CAMERA DEI DEPUTATI
Giovedì 24 marzo 2011
458.
XVI LEGISLATURA
BOLLETTINO
DELLE GIUNTE E DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI
Bilancio, tesoro e programmazione (V)
ALLEGATO
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ALLEGATO 1

5-04441 Toccafondi: Iniziative per il reintegro del capitolo di bilancio relativo ai contributi per le scuole paritarie.

TESTO DELLA RISPOSTA

Con l'interrogazione a risposta immediata in Commissione l'onorevole Toccafondi, chiede al Governo di assicurare il totale reintegro delle dotazioni finanziarie relative alle istituzioni scolastiche non statali per un importo pari ad euro 245 milioni, come indicato nell'elenco 1 allegato alla legge 13 dicembre 2010, n. 220.
Al riguardo, si fa presente che lo stanziamento di euro 245 milioni risulta assegnato dall'articolo 1, comma 40, della legge n. 220 del 2010 e sarà destinato alle finalità previste al menzionato elenco 1 con apposito decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, al momento in corso di perfezionamento.
Ne consegue che soltanto dopo il perfezionamento del citato decreto potrà provvedersi alle occorrenti variazioni di bilancio per l'anno corrente negli stati di previsione delle Amministrazioni interessate per l'attribuzione delle risorse finanziarie di rispettiva competenza.
Si precisa, inoltre che in applicazione dell'articolo 1, comma 13, della predetta legge di stabilità, sono state accantonate somme sul capitolo n. 1477 «Contributi alle scuole paritarie comprese quelle della Valle d'Aosta» per euro 28.304.555. Pertanto, attualmente risultano iscritte in bilancio, al netto degli accantonamenti di cui sopra, risorse per euro 252.537.738.

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ALLEGATO 2

5-04442 Bitonci e Montagnoli: Limitazioni alle spese per sponsorizzazioni sostenute dagli enti locali.

TESTO DELLA RISPOSTA

Con l'interrogazione a risposta immediata in Commissione gli onorevoli Bitonci e Montagnoli nell'evidenziare l'estrema importanza per gli enti locali di poter usufruire dell'istituto della sponsorizzazione e valutato, altresì, come il taglio esteso anche alle spese per manifestazioni, mostre e rappresentanza si traduca anche in una limitazione dell'autonomia dei comuni chiedono se non si ritenga di assumere iniziative volte a rivedere le limitazioni di cui trattasi.
Con riferimento alle spese di sponsorizzazione, occorre premettere che dalla deliberazione della Corte dei conti - Sezione Regionale di controllo per la Lombardia - adunanza del 20 dicembre 2010, di cui è cenno nell'interrogazione, emerge che dovrebbe ritenersi escluso dal concetto di sponsorizzazione e, quindi dal divieto posto dal comma 9, dell'articolo 6 del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010 «il sostegno di iniziative di un soggetto terzo, rientranti nei compiti del Comune nell'interesse della collettività».
Tuttavia, si è dell'avviso che l'esclusione degli enti locali dall'applicazione delle misure di contenimento stabilite dall'articolo 6 (in particolare, i commi 8 e 9) del citato decreto-legge n. 78 del 2010 non possa che essere attuata mediante un intervento normativo, atteso che in base alla vigente formulazione le citate disposizioni devono ritenersi applicabili in via diretta ai predetti enti, non esclusi dalla clausola di cui al comma 20, del medesimo articolo 6.

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ALLEGATO 3

5-04443 Rubinato e altri: Disciplina delle sanzioni per gli enti locali per il mancato rispetto dei vincoli del Patto di stabilità interno.

TESTO DELLA RISPOSTA

Con l'interrogazione a risposta immediata in Commissione l'onorevole Rubinato ed altri chiedono un intervento normativo per rivedere la disciplina delle sanzioni applicabili agli Enti Locali per il mancato rispetto del patto di stabilità interno.
In particolare, gli interroganti rappresentano che l'articolo 14, comma 3 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, nel prevedere la riduzione dei trasferimenti per gli enti locali inadempienti al patto di stabilità interno in misura pari alla differenza fra il risultato registrato e l'obiettivo programmatico, ha, di fatto, determinato un drastico inasprimento delle sanzioni che, unitamente al taglio dei trasferimenti erariali di cui al comma 2 del richiamato articolo 14, comporterà numerosi problemi agli enti locali. Gli interroganti, inoltre, nel precisare che tale modifica normativa del sistema sanzionatorio, pur applicandosi in relazione al mancato rispetto del patto di stabilità interno 2010, è intervenuta alla fine del mese di maggio, ovvero ad approvazione dei bilanci di previsione già avvenuta e, dunque, in un contesto di più contenute sanzioni dettate dalla previgente normativa, rappresentano le difficoltà che molti comuni dovranno affrontare nell'approvare i nuovi bilanci di previsione 2011.
Gli interroganti chiedono, pertanto, l'assunzione di iniziative normative volte a modificare la disciplina delle sanzioni per gli enti locali, di cui al citato articolo 14, comma 3 del decreto-legge n. 78 del 2010, prevedendo, con particolare riferimento al mancato rispetto del patto di stabilità interno 2010, l'applicazione delle sanzioni in vigore alla data di approvazione dei bilanci di previsione - di cui all'articolo 77-bis, comma 20, del decreto-legge n. 112 del 2008 - o, quantomeno, un alleggerimento delle stesse sanzioni, modificando, conseguentemente, il nuovo meccanismo premiale di cui all'articolo 1, comma 122, della legge 13 dicembre 2010, n. 220 (legge di stabilità 2011).
Al riguardo, nel condividere la preoccupazione che, in determinate circostanze, il vigente quadro normativo potrebbe creare difficoltà per alcuni enti locali nell'approvazione dei bilanci di previsione 2011, si rappresenta che la richiesta di modifica dell'attuale sistema sanzionatorio, comporterebbe oneri finanziari, qualora non si operasse una conseguente modifica del comma 122 dell'articolo 1 della legge n. 220 del 2010, che prevede la riduzione degli obiettivi programmatici 2011 per un valore complessivo pari allo sforamento registrato dagli enti non rispettosi del patto di stabilità interno per il 2010.
Infatti, la predetta riduzione degli obiettivi è finanziata con i maggiori spazi finanziari rinvenienti dall'applicazione della sanzione in parola. Conseguentemente, si ritiene che la modifica possa aver corso purché sia contestualmente apportata una modifica al richiamato comma 122 dell'articolo 1 della legge di stabilità 2011, volta a ridurre gli spazi finanziari da utilizzare per la riduzione degli obiettivi 2011.

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ALLEGATO 4

Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario (Atto n. 317).

PROPOSTA DI PARERE PRESENTATA DAGLI ONOREVOLI BORGHESI E CAMBURSANO

La V Commissione Bilancio,
esaminato lo Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario;
premesso che:
«in base al nuovo testo dell'articolo 119, le Regioni - come gli enti locali - sono dotate di "autonomia finanziaria di entrata e di spesa" (primo comma) e godono di "risorse autonome" rappresentate da tributi ed entrate propri, nonché dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al proprio territorio (secondo comma). E per i territori con minore capacità fiscale per abitante, la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo "senza vincoli di destinazione" (terzo comma). Nel loro complesso tali risorse devono consentire alle Regioni ed agli altri enti locali "di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite" (quarto comma). Non di meno, al fine di promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, di rimuovere gli squilibri economici e sociali, di favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona o di provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato può destinare "risorse aggiuntive" ed effettuare "interventi speciali" in favore "di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni" (quinto comma)» (così, tra gli altri, la Corte Costituzionale nella sentenza n. 423 del 2004);
il presente schema di decreto legislativo contiene una serie di snodi fondamentali della riforma del cosiddetto «federalismo fiscale»: il sistema tributario delle Regioni, il sistema dei tributi provinciali, il meccanismo perequativo regionale e quello dei Comuni e delle Province, i fabbisogni standard in sanità. La determinazione dei fabbisogni standard è una questione intimamente connessa a quella dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti per quantità e qualità su tutto il territorio nazionale, di cui all'articolo 117, comma 2, lettera m) della Costituzione repubblicana. I costi ed i fabbisogni standard dovrebbero, pertanto, essere definiti in stretto riferimento ai livelli essenziali delle prestazioni. L'esplicito legame tra la determinazione dei livelli delle prestazioni ed i diritti civili e sociali rappresenta peraltro un «ponte» di collegamento tra la Prima e la Seconda parte della Costituzione, identificando nella potestà legislativa statale uno dei principali strumenti di armonizzazione del principio di autonomia con il principio di uguaglianza, affidando a questa clausola il compito di definire il punto di equilibrio tra le esigenze di uniformità e le ragioni del decentramento e dell'autonomia. Pertanto,

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l'articolo 117, comma 2, lettera m), della Costituzione rappresenta - senza alcun dubbio - un punto fermo per la salvaguardia delle condizioni di eguaglianza dei diritti dei cittadini da ogni tendenza discriminatoria e quindi disgregatrice. I livelli essenziali delle prestazioni assumono, quindi, anche una funzione di tutela dell'unità economica e della coesione sociale nazionale;
è attraverso la «determinazione degli standard strutturali e qualitativi delle prestazioni da garantire agli aventi diritto su tutto il territorio nazionale» (cosi la Corte costituzionale, da ultimo, nella sentenza n. 207 del 2010) che prende forma il vero contenuto del principio di uguaglianza formale e sostanziale, nonché il presupposto per la partecipazione dei cittadini alla vita sociale, politica, economica del Paese (articolo 3 della Costituzione);
la questione dei fabbisogni standard costituisce, in vero, l'architrave su cui dovrebbe poggiare l'intero impianto del cosiddetto «federalismo fiscale». Dalla loro esatta determinazione deriverà e dipenderà - direttamente - la concreta salvaguardia dei diritti civili e sociali che danno corpo alla cittadinanza repubblicana, come sanciti nella parte prima della Costituzione;
in riferimento allo schema di decreto in oggetto, come peraltro rilevato dalla Conferenza delle e delle Province Autonome, «le criticità più rilevanti possono essere considerate quelle relative alla mancata determinazione dei LEA/LEP, per tutte le materie di cui all'articolo 117 della Costituzione, lettera m), che assumono un rilievo importante per l'individuazione del fabbisogno sanitario e che, pertanto, dovrebbero essere definiti all'interno del decreto legislativo. Analogamente il rinvio ad altri provvedimenti di carattere amministrativo (quando la delega ne affidava, invece, la definizione al presente decreto legislativo) su questioni rilevantissime quali: (1) modalità di convergenza ai costi standard e alla capacità fiscale; (2) quantificazione della minore dimensione demografica; (3) quantificazione del livello di perequazione; (4) perequazione infrastrutturale;
il contenuto normativo del presente schema di decreto risulta peraltro fortemente intrecciato alla definizione dei fabbisogni standard: questione tuttora segnata da incertezza ed indeterminatezza. Sebbene, infatti, sia già stato emanato, in tal senso, il decreto legislativo 26 novembre 2010, n. 216, esso si occupa esclusivamente della metodologia attraverso cui individuare tali fabbisogni, senza alcuna puntualizzazione concreta né fattuale. Pertanto, il germe dell'indeterminatezza che infettava il precedente decreto legislativo si traspone, inevitabilmente e in tutta evidenza, anche nel presente provvedimento;
in merito, inoltre, al Fondo perequativo dello Stato - cuore «sociale» del provvedimento - si rileva, infatti, come la definizione dei meccanismi perequativi sia strettamente dipendente dalla determinazione dei fabbisogni standard, quale parametri di riferimento cui ancorare il finanziamento delle spese degli enti locali, in sostituzione del criterio della spesa storica;
la Corte dei Conti, in sede di audizione, ha rilevato come «Se molte delle soluzioni adottate, coerenti con i capisaldi previsti nella delega, hanno il pregio, in continuità con quanto costruito e sperimentato nel decennio trascorso, di offrire spazi per una effettiva autonomia finanziaria, non si può non sottolineare come il ridisegno complessivo che emerge si presenti particolarmente complesso e di difficile gestione. Su almeno tre fronti sono rintracciabili elementi di criticità: (1) la definizione dei confini del processo di passaggio da una fiscalità derivata ad una propria; (2) la carenza nella definizione degli elementi costitutivi dei livelli essenziali delle prestazioni; (3) l'approssimazione e l'incompletezza della base informativa e l'inadeguatezza del sistema informativo su cui si fonda il processo»;
considerato, in particolare, che:
lo schema di decreto legislativo in materia di autonomia di entrata delle

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Regioni a statuto ordinario e delle Province si presta ad un duplice ordine di considerazioni: di carattere generale, il primo, concernente la portata e rimpianto generale dell'intervento; di ordine puntuale, il secondo, relativo alle singole previsioni. Con riguardo al primo ordine di considerazioni, si può fin da subito evidenziare il carattere parziale, limitato e riduttivo dell'intervento in esame, il quale si limita, nei fatti, a riconfermare il sistema fiscale e, più in generale, il modello di finanziamento attualmente vigente per Regioni e Province. Con riguardo alle Regioni, in particolare, è ribadita - ancorché implicitamente - la centralità dell'Irap. Addirittura - come si vedrà - il decreto sembra compiere dei passi indietro rispetto alla disciplina in vigore. Sempre con riguardo alle Regioni, poi, se è vero che vengono soppressi alcuni tributi, come anche che viene espressamente riconosciuta la possibilità per le Regioni di istituire tributi propri, nonché tributi locali, va evidenziato che, stante il vincolo per le Regioni di non tassare presupposti già «occupati» dai tributi erariali, con ogni probabilità i tributi soppressi saranno reintrodotti come tributi propri. Infine, e proprio con riguardo al potere delle Regioni di istituire tributi propri e tributi locali, appare particolarmente grave la mancata previsione di ogni indicazione, criterio o parametro, utile a circoscrivere, ma anche ad indirizzare e coordinare, l'esercizio in concreto di simile potere. Cosa che, di contro, ci si sarebbe aspettati da un provvedimento normativo che, nelle intenzioni, dovrebbe segnatamente fissare i principi generali di coordinamento della finanza pubblica (articolo 119 della Costituzione);
anche per le Province viene confermato rassetto vigente. La principale novità, sul piano strettamente tributario, attiene all'imposta sulle assicurazioni contro la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore: tale imposta, di cui fino ad ora è stata prevista l'attribuzione del gettito alle Province, diventerà tributo proprio delle stesse, che potranno modificarne (solo) le aliquote. A ben vedere, difatti, le principali novità per le Province interessano, piuttosto, le compartecipazioni: viene soppressa la compartecipazione provinciale al gettito IRPEF e viene istituita una compartecipazione all'accisa sulla benzina, nonché una compartecipazione alle tasse automobilistiche regionali; viene altresì soppressa l'addizionale provinciale all'accisa sull'energia elettrica;
si comprende, da ciò, che il decreto in esame, in realtà, finisce per confermare non solo e semplicemente l'assetto dei tributi di Regioni e Province quanto, più in generale, l'intero sistema di finanziamento di tali enti o, almeno, la ratio ispiratrice. Particolarmente significativo è, al riguardo, quanto previsto in tema di trasferimenti. I trasferimenti, sia statali sia regionali verranno infatti soppressi (articoli 6 ed 8). Sennonché, i trasferimenti saranno sostituiti da compartecipazioni a tributi erariali, le quali - come noto - costituiscono strumenti di finanziamento altrettanto opachi e deresponsabilizzanti dei trasferimenti (a meno di prevedere incentivi e/o disincentivi legati all'andamento del gettito dei tributi compartecipati, sulla falsariga di quanto previsto per i Comuni per la lotta all'evasione; incentivi che, però, non sono contemplati). Sicché, stante l'assoluta centralità che le compartecipazioni verranno ad assumere nel sistema di finanziamento delle Regioni e delle Province, si è portati a concludere che la novella in discussione non apporterà sostanziali novità al modello attuale di finanziamento di tali enti. Questo sul lato delle entrate. Ma anche sul lato delle spese il decreto in esame si mostra largamente deficitario. A parte le spese sanitarie, di cui il decreto, potendo contare sull'esperienza maturata con i Patti per la salute, si occupa diffusamente, per le altre spese - che la legge n. 42 del 2009 qualificava come relative a prestazioni da assicurare su tutto il territorio nazionale (assistenza sociale, istruzione scolastica e trasporto pubblico) - non viene dettata alcuna previsione di dettaglio. Per queste

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spese, difatti, la determinazione dei costi standard e dei livelli essenziali delle prestazioni è rinviata ad atti e momenti successivi. È emblematico, a proposito, il tenore dell'articolo 9, dove, addirittura, si rinvia ad una legge statale (neppure più ad un decreto legislativo di attuazione della legge n. 42 del 2009) per la disciplina delle procedure per la determinazione dei livelli essenziali di assistenza e delle prestazioni: non dei Lep e dei Lea, peraltro, ma addirittura delle procedure per la loro determinazione. Un rinvio ed un'assenza di disciplina cui non rimedia, certamente, la previsione secondo per cui, fino alla loro determinazione, i Lep ed i Lea sono quelli già fissati dalla legislazione statale vigente; ciò, per la semplice ragione che una simile determinazione si ha solo in materia sanitaria;
lo schema di decreto in esame rimane, insomma, largamente deficitario, trascurando di fissare termini e modalità per l'individuazione dei Lep, dei Lea e dei costi standard (per i quali, l'articolo 24 rinvia ad un distinto decreto legislativo), pur presupponendone la puntale determinazione (come in sede di disciplina dei fondi perequativi). Sennonché, in mancanza di una misurazione ed individuazione di tali parametri, riesce poi difficile, se non impossibile, ipotizzare il funzionamento del Fondo perequativo di cui all'articolo 11. Così, sebbene l'attivazione di tale Fondo è rinviata al 2014, è evidente che il suo concreto funzionamento resta condizionato alla previa individuazione dei Lep e dei Lea, almeno per le materia individuate come fondamentali: in loro mancanza, anche il predetto Fondo non è in grado di operare;
sempre in tema di Fondi perequativi va poi osservato che il decreto si limita a riprodurre la lettera della legge n. 42 del 2009, in questo modo di fatto operando un rinvio, per l'elaborazione e l'introduzione della relativa disciplina (fonti di finanziamento, modalità di erogazione, criteri di riparto eccetera), a futuri decreti del Presidente del Consiglio dei ministri. Ciò è palese per il Fondo di cui all'articolo 19 (che, per inciso, dovrebbe essere già stato recepito nell'articolo 7-quater del decreto sul fisco municipale), che riproduce, pedissequamente, il testo dell'articolo 13 della legge n. 42 del 2009. Sennonché, la legge delega, nel dettare l'articolo 13, si è espressa in termini di «definizione di modalità», palesando con ciò chiaramente l'intendimento di assegnare segnatamente al legislatore delegato il compito di dettagliare le modalità di attuazione dei criteri direttivi enucleati. Ma se ciò è vero, ecco allora che lo schema in esame non rispetta la delega: il decreto, infatti, limitandosi a riprodurre il testo della legge delega, non fa che conferire una delega ulteriore al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri; ciò, nonostante la legge delega abbia indirizzato i criteri al legislatore delegato, affinché li attuasse mediante decreti legislativi, da emanare secondo la particolare procedura di cui all'articolo 2 della legge n. 42 del 2009. Non certo con atti regolamentari, dove peraltro, stando all'articolo 19, non è previsto neppure un confronto in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie;
in conclusione, non solo viene lasciata tutta ancora da scrivere la disciplina di tali fondi; soprattutto si opera uno sviamento rispetto alla fonte normativa a tal fine ipotizzata dalla legge delega: questa, invero, non sarà, come voluto dalla legge delega, un decreto legislativo, da adottare con la particolare procedura prevista dalla legge n. 42 del 2009 stessa, bensì un regolamento, da emanare con la relativa procedura. Alla luce di simili considerazioni, il giudizio sul decreto in esame non può che essere critico. Ciò, segnatamente, nella misura in cui si è preferito conservare piuttosto che innovare. Senza dimenticare, poi, che il testo contiene una disposizione che, da sola, mette in discussione la ragione stessa dell'intervento. Il riferimento è all'articolo 26 laddove stabilisce, testualmente, che «l'esercizio dell'autonomia tributaria non può comportare, da parte di ciascuna Regione, un aumento della pressione fiscale a carico del contribuente». Una simile previsione è, infatti, contraddittoria,

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dal momento che l'esercizio di un'autonomia tributaria deve scontare, inevitabilmente, la possibilità di un aumento della pressione fiscale. Il discorso è ovviamente diverso se - come del resto previsto dalla legge delega - l'aumento, che si vuole scongiurare, è quello della pressione fiscale complessiva: ma allora, occorre prevedere strumenti idonei a fa sì che l'aumento della pressione fiscale, presso un certo livello di governo, venga bilanciato da una corrispondente diminuzione, della medesima, presso un altro e diverso livello. La previsione citata, tuttavia, non menziona un simile bilanciamento (evocato invece, ad esempio, dall'articolo 2), lasciando con ciò intendere che - nelle intenzioni del Governo - l'obiettivo di realizzare un federalismo senza aumentare la pressione fiscale generale dovrà essere, totalmente, a carico delle Regioni. In questo modo, però, l'intero provvedimento, almeno nella filosofia ispiratrice, si pone in contraddizione con l'idea stessa di federalismo fiscale, ossia di autonomia politica, prima che finanziaria, degli enti sub statali. Per certi versi, peraltro, si pone in contrasto anche con la legge delega. L'articolo 28 della legge n. 42 del 2009, invero, ha collocato l'obiettivo «di non produrre aumenti della pressione fiscale complessiva anche nella fase transitoria» nel quadro di una «determinazione periodica del limite massimo della pressione fiscale nonché del suo riparto tra i diversi livelli di governo». Vero è che l'articolo 26 dello schema prevede che la Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica (ancora da istituire), avvalendosi della Commissione tecnica paritetica per l'attuazione del federalismo fiscale, debba monitorare gli effetti finanziari del decreto, e ciò proprio al fine di garantire il rispetto del limite della pressione fiscale complessiva. Sennonché, quella prevista è solo un'attività di monitoraggio, destinata a segnalare al Governo le eventuali misure correttive. Fuori, quindi, da un quadro condiviso. Questo, nel momento in cui, invece, il vincolo per le Regioni di non aumentare la pressione fiscale a carico del contribuente, viene affermato in modo categorico, e non condizionato ad un bilanciamento nel quadro della pressione fiscale globale;
in definitiva, l'impressione che si ritrae dalla lettura dello schema di decreto in esame è quella di un intervento di stampo conservativo, teso a regolamentare l'assetto esistente, piuttosto che a dettare le linee portanti di una riforma. Il sistema dei tributi di Regioni e Province viene fondamentalmente riconfermato: le novità ipotizzate appaiono di impatto limitato e, comunque, lontane da un'idea di vero federalismo, concepito come modello di finanziamento fondato sulla responsabilità e la trasparenza delle scelte di prelievo. Lo stesso si può dire, del resto, per l'impianto complessivo dei finanziamenti che saranno messi a disposizione di Regioni e Province: nella misura in cui le principali risorse finanziarie deriveranno dalle compartecipazioni, si replicherà di fatto il modello vigente, largamente deresponsabilizzante, posto che le compartecipazioni mantengono la medesima opacità dei trasferimenti, e non si possono evidentemente intendere come strumenti di finanziamento responsabilizzanti per gli enti sub statali;
sotto il profilo del merito puntuale del provvedimento si osserva che:
l'articolo 2 (tralasciando i commi 2 e 3, che si riferiscono al tema della spesa sanitaria e che, per tale ragione, sarebbero da trasporre nel Capo IV) detta disposizioni in tema di addizionale Irpef per le Regioni. Dell'addizionale, peraltro, si occupa anche il successivo articolo 5, motivo per cui è opportuno attendere ad una lettura congiunta delle due norme. L'addizionale Irpef per le Regioni è confermata come anche l'aliquota base dell'addizionale, pari allo 0,9 per cento (articolo 5). Aliquota base che, tuttavia, ai sensi dell'articolo 2, dovrà essere rideterminata, in misura tale da assicurare alle Regioni entrate corrispondenti ai trasferimenti da sopprimere ed alla compartecipazione all'accisa sulla benzina (assegnata alle Province). Le Regioni, inoltre, riacquistano il

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potere di variare l'aliquota dell'addizionale. Potere, questo, che era rimasto sospeso per effetto del comma 7 dell'articolo 1 del decreto-legge 27 maggio 2008, n. 93 e, successivamente, del comma 123, articolo 1, legge 13 dicembre 2010, n. 220, sino - appunto - all'attuazione del federalismo fiscale. Si tratta, certamente, di una soluzione in linea con il tema del federalismo fiscale. L'addizionale, invero, rappresenta una forma di finanziamento trasparente e responsabilizzante. Peraltro, potendo contare sulla disciplina applicativa propria del tributo base, ha il vantaggio di non moltiplicare i costi di adempimento per i contribuenti. Va ricordato, tuttavia, che dalla base imponibile resteranno esclusi i redditi soggetti alla nuova cedolare secca sui canoni di locazione. L'articolo 2, comma 1, prevede, altresì, che nel determinare l'aliquota base dovranno essere contestualmente ridotte le aliquote Irpef di competenza statale; ciò, con l'obiettivo di mantenere inalterato il prelievo fiscale complessivo a carico del contribuente. Sennonché, tale previsione appare riferita solo all'aliquota base e non pure alle eventuali maggiorazioni, che potranno essere disposte dalle Regioni: se così è, tuttavia, l'intero meccanismo rischia di restare paralizzato, in ragione del successivo articolo 26, ai sensi del quale «l'esercizio dell'autonomia tributaria non può comportare, da parte di ciascuna Regione, un aumento della pressione fiscale a carico del contribuente». Il decreto pone poi una serie (corposa) di vincoli alle Regioni per l'esercizio del potere di variare l'aliquota, che appaiono in contraddizione con lo spirito di una riforma in senso federale della fiscalità regionale. Il primo vincolo è di ordine temporale. Ai sensi dell'articolo 5, il potere di variare l'aliquota dell'addizionale incontra delle soglie, che si innalzano nel corso del tempo: al 0,5 per cento sino al 2013; all'1,1 per cento, per il 2014; al 2,1 per cento a decorrere dal 2015. A parte una malcelata diffidenza verso le Regioni, i motivi di questa gradualità nell'innalzamento restano oscuri, almeno in una prospettiva di federalismo fiscale. Soprattutto, nella misura in cui non sono previsti strumenti di bilanciamento della pressione fiscale complessiva. Sul punto, si condivide il rilievo espresso nella relazione predisposta dal servizio studi della camera dei deputati, per cui andrebbe meglio chiarito che gli incrementi sono punti percentuali che si aggiungono, incrementano, all'aliquota base e non la percentuale della stessa. Il secondo limite attiene, invece, alla possibilità stessa di aumentare le aliquote. Si prevede, infatti, che le Regioni che abbiano ridotto l'aliquota base Irap, ai sensi dell'articolo 4, non possano aumentare l'aliquota dell'addizionale oltre lo 0,5 per cento. Anche questo limite non trova però ragione in un modello di autentico federale fiscale, nel quale dovrebbero essere lasciati all'autonomia politica delle Regioni il potere e la responsabilità di decidere come ripartire il carico tributario tra imprese e persone fisiche. Peraltro, si prevede che l'aumento dell'aliquota oltre lo 0,5 per cento non deve comportare un aggravio, sino ai due primi scaglioni di reddito, a carico dei titolari di redditi da lavoro dipendente e da pensione in relazione ai predetti redditi. Tralasciando le perplessità dovute alla formulazione di tale limite (sembra di capire che possano beneficiare di tale misura solo i titolari esclusivamente di redditi di lavoro e da pensione, posto che la garanzia di invarianza della pressione fiscale va circoscritta ai predetti redditi) e la difficoltà che potrebbe incontrare la sua realizzazione pratica (per le modalità di attuazione si rinvia, comunque, ad un decreto di natura non regolamentare del Ministro dell'economia), resta la perplessità di un limite che, ancora, collide con l'idea stessa del federalismo fiscale. Perché anche qui, in ultima analisi, è lo Stato che decide (limitandola) come le Regioni debbono esercitare la loro autonomia tributaria. Un ulteriore limite attiene alla possibilità per le Regioni di rendere l'addizionale progressiva. Le Regioni possono infatti differenziare le aliquote, ma esclusivamente in relazione agli scaglioni di reddito corrispondenti a quelli stabiliti dalle leggi. Non possono, pertanto, prevedere una progressività

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più spinta perché articolata su più scaglioni, né, sembrerebbe, introdurre una progressività continua in luogo di quella a scaglioni propria dell'Irpef (come invece avviene attualmente in diverse Regioni). Al comma 4 dell'articolo 5 si prevede, poi, che le Regioni possano disporre detrazioni in favore della famiglia. Una simile possibilità, sicuramente, è coerente con un impianto federalista. Desta non di meno perplessità la soluzione prescelta, ossia di consentire alle Regioni di maggiorare le detrazioni previste dall'articolo 12 del Tuir; ciò per la ragione che le detrazioni in oggetto concorrono al calcolo dell'imposta netta Irpef e, come tali, non incidono sulla misura dell'addizionale. Così formulata, la previsione è ambigua. L'addizionale regionale all'Irpef (prevista dall'articolo 50 del decreto legislativo n. 446 del 1997) è determinata, difatti, applicando l'aliquota, stabilita dalla Regione dove il contribuente risiede, al reddito complessivo determinato ai fini IRPEF, al netto degli oneri deducibili. L'addizionale, quindi, si applica sul reddito e non sull'imposta, su cui invece incidono le detrazioni di cui all'articolo 12. La misura dell'imposta, ai fini del computo dell'addizionale, è richiamata solo in merito all'an, nel senso che l'addizionale non è dovuta qualora non sia dovuta l'Irpef, una volta scomputate tutte le detrazioni d'imposta. Ecco allora che, volendo riconoscere alle Regioni il potere di concedere agevolazioni alle famiglie, nell'ambito dell'addizionale, lo si deve fare consentendo loro di concedere, oltre che deduzioni, anche detrazioni, ma chiarendo che, pur modulate sulla falsariga di quelle ex articolo 12, queste incidono direttamente sull'importo dell'addizionale e non dell'Irpef. Il testo del comma 4 andrebbe, di conseguenza, riformulato. Un'ultima notazione va fatta con riguardo alla possibilità, riconosciuta alle Regioni, di concedere detrazioni dall'addizionale in luogo dell'erogazione di voucher, buoni servizio e altre misure di sostegno sociale previste dalla legislazione regionale (comma 5 dell'articolo 5). Si osserva, al riguardo, che il rinvio all'articolo 118 della Costituzione ed al principio di sussidiarietà orizzontale, ivi affermato, non appare corretto. A rigore, infatti, si può parlare di sussidiarietà orizzontale quando il settore pubblico promuove i privati per l'erogazione di servizi (segnatamente nel sociale) di interesse e rilievo pubblico. Nel caso in oggetto, a ben vedere, non si prevede la concessione di agevolazioni ai privati che operano nel sociale, in forma diretta (accordando aliquote minori) o indiretta (consentendo di dedurre eventuali donazioni); s'ipotizza, più semplicemente, di sostituire erogazioni dirette con sconti fiscali e, quindi, essenzialmente di modificare le modalità di intervento pubblico. Senza trascurare che l'erogazione di voucher, buoni servizio e altre misure di sostegno sociale non sono misure perfettamente fungibili con le detrazioni di imposta, posto che queste ultime, per definizione, presuppongono che vi sia un'imposta da pagare ossia un debito (e quindi un reddito) capiente: in mancanza, la detrazione non può essere fruita; in merito alla compartecipazione al gettito IVA (articolo 3), dovrebbe essere meglio chiarito che il consumo rilevante è quello finale, del consumatore non soggetto Iva, e non pure gli scambi intermedi nel ciclo economico del bene/servizio. Inoltre, per le prestazioni di servizi si potrebbero riprendere, mutatis mutandis, i criteri di territorialità già dettati dal decreto del Presidente della Repubblica n. 633/72;
la rubrica dell'articolo 4 è rivelatrice della reale intenzione perseguita dal legislatore delegato. Nella logica di un decreto redatto per fissare le regole generali entro cui collocare l'autonomia tributaria delle Regioni, il tema dell'Irap andava infatti affrontato, non in termini di mera riduzione dell'aliquota, quanto, semmai, nella prospettiva di elaborare i più articolati confini entro cui consentire un pieno e compiuto esercizio della potestà regionale. Ciò, soprattutto, alla luce dei cambiamenti intervenuti nella disciplina di questa particolare imposta. Nel testo in esame si prevede, difatti, solo che le Regioni possano ridurre le aliquote fino ad azzerarle. Il potere di variare l'aliquota in aumento rimane invece quello già previsto

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dall'articolo 16, comma 3, del decreto legislativo n. 446 del 1997, qui richiamato. Con riguardo al potere di riduzione dell'aliquota, peraltro, sono previsti due limiti. Il primo, integrato dal rispetto del diritto comunitario; il che significa, essenzialmente, ricordare alle Regioni che non potranno (tra l'altro) prevedere riduzioni dell'imposta a carattere selettivo tra le diverse imprese. Sul punto, si segnala che appare quanto meno superfluo evocare esplicitamente gli orientamenti della Corte di Giustizia, dal momento che questi fanno parte integrante del diritto comunitario, che le Regioni sono chiamate (ex articolo 117 Cost.) a rispettare nell'esercizio della propria potestà legislativa. Il secondo limite è rappresentato dal fatto che le Regioni non possono ridurre l'aliquota se aumentano l'addizionale Irpef oltre lo 0,5 per cento. La ratio è chiara: le Regioni non possono spostare il peso fiscale dalle imprese alle persone fisiche. Sennonché, questa costituisce per definizione una scelta politica, di cui dovrebbero restare responsabili le Regioni. Anche questa previsione, quindi, si mostra in palese conflitto con una logica «federalista». Peraltro, non si comprende neppure la ragione di stabilire che, nel caso di aumento dell'addizionale Irpef, resta inibito alle Regioni, non solo l'azzeramento dell'Irap ma, anche, la sua semplice riduzione. A tacer d'altro, una simile soluzione minaccia di aggravare il divario tra le Regioni: tra quelle che si possono finanziare l'abbattimento dell'Irap e, così, attrarre nuove imprese, e quelle che, di contro, non hanno simile possibilità e rischiano, così, di perdere le imprese ivi insediate. Il decreto, in definitiva, non si occupa di rivedere l'Irap in termini di imposta autenticamente regionale; sembra più (e solo) interessato a lanciare e poi ribadire il messaggio della volontà di superare tale imposta. In tal senso, è già significativa la rubrica dell'articolo. Del pari, è significativa la previsione, contenuta all'articolo 11, secondo cui le spese delle Regioni relative ai Lep sono finanziate, tra l'altro, dall'Irap, ma solo fino alla data della sua sostituzione con altri tributi: ebbene, è evidente la portata propagandistica di una simile enunciazione, posto che un tributo può essere fonte di finanziamento di una spesa solo finché resta in vigore. Sennonché, il decreto, pur chiaro ed univoco nell'intenzione di superare l'Irap, lascia poi interamente alle Regioni il potere di togliere tale imposta; rectius l'onere, dal momento che, poi, il medesimo decreto ha cura di chiarire che la riduzione o l'azzeramento dell'Irap rimane esclusivamente a carico del bilancio della Regione. Il decreto, difatti, non si preoccupa di fornire strumenti alternativi di finanziamento. A conferma di un approccio troppo sommario del decreto al tema dell'Irap, va poi rilevato che, stando alla lettera della norma, le Regioni possono azzerare l'aliquota Irap ma, a rigore, non ne possono modificare la disciplina. Limite questo che, tuttavia, appare in contrasto con la natura stessa di tale imposta, quale risulta a seguito dell'articolo 1, comma 43, legge 24 dicembre 2007, n. 244, per cui, a decorrere dal 1o gennaio 2009 (termine prorogato al 1o gennaio 2010 dall'articolo 42, comma 7, decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 207, convertito dalla legge 27 febbraio 2009, n. 14), l'Irap costituisce tributo proprio della Regione, da istituire con legge regionale. Vero è che la legge ha contestualmente circoscritto il potere delle Regioni, tenendo ferma l'indeducibilità dell'IRAP dalle imposte statali e consentendo alle Regioni di modificare solo l'aliquota, le detrazioni e le deduzioni, di introdurre speciali agevolazioni. Non anche, però, di modificare le basi imponibili. Sennonché, una simile soluzione, di prudenza, come si legge nel citato comma 43, ha trovato specifica giustificazione nell'esigenza di attendere la compiuta individuazione delle regole fondamentali necessarie ad assicurare il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario di livello substatuale. Regole che, appunto, dovrebbero/avrebbero dovuto essere introdotte dal decreto in esame. Ebbene, il decreto in commento, non solo non contempla le predette regole, ma disciplina, quale unico potere per le Regioni, quello di modificare le aliquote ovvero di ridurle a zero. La disciplina

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vigente è richiamata, in tema di autonomia normativa delle regioni, ancora e solo limitatamente al potere di variare le aliquote, di cui all'articolo 16, comma 3, del decreto legislativo n. 446 del 1997. Non si fa invece alcuna menzione ai potere di introdurre deduzioni, detrazioni ed agevolazioni, né a quello di modificare la base imponibile. Soprattutto, non si fa alcun riferimento al fatto che l'Irap dovrebbe, oramai, essere considerata un tributo proprio regionale. L'impressione che si ritrae, insomma, è quella di un testo scritto nella preoccupazione di circoscrivere piuttosto che di ampliare l'autonomia tributaria delle regioni in materia di Irap. Sarebbe pertanto opportuno almeno coordinare il testo del decreto in esame con quanto già previsto dall'articolo 1, comma 43, legge 244 del 2007, sopra richiamato;
nonostante la rubrica, l'articolo 7 si occupa, essenzialmente, di sopprimere taluni tributi regionali. Si tratta - va chiarito - di tributi minori (Tassa per l'abilitazione all'esercizio professionale; Imposta regionale sulle concessioni statali dei beni del demanio marittimo; Tasse sulle concessioni regionali; Imposta regionale sulle concessioni statali per l'occupazione e l'uso dei beni del patrimonio indisponibile; Tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche regionali). Peraltro, l'elenco delle previsioni legislative da sopprimere di conseguenza presenta talune incongruenze (ad esempio l'articolo 18, comma 4, della legge 5 gennaio 1994, n. 36, in tema di canoni per le utenze di acqua pubblica, è già stato abrogato dall'articolo 175, decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152; con riguardo al decreto del Presidente della Repubblica 24 giugno 1977, n. 616, sembrerebbe invece opportuno abrogare anche l'articolo 120, posto che l'articolo 121 citato si limita a riferire territorialmente il gettito dei prelievi di cui all'articolo 120). Gli altri tributi attualmente riconosciuti alle Regioni (oltre all'IRAP, l'Imposta regionale sulla benzina per autotrazione, l'Imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili, il Tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, la Tassa regionale per il diritto allo studio universitario, le Tasse automobilistiche regionali) vengono mantenuti (comma 2). Il decreto, al riguardo, si limita solo a prevedere che tali tributi costituiranno tributi propri derivati, senza però chiarire il senso e la portata di tale qualificazione. Si è indotti a ritenere, pertanto, che nei fatti nulla cambierà rispetto alla situazione vigente. Oltretutto, non è chiaro se la predetta qualificazione vada riferita anche all'Irap la quale - come detto - dovrebbe invece considerarsi tributo proprio delle Regioni, ex articolo 1, comma 43, legge 24 dicembre 2007, n. 244. Considerazioni analoghe vanno poi ripetute con riguardo all'articolo 16 in tema di tributi provinciali. L'approccio quanto meno sbrigativo mantenuto dal decreto rispetto al tema della fiscalità delle Regioni trova conferma nel successivo articolo 25, dove si prevede che, a decorrere dal 2013 (non prima, quindi), le Regioni potranno istituire nuovi tributi regionali e/o locali, sebbene limitatamente su presupposti non assoggettati ad imposizione da parte dello Stato. Ebbene, a parte constare che la rubrica dell'articolo 7 («Ulteriori tributi») appare più calzante per il citato articolo 25 (rubricato, invece, con l'anodina formula «Tributi previsti dall'articolo 2, comma 2, lettera q, della legge n. 42», è evidente che il limite rappresentato dal divieto di impiegare presupposti già «sfruttati» dal legislatore statale porterà, con ogni probabilità, le Regioni a reintrodurre, come tributi propri, quelli soppressi dall'articolo 7. Soprattutto, ed è questa la principale critica da muovere alla norma ed al decreto in generale, si omette qualsiasi criterio di coordinamento per la nuova, auspicata, fiscalità regionale. Manca la previsione di modelli ideali di tributo (nell'alternativa tra tasse ed imposte), così come manca l'individuazione di criteri di territorialità, la previsione di regole di continenza, il richiamo all'osservanza del diritto comunitario, l'enunciazione di un divieto di concorrenza sleale tra livelli di governo, l'affermazione dei principi di trasparenza e di responsabilizzazione nelle forme di prelievo. Insomma, mancano quelle regole

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di cornice che, invece, ci si dovrebbe attendere da una legge statale di coordinamento della fiscalità sub statale;
l'articolo 13 non presenta particolari criticità. Del resto, si limita a convertire in tributo proprio derivato delle Province l'imposta sull'RC auto, il cui gettito, fino ad ora, era semplicemente devoluto alle Province. Su tale nuovo tributo proprio derivato le Province avranno riconosciuto anche un (limitato) potere di variare l'aliquota fino a 2,5 punti percentuali. Desta semmai qualche perplessità il comma 4, ai sensi del quale le Province potranno stipulare con l'Agenzia delle entrate apposite convenzioni per l'espletamento, in tutto o in parte, delle attività di liquidazione, accertamento, riscossione dell'imposta, nonché per il relativo contenzioso. Il dubbio nasce dalla previsione per cui, fino alla stipula delle predette convenzioni, le predette funzioni saranno svolte, comunque, dall'Agenzia delle entrate. Così formulata, però, la previsione appare di difficile lettura, in quanto non sembra lasciare alternative alla gestione del tributo da parte dell'Agenzia delle entrate, sia prima che dopo la convenzione;
la disciplina della determinazione dei costi standard per le Regioni a statuto ordinario nel settore sanitario è contenuta nel Capo IV del decreto in esame. Punto di partenza è la determinazione del fabbisogno sanitario nazionale «in coerenza con il quadro macroeconomico complessivo e nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica» (articolo 21). Per ottenere il finanziamento della singola regione si dovrà applicare all'ammontare di finanziamento nazionale cosi predeterminato il rapporto tra il fabbisogno sanitario standard della regione e la somma dei fabbisogni regionali standard risultanti, sia l'uno che gli altri, dalla disciplina di cui all'articolo 22, commi 4-12: (1) a tutte le regioni si applicano i valori di costo rilevati in tre regioni di riferimento (cosiddette «benchmark») le quali devono essere scelte dalla Conferenza Stato-Regioni tra una lista di cinque regioni (individuata dal Ministero della salute, di concerto col Ministero dell'economia e delle finanze) che hanno garantito i Livelli essenziali di assistenza (Lea) in condizione di equilibrio economico e in condizioni di efficienza e appropriatezza; (2) per ognuno dei tre macrolivelli (assistenza collettiva in ambiente di vita e di lavoro, assistenza distrettuale, assistenza ospedaliera) si calcola un costo standard aggregato come media pro-capite pesata del costo registrato dalle regioni di riferimento, inteso come spesa sostenuta per macrolivello rapportata alla popolazione pesata in funzione della struttura per età temperata «secondo criteri fissati mediante intesa in Conferenza Stato-Regioni, che tengano conto anche di indicatori relativi a particolari situazioni territoriali, ritenuti utili al fine di definire i bisogni sanitari»; (3) questo costo standard viene poi applicato alla popolazione pesata di ognuna delle regioni, ottenendo così il suo fabbisogno standard. Come già detto, si procede infine a calcolare il rapporto tra il fabbisogno standard di ogni regione e la somma dei fabbisogni standard e si applica la quota regionale così ottenuta al fabbisogno nazionale predeterminato in coerenza con le compatibilità macroeconomiche e di finanza pubblica: il risultato fornisce il finanziamento spettante a ogni regione. Le regioni in equilibrio economico sono individuate sulla base dei risultati relativi al secondo esercizio precedente a quello di riferimento e così pure le pesature sono effettuate con i pesi per classi di età relativi a quell'esercizio. La determinazione di costi e fabbisogni standard viene effettuata annualmente dal ministro della Salute, di concerto col ministro dell'economia e delle finanze e d'intesa con la Conferenza Stato-Regioni (articolo 22, commi 1-2). I criteri indicati dal decreto potranno in futuro essere rideterminati previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, comunque nel rispetto del livello di finanziamento nazionale stabilito. Con decreto legislativo integrativo saranno determinati i costi standard, relativi alle

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materie diverse dalla sanità, associati ai livelli essenziali delle prestazioni fissati dalla legge statale (articolo 23);
dall'analisi della disciplina illustrata emergono una serie di punti assai critici:
rispetto alla prima versione del decreto, dove l'unico criterio di pesatura era quello basato sulla struttura per età della popolazione, si introduce ora il riferimento anche ad altri indicatori, relativi a particolari situazioni territoriali, che siano ritenuti utili al fine di definire i bisogni sanitari (articolo 22, comma 6, lettera e) ma tuttavia non si specifica quali essi possano essere, rinviando per la loro definizione a un'intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni. In particolare si rileva la mancanza di ogni riferimento alle caratteristiche demografiche, orografiche ed alle situazioni infrastrutturali (sia per quanto concerne i collegamenti stradali che quelli ferroviari) dei territori, nonché alla distribuzione delle strutture ospedaliere in rapporto a tali caratteristiche;
il riferimento a un solo esercizio (il secondo precedente l'anno di riferimento) non tiene conto di possibili oscillazioni casuali di spesa regionale;
è rilevabile una discontinuità rispetto all'esperienza avviata con il Patto per la salute del settembre 2006, che prevedeva la predeterminazione per un periodo triennale del fabbisogno sanitario nazionale e delle percentuali di riparto tra le regioni: si costituiva in tal modo un quadro di certezze essenziale affinché Stato e Regioni programmassero su un orizzonte pluriennale la spesa e quindi le azioni di miglioramento dell'organizzazione e gestione del sistema. Il ritorno alla determinazione annuale dei fabbisogni (nazionale e regionali) ripropone anzitutto il rischio di un inseguimento anno per anno della spesa da parte del finanziamento del tipo sperimentato tra il 2001 e il 2006 (con effetti di perdita di controllo sulla spesa) ed inoltre comporta un ritorno alla prassi delle defatiganti trattative annuali tra Stato e Regioni e tra le stesse Regioni circa il riparto del finanziamento nazionale, che in passato ha portato a definire le risorse annualmente a disposizione delle singole regioni a esercizio finanziario già concluso;
non è chiaro se il periodo per la convergenza al sistema a regime (5 anni) abbia inizio nel 2013, primo anno successivo al triennio di riferimento del nuovo Patto per la salute 2010-12, o se abbia inizio con l'entrata in vigore del presente decreto. Nulla si dice circa la procedura di revisione a regime dei criteri di calcolo di costi e fabbisogni standard, disponendosi semplicemente che tale revisione potrà effettuarsi previa intesa in Conferenza Stato-Regioni. Il rischio principale è l'adozione di parametri di valutazione errati facendo derivare i bisogni dalle risorse anziché far derivare la determinazione delle risorse dalla decisione sui bisogni prioritari di salute;
segnatamente, in riferimento all'articolo 22 dello schema di decreto in esame occorre segnalare quanto segue:
la previsione di carattere «annuale» per la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard sembrerebbe discostarsi dall'impostazione della programmazione di medio periodo cui hanno fatto riferimento i precedenti Accordi sanitari del 2001 e del 2006. Anche l'Intesa del dicembre 2009 si pone in tale ottica, da un lato, fissando l'ammontare del finanziamento a carico dello Stato su un arco pluriennale, dall'altro, individuando indicatori di carattere strutturale per la valutazione dell'efficienza e dell'appropriatezza delle prestazioni, nonché indicatori dell'equilibrio economico-finanziario delle regioni. Nello schema di decreto in esame i criteri di riparto, pur se rapportati ad un intervallo temporale annuale, sono parametrati su fattori (quali, ad esempio, la consistenza della popolazione regionale e la sua suddivisione in classi di età) non suscettibili di cambiamenti sensibili nel breve termine. Sulla base di tali considerazioni, le variazioni annuali dovrebbero essere il più possibile limitate, e comunque

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circoscritte all'ammontare complessivo di risorse da destinare al finanziamento dei LEA (da definire nell'ambito delle scelte di politica economica, ma sempre nell'ottica di un bilancio pluriennale), limitando le modifiche riguardanti il riparto delle stesse tra le regioni. Tali modalità di determinazione delle risorse da destinare alla sanità andrebbero valutate anche alla luce della considerazione secondo cui la certezza dell'ammontare delle risorse statali e una sostanziale stabilità delle «quote di accesso» al finanziamento rafforzano la capacità programmatoria e organizzativa delle Regioni, agevolando l'adozione di azioni di miglioramento, determinanti, in particolare, nella gestione dei Piani di rientro;
il fabbisogno regionale standard viene determinato in fase di prima applicazione a decorrere dall'anno 2013, utilizzando per tutte le regioni i valori di costo rilevati nelle regioni prese a riferimento (cosiddette regioni benchmark). A tale proposito, il successivo comma 10 stabilisce che il processo di convergenza definito dalla legge 42/2009, ovvero il finanziamento dei servizi erogati dalle Regioni non più in base alla spesa storica ma secondo valori standard di costo e fabbisogno, si compia nell'arco di cinque anni. Non appare chiaro, tuttavia, sulla base di quali parametri, si arrivi all'applicazione a regime del meccanismo descritto nei commi successivi. In particolare, non viene chiarito se e in quale misura nella fase transitoria sia prevista la possibilità di una variazione delle risorse assegnate alle singole regioni, né come il percorso di convergenza verso la fase a regime si coordini con quanto stabilito, per alcune regioni, dai rispettivi Piani di rientro;
riguardo alla metodologia proposta per il calcolo del costo standard, si rileva che l'esclusione dal calcolo delle maggiori entrate derivanti dall'attivazione da parte delle regioni della leva fiscale (cosiddetti extra-gettiti) o delle altre disponibilità di bilancio potrebbe apparire non coerente con l'impianto del sistema basato sull'individuazione delle regioni benchmark, cioè di quelle regioni che si segnalano per l'erogazione efficiente ed appropriata dei Lea. L'avere raggiunto tale obiettivo, infatti, potrebbe dipendere anche dalla scelta di finanziare il sistema sanitario regionale con ulteriori entrate fiscali. Eliminare, pertanto, tale fonte di finanziamento (cui corrisponde un preciso livello di spesa) potrebbe comportare il rischio di erogare i Lea al di sotto degli standard previsti. Si osserva, inoltre, che secondo quanto indicato al comma 6, lettera b), per individuare il livello di spesa rilevante ai fini del costo standard, andrebbero escluse dal calcolo non soltanto gli extra gettiti e le altre coperture fiscali, ma anche la differenza tra entrate proprie effettive e convenzionali: ai fini del calcolo dell'equilibrio economico previsto dal comma 5, le entrate proprie sembrerebbero, invece, pienamente scontate. Si determinerebbe quindi un'asimmetria nel trattamento di tali entrate. Infine, con riferimento alla nettizzazione degli ammortamenti, l'applicazione di tale procedura non appare agevole, data la estrema varietà di regole adottate nella contabilità sanitaria con riferimento a tale voce. L'uniformazione delle regole contabili in materia appare pertanto propedeutica all'effettiva applicabilità della norma in esame;
il sistema di pesi preso in considerazione nello schema di decreto fa sostanziale riferimento alla suddivisione per classi di età, salvo l'integrazione con altri parametri che consentano di tener conto anche delle condizioni socio-economiche di alcune realtà territoriali. Non è chiaro tuttavia se, rispetto al sistema attuale, la pesatura sia da intendersi estesa a tutti i livelli e sotto-livelli di assistenza, anche a quelli attualmente finanziati in base ad una quota capitaria «secca», in quanto corrispondenti a consumi sanitari considerati indipendenti dall'età. Fatta eccezione per la farmaceutica (attualmente vincolata ad un tetto di spesa e per la quale l'esperienza evidenzia una correlazione molto netta tra l'età e il consumo dei

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farmaci), con tale sistema si determinerebbe quindi una «sovra-pesatura» per i restanti livelli;
in riferimento al fondo perequativo regionale il Gruppo Parlamentare «Italia dei Valori» ebbe a presentare un ordine del giorno, in occasione dell'esame della legge n. 42 del 2009. In tale atto di indirizzo - accolto dal Governo e per questo non posto in votazione - si impegnava l'Esecutivo, in sede di attuazione delle disposizioni sulla ripartizione del fondo perequativo regionale per le Regioni con popolazione al di sotto di una determinata soglia da individuarsi con i decreti legislativi, «a tenere conto nella determinazione del fabbisogno standard non solo della dimensione demografica ma anche delle caratteristiche territoriali con particolare riguardo alla presenza di zone montane - delle caratteristiche demografiche, sociali e produttive». Tale impegno a rilevantissimo impatto sociale non sembra essere stato accolto nello schema di decreto in esame, rischiando di inficiare il complesso strutturale del fondo perequativo a sfavore di aree territoriali segnate da particolari caratteristiche sociali e produttive, appunto;
in merito alla copertura finanziaria del provvedimento in esame - ai fini del rispetto di quanto stabilito dall'articolo 81 della Costituzione - si rileva che, a scapito di quanto disposto all'articolo 27, contenente la clausola di neutralità finanziaria dell'intero decreto legislativo, si deve osservare che detto principio di invarianza finanziaria difficilmente sarà rispettato a causa di numerosi profili di criticità rinvenibili in riferimento a diverse disposizioni recate dal decreto stesso. In particolare, anche a seguito dei rilievi mossi dal Servizio di Bilancio della Camera dei deputati, si segnala:
l'articolo 2, commi 1 e 4 intervengono sulla disciplina dell'imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF) e dell'addizionale regionale all'IRPEF prevedendo modifiche a decorrere dall'anno 2012 La disciplina in esame è contenuta anche nell'articolo 5. In merito ai profili di quantificazione, si osserva, in via preliminare, che la relazione tecnica fornisce esclusivamente un'indicazione sulla natura degli effetti che le diverse misure determinano sui bilanci dei soggetti coinvolti. La relazione non fornisce, con la sola esclusione dell'importo della compartecipazione regionale al gettito dell'accisa sulla benzina per l'anno 2008, una stima degli ammontari movimentati che consenta di verificare l'effettiva neutralità finanziaria delle disposizioni, sia ai fini dei saldi di finanza pubblica che della pressione fiscale complessiva. Il quadro finanziario delle compatibilità non è determinato nella relazione tecnica e la compensatività complessiva degli interventi in esame potrà essere verificata solo a seguito dell'adozione dei decreto del Presidente del Consiglio dei ministri attuativi delle norme in esame, dei quali le norme stesse non dispongono l'obbligo preliminare di trasmissione alle Commissioni parlamentari competenti per i profili finanziari, né tali atti sembrano sottoposti agli obblighi di redazione della relazione tecnica riguardanti, ai sensi dell'articolo 2, comma 3, della legge n. 42 del 2009, gli schemi legislativi attuativi della riforma;
l'articolo 5 reca disposizioni in materia di addizionale regionale all'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) disciplinando, in particolare, il potere attribuito alle regioni a statuto ordinario di apportare modifiche nell'ambito dell'autonomia ad esse riconosciuta. In merito ai profili di quantificazione, si rileva che le disposizioni, come affermato dalla relazione tecnica, determinerebbero effetti neutrali. Appare, in ogni caso, necessario che il governo fornisca chiarimenti in merito ad alcune delle disposizioni contenute nell'articolo in esame, anche al fine di meglio comprenderne i profili applicativi, ciò vale soprattutto in relazione al comma 4 che concede alle regioni, nell'ambito della addizionale di cui all'articolo in esame, la facoltà di disporre con propria legge detrazioni in favore della famiglia, maggiorando le detrazioni per carichi di famiglia di cui

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all'articolo 12 del TUIR. La norma non appare di chiara formulazione in quanto, da un lato, prevede che la suddetta facoltà operi esclusivamente nell'ambito dell'addizionale IRPEF, dall'altro, dispone che la medesima sia esercitata attraverso una maggiorazione delle detrazioni per carichi di famiglia previste dal TUIR. Si ricorda, in proposito, che le detrazioni di cui all'articolo 12 del TUIR sono, ove spettanti, utilizzate dal contribuente in riduzione dell'IRPEF lorda di competenza erariale. Pertanto, una loro maggiorazione comporterebbe una riduzione del gettito della suddetta imposta;
l'articolo 6 reca la soppressione dei trasferimenti dallo Stato alle Regioni a statuto ordinario. La relazione tecnica, riassumendo il contenuto della disposizione, ricorda che si prevede la soppressione di tutti i trasferimenti statali di parte corrente e aventi carattere di generalità e permanenza, destinati alle regioni a statuto ordinario per l'esercizio delle funzioni di competenza regionale, compresi quelli finalizzati all'esercizio di funzioni da parte di province e comuni. Tale soppressione, ai sensi dell'articolo 2, comma 1, viene compensata con un incremento dell'addizionale regionale all'Irpef In merito ai profili di quantificazione, si osserva preliminarmente che la relazione tecnica non reca un quadro riepilogativo degli effetti dell'intero provvedimento ed in particolare non fornisce la quantificazione dei trasferimenti soppressi. Inoltre nella fase di prima applicazione della riforma, oltre al vincolo di invarianza del totale delle risorse attribuite rispetto ai trasferimenti soppressi, occorre rispettare anche il vincolo di integrale finanziamento delle funzioni LEP sulla base della spesa storica, attivando i necessari meccanismi di perequazione delle risorse tributarie attribuite;
l'articolo 14 reca la soppressione dei trasferimenti statali alle Province e compartecipazione provinciale all'accisa sulla benzina. La relazione tecnica descrive brevemente la norma precisando che viene prevista, a decorrere dall'anno 2012, la soppressione dei trasferimenti statali destinati alla generalità degli enti e con carattere di permanenza delle province delle Regioni a statuto ordinario, con corrispondente riconoscimento alle stesse di una compartecipazione all'accisa sulla benzina. A tale scopo la relazione tecnica ipotizza che i trasferimenti da considerare ai fini della soppressione siano quelli provenienti dal Ministero dell'interno di tipo A, ossia quelli di natura permanente e generale, identificati in ambito COPAFF. In merito ai profili di quantificazione, si osserva che la relazione tecnica non fornisce informazioni di dettaglio che consentano di ricostruire la stima dei trasferimenti oggetto di soppressione a partire dai dati della relazione Copaff;
l'articolo 19 reca la disciplina del Fondo perequativo per le province e i comuni, ai sensi dell'articolo 13 della legge n. 42 del 2009, per il finanziamento delle spese dei comuni e delle province, successivamente alla determinazione dei fabbisogni standard collegati alle spese per le funzioni fondamentali. Con riferimento a quanto disposto dall'articolo in esame, che individua in particolare i criteri di ripartizione del fondo perequativo, si evidenzia la necessità di acquisire un chiarimento in merito ai profili di coordinamento tra tale disciplina e quella disposta dal citato schema di provvedimento sul federalismo municipale che disciplina in particolare i criteri di attribuzione di risorse tributarie direttamente ai comuni o al fondo perequativo. Andrebbe in particolare chiarito con quali modalità sia assicurato che tale attribuzione di risorse garantisca comunque il finanziamento integrale dei fabbisogni standard di spesa inerenti alle funzioni fondamentali, da determinarsi secondo gli indicatori di fabbisogno finanziario previsti dal comma 4 dell'articolo in esame;
si deve inoltre segnalare un profilo di criticità in relazione all'eventualità di un aumento della pressione fiscale in seguito all'applicazione dell'articolo 26, comma 2, che affida alla Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica - non ancora istituita - il

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monitoraggio degli effetti finanziari derivanti dallo schema di decreto in esame, al fine di valutarne i riflessi sul livello della pressione fiscale. Nello svolgimento di tale attività la Conferenza si avvale del supporto della Commissione tecnica paritetica per l'attuazione del federalismo fiscale. Alla suddetta Conferenza è altresì attribuito il potere di proposta al Governo delle eventuali misure correttive atte a garantire il rispetto del limite massimo della pressione fiscale complessiva, in coerenza con quanto stabilito con la decisione di finanza pubblica di cui all'articolo 10 della legge 31 dicembre 2009, n. 196;
il comma 2 dell'articolo 26, reca inoltre, al secondo periodo, una ulteriore disposizione di salvaguardia della pressione fiscale stabilendo che l'esercizio dell'autonomia tributaria non può comportare, da parte di ciascuna regione, un aumento della pressione fiscale a carico del contribuente. Al riguardo si segnalano alcuni profili problematici: non è infatti chiaro, in primo luogo, se tale divieto vada riferito alla posizione individuale dei singoli contribuenti o a quella complessiva dell'insieme dei contribuenti della regione. Si osserva inoltre che la norma non specifica con quali modalità sarà verificato il rispetto del predetto divieto e quali sanzioni siano eventualmente previste in caso di mancato rispetto dello stesso;
non è inoltre chiaro come la disposizione in esame si coordini con l'ampliamento della facoltà di aumento delle addizionali regionali all'IRPEF prevista dall'articolo 5. Si segnala infatti che al comma 2 di tale disposizione il divieto di aumento dell'aggravio fiscale è limitato ai primi due scaglioni di reddito in relazione ai soli redditi da lavoro dipendente o da pensione. Si segnala altresì che analogo divieto non sembra sussistere anche per le province, cui l'articolo 13 riconosce, a decorrere dal 2014, più ampie possibilità di manovra delle aliquote dell'imposta sulle assicurazioni RC auto;
da tale incertezza complessiva, così come rilevata, emerge con evidenza l'impossibilità concreta di valutazione degli oneri, ed in tale contesto è quindi indimostrabile la clausola di invarianza finanziaria di cui all'articolo 26 dello schema di secreto in esame;
occorre, inoltre, rilevare che seppur assai parzialmente condivisibili, le modificazioni proposte nel parere del Relatore, non sanano alcune delle rilevanti criticità del testo governativo iniziale: addirittura, talune storture, già evidenziate con riferimento al testo originario, vengono ulteriormente esasperate, anche con riferimento all'aumento potenziale della pressione fiscale complessiva a carico dei contribuenti;
considerato, segnatamente, che nella proposta del Relatore, onorevole Corsaro, presentata in sede di Commissione bicamerale per l'attuazione del federalismo fiscale, si prevede quanto segue:
con l'articolo 2 è stata prorogata di un anno (dal 2012 al 2013) la rideterminazione dell'addizionale regionale all'Irpef. Si rileva, al riguardo, che sono stati accorpati al 2013 diversi termini, contemplati dallo schema di decreto, che nella versione precedente risultavano scaglionati su anni differenti (al 2013 è stato portato il potere di azzerare l'aliquota Irap, in precedenza fissato al 2014 ex articolo 4; sempre dal 2013, e non più dal 2012, saranno soppressi i trasferimenti ex articolo 6; la trasformazione in tributi propri regionali di taluni tributi derivati è stata anticipata al 2013 ex articolo 7; dal 2013, non più 2014, dovrebbe partire il Fondo perequativo di cui all'articolo 11). Ciò presenta certamente il vantaggio di consentire una visione unitaria delle novità introdotte dalla riforma: vi è da domandarsi, tuttavia, se la portata di taluni interventi (soppressione dei trasferimenti, compartecipazione Iva, Fondo perequativo eccetera) non avrebbe richiesto tempi di attivazione diversi, proprio per poterne monitorare gli effetti ed adeguare di conseguenza gli interventi successivi;
all'articolo 3, in merito ai criteri di territorialità per il riparto della compartecipazione

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Iva, la formulazione proposta è ambigua. Da un lato, con riferimento alle cessioni di beni, prevedere che il luogo del consumo sia quello della cessione non significa molto, posto che tale luogo può essere indistintamente quello in cui avviene la spedizione, la consegna o dove è destinato il bene, ovvero dove viene concluso il contratto. Certamente, tale luogo non dovrebbe poter essere quello in cui è ubicato il bene, dato che la norma si preoccupa di precisare specificatamente che il luogo di consumo è tale nel caso, solo, di cessione di beni immobili. Altra ambiguità si registra con riguardo alle prestazioni di servizio, dove è contemplata la possibilità che il luogo di consumo sia identificato con quello di domicilio del fruitore. Sennonché, non si comprende, da un lato quali possano e/o debbano essere le eventuali alternative (luogo di fruizione del servizio, domicilio del fornitore eccetera), né le ragioni e/o i presupposti per l'esercizio della predetta facoltà. Infine, non è chiara la previsione sui «beni e servizi non di mercato». I soggetti erogatori di tali beni e servizi (pubbliche amministrazioni ed Istituzioni sociali) vengono trattati ai fini del quadro VT come consumatori finali ovvero soggetti Iva, a seconda che l'acquisto dei beni e servizi da loro effettuati siano destinati ad operazioni Iva o meno; al contempo, le erogazioni di beni e servizi fuori mercato, proprio perché tali, sono sottratte ad Iva. Per la definizione dei criteri di riparto territoriale della compartecipazione è previsto un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da adottare solo sentita la Conferenza Stato-Regioni. La novità introdotta nella versione in commento è che dovrà essere sentita anche la Commissione paritetica per l'attuazione del federalismo fiscale ovvero, se già costituita, la Conferenza permanente, nonché ottenuto il parere delle Commissioni di Camera e Senato competenti per i profili di carattere finanziario. Come già osservato, non è previsto alcun coinvolgimento della Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale;
marginali le novità portate all'articolo 4 tale articolo (anticipata al 2013 la possibilità di azzerare l'Irap). Si rimarca, tuttavia, come si mostri pesante l'assenza di qualsiasi criterio volto a coordinare l'esercizio della potestà impositiva delle Regioni. È così concreto il rischio di una concorrenza fiscale spinta tra Regioni: tra Regioni, riccamente popolose, che si possono permettere di aumentare modestamente l'addizionale Irpef e ridurre grandemente l'aliquota Irap e Regioni, viceversa, scarsamente popolate che, necessariamente, debbono tenere alta l'addizionale Irpef e, per effetto dell'alternatività di cui al già criticato comma 3, non possono, non tanto azzerare, ma neppure ridurre l'aliquota Irap;
correttamente, all'articolo 5 è stato previsto che debbano restare indenni dall'aumento dell'addizionale oltre lo 0,5 per cento i titolari di reddito nelle prime due fasce, indipendentemente dal tipo di reddito: come segnalato, la diversa soluzione, che riservava la garanzia ai soli titolari di redditi di lavoro dipendente e di pensione, appariva discriminatoria, iniqua, difficile realizzazione pratica, incompatibile col dettato costituzionale;
in merito ai trasferimenti statali oggetto di soppressione (articolo 6), si segnala che sono considerati solo quelli di parte corrente e non pure quelli di parte capitale: sennonché, la legge delega, nel prevedere la soppressione dei trasferimenti, non sembra contenere una simile distinzione. Inoltre, va rimarcata la mancata previsione di un periodo transitorio - come invece lasciava intendere la legge delega (articolo 20) - in cui operare la soppressione graduale dei trasferimenti congiuntamente all'attivazione a regime del fondo perequativo. È stato previsto il coinvolgimento delle Commissioni di Camera e Senato competenti per i profili finanziari, ma non della Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale;
all'articolo 7, correttamente è stata concepita come mera facoltà per le

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Regioni la soppressione di taluni tributi derivati, di cui, nella versione precedente, era prevista l'immediata abrogazione. Era evidente, difatti, che in quel modo si sarebbe potuta verificare la necessità, per talune regioni, di reintrodurre i tributi soppressi, con un aggravio nelle procedure ed una complicazione (anche politica) invece evitabili. Semmai, si segnala che la norma, nel prevedere che i tributi elencati, che possono essere soppressi, saranno trasformati in tributi propri, non chiarisce le implicazioni di tale qualificazione né quali sono, in concreto, i poteri di intervento per le regioni sulle discipline dei tributi predetti, che restano di fonte nazionale. La norma non si preoccupa neppure di fissare criteri di coordinamento nonché limiti alle regioni nel modulare la nuova disciplina di tali prelievi ovvero le aliquote, come invece fa con riguardo alla tassa automobilistica regionale. Con riguardo a tale tassa, lascia invece perplessi la qualificazione che ne viene fatta di tributo proprio ex articolo 7, comma 1, lettera b) numero 3, della legge n. 42 del 2009, posto chela disciplina della tassa automobilistica regionale è di fonte statale (decreto del Presidente della Repubblica n. 39 del 1953), che la norma stessa si preoccupa di richiamare e preservare (almeno per i limiti massimi di manovrabilità). Più corretta e coerente era, così, la sua qualificazione come tributo derivato ex articolo 7, comma 1, lettera b) numero 1, salvo voler intendere che, fermi i limiti massimi, le Regioni possono disciplinare il tributo in oggetto in totale e piena autonomia, peraltro in assenza di ogni forma o misura di coordinamento;
nell'articolo 7-bis, di nuovo inserimento, si prevede l'attribuzione alle Regioni del gettito derivante dalla lotta all'evasione fiscale. Tuttavia, al di là delle suggestioni, la previsione in esame riesce di difficile comprensione: il gettito riconosciuto alle Regioni è gettito che già dovrebbe spettare loro, trattandosi del gettito relativo, segnatamente, ai tributi propri derivati, alle addizionali, nonché all'aliquota di compartecipazione Iva. Non è previsto quindi, come per i Comuni, una partecipazione alla lotta all'evasione remunerata con una quota di tributo erariale; viene solo chiarito che, dalla lotta all'evasione, anche le Regioni si possono avvantaggiare, potendo aumentare il gettito dei tributi loro spettanti. Il che è ovvio. Del resto, la norma non condiziona la spettanza delle risorse aggiuntive ad una specifica attività e/o ad un fattivo contributo di ciascuna Regione. La novità, sul punto, appare semmai la previsione che, con Decreto, verranno fissate le modalità di riversamento diretto alle Regioni delle risorse in oggetto;
all'articolo 7-ter si prevede che l'atto di indirizzo per il conseguimento degli obiettivi di politica fiscale di cui all'articolo 59 del decreto legislativo n. 330 del 1999, ossia dell'atto con cui si determinano, annualmente, gli sviluppi della politica fiscale, le linee generali e gli obiettivi della gestione tributaria, nonché le grandezze finanziarie e le altre condizioni nelle quali si sviluppa l'attività delle agenzie fiscali, sia adottato d'intesa con le Regioni. Forse, sarebbe più corretto ipotizzare il coinvolgimento della Conferenza Stato-Regioni, posto che il coinvolgimento singolo di ciascuna Regione è poi previsto per la stipula delle convenzioni con l'Agenzia delle entrate. Viene altresì previsto il coinvolgimento dell'istituenda Conferenza permanente per il funzionamento della finanza pubblica, senza però che sia dettata la disciplina transitoria da impiegare fino alla sua concreta istituzione;
all'articolo 7-quater, nel prevedere che gli interventi statali sulle basi imponibili e sulle aliquote di tributi regionali derivati possono essere fatte solo con la contestuale adozione di misure compensative, si affida la quantificazione finanziaria di tali misure ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da adottare d'intesa con la Conferenza permanente per il funzionamento della finanza pubblica. Sennonché, non si prevede un regime transitorio per il periodo in cui la predetta Conferenza non sia ancora attiva ed operante. In ogni caso, sembra opportuno prevedere un coinvolgimento

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della Conferenza permanente Stato-Regioni, posto che si tratta di individuare misure compensative di interventi su prelievi integranti risorse proprie delle Regioni;
sarebbe opportuno all'articolo 8 prevedere la contestualità, ossia l'unità ed unicità dei relativi atti, tra la soppressione, a cura delle Regioni, dei trasferimenti regionali ai Comuni - peraltro, anche qui solo di parte corrente - e la determinazione delle compartecipazioni da accordare ai medesimi sui tributi regionali. Lo stesso anche con riguardo all'istituzione del Fondo sperimentale regionale, di cui viene individuata la durata massima (tre anni);
all'articolo 9, l'auspicata disciplina per l'individuazione dei Livelli essenziali delle prestazioni e degli obiettivi di servizio trova finalmente ingresso. Viene così indubbiamente migliorata la versione originaria dello schema di decreto, che si limitava ad un mero rinvio ad una successiva legge. Tuttavia, la disciplina in concreto introdotta presenta indubbie criticità, anche di ordine costituzionale. In primo luogo, perché si rinvia - con Decreto Legislativo - ancora ad una futura legge per la determinazione delle modalità di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni nelle materie diverse dalla sanità. Una legge futura (come in effetti previsto dall'articolo 20 della legge n. 42 del 2009) di cui, però, sembrerebbero qui fissati soltanto taluni criteri (comma 2). Si prevede, in particolare, una procedura di ricognizione dei Lep ma, parrebbe, solo per la determinazione delle spese in conto capitale (comma 4). Inoltre, non si comprende chi e con quali modalità sia chiamato a stabilire, tramite intesa conclusa in sede di Conferenza unificata, i livelli di servizio da erogare fino alla determinazione, con legge, dei livelli essenziali delle prestazioni (comma 5). Infine è previsto il coinvolgimento della SOSE ai fini della ricognizione dei livelli essenziali delle prestazioni che le Regioni effettivamente garantiscono e dei relativi costi. Sarebbe però opportuno coordinare meglio le diverse parti della disposizione in commento, chiarendo i diversi momenti in cui s'intende articolare la fissazione dei Lep e degli obiettivi di servizio, nonché la loro implementazione: fase preliminare di ricognizione, semmai affidata alla SOSE, dei costi e dei livelli essenziali; fase elaborativa di tali livelli e costi, con il coinvolgimento, oltre che del Governo, della Conferenza Stato-Regioni e di organi parlamentari; fase di adozione mediante legge; fase attuativa, nell'ambito della legge di stabilità, volta a realizzare la convergenza dei costi e dei fabbisogni standard nonché degli obiettivi di servizio ai livelli essenziali delle prestazioni. Il tutto, con la previsione di una tempistica coerente con l'attuazione delle altre parti della riforma;
all'articolo 11 si disciplina l'istituzione del Fondo perequativo. Ebbene, si dovrebbe prevedere che anche al decreto da adottare per definire le modalità di convergenza della spesa per i servizi essenziali verso i costi standard (comma 5) sia allegata una relazione tecnica, concernente le conseguenze di carattere finanziario, come per il decreto sulla convergenza delle capacità fiscali in merito ai servizi non essenziali (comma 8). Resta peraltro lacunosa la conformazione del fondo perequativo, in particolare di quello di cui al comma 5, di cui restano indeterminati i tempi, le responsabilità e le modalità di concreto funzionamento: qui, peraltro, non è neppure ipotizzata la fonte di simile disciplina;
all'articolo 13 la principale novità attiene alla prospettata revisione dell'Imposta provinciale di trascrizione. Va però evidenziato che viene da subito prevista l'eliminazione della misura fissa, attualmente vigente per gli atti soggetti ad Iva (comma 5-bis): e ciò significa un maggior prelievo a carico dei contribuenti, posto che viene disposta l'applicazione della misura variabile in ragione della potenza o del peso del veicolo. Desta poi perplessità la previsione secondo cui la revisione dell'Imposta provinciale di trascrizione andrà operata, specificatamente con la legge di stabilità (comma 5-ter);

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all'articolo 14 si dispone la soppressione dei trasferimenti statali alle Province nonché la rimodulazione dell'aliquota di compartecipazione provinciale all'Irpef, in modo da assicurare entrate corrispondenti ai trasferimenti soppressi. Ancora una volta, si fa riferimento solo ai trasferimenti di parte corrente. Occorre, al riguardo, prevedere che sia lo stesso decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che, nell'individuare i trasferimenti da sopprimere stabilisca l'aliquota di compartecipazione. Inoltre, sembra opportuno assicurare che l'invarianza di gettito sia a livello di ciascuna singola Provincia. Il comma 6 appare di difficile comprensione, in quanto non chiarisce che la quota del 33 per cento sulla compartecipazione, che viene riservata alla Provincia competente per territorio, è da intendere segnatamente come quota della medesima compartecipazione che non concorre al finanziamento del Fondo sperimentale di riequilibrio di cui al successivo articolo 17. Ciò, infatti, lo si comprende solo dalla lettura dei comma 2 del predetto articolo 17;
all'articolo 16, si dispone (comma 2) che, nell'ambito della revisione dell'imposta di scopo comunale (articolo 6 del decreto sul fisco municipale), venga disciplina altresì l'imposta di scopo provinciale. Non si comprende però come: l'imposta di scopo comunale, che dovrà essere revisionata, è e rimane sostanzialmente un'addizionale all'imposta comunale sugli immobili (in seguito l'Imu), rispetto cui è difficile costruire un'imposta Provinciale, se non nella forma dell'addizionale. Si tratterebbe, però, di un'addizionale sull'addizionale, peraltro - va ricordato - destinata ad essere applicata solo sulle seconde case (stante l'esenzione della prima casa) e gli immobili di imprese e professionisti. In violazione, come ricordato a suo tempo, del principio di continenza;
con riguardo al modello di finanziamento ipotizzato per le istituende città metropolitane (articolo 19-bis), la previsione, si evidenzia solamente che, a fronte della regola generale (comma 1) per cui alle città metropolitane sono attribuiti il sistema finanziario ed il patrimonio delle province in esse «assorbite», la previsione di un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri per l'attribuzione delle fonti di entrata (comma 2) sembra lasciar intendere che, in realtà, non vi debba poi essere necessaria coincidenza tra queste e quelle che spettavano alle Province assorbite. Non si comprende, poi, la disposizione riferita all'imposta sulle emissioni sonore (comma 2-bis lettera c). Questa, a rigore, dovrebbe essere e restare un tributo regionale (peraltro proprio, ai sensi dell'articolo 7 del testo in commento): ebbene, qui si prevede che con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri sarà altresì attribuita alle città metropolitane «la facoltà di istituire», tra l'altro, proprio l'imposta sull'emissioni sonore, ma solo nel caso in cui la regione non l'abbia soppressa e, soprattutto, «ne abbia deliberata l'attribuzione del gettito alla città metropolitana». S'ipotizza, insomma, che un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri possa trasformare in tributo proprio un tributo regionale di cui la regione ha deliberato l'attribuzione di gettito alla città metropolitana. Sennonché, se si tratta di tributo regionale, è coerente ipotizzare che vada riservato alla Regione la scelta se attribuire alla città metropolitana il solo gettito ovvero l'intera imposta. Soluzione, questa, che s'impone anche alla stregua della legge delega che, si ricorda, all'articolo 12, lettera g), recita, testualmente, «previsione che le regioni, nell'ambito dei propri poteri legislativi in materia tributaria, possano istituire nuovi tributi dei comuni, delle province e delle città metropolitane nel proprio territorio, specificando gli ambiti di autonomia riconosciuti agli enti locali, nonché dello stesso testo in discussione che, all'articolo 25, recepisce letteralmente la formula della delega testé riportata.
in particolare:
assumendo che le regioni di riferimento siano realmente quelle che garantiscono i Lea in condizioni di appropriatezza e con i costi più bassi, il riproporzionamento finale dei fabbisogni

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regionali al finanziamento nazionale predeterminato all'inizio del processo determinerà un surplus di risorse a disposizione di alcune regioni, e segnatamente di una o più tra quelle prese a riferimento, ciò che comporterà sicuramente un incremento della spesa in queste regioni - e tale aumento si consoliderebbe vieppiù con l'ampliamento del numero di quelle prese a riferimento - e l'indebolirsi della spinta all'efficienza che si vorrebbe imprimere: sarebbe opportuno introdurre, onde arginare la conseguenza indicata, che, al termine della procedura per il riproporzionamento finale dei fabbisogni regionali, per nessuna delle regioni prese a riferimento possa prodursi un incrementato del suo livello di spesa;
con riguardo alla salvaguardia del livello della pressione fiscale nazionale - che lo schema di decreto in esame formula in maniera ambigua e contraddittoria - sarebbe opportuno prevedere che l'autonomia impositiva regionale sia subordinata al parametro oggettivo formulato dall'Istat, concernente la pressione fiscale nazionale, da integrarsi alle indicazioni contenute nel Documento di Finanza pubblica - già dotato di valore normativo vigente, così come disciplinato dalla nuova legge di contabilità; il fine dovrebbe essere quello di impedire qualunque modifica al rialzo di aliquote da parte delle Regioni in assenza della certificazione da parte dell'Istat di una riduzione della pressione fiscale nazionale: l'accoglimento di tale previsione è dirimente ai fini della valutazione del provvedimento nel suo complesso;
in ordine alla perdurante violazione della norma di cui all'articolo 14 del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 - la quale prevede che in sede di attuazione della legge n. 42 del 2010 in materia di federalismo fiscale non si tenga conto di quanto previsto in materia di riduzioni dei trasferimenti - si osserva che lo spirito dell'attuazione del federalismo fiscale sia determinato dalla malcelata volontà di far ricadere sugli enti territoriali oneri e responsabilità che sono tutte del Governo centrale, con la conseguenza di far ricadere il recupero dei tagli e l'equilibrio dei bilanci sulle spalle dei cittadini e dei contribuenti, in termini di servizi e di diritti;
in definitiva, in ordine alle rilevanti perplessità dettagliatamente elencate, in ordine alla sua compatibilità costituzionale, normativa e finanziaria,
esprime

PARERE CONTRARIO.

«Borghesi, Cambursano».

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ALLEGATO 5

Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario (Atto n. 317).

PROPOSTA DI PARERE APPROVATA

»La V Commissione bilancio, tesoro e programmazione,
esaminato lo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario, trasmesso ai sensi dell'articolo 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42 (atto n. 317),
nel presupposto che, in sede di applicazione dell'articolo 9, comma 6, sia garantito l'allineamento quantitativo e temporale tra le esigenze finanziarie derivanti dai compiti affidati alla Sose S.p.A e l'autorizzazione di spesa di cui all'articolo 1, comma 23, della legge n. 220 del 2010;
preso atto del parere approvato dalla Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale nella seduta del 24 marzo 2011, con l'avviso favorevole del Governo;
esprime, sul testo del provvedimento risultante dal recepimento del richiamato parere della Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale,

PARERE FAVOREVOLE

con le seguenti osservazioni:
valuti il Governo l'opportunità di precisare all'articolo 9, comma 6 che è compito della Sose S.p.A effettuare una ricognizione delle prestazioni attinenti ai livelli essenziali che le Regioni a statuto ordinario effettivamente garantiscono e dei relativi costi;
valuti il Governo l'opportunità di precisare, all'articolo 11, comma 5, che, con riferimento alle spese relative ai livelli essenziali delle prestazioni in materie diverse dalla sanità, il parametro della spesa storica deve intendersi rapportato esclusivamente alla spesa erariale per le predette prestazioni e, quindi, ai trasferimenti statali soppressi. Tale precisazione dovrebbe riguardare anche il finanziamento nel primo anno delle funzioni non essenziali;
valuti il Governo l'opportunità di precisare che la disposizione di cui all'articolo 24-ter, comma 3, non ha effetti retroattivi e che si applica solo ai trasferimenti di funzioni amministrative disposti in data successiva alla data di entrata in vigore del decreto legislativo;
valuti il Governo l'opportunità di precisare all'articolo 24-octies, comma 2, il numero dell'unità del contingente preposto alla specifica struttura di segreteria della Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica, al fine di escludere che tale contingente assuma dimensioni tali da determinare problemi di funzionalità per le amministrazione di provenienza del relativo personale;
valuti il Governo se dall'applicazione del comma 3, dell'articolo 26-bis, non derivino effetti finanziari negativi a carico

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della finanza pubblica, non valutati con riferimento alle risorse del Fondo di cui all'articolo 1, comma 29, della legge 13 dicembre 2010, n. 220, per i quali occorra, in tale ipotesi, provvedere un'apposita compensazione;
valuti il Governo l'opportunità di prevedere anche per le province e i comuni un meccanismo atto ad assicurare il reintegro delle riduzioni dei trasferimenti disposte ai sensi del decreto-legge n. 78 del 2010.»