di cui costituisce la terza parte, la prima sezione reca invece lo schema del Programma di stabilità;
nella fase transitoria, in sede di predisposizione della bozza di PNR, da presentare alla Commissione entro il 12 novembre, il Governo ha trasmesso il documento alle Camere a ridosso della data in cui si chiedeva la conclusione della discussione, limitando fortemente la possibilità del Parlamento di procede ad una ampia disamina del testo;
nell'Analisi annuale della crescita, la Commissione ha evidenziato che molti progetti di PNR indicano tra le proposte previste dagli Stati membri per raggiungere gli obiettivi nazionali, misure già attuate o a uno stadio piuttosto avanzato, oppure alquanto vaghe, con poche precisazioni circa la natura esatta delle norme, il calendario di attuazione, l'impatto previsto, il rischio di applicazione parziale o di insuccesso, il costo per il bilancio e l'uso dei Fondi strutturali dell'UE,
considerato che:
anche nella versione definitiva, il PNR appare vago, di difficile lettura, spesso ripetitivo e scevro di un impianto strategico, di impegni dettagliati e di scadenze precise. Una «cornice del nulla» come è stato efficacemente definito, in cui si contano complessivamente misure programmatiche di cui alcune sono semplici piani, altre titoli vuoti, altre ancora passibili di un iter lunghissimo o di difficile realizzazione;
se dalle enunciazioni teoriche del PNR si passa ai dati macroeconomici e di finanza pubblica del Programma di stabilità, si rileva che nel prossimo triennio la crescita è rivista al ribasso rispetto alla DFP del settembre 2010 ed è stimata

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all'1,1 per cento per il 2011, all'1,3 per cento per il 2012 e all'1,5 per cento per il 2013;
nonostante la revisione delle stime della crescita, il Governo mantiene invariati i saldi di finanza pubblica in termini tendenziali: l'indebitamento netto è confermato al 3,9 per cento per il 2011 e al 2,7 per cento per il 2012, come nella DFP;
se non si affronta il problema della crescita, non solo gli investimenti pubblici continueranno a diminuire (da 48,6 miliardi di euro nel 2011 a 45,9 miliardi nel 2014) e la pressione fiscale rimarrà invariata (42,5 per cento nel primo e nell'ultimo anno del quadriennio) ma per consentire il rispetto degli obiettivi europei sarà necessaria anche una manovra correttiva per il 2,3 per cento del PIL (oltre 35 miliardi di euro); come anticipato dal DEF, per il biennio 2013/2014;
poiché il riequilibrio duraturo dei conti pubblici passa soprattutto per il rafforzamento del potenziale di sviluppo dell'economia, sarebbe stata necessaria l'individuazione di misure strategiche precise anziché una poco convincente politica dei due tempi che, senza garantire la riduzione del debito (per la quale la Banca d'Italia considera necessario un PIL del 2 per cento annuo), rimanda sine die il problema della crescita;
valutato che, per le parti di competenza:
in materia di politiche del lavoro, la prima evidenza che emerge è la totale disattenzione e disconoscimento del fenomeno del precariato che caratterizza, secondo le stime più prudenziali, la condizione di almeno 4 quattro milioni di lavoratori e che proprio nelle scorse settimane ha visto una vasta mobilitazione in tutte le principali città italiane. Addirittura, nel documento in esame, non compare mai il termine, negando in radice il fenomeno che non solo relega milioni di lavoratori ai margini del sistema produttivo, mortificandone le competenze e cancellando ogni possibilità di realizzazione personale, ma al tempo stesso condanna inevitabilmente le nostre imprese ad una sfida competitiva di basso profilo;
allo stesso tempo, si attribuisce grande rilievo al ridimensionamento degli ambiti e dei contenuti del contratto nazionale, spostandone le previsioni sui contratti di secondo livello e di prossimità, secondo un modello che non sembra tener conto della peculiarità dimensionale delle nostre imprese, concentrate per oltre il 90 per cento sotto la soglia dei 10 dipendenti, con conseguenti scarsissime possibilità di realizzazione di accordi integrativi. A quest'opera di destrutturazione del quadro dei diritti dei lavoratori, il Governo intende aggiungere una radicale riscrittura della normativa lavoristica, attraverso la predisposizione di un nuovo Statuto dei lavori che si limiti a fissare «un nucleo di diritti universali e indisponibili per tutti i lavoratori dipendenti, compresi i lavoratori a progetto e le mono-committenze». L'insieme delle tutele attualmente garantite dalla legge in modo universale e indifferenziato su tutto il territorio nazionale, non ricomprese nel richiamato nucleo dovrebbero divenire oggetto «della contrattazione collettiva e potranno essere definite nelle aziende e nei territori con intese anche in deroga alle norme di legge e valorizzando il ruolo degli organismi bilaterali». Una sorta di balcanizzazione dei diritti e delle tutele che prefigurerebbe il superamento del così detto dualismo del mercato del lavoro, attraverso un progressivo svuotamento delle garanzie attualmente riconosciute dalle disposizioni di legge e rendendo tutti meno tutelati;
anche la prefigurata necessità di far corrispondere maggiormente le professionalità acquisite, attraverso il percorso formativo, alle richieste del sistema delle imprese, con un'accentuazione dell'apprendimento delle conoscenze pratiche e la valorizzazione del contratto di apprendistato, quale forma principale di accesso al lavoro, sembra ispirato più a una logica

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di corto respiro di un sistema di imprese che offre prevalentemente lavori di bassa qualificazione e competenze, basti pensare che già ora l'Italia si colloca agli ultimi posti europei per l'occupazione dei laureati. Depotenziare il bagaglio di conoscenze teorico-scientifico dei futuri lavoratori significa puntare ad un sistema produttivo che si condanna a competere con le economie emergenti su produzioni a basso contenuto tecnologico. Peraltro, l'introduzione della norma che ha previsto che l'espletamento del diritto-dovere di istruzione si assolva anche nei percorsi di apprendistato appare fortemente classista che riporta indietro il diritto allo studio a prima delle misure varate dal Governo Prodi;
considerato che:
i dati trionfalistici riportati nel Documento di Economia e Finanza 2011, sul lavoro femminile, purtroppo, non corrispondono alla realtà. Il numero delle donne occupate è fermo al 46,4 per cento contro il 60 per cento che si sarebbe dovuto raggiungere ben due anni fa, secondo gli obiettivi stabiliti a Lisbona, mentre l'occupazione maschile è pari al 68,6 per cento. Elemento fondamentale per aumentare l'occupazione femminile è l'ampliamento ai servizi per la prima infanzia, la condivisione del lavoro di cura dei figli, il sostegno agli anziani e ai non autosufficienti, tutte cose che l'attuale esecutivo ha mancato di attuare. La crisi economica non ha fatto altro che peggiorare la situazione delle lavoratrici adeguandosi al luogo comune che è meno grave che il posto di lavoro lo perda una donna anziché un uomo;
per quanto riguarda la condizione sui luoghi di lavoro il tasso di occupazione delle donne è molto minore rispetto a quello degli uomini, ma a parità di mansioni con i colleghi maschi le donne guadagnano di media il 25-30 per cento in meno. Ancora non è stato varato definitivamente, per problemi tutti interni alla maggioranza, il disegno di legge sulle quote rosa nei c.d.a., segno che quanto detto a parole dal Governo, è frenato da resistenze e pregiudizi. Tra le donne l'incidenza del precariato si è raddoppiata rispetto agli uomini mentre, per quanto riguarda il divario di genere siamo il fanalino di coda, non solo dei paesi della UE ma anche a livello internazionale, che ci colloca al 72esimo posto, addirittura sotto Kazakhistan e Ghana. Giova ricordare, inoltre, che uno dei primi interventi legislativi dell'attuale Governo è stato la soppressione della legge sulle dimissioni in bianco, che ancora oggi, non è stata sostituita da alcuna norma «più semplice e meno burocratica», come l'Esecutivo aveva promesso al momento della sua cancellazione. La possibilità di accedere al part-time è stata ulteriormente ristretta e, nonostante i buoni propositi, nessun serio intervento è stato concretamente avviato per la conciliazione dei tempi di lavoro: il fondo per gli asili nido non è stato rifinanziato, ed ancora attende risorse l'articolo 9 della legge 53/2000 (nell'accordo sulle politiche di conciliazione con le forze sociali, si «auspica» di poter utilizzare l'articolo 9 della legge 53/200); nel PRN si cita poi il «Programma di azione per l'inclusione delle donne nel mercato del lavoro» che utilizzando i 40 milioni stanziati per il 2009 dal Governo Prodi dovrebbe dare (con 40 milioni) la sferzata all'occupazione femminile; il Governo attuale non ha stanziato un euro;
anche la situazione dei giovani è tra le più drammatiche a livello europeo: il tasso di disoccupazione giovanile, infatti, supera in Italia il 29 per cento, una cifra inaudita che obbliga molti «giovani cervelli» a lasciare il nostro paese per mancanza di prospettive.
osservato che:
per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali nessuna misura è stata varata sull'ampliamento dell'indennità di disoccupazione

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(riutilizzando le risorse destinate agli ammortizzatori sociali non impegnate nel 2009), né sull'avvio della riforma organica degli istituti di sostegno attivo al reddito, con l'obiettivo universale per quanti perdono il lavoro indipendentemente dalla tipologia contrattuale; rimarranno dunque senza alcun sostegno le migliaia di lavoratori a cui si prevede non verranno rinnovati i contratti, né a coloro i cui contratti non sono stati più rinnovati dal 31 dicembre 2010; la insignificante estensione delle misure di sostegno del reddito per i precari è stata riconosciuta solo a 1.800 lavoratori a causa dei criteri fortemente restrittivi imposti dalla norma; fonti della Banca d'Italia hanno quantificato in circa un milione mezzo di lavoratori a rischio, che al momento non godono, di alcun sostegno al reddito; una categoria di lavoratori che tende a crescere data anche la politica del Governo che in questi anni, ha teso ad reintrodurre quelle forme contrattuali tendenti a rendere i contratti sempre più precari ed instabili;
rovinosi sono stati i continui interventi dell'esecutivo sulle pensioni. La legge 133/2008, con la giustificazione di ridurre i costi dell'amministrazione pubblica, ha introdotto il pensionamento obbligatorio dei dipendenti pubblici che avessero maturato il requisito di 40 anni di contribuzione effettiva. Con successive leggi si è modificato il requisito di accesso, prima prevedendo 40 anni di servizio effettivo e poi riportandolo nuovamente ai 40 anni di anzianità massima contributiva. Lo stesso dicasi rispetto al personale escluso la cui platea, rispetto alla previsione introdotta con la legge 133/2008, è stata allargata. In altri termini le modifiche introdotte con la legge 133/2008 e successive modifiche hanno colpito solo e unicamente le qualifiche medio-basse del pubblico impiego. Inoltre è stata introdotta la cosiddetta «finestra scorrevole» in base alla quale, dal 1o gennaio di quest'anno, i lavoratori e le lavoratrici dipendenti pubblici e privati, andranno in pensione a 12 mesi dalla maturazione del requisito, mentre i lavoratori e le lavoratrici autonome decorsi 18 mesi. È stata poi peggiorata la normativa in materia di ricongiunzioni: il decreto legge 78/2010 ha dato un taglio deciso e netto ai trasferimenti dei contributi dei pubblici dipendenti verso l'Inps in quanto non esiste più la possibilità di avere una posizione gratuita presso questo Ente,
rilevato che:
le lavoratrici pubbliche sono state particolarmente penalizzate dall'azione del Governo sul sistema pensionistico. Per le donne della pubblica amministrazione la pensione di vecchiaia sarà dal 1o gennaio 2012 equiparata all'età dei loro colleghi uomini, fissata a 65 anni. Fino a tutto il 2011 saranno sufficienti 61 anni, rispettando però l'attesa dal momento della maturazione del requisito di 12 mesi. Il Governo aveva promesso di implementare le risorse a favore della maternità e del tempo dedicato alla cura, proprio in conseguenza del brusco innalzamento dell'età pensionabile delle donne: promesse rimaste inattuate: anzi, la finanziaria del 2011 taglia drasticamente le risorse per le politiche sociali;
anche la materia della sicurezza sui luoghi di lavoro è stato oggetto di un pesante intervento da parte dell'attuale esecutivo. Tuttavia, l'impianto generale del decreto legislativo n. 81 del 2008, varato solo pochi giorni prima del termine della XV legislatura, con ampio consenso delle parti sociali e anche in sede di espressione del parere delle Commissioni parlamentari, ha tenuto, assicurando un significativo passo avanti della legislazione italiana in materia. Le numerose modifiche - 136 articoli modificati su 306 - hanno in particolare inciso negativamente sul tema della valutazione dei rischi e sul sistema sanzionatorio, evidenziando un approccio scarsamente rigoroso e improntato dal tentativo di affievolire le responsabilità dell'impresa in materia di sicurezza da parte dell'esecutivo;

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anche le annunciate politiche di contrasto al lavoro irregolare risultano nei fatti contraddette dalla riduzione degli stanziamenti per il Fondo per il funzionamento del Comitato per l'emersione del lavoro non regolare che, rispetto alle previsioni assestate per il 2009, ha visto la diminuzione di quasi 128 milioni di euro in termini di competenza,
esprime

PARERE CONTRARIO

«Damiano, Bellanova, Berretta, Bobba, Boccuzzi, Codurelli, Gatti, Gnecchi, Madia, Mattesini, Miglioli, Mosca, Rampi, Santagata, Schirru».