CAMERA DEI DEPUTATI
Martedì 29 marzo 2011
460.
XVI LEGISLATURA
BOLLETTINO
DELLE GIUNTE E DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI
Giunta per il regolamento
ALLEGATO
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ALLEGATO 1

INTERVENTO ON. MARINA SERENI

1. Perché cambiare la prassi?

Lei ci ha convocato, signor Presidente, perché ha ritenuto di renderci comunicazioni sulla procedura con cui la Camera eleva conflitto d'attribuzioni, ai sensi dell'articolo 134 della Costituzione.
Lei sa bene, tuttavia, che la prassi parlamentare su questo punto è ben consolidata.
Quando un altro potere eleva conflitto e chiama in causa un atto della Camera, l'Ufficio di Presidenza deve avanzare una proposta all'Assemblea.
Quanto taluno avanza l'ipotesi che sia la Camera a elevare conflitto nei confronti di un altro potere, l'Ufficio di Presidenza può avanzare una proposta all'Assemblea.
È dunque assodato che l'Ufficio di Presidenza non solo è l'organo referente ma ha anche il potere esclusivo di proporre all'Assemblea la levata del conflitto. Si tratta di un potere che deve essere esercitato entro il termine che la Corte costituzionale assegna alla Camera per resistere al conflitto, quando - ripeto - è un altro potere che ricorre alla Corte costituzionale medesima.
È - viceversa - un potere che l'Ufficio di Presidenza ha facoltà di esercitare o non, se non pende alcun giudizio e se manca ogni termine entro cui costituirsi parte.
La prassi ha un valore di fonte normativa. Non ripeto quel che ha appena detto il collega Bressa. E la prassi dunque è quella che ho esposto.
Perché cambiarla? C'è un evento eccezionale, inedito, cui non sappiamo far fronte con le regole attuali e con i precedenti che abbiamo disponibili? Direi di no.
Nuove prassi e nuove regole si fanno strada e s'impongono via via che la vita parlamentare si evolve e presenta esigenze nuove. Ma nel nostro caso, quale sarebbe la novità? Qual è il fatto nuovo e inedito che ci costringe a confrontarci con la necessità di nuove soluzioni normative?
Ricordo, per esempio, che il c.d. lodo Iotti, che consentì nel 1978 di modificare la procedura d'esame dei disegni legge di conversione dei decreti legge, fu emanato dal Presidente della Camera nell'incandescenza del caso Moro e per l'ostruzionismo di una parte assai minoritaria del Parlamento e con il consenso del più grande partito d'opposizione; altre prassi furono introdotte o mutate per specifiche e condivise scelte, in relazione a esigenze di fatto ben individuate.

2. Che fatto è, quello per cui si domanda di cambiare la prassi?

La maggioranza implicitamente domanda di cambiare la prassi per cui è esclusiva dell'Ufficio di Presidenza avanzare proposte di conflitto, perché in questo organo essa non è più maggioranza (scusate il bisticcio).
Per la verità, è un classico di questa maggioranza di centro-destra. Le regole vanno bene purché si debbano applicare solo agli altri. Se invece sono regole che vanno contro i suoi interessi, allora devono essere cambiate. Di qui l'infinita serie di leges ad personam.
Ecco: la maggioranza oggi vuole costringerci a elaborare una prassi ad personam.
Siccome con le regole attuali non si potrebbe elevare un conflitto sul caso Ruby, si vuole la prassi ad hoc per il Presidente del Consiglio.
Dietro a questa prassi ad personam che si vorrebbe introdurre, per cui l'Ufficio di

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Presidenza deve comunque portare una proposta all'Assemblea, anche se non pende alcun conflitto, che fatto c'è?
Lo sa il mondo intero, signor Presidente. C'è quella sciagurata notte tra il 27 e il 28 maggio dell'anno scorso, in cui la Presidenza del Consiglio fa pressioni sulla questura di Milano per far sì che una giovinetta, minorenne e spregiudicata, venga consegnata anziché a una comunità di tutela e di recupero alla consigliera Minetti, la quale, a sua volta, la riaccompagna presso una signora che non ha credenziali da diplomatica e non esercita la professione di istitutrice.
La maggioranza di centro-destra ha avuto il coraggio di sostenere che questo sarebbe un atto pertinente all'esercizio delle funzioni ministeriali; e che l'autorità giudiziaria avrebbe dovuto accorgersene; e che non averne preso atto lede le prerogative della Camera; e che non si può impedire alla Camera di dolersene; e che quindi - oggi - bisogna cambiare la prassi.
Come ognuno vede, si tratta di una catena di sillogismi assolutamente assurda.

3. Si può cambiare la prassi per una bugia?

La sequenza di telefonate dall'on. Berlusconi verso il dott. Ostuni della questura di Milano e da questi verso la funzionaria di turno, Giorgia Iafrate, non può dirsi rientrare nelle funzioni del Presidente del Consiglio.
Essa, fosse stata fatta dal ministro dell'interno, avrebbe avuto più appigli per essere considerata una condotta funzionale. Ma effettuata dal Presidente del Consiglio non ha alcun legame con l'esercizio dei poteri ministeriali.
Nella relazione del collega Leone si dice che le funzioni del Capo del Governo non sono tipiche, spaziano in lungo e in largo per mantenere l'unità dell'indirizzo politico e amministrativo dello Stato. E qui, siccome Ruby era la nipote di Mubarak, l'on. Berlusconi stava salvando le relazioni internazionali.
Già il collega Bressa ha chiarito quando è che un Presidente del Consiglio esercita i suoi poteri in politica estera: lo fa quando convoca il ministro degli esteri e della difesa in una crisi come quella dell'ACHILLE LAURO.
Nello sviluppo della nottata sul 28 maggio 2010 Frattini e La Russa non vengono informati; Maroni nemmeno. Il consolato egiziano non sa alcunché. Sanno tutto invece la Minetti e le altre persone dell'equivoco entourage di Mora e Fede.
Mi domando dove starebbe l'esercizio delle funzioni ministeriali di cui all'articolo 96 della Costituzione.
Vedete, signor Presidente e colleghi: risulta agli atti della Giunta per le autorizzazioni che l'on. Leone - relatore sulla vicenda - avesse avanzato l'ipotesi che, forse, la concussione poteva essere ascritta a quelle funzioni. Ma poi si era prudentemente attestato su una risposta negativa alla domanda di perquisizione avanzata dai giudici di Milano.
Invece è stato l'intervento dell'on. Paniz che ha avanzato il concetto, tanto fantasioso quanto francamente ridicolo, che la ministerialità del reato non stesse tanto nell'interlocuzione in sé del Capo del Governo con un ufficio di pubblica sicurezza quale è la questura, ma nel fatto che davvero si doveva pensare che Karima el Marough fosse imparentata con Mubarak.
Credo che sia grottesco rimproverare - attraverso un conflitto d'attribuzioni - alla magistratura milanese di non aver creduto a questa pura invenzione.
Mi si obietterà: infatti la lettera dei colleghi Cicchitto e altri non sostiene apertamente questo. Si limita a rivendicare che la valutazione sull'inerenza dei reati alle funzioni ministeriali spetta alle Camere e che la Camera, nella sua delibera dello scorso 3 febbraio sulla perquisizione, aveva stabilito quell'inerenza.
Ma si tratta di un'obiezione destituita di ogni fondamento.
La Corte di cassazione ha - a più riprese - stabilito che fissare la natura ministeriale o meno del reato è potere dell'autorità giudiziaria. Da ultimo, questo

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concetto è stato riaffermato dalla Corte di cassazione nella sentenza del 3 marzo 2011, n. 10130.
Mi si permetta di leggerne alcuni tratti.
Scrive il giudice Fidelbo, della VI sezione: «L'ordinanza oggetto del presente ricorso per cassazione è stata emanata nel corso dell'udienza preliminare, disposta a seguito della richiesta di rinvio a giudizio di Mario Clemente Mastella per i reati di abuso d'ufficio e di concussione, sull'eccezione di incompetenza funzionale avanzata dai difensori dell'imputato, secondo i quali la competenza a conoscere di tali reati sarebbe dell'apposito collegio previsto dall'articolo 7 delle legge cost. n. 1 del 1989 (c.d. tribunale dei ministri).
Le attribuzioni al collegio previsto dall'articolo 7 legge cost. cit. hanno come presupposto la natura ministeriale del reato e qualora tale presupposto manchi l'accertamento del reato, seppure commesso da un ministro, segue le ordinarie procedure. I problemi che possono sorgere in ordine all'individuazione di quale «giudice» deve procedere, anche in relazione alla qualifica del reato, danno luogo a questioni che investono la «competenza» funzionale dei diversi organi giudiziari interessati, questioni che devono essere risolte con i mezzi che l'ordinamento processuale in questi casi mette a disposizione.
Nella specie, i ricorrenti hanno sollevato un'eccezione di incompetenza che però non è stata accolta dal GUP., il quale ha motivato le ragioni della sua scelta con un'ordinanza, rispetto alla quale il nostro sistema processuale, ispirato al principio di tassatività delle impugnazioni, non prevede alcun mezzo tipico di gravame, se non quello dell'impugnazione della sentenza riguardante la responsabilità dell'imputato, momento in cui potrà proporsi nuovamente l'eccezione davanti a nuovi giudici.
D'altra parte non è previsto un mezzo per regolare la competenza, in maniera da assicurare un intervento immediato della Cassazione, come invece accade nel processo civile. Nella Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988 il mancato inserimento di un meccanismo preventivo che verifichi la corretta attribuzione della competenza è stato giustificato con la preoccupazione che «deduzioni defatigatorie di incompetenza potessero ritardare l'inizio del dibattimento»: scelta del tutto condivisibile in un sistema processuale - come quello riferibile al modello originario - che ha «assoluta urgenza di pervenire all'acquisizione delle prove», ma che oggi, dinanzi alla constatata dilatazione di fatto dei tempi del processo, meriterebbe di essere riconsiderata, in funzione di assicurare immediata certezza alle situazioni giuridiche processuali collegate alle questioni di competenza, anche in considerazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo.
In realtà, il legislatore ha attribuito alla Cassazione il ruolo di unica autorità deputata alla verifica della legittimità dei provvedimenti del giudice di merito sulla propria competenza, ma attraverso la predisposizione della disciplina sui conflitti di cui agli artt. 28 e seg. c.p.p., differenziandola nettamente dalla categoria delle impugnazioni. Ma perché possa aversi un conflitto di competenza è necessario che almeno due giudici contemporaneamente prendano o ricusino di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla persona, situazione che nella specie non ricorre.
In conclusione, il provvedimento con cui il GUP del tribunale di Napoli ha deciso sull'eccezione di incompetenza sollevata dall'imputato non è autonomamente impugnabile.
Tuttavia, una deroga al principio di tassatività dei provvedimenti impugnabili e dei mezzi di impugnazione è prevista dall'articolo 568 comma 2 c.p.p., che riconosce la generale ricorribilità per cassazione delle sentenze - ad eccezione di quelle sulla competenza che possono dare luogo a conflitto - e in questa deroga sono ricompresi anche gli atti abnormi. Infatti, «se per il principio di tassatività, dovrebbe essere esclusa ogni impugnazione non prevista, è vero pure che il generale rimedio del ricorso per cassazione consente comunque

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l'esperimento di un gravame atto a rimuovere un provvedimento non inquadrabile nel sistema processuale o adottato a fini diversi da quelli previsti dall'ordinamento» (Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale 1988).
Ed è con riferimento alla ritenuta abnormità dell'ordinanza emessa dal GUP del tribunale di Napoli che i ricorrenti hanno proposto ricorso immediato per cassazione, sicché questa Corte è chiamata, innanzitutto, a verificare la sussistenza di quei caratteri di eccezionalità e di singolarità denunciati dai ricorrenti che renderebbero comunque ammissibile il ricorso. [...].
Il ricorrente denuncia l'abnormità del provvedimento sotto differenti profili, tutti riconducibili alla ritenuta violazione della disciplina in materia, con riferimento, in particolare, all'obbligo di informare comunque la Camera di appartenenza dell'imputato, la cui omissione sarebbe lesiva delle attribuzioni costituzionalmente previste a favore del Parlamento, perché significherebbe riconoscere alla sola autorità giudiziaria procedente «la potestà esclusiva di qualificare la natura del reato», in contrasto con quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 241 del 2009, secondo cui all'organo parlamentare non può essere sottratta l'autonoma valutazione sulla natura ministeriale o non ministeriale dei reati. Sarebbero questi i sintomi dello sviamento di potere in cui sarebbe incorso il GUP ponendo in essere il provvedimento ritenuto, per questo, abnorme».
Osserva ancora la Corte che «con la riforma del 1989 il legislatore, nel modificare l'articolo 96 Cost., che originariamente prevedeva il sistema di messa in stato di accusa dei ministri da parte del Parlamento e il relativo giudizio affidato alla Corte costituzionale in composizione aggregata (artt. 134 e 135 Cost.) ha voluto valorizzare i meccanismi del «diritto processuale comune» (come ha stabilito la precedente Corte costituzionale, n. 134/2002), riconducendo l'accertamento della responsabilità penale dei ministri nell'ambito del «processo ordinario», sebbene differenziato per consentire alle Camere, attraverso l'autorizzazione a procedere, di valutare se la condotta oggetto dell'imputazione sia da porre in relazione con un «interesse dello Stato di rilievo costituzionale» ovvero con il perseguimento di un «preminente interesse pubblico».
Si è trattato, quindi, di una riforma certamente non funzionale alla creazione di una speciale guarentigia per i ministri e la riprova è che la competenza a giudicare dei «reati c.d. ministeriali» è stata attribuita all'autorità giudiziaria ordinaria, evitando l'istituzione di una giurisdizione speciale.
Ed infatti il collegio per i reati ministeriali è «organo specializzato del giudice ordinario», quindi tutto interno alla giurisdizione. Il preliminare compito che gli assegna la legge costituzionale è quello di svolgere le indagini, al termine delle quali, ove non ritenga di disporre l'archiviazione, deve trasmettere gli atti al procuratore della Repubblica per l'inoltro immediato alla Camera di appartenenza dell'interessato per le competenti valutazioni in merito all'autorizzazione a procedere e, in caso in cui l'autorizzazione venga concessa, sono attribuiti allo stesso organo specializzato anche poteri decisori in ordine al rinvio a giudizio all'esito della udienza preliminare. È una disciplina che, come ha affermato la Corte costituzionale, è volta a «contemperare la garanzia della funzione di governo e l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge», realizzando un ragionevole bilanciamento tra le due esigenze indicate».
La sentenza costituzionale n. 241 del 2009, richiamata con insistenza dalla lettera degli onorevoli Cicchitto e altri, si è preoccupata di garantire tale bilanciamento, chiarendo che in tutti i casi in cui il collegio per i reati ministeriali disponga l'archiviazione debba essere data comunicazione al Presidente della Camera competente.
Invero, nel risolvere il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato la Corte costituzionale, con la sentenza indicata, ha affermato che l'onere di dare comunicazione al Presidente della Camera competente,

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previsto dall'articolo 8 comma 4 legge cost. n. 1 del 1989 per i casi di archiviazione, sussiste anche qualora il collegio disponga la c.d. archiviazione «asistematica» o 'anomala'. Si tratta dell'archiviazione del solo fascicolo ministeriale, perché il reato è ritenuto comune e non ministeriale. Prosegue quindi il procedimento ordinario.
In quest'ultimo caso, l'articolo 2 della legge n. 219 del 1989 prevede che il collegio trasmetta gli atti all'autorità giudiziaria «competente a conoscere del diverso reato» e tale disposizione era stata interpretata dal collegio per i reati ministeriali presso il tribunale di Firenze, nella fattispecie oggetto del conflitto di attribuzione, come non implicante nessun obbligo informativo nei confronti delle Camere.
Ora: è evidente che la Corte di cassazione ha stabilito - e diversamente non poteva essere - che la comunicazione sull'archiviazione è dovuta alle Camere solo da parte del tribunale dei ministri e non da parte del giudice per le indagini preliminari. Ecco perché l'accusa che la maggioranza muove al giudice Di Censo è pretestuosa e infondata.
Ma, soprattutto, dai chiari passaggi della sentenza della Cassazione di pochi giorni fa traiamo conferma di quanto già sapevamo perché lo aveva stabilito la medesima Cassazione in molte altre sentenze del 1992 (caso Ferlin), del 1994 (caso De Lorenzo), del 1998 (caso De Michielis) e del 2008 (caso Amato).
Quel che traiamo è che la qualificazione di un reato, se ministeriale o non, spetta all'autorità giudiziaria. Ed è la logica che ci indica che non potrebbe essere diversamente. Se dicessimo che la qualificazione di un reato spetta alle Camere, perché allora non attribuire alle Camere anche la facoltà di dire su un certo fatto che è una corruzione anziché una concussione; oppure una mera molestia sessuale anziché una violenza sessuale; un furto anziché una rapina?
Veramente voi ritenete che noi parlamentari abbiamo la facoltà di dare ai fatti-reato la giusta qualificazione? Che siamo il tribunale, una corte d'appello o la Cassazione ?
E soprattutto, voi pensate che noi possiamo arrogarci il compito di qualificare un fatto-reato quando agli atti abbiamo documentazione certa che ci dice che la qualificazione del reato operata dal giudice di Milano è esattissima ?
La Giunta per le autorizzazioni ha accertato senza ombra di dubbio che la dottoressa Iafrate riferì a Ostuni che Karima non era egiziana e che non aveva parentele con Mubarak; non c'è ombra di dubbio che Fede avesse detto a Lele Mora che aveva notato Karima in un concorso di bellezza in Sicilia nell'estate del 2009 quando la ragazza aveva 16 anni.
Allora, signor Presidente, noi dovremmo ravvisare in questa situazione gli estremi per elevare conflitto e per giungere ad elevarlo dovremmo anche cambiare la prassi procedurale della Camera!!
Mi sembra francamente troppo!
E lo è sembrato, evidentemente, anche ai professori ascoltati in audizione dalla Giunta per le autorizzazioni indicati dal centro-destra, i quali non hanno avuto l'improntitudine di affermare che il caso Ruby costituisce un reato ministeriale. In particolare, la professoressa Ida Nicotra, nelle 6 pagine che ha depositato presso la Giunta, non è riuscita - comprensibilmente - ad affermare una simile tesi.
Mi sia consentito, peraltro, riportare un passaggio della deposizione del prof. Alessandro Pace presso la Giunta per le autorizzazioni, lo scorso 22 marzo: «Quando la Camera dei deputati, lo scorso 3 febbraio 2011, anziché limitarsi a respingere la richiesta ex articolo 68, comma 2, Cost. di autorizzazione domiciliare di alcuni locali, siti in Segrate, recanti la scritta 'Segreteria onorevole Silvio Berlusconi', ha addirittura assunto, a base della sua delibera, l'incompetenza funzionale della procura di Milano in quanto il reato contestato all'on. Berlusconi avrebbe 'natura ministeriale', ha esorbitato dalle sue attribuzioni costituzionali (pur senza adottare un provvedimento atto a menomare le attribuzioni della procura della Repubblica,

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che ha conseguentemente potuto continuare a svolgere le proprie funzioni)».
Quindi, non solo la magistratura non ha leso le attribuzioni della Camera ma è plausibilmente questa ad aver intaccato (sia pure in via astratta) quelle della magistratura.
Sulla stessa lunghezza d'onda si è posto il prof. Stelio Mangiameli, che ha fatto specifico riferimento all'articolo 37, comma 2, della l. n. 87 del 1953, il quale dispone che - a prescindere dalle disposizioni in materia di giudizio di legittimità costituzionale e di conflitto di attribuzione - restano ferme le norme vigenti per le questioni di giurisdizione. È quindi chiaro che non si può elevare conflitto per un asserito difetto di giurisdizione del giudice penale ordinario.

4. Quali sono le funzioni che la maggioranza ritiene violate?

Facciamo finta, per mero artifizio argomentativo, che il sostrato di fatto delle doglianze della maggioranza sia - non dico vero - ma meritevole di un qualche approfondimento.
Facciamo finta che davvero il Presidente del Consiglio fosse stato preso da un dubbio che meritasse di essere dissipato sulla parentela di Ruby. E che quindi fosse quella la motivazione delle telefonate in questura.
Sia chiaro: è tutto falso ed è dimostrato dagli atti che abbiamo a disposizione che è falso. Ma facciamo finta.
Quale sarebbe la funzione che Berlusconi avrebbe esercitato e che il giudice disconosce? Quella parlamentare? No di certo!
I colleghi Cicchitto e altri dicono che sarebbe quella governativa.
Fatemi leggere un passo della sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2004, quella sul Lodo Schifani.
«La situazione cui si riconnette la sospensione disposta dalla norma censurata - cioè, ribadisco, il c.d. Lodo Schifani - è costituita dalla coincidenza delle condizioni di imputato e di titolare di una delle cinque più alte cariche dello Stato ed il bene che la misura in esame vuol tutelare deve essere ravvisato nell'assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche.
Si tratta di un interesse apprezzabile che può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale. È un modo diverso, ma non opposto, di concepire i presupposti e gli scopi della norma la tesi secondo la quale il legislatore, considerando che l'interesse pubblico allo svolgimento delle attività connesse alle alte cariche comporti nel contempo un legittimo impedimento a comparire, abbia voluto stabilire una presunzione assoluta di legittimo impedimento. Anche sotto questo aspetto la misura appare diretta alla protezione della funzione».
Insomma, dice la Corte costituzionale che la serenità nello svolgimento delle funzioni è un interesse apprezzabile. A tutelarlo sta anche l'articolo 96 della Costituzione che prevede - per i reati compiuti nell'esercizio delle funzioni ministeriali - un procedimento penale ordinario corretto da alcune garanzie procedurali.
Ma allora apprezzabili, a questi fini, sono le funzioni del Governo! Non sono quelle del Parlamento nel suo complesso.
E infatti, quando è stato emanato il c.d. Lodo Alfano, la relazione del medesimo ministro Alfano al disegno di legge si poggiava proprio sull'assunto che «la ratio legis risiede, pertanto, nei princìpi di continuità e di regolarità nell'esercizio delle più alte funzioni pubbliche, nel pieno rispetto del principio di eguaglianza, che consente di prevedere un regime differenziato, anche riguardo all'esercizio della giurisdizione, purché risultino concretamente tutelati anche gli altri concorrenti valori costituzionali, secondo le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 24 del 2004».
Le alte funzioni pubbliche, cui si riferiva Alfano, erano quelle del Presidente del Consiglio e quelle del Presidente della Repubblica e dei Presidenti delle Camere.

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Dunque, le attribuzioni del Parlamento in quanto tale non c'entravano affatto.
La domanda allora sorge spontanea: perché questo conflitto non lo eleva il Presidente del Consiglio? Egli lo ha fatto serenamente nel caso Abu Omar, da cui è scaturita la sentenza n. 106 del 2009, sui poteri inerenti al segreto di Stato.
Che un membro del Governo possa stare in un giudizio costituzionale per conflitto tra poteri, nel quale siano in discussione le sue prerogative, è notorio: ricordo le sentenze della Corte costituzionale n. 7 del 1996 (caso Mancuso) e 200 del 2006 (caso Castelli, per la grazia a Bompressi).
Ecco che allora si profila un'altra assurdità della nostra discussione: siamo qui a domandarci se la Camera debba cambiare prassi per elevare un conflitto tra poteri che non è necessario elevare perché può tranquillamente elevarlo il Governo a tutela delle sue funzioni!
Lei, Presidente si sta facendo carico di un problema che la maggioranza le pone.
Ma la questione in fondo non è drammatica come i toni della maggioranza sembrano far pensare. Sono convinta inoltre di una cosa: che se la Camera dovesse sollevare il conflitto - come spero non accadrà - il Governo dispiegherà un intervento ad adiuvandum nel giudizio. Ma se vi sarà l'intervento ad adiuvandum tanto vale che il Governo faccia direttamente il ricorso principale.
Sicché credo che noi ci dobbiamo risparmiare il disdoro di elevare conflitto su una materia di questo genere e per di più modificando la prassi.

5. Un'ultima osservazione sui precedenti.

Mi consenta, Presidente, di tornare un attimo sulla procedura di approvazione del lodo Alfano.
Lei ricorda, signor Presidente, che nella seduta dell'Assemblea dell'8 luglio 2008 Ella lesse il contingentamento del disegno di legge n. 1442, che prevedeva - per l'appunto - la sospensione automatica dei processi in corso per il Presidente del Consiglio.
In quell'occasione, i miei colleghi Giachetti e Franceschini espressero dubbi sulla correttezza delle Sue decisioni in materia di contingentamento dei tempi.
In particolare, i colleghi ritenevano che - concernendo le disposizioni del lodo Alfano una materia soggetta a voto segreto - non si sarebbe potuto avere il contingentamento sin dal primo calendario.
Nondimeno, Ella confermò la Sua decisione che io oggi, ovviamente, non intendo in alcun modo contestare e su cui non recrimino. Sarebbe un esercizio sterile. Ricordo però che Ella in Assemblea difese con forza la sua determinazione e lo fece con il supporto di numerosi precedenti. Ella in sostanza si rifece alla prassi e alle precedenti occasioni nelle quali si era avuto un contingentamento su materie analoghe. Ella ebbe anche la sensibilità di convocare la Giunta per il regolamento per venire incontro alle perplessità che noi le manifestammo.
Tutto questo per dire quanto i precedenti e la prassi siano il senso stesso del Suo magistero e dell'affidabilità delle procedure della Camera dei deputati.
Già altri colleghi hanno sottolineato come la procedura per sollevare un conflitto d'attribuzioni sia tracciata nella prassi. L'ho ricordata all'inizio. Non credo che vi siano spazi per modificarla, soprattutto non ritengo che ci possiamo permettere di forgiare una prassi ad personam che sarebbe l'ennesimo tentativo di sottoporre il Parlamento alle esigenze personali del Presidente del Consiglio.

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ALLEGATO 2

INTERVENTO ON. DAVID FAVIA

Siamo chiamati a esprimerci su quale sia la procedura parlamentare per elevare un conflitto d'attribuzioni tra poteri dello Stato.
Si tratta all'evidenza di una situazione diversa da quella della resistenza a un conflitto che fosse elevato da un altro potere nei confronti della Camera. Quando questa è parte convenuta nel giudizio per conflitto, essa è chiamata in causa come Assemblea in quanto tale: è infatti impugnato un atto dell'Assemblea ed è pertanto questa che ha il dovere di decidere se costituirsi o meno in un giudizio già instaurato.
Quando viceversa si tratti di deliberare se elevare o meno un contenzioso costituzionale, la procedura è largamente nota: c'è una proposta dell'Ufficio di Presidenza e una deliberazione dell'Assemblea.
Se non c'è la proposta, manca un oggetto su cui la Camera nel suo plenum possa deliberare.
Mi sembra del tutto evidente. Ma siccome per taluni non lo è, allora vi citerò i precedenti:
2002, 18 dicembre, levata del conflitto sul domicilio del deputato Maroni: l'Ufficio di presidenza, dopo un'istruttoria della Giunta delle autorizzazioni, propose all'Assemblea di sollevare il conflitto. Sulla proposta il Presidente Casini diede la parola a un oratore a favore e a uno contro (nella circostanza Carboni dei DS contro e Cola, di Alleanza Nazionale, a favore. Peraltro, l'on. Cola disse espressamente che parlava a favore «della proposta dell'Ufficio di presidenza»). Nella circostanza, l'on. Bielli chiese all'Ufficio di Presidenza - sottolineo all'Ufficio di Presidenza, non alla maggioranza parlamentare - di ripensarci e di svolgere un supplemento d'istruttoria.
2007, 16 maggio, sul caso Matteoli: l'Ufficio di presidenza, dopo un'istruttoria della Giunta delle autorizzazioni, propose all'Assemblea di sollevare il conflitto. Sulla proposta il presidente di turno Castagnetti diede la parola a un oratore a favore e a uno contro (nella circostanza Vacca dei Comunisti italiani e Tenaglia del PD) e poi mise ai voti «la proposta dell'Ufficio di presidenza».
2008, 31 luglio sul caso Englaro: l'Ufficio di presidenza, senza l'istruttoria di alcun altro organo, propose all'Assemblea di sollevare il conflitto. Sulla proposta il presidente Fini diede la parola a un oratore per gruppo ai sensi dell'articolo 45 del Regolamento. Poi mise ai voti «la proposta dell'Ufficio di presidenza».

Non mi sembra quindi dubbio, sotto alcun profilo, che l'oggetto di un'eventuale pronunzia dell'Assemblea debba essere una proposta dell'Ufficio di Presidenza e che questo - non solo è organo referente ma - è soprattutto titolare del potere di proporre. In altre parole, per usare un linguaggio caro agli esperti di diritto pubblico e amministrativo, l'Ufficio di Presidenza in questo procedimento non ha solo il potere istruttorio ma ha anche l'esclusiva sull'iniziativa.
Non c'è dubbio che quest'iniziativa può essere sollecitata e arricchita da apporti di altri soggetti (singoli parlamentari, altri organi parlamentari, impulsi dello stesso presidente della Camera), ma l'iniziativa resta un potere dell'Ufficio di Presidenza.
D'altronde, lo stesso avviene per esempio per l'iniziativa legislativa del Governo. Essa è costituita da un sub-procedimento: v'è una proposta di un singolo ministro, poi c'è il pre-Consiglio e poi la riunione del Consiglio dei ministri. Infine c'è l'autorizzazione

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del Presidente della Repubblica alla presentazione del disegno di legge alle Camere.
Sostenere che l'Assemblea deve pronunziarsi comunque significa contemplare l'ipotesi che le Camere si debbano pronunziare anche se l'iniziativa legislativa del Governo non si compie, perché il relativo sub-procedimento non si è completato. Sarebbe una conclusione assurda.
La mia conclusione è dunque che - se l'Ufficio di Presidenza non perviene ad alcuna proposta - non c'è materia per una deliberazione dell'Assemblea.
D'altro canto, i precedenti sono esattamente in questo senso.
È stato già ricordato da più parti come il principale tra questi concerne i colleghi Faggiano-Sardelli del 21 ottobre 2003.
Era successo che - per uno scambio di totali elettorali, doloso o meno non si sa - era stato proclamato eletto il collega Sardelli (ironia della sorte, proprio colui che sottoscrive la lettera di cui stiamo parlando) che le elezioni le aveva perse e fu dichiarato sconfitto il deputato Faggiano, che le elezioni le aveva vinte.
Faggiano fece ricorso alla Giunta delle elezioni. Questa non si curò del suo ricorso: propose all'Assemblea di convalidare la sua elezione. L'Assemblea accolse la proposta.
Successivamente fu presentata una denunzia penale per falso in atto pubblico. Nell'ambito dell'inchiesta, il pubblico ministero contò le schede elettorali e accertò che lo scambio dei totali era effettivamente avvenuto. Non seppe però ascriverlo al dolo di alcuno e pertanto chiese l'archiviazione.
L'Ufficio di Presidenza discusse a lungo sull'ipotesi se elevare conflitto contro il PM perché questi aveva maneggiato le schede senza chiedere il permesso alla Camera stessa.
L'ipotesi di elevare conflitto si basava sul fatto che le schede sono a disposizione della Giunta a fini di verifica dei poteri, ai sensi dell'articolo 66 della Costituzione.
Che il PM avesse verificato i totali, secondo questa ipotesi, significava surrettiziamente che questi contestava l'esito della deliberazione della Camera del 20 giugno 2002 sulla convalida di Sardelli e, in definitiva, metteva a rischio il potere di verifica sui titoli di ammissione secondo il citato articolo 66 della Costituzione.
Ebbene: l'Ufficio di Presidenza respinse la proposta di proporre - si perdoni il bisticcio - all'Assemblea l'elevazione del conflitto e il Presidente Casini non portò la questione all'attenzione dell'Assemblea.
Ma tutto ciò ha ricevuto conferme nei casi - di cui pure si è già parlato - Mancini e D'Elia.
Si deve aggiungere il precedente ultimo in ordine di tempo. Esso riguarda il mio collega di gruppo, l'onorevole Evangelisti.
Egli aveva presentato alcune interrogazioni al ministro Brunetta, chiedendogli conto su come questi avesse votato in Consiglio dei ministri sullo scioglimento del comune di Fondi.
Brunetta avrebbe potuto rispondere che non intendeva dar conto all'interrogante su quel profilo, avrebbe potuto sostenere molti argomenti di tipo politico.
Invece egli scelse il più maldestro, quello per cui egli era impedito di rispondere per vincolo giuridico di segretezza delle riunioni del Consiglio dei ministri.
Si trattava di un abbaglio: punto sul vivo, il Ministro aveva reagito con stizza.
Evangelisti scrisse una lettera al Presidente della Camera chiedendo che si elevasse un conflitto d'attribuzioni nei confronti del Governo perché Brunetta si sottraeva illegittimamente - con inconsistenti argomenti ordinamentali - al potere ispettivo della Camera. L'on. Evangelisti prese anche la parola in Assemblea l'8 giugno 2010.
Il Presidente della Camera scrisse una nota al ministro Brunetta - devo dargliene atto - e gli contestò due profili, uno di sua stretta pertinenza e un altro più generale.
Quello di sua pertinenza era relativo al potere di vaglio di ammissibilità delle interrogazioni.
Opponendo un divieto giuridico alla possibilità di rispondere, il ministro Brunetta contestava implicitamente l'ammissibilità dell'interrogazione. (E qui - aggiungo

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io - il conflitto tra poteri avrebbe potuto elevarlo anche il solo Presidente, quale organo monocratico).
L'altro profilo invece riguarda tutta la Camera, cioè l'ambito del controllo parlamentare sull'Esecutivo. Sostenere che il Consiglio dei ministri abbia un regime di riunione segreta è incredibile e lede il potere di controllo sul Governo che tutti i parlamenti del mondo civile esercitano.
Nella lettera di risposta del Ministro Brunetta si riconobbe che in effetti non poteva essere messa in discussione la sua attribuzione di vagliare l'ammissibilità delle interrogazioni e delle interpellanze. Nondimeno, il ministro insistette, nella sua lettera dell'11 giugno 2010, che gli orientamenti espressi dai Ministri in Consiglio sono coperti da segreto. E qui v'era un'evidente lesione delle prerogative della Camera.
È per questo che il 20 luglio 2010 gli onorevoli Donadi ed Evangelisti le chiesero di portare in Ufficio di Presidenza la questione affinché fosse proposto all'Assemblea di sollevare conflitto. Ma in Ufficio di Presidenza quell'istanza non è mai arrivata né tanto meno in Assemblea.
Ne devo trarre che la procedura di elevazione di un conflitto è precisamente quella che da molti decenni conosciamo. O c'è un impulso sufficiente affinché vi sia una proposta dell'Ufficio di Presidenza per l'Assemblea oppure questa non si pronunzia affatto.
Si potrebbe sostenere che tutta questa è solo prassi: il Regolamento non dice alcunché sulla procedura e quindi la regola generale sarebbe che si pronunzia la Camera nel suo plenum.
Sarebbe però anche questo inesatto. L'Assemblea non si pronunzia se non su proposte. E qui di proposte potremmo non averne affatto.
D'altronde mi sembra significativo, visto che stiamo proprio nella Giunta per il Regolamento, che l'articolo 16 del Regolamento - per le proposte di modifica del suo testo - richiede che sia la Giunta del Regolamento ad adottare una proposta da sottoporre all'Assemblea. Non potrebbe approdare mai in Assemblea una proposta di modifica regolamentare che non sia istruita e approvata da questa Giunta: ripeto istruita e approvata.
L'esempio portato dal collega Calderisi nella seduta dello scorso giovedì 24 marzo non è per nulla calzante, giacché è relativo alle procedure di raccordo con le Istituzioni dell'Unione europee.
Le decisioni prese dalla Giunta del Regolamento a quel proposito erano interamente comprese nell'ambito della funzione legislativa della Camera (sia in chiave di partecipazione alla fase ascendente della legislazione comunitaria sia come denunzia della violazione della sussidiarietà legislativa), anche in raccordo con il Senato, come Calderisi stesso ha puntualizzato nella seduta del 1o luglio 2010.
Nel caso qui all'esame la funzione legislativa non è in discussione.
La prassi è dunque nel senso che ho detto. E la prassi è una fonte del diritto parlamentare.
Se prendiamo i manuali di diritto parlamentare troviamo dense pagine scritte sulla sua natura giuridica. Essa è costituita di un susseguirsi di comportamenti e precedenti che vengono ritenuti, da chi li assume, conformi a diritto e che disattendere sarebbe sintomo di un cattivo andamento dei lavori parlamentari, proprio laddove il Presidente della Camera e i presidenti di commissione devono assicurare il buon andamento dei lavori medesimi ai sensi dell'articolo 8 del Regolamento della Camera.
Nella mia personale esperienza, conferma indiscutibile di quanto precede si trova, per esempio, nelle sedute di questa Giunta dell'8 luglio 2008 e del 13 gennaio 2009.
In quelle occasioni, il Presidente non ha fatto altro che un lungo elenco di precedenti che giustificavano - a posteriori - il contingentamento del lodo Alfano; e la sostituzione d'ufficio del deputato Pionati da membro della Giunta per le autorizzazioni.
Mi voglio sforzare, però, e concedere che una procedura di sicurezza, per consentire

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alla Camera di reagire a delle enormità, a dei casi eccezionali, deve esservi.
Ma allora andiamo a vedere il fumus di questa proposta di conflitto.
Si dice - molto genericamente, per la verità, e mai esplicitamente agli atti parlamentari - che le cospicue e ripetute pressioni telefoniche del Presidente del Consiglio sulla questura di Milano nella notte tra il 27 e il 28 maggio siano state fatte nel nome della tutela della politica estera italiana, perché Karima el Marough era considerata, fino alla smentita successiva, la nipote di Moubarak. Vi sarebbe stato dunque l'esercizio di funzioni ministeriali e dunque si sarebbe dovuta radicare la procedura dei reati ministeriali prevista dall'articolo 96 della Costituzione e dagli articoli 6, 7 e 8 della legge costituzionale n. 1 del 1989.
A parte le facili ironie sulla rilevanza e la capacità d'incidere della politica estera italiana nelle vicende di queste settimane, risulta inequivocabilmente dagli atti che la Camera aveva ed ha a disposizione che - mai - nessun pubblico ufficiale coinvolto nella vicenda potesse anche dubitare per un istante dell'identità di quella ragazza.
C'è una legge che porta anche il nome del Presidente della Camera (la Bossi-Fini) che prevede le impronte digitali per gli immigrati. Ebbene, quando Ruby venne portata in questura quella notte fu identificata con le impronte digitali e si seppe subito chi fosse, dove era nata, quanti anni avesse, chi fossero i suoi genitori. Si poté escludere immediatamente che era la nipote di Mubarak.
E infatti, Karima non fu consegnata al consolato egiziano a Milano ma alla consigliera regionale Minetti la quale, tra breve tempo, potrebbe essere rinviata a giudizio per induzione e favoreggiamento della prostituzione insieme a Emilio Fede e Lele Mora. Occorre aggiungere, signor Presidente e colleghi, che nessuno degli illustri professori che sono stati escussi in audizione il 22 marzo 2011 presso la Giunta per le autorizzazioni ha affermato che si tratta di un reato ministeriale.
Quindi - dal punto di vista fattuale - la proposta di elevare conflitto è totalmente priva di ogni fumus boni iuris e quindi impegnare la Camera in una deliberazione palesemente infondata sarebbe del tutto ridicolo.
Mi si dirà che questo è il merito della questione e non ha impatto sul quesito procedurale.
Ma occorre ribattere che il merito ha un suo spessore se si invoca la necessità di ribaltare la prassi consolidata. Che bisogno ci sarebbe di analizzare e verificare la tenuta di una prassi se non vi fosse l'urgenza di un fatto nuovo? Ecco perché ho illustrato il fatto. E questo fatto non è certamente idoneo a indurre il rovesciamento della prassi. Si consideri inoltre che la giurisprudenza costante della Corte costituzionale è nel senso che il conflitto d'attribuzione è inammissibile quando si risolve in un surrettizio espediente per un'impugnazione processuale.
Cito le ordinanze, tra le tante, nn. 27 del 1999 e 117 del 2006. Il senso che se ne trae è che la giurisdizione civile, penale e amministrativa non può subire turbative improprie con lo strumento del conflitto. Tanto più che l'articolo 37 della legge n. 87 del 1953 - che disciplina l'attività della Corte costituzionale - mantiene ferme le disposizioni in materia di giurisdizione.
Ho poi sentito dire che non sarebbe giusto che un organo, l'Ufficio di Presidenza, che ha casualmente una maggioranza difforme da quella dell'Assemblea, sottragga a quest'ultima il potere dell'ultima parola. Anche questo è un argomento privo di consistenza.
Anzitutto - come ho poc'anzi rammentato - la Giunta del Regolamento ha il potere di non sottoporre all'Assemblea una deliberazione sulle proposte avanzate da singoli deputati di modifiche regolamentari e, attualmente, mi sembra che la maggioranza in seno al nostro organo è più o meno analoga a quella dell'Ufficio di Presidenza e quindi, anche qui, ci si potrebbe rimproverare di esercitare abusivamente il ruolo che l'articolo 16 del Regolamento ci assegna. Ma sarebbe, come

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potete vedere, un rimprovero chiaramente errato. Anche perché qualche volta si usa l'espressione «non si può sottrarre all'Aula il potere di deliberare». Ma la sottrazione è un concetto sbagliato: si sottrae qualcosa a un altro quando qualche cosa c'è. Qui il potere dell'Assemblea non c'è senza la proposta dell'Ufficio di Presidenza e quindi non c'è alcuna sottrazione di cui discorrere.
In secondo luogo, l'obiezione muove da un'idea populistica e totalitaria del Parlamento.
Dire che le Commissioni e gli organi referenti devono avere la stessa composizione e maggioranza dell'Assemblea, altrimenti il loro ruolo è illegittimo, significa negare il senso stesso della rappresentanza parlamentare e del divieto di mandato imperativo. Se i deputati sono liberi di cambiare orientamento e di cambiare gruppo d'appartenenza, perché mai dobbiamo imporre agli organi parlamentari di esprimere la stessa composizione e la stessa volontà politica della maggioranza dell'Assemblea?
Si negherebbe il senso dell'articolo 67 della Costituzione, il cui valore a questo proposito è stato richiamato dal Presidente della Camera nella seduta, che torno a ricordare, del 13 gennaio 2009.
Per quanto riguarda poi il criterio di proporzionalità nella composizione degli organi parlamentari, nel caso del deputato Pionati, che rifiutava di dimettersi dalla Giunta per le autorizzazioni, noi stessi - qui in Giunta per il Regolamento, nella citata seduta del 13 gennaio 2009 - abbiamo concluso che non v'è un rigido criterio proporzionale nella composizione di quegli organi. Abbiamo ritenuto che solo l'esclusione totale da un organo di un gruppo parlamentare (che invece abbia i requisiti numerici per esservi rappresentato) giustificasse un intervento riequilibratore del Presidente della Camera. E proprio su questa circoscritta applicazione del principio di proporzionalità concordò con una qualche enfasi il collega Leone.
L'Ufficio di Presidenza della Camera, che peraltro non è un organo legislativo (e quindi non può essere richiamato l'articolo 72 della Costituzione), è - viepiù - costituito non da membri designati dai gruppi ma da personalità elette dalla Camera stessa. Sicché la loro libertà di mandato deve considerarsi ancor più accentuata.
Ricordo inoltre che nella scorsa legislatura, al Senato, fu eletto presidente della Commissione Difesa il senatore De Gregorio, che era stato eletto senatore con il centro-sinistra ma che poi cambiò casacca e la Commissione finì in mano al centro-destra. La maggioranza di quella commissione era dunque diversa dalla maggioranza del plenum del Senato.
A chi mi obiettasse che però la Commissione permanente non ha il potere di bloccare un disegno di legge e di impedire all'Assemblea di esprimersi si può rispondere che essa ha altri poteri - per esempio, sulle nomine militari - che esercita a prescindere dal rapporto con l'Assemblea e che quindi potrebbe esplicare in difformità dalla volontà presunta del plenum.
Insomma, l'argomento della casuale difformità delle maggioranze tra Ufficio di Presidenza e Assemblea mi sembra un argomento finto.
Concludo pertanto, signor Presidente, nel senso che l'Assemblea può pronunziarsi solo se l'Ufficio di Presidenza avanza una proposta in senso favorevole all'elevazione del conflitto. Altrimenti la procedura non potrà che arrestarsi come è accaduto in tutti gli altri precedenti.

On. David Favia

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ALLEGATO 3

CONSIDERAZIONI INTEGRATIVE DELL'INTERVENTO SVOLTO DALL'ONOREVOLE CALDERISI
NELLA SEDUTA DEL 24 MARZO 2011

Pur ribadendo che la Giunta non è chiamata a pronunciarsi sul merito del conflitto di attribuzione, ma solo sugli aspetti procedurali, ritiene opportuno ricordare la sentenza n. 241 del 2009 della Corte Costituzionale sul caso Matteoli nella quale si afferma, tra l'altro che: «All'organo parlamentare, infatti, non può essere sottratta una propria, autonoma valutazione sulla natura ministeriale o non ministeriale dei reati oggetto di indagine giudiziaria, né tantomeno - ove non condivida la conclusione negativa espressa dal tribunale dei ministri - la possibilità di sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale, assumendo di essere stata menomata, per effetto della decisione giudiziaria, della potestà riconosciutale dall'articolo 96 della Costituzione».
Dalla mancata comunicazione alla Camera degli atti del procedimento - afferma ancora la Corte - «deriva la menomazione della sfera di competenza costituzionalmente garantita della Camera dei deputati, che, se del caso, potrebbe sollevare conflitto di attribuzione davanti a questa Corte, ritenendo, in ipotesi, che l'asserita indebita qualificazione come non ministeriale del reato contestato abbia precluso alla Camera competente la possibilità di far valere la guarentigia di cui all'articolo 96 della Costituzione».