CAMERA DEI DEPUTATI
Mercoledì 14 gennaio 2009
121.
XVI LEGISLATURA
BOLLETTINO
DELLE GIUNTE E DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI
Giunta per le autorizzazioni
ALLEGATO
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ALLEGATO

Discussione sui criteri generali di applicazione dell'insindacabilità parlamentare (14 gennaio 2009)

RELAZIONE

1. Premessa.

Nella seduta della Giunta dell'11 giugno 2008, la Giunta per le autorizzazioni ha preso atto della sollecitazione proveniente dall'ufficio di presidenza della Camera a una riflessione generale sui criteri di applicabilità dell'articolo 68, primo comma, della Costituzione.
Tale sollecitazione - pervenuta alla Giunta per il tramite del Presidente della Camera - afferisce alle competenze dell'ufficio di presidenza in quanto organo che delibera di proporre all'Assemblea che la Camera stessa resista attivamente nei giudizi per conflitto d'attribuzione promossi dalla magistratura.
È noto infatti che, a partire dalla sentenza n. 1150 del 1988 (e oggi anche in base all'articolo 3, commi 4 e 7, della legge n. 140 del 2003), a decidere in prima battuta sulla sussistenza della scriminante riconducibile al combinato disposto dell'articolo 51 codice penale e 68, primo comma, Cost. non è il giudice bensì il ramo d'appartenenza del parlamentare interessato, con una deliberazione assunta dall'Assemblea su proposta della giunta per le immunità.
Il giudice procedente deve adeguarsi alla decisione parlamentare: se questa è nel senso della sindacabilità, può procedere nel giudizio ed eventualmente tenere il parlamentare responsabile con la sua pronuncia; se la delibera parlamentare è nel senso dell'insindacabilità (se cioè la Camera abbia stabilito che la condotta oggetto di contestazione è stata posta in essere nell'esercizio delle funzioni parlamentari), dovrà conformarvisi e una sentenza che affermi la responsabilità civile o penale gli sarà preclusa.
Ove lo ritenga potrà però elevare un conflitto tra poteri ai sensi dell'articolo 134 Cost. e dell'articolo 37 della l. n. 87 del 1953.
È dunque dall'angolo visuale dei casi su cui è stato elevato conflitto che l'ufficio di presidenza ha dovuto constatare il frequente ripetersi della levata del conflitto tra poteri e della correlativa necessità di decidere se la Camera debba costituirsi nel relativo giudizio.
Per la verità, già nella XIV legislatura l'ufficio di presidenza aveva chiesto alla Giunta un approfondimento, richiesta trasmessa con lettera del Presidente Casini del 12 febbraio 2002. La riflessione della Giunta fu assai ricca di spunti e si articolò su due versanti: quello dei criteri applicativi dell'articolo 68, primo comma, Cost. e quello dei criteri per stabilire l'opportunità di costituirsi in giudizio una volta elevato conflitto da parte della magistratura.
Nel complesso, tuttavia, quel lavoro non raggiunse il suo scopo perché mancò un approdo condiviso, rimanendo i membri separati sul nodo centrale della questione: che cosa dovesse intendersi con «connessione con il mandato parlamentare», vale a dire il concetto sulla base del quale la Corte costituzionale distingue le condotte scriminate da quelle non.
Mentre taluni deputati ritenevano chiaramente ragionevole la criteriazione offerta dalla Corte, altri invece ritenevano non possibile a priori una distinzione dei comportamenti dei deputati tra funzionali

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e non. Molti membri della Giunta, inoltre, confidavano che una soluzione sarebbe comunque venuta da due novità normative: 1) una legge ordinaria di attuazione dell'articolo 68 della Costituzione; 2) l'attuazione del disposto dell'articolo 18 del Regolamento della Camera che prevede l'approvazione di un regolamento interno della Giunta.
Orbene, quella fiducia si rivelò mal riposta: per un verso la legge di attuazione dell'articolo 68 Cost. (n. 140 del 2003) non risolse i problemi applicativi, visto che l'articolo 3, comma 1, ripropone sic et simpliciter il concetto della connessione funzionale (né poteva essere diversamente, come ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza n. 120 del 2004); per l'altro, una bozza di regolamento interno della Giunta (recante - per vero - alcune soluzioni apprezzabili e innovative) fu approvato nell'ottobre 2002 e trasmesso alla Giunta per il regolamento, ma quest'ultima non ha ritenuto di concluderne l'esame.
Nella XV legislatura (sotto la presidenza del deputato Carlo Giovanardi), invece, si è avuto un lavoro istruttorio che si è concluso con l'elaborazione di un documento approvato all'unanimità il 18 aprile 2007 i cui contenuti in questa sede si ritengono di poter assumere come ancora validi, pur a seguito di quanto si dirà appresso.

2. Impostazione del problema e dati statistici.

Per capire i termini e le dimensioni del problema occorre partire dal tema di fondo del dibattito e della polemica politica: oggi questi si svolgono essenzialmente sul teatro mediatico giacché è con i mezzi di comunicazione di massa che da più di 40 anni si costruisce il consenso (perlomeno quello c.d. d'opinione, se non anche quello c.d. d'interesse). È attraverso i giornali, la radio, la televisione e internet che le forze politiche e le singole personalità fanno conoscere a cittadini ed elettori le loro idee, proposte, posizioni, azioni istituzionali e non. I luoghi fisici delle assemblee elettive (parlamentari e non) sono essenziali per le procedure e le decisioni formalmente vincolanti e ascrivibili alle rispettive istituzioni ma spesso (non solo in Italia) sono uno tra i diversi teatri del dibattito politico.
Si tratta di comprendere se in questo contesto (definito dal sociologo francese Armand Mattelart la «comunicazione mondo») i parlamentari debbano godere di una garanzia aggiuntiva rispetto ai comuni cittadini (vale a dire quella di non doversi difendere davanti al giudice da contestazioni di lesa reputazione di terzi) e - se sì - perché e in che misura.
Negli ultimi anni, i dati numerici suggeriscono che le Camere ritengono che tale garanzia aggiuntiva debba essere consistente. Nella XIII legislatura, la Camera dei deputati ha deliberato in materia d'insindacabilità su 243 casi giudiziari, concedendo solo 24 sindacabilità; nella XIV ha deliberato in materia d'insindacabilità su 118 casi, concedendo solo 1 sindacabilità; nella XV ha deliberato in materia d'insindacabilità in 25 casi, decidendo per la sindacabilità in 3 casi.
Le controversie giudiziarie ordinarie rispetto alle quali è intervenuta una deliberazione d'insindacabilità nella maggioranza dei casi (circa il 50 per cento) hanno visto opposti ai parlamentari soggetti appartenenti alla magistratura. Per la quota restante di casi le controparti sono state in genere altre persone esercenti pubblici uffici (carabinieri, segretari comunali, testimoni, periti e altri), soggetti dell'imprenditoria pubblica e privata (banche, imprese manifatturiere e di servizi, amministratori di società), dell'università (per esempio architetti, medici, storici dell'arte), giornalisti e altri politici, di livello sia nazionale (altri parlamentari, sindacalisti) sia locale (sindaci e assessori di enti locali). È tuttavia accaduto anche che la deliberazione d'insindacabilità non fosse riferita a processi per ingiuria o diffamazione ma per altri reati: in questi casi è più difficoltoso ascrivere una controparte a una classe precisa di soggetti.
D'altro lato, in termini relativi, una quota molto significativa di deliberazioni è

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stata adottata in relazione a Vittorio Sgarbi e ad alcune altre personalità parlamentari che hanno trovato maggiori opportunità di accesso ai mezzi di comunicazione.
Dal 1996 a oggi l'autorità giudiziaria ha elevato nei confronti della Camera 127 conflitti d'attribuzione (in tale somma si calcolano solo i conflitti che - notificati alla Camera - abbiano visto quest'ultima quantomeno sollecitata al contraddittorio e che abbiano avuto un esito decisorio).
La Corte costituzionale ne ha decisi 124.
Di questi ultimi, 65 sono stati oggetto di un esame di merito.
Negli altri 59 la Corte si è pronunciata definendo in punto di procedura la controversia, ora dichiarando inammissibile l'atto introduttivo del conflitto per vizi di stesura o insufficiente identificazione del suo contenuto; ora dichiarando la lite improcedibile per mancato rispetto dei termini processuali. In tali casi - fatta eccezione per 2 circostanze - la Corte non ha 'dato ragione' alla Camera ma ha tuttavia lasciato che gli effetti della deliberazione d'insindacabilità si consolidassero.
Dei 65 casi decisi nel merito, viceversa, la Corte ne ha decisi solo 11 favorevolmente alla Camera, mentre in 54 occasioni ha stabilito che la Camera stessa aveva errato nel deliberare per l'insindacabilità, pervenendo ad annullare la deliberazione parlamentare. Il primo annullamento è avvenuto con la sentenza n. 289 del 1998; l'ultimo in ordine di tempo con la recente sentenza n. 410 del 2008.
Il Senato della Repubblica ha seguito una traiettoria simile nell'interpretazione normativa, anche se non nel dato statistico. Le prime sentenze in materia (proprio la citata 1150 del 1988 e poi la 443 del 1993 e la 375 del 1997) inerivano a deliberazioni del Senato impugnate dalla magistratura e non si sono concluse con annullamenti. Tuttavia - a partire dal 2002 - anche quel ramo del Parlamento registra ripetuti esiti negativi innanzi alla Corte costituzionale (v. da ultimo la sentenza n. 330 del 2008).
Quando sono stati elevati conflitti d'attribuzione, le Camere hanno sinora generalmente deliberato di costituirsi in giudizio a difesa delle relative decisioni. Presso questo ramo del Parlamento si sono però avute tre significative eccezioni (cfr. le sedute dell'Assemblea del 16 novembre 2006, del 5 luglio e del 26 settembre 2007).
La Corte costituzionale - come è ovvio - non ha privilegiato una parte politica nelle sue decisioni: gli annullamenti hanno interessato parlamentari sia di centro-sinistra sia di centro-destra. Accanto alle note pronunce sugli onorevoli Bossi, Previti e Sgarbi compaiono quelle in confronto degli onorevoli Boato, Mussi e Vendola.
In sostanza e in conclusione, si è assistito negli ultimi 12 anni a un numero assai elevato di deliberazioni d'insindacabilità che rischia d'essere vissuto dalle parti private offese quale tentativo di interpretare le immunità parlamentari come una sorta di privilegio di 'casta', contrastante con gli articoli 3 e 111 della Costituzione che prevedono il principio di uguaglianza e quello al giusto processo. E la Corte costituzionale, specie a partire dalle sentenze 10 e 11 del 2000, ha condiviso questa preoccupazione.
Analoga propensione a ribadire il principio per cui le garanzie parlamentari non possono contrastare con il diritto del singolo a un giusto processo è stata mostrata con nettezza dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale è stata adita con ricorsi di singoli cittadini italiani per violazione dell'articolo 6 della CEDU.
Tale ultima disposizione prevede che ciascun cittadino degli Stati sottoscrittori della Convenzione ha diritto a un processo equo innanzi a un giudice terzo ed entro tempi ragionevoli.
La Corte europea dei diritti dell'uomo ha stabilito in 5 casi su 5 dal 2002 a oggi che l'Italia - per l'applicazione data agli istituti dell'immunità parlamentare - ha compresso e sacrificato in modo non ragionevole l'accesso al giudice da parte di quanti si sono sentiti lesi nell'onore.
A tale ultimo proposito, occorre anzi menzionare che una recente giurisprudenza

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della Corte costituzionale italiana conferisce speciale valore alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo.
È noto che l'articolo 117, primo comma, della Costituzione prevede che il legislatore nazionale - e con lui il giudice che applica le leggi - è astretto dal rispetto non solo della Costituzione ma anche dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Questi ultimi consistono in impegni che lo Stato ha assunto sul piano delle relazioni estere con la sottoscrizione di trattati internazionali con altri Paesi sovrani.
Tra questi trattati - e quindi tra i relativi vincoli - occorre certamente annoverare la Convenzione europea dei diritti e la giurisprudenza applicativa di essa che promana dalla Corte di Strasburgo.
Secondo la Corte costituzionale italiana, allora (v. le sentenze nn. 348 e 349 del 2007), leggi nazionali la cui lettera o la cui interpretazione nel diritto vivente contrastassero con la Convenzione sono illegittime costituzionalmente per contrasto con l'articolo 117, primo comma, della Costituzione, che assume valore di parametro costituzionale interposto (similmente alle leggi delega rispetto ai decreti delegati ai sensi dell'articolo 76 della Costituzione).
Ne deriva che, se sono incostituzionali addirittura le leggi del Parlamento approvate in contrasto con i consolidati orientamenti interpretativi della Convenzione, a maggior ragione lo saranno delibere parlamentari in materia di insindacabilità che trascurassero completamente le esigenze di giusto processo, imparzialità del giudice e ragionevole durata del processo.

3. Riferimenti comparati.

Pur non essendo escluso che la Giunta possa nella legislatura in corso condurre attività conoscitiva su altri ordinamenti, essa si può già da ora avvalere del lavoro svolto da quella della XIV legislatura.
Il collegio, presieduto allora dall'on. Vincenzo Siniscalchi, ha svolto quattro importanti visite all'estero (Madrid, Parigi, Bruxelles per il Parlamento europeo e Washington) e organizzato un convegno internazionale cui hanno contribuito personalità dalla Spagna, da Israele e dagli Stati Uniti.
A parte i riferimenti normativi specifici (che sono agevolmente accessibili nei resoconti parlamentari e nel volume pubblicato dalla Camera dei deputati che raccoglie gli atti del predetto convegno), la generale conclusione che si può trarre è che la latitudine applicativa della regola dell'insindacabilità parlamentare nota in Italia è invece sconosciuta all'estero.
In particolare, in Spagna vige una regola giurisprudenziale molto severa, fissata dal Tribunal constitucional, per cui il parlamentare gode dell'insindacabilità (inviolabilidad) solo in presenza di un chiaro e stretto nesso funzionale della condotta contestata in giudizio con il mandato elettivo. Sulle cause civili decide comunque il giudice ordinario. Su quelle penali, il Congreso e il Senado possono interloquire concedendo o negando l'autorizzazione a procedere. Ma negli ultimi due decenni hanno negato l'autorizzazione solo in rarissime occasioni.
Ugualmente in Francia, il Conseil constitutionnel è orientato in senso restrittivo e ha anche dichiarato illegittima una legge ordinaria volta ad ampliare l'ambito applicativo dell'insindacabilità.
La Corte Suprema degli Stati Uniti - se possibile - è ancora più rigorosa: fermo restando che sono comunque le corti ad applicare concretamente la prerogativa, la Corte Suprema considera applicabile la regola della non responsabilità dei parlamentari solo per gli atti connessi alla funzione legislativa e non a tutti quelli connessi alle restanti funzioni parlamentari.
Più elastica appare la prassi della Knesset israeliana che generalmente - attraverso l'istituto dell'autorizzazione a procedere penalmente - tenta di offrire ai parlamentari uno scudo maggiore per le espressioni offensive di terzi. Ma deve anche qui fare i conti con una Corte Suprema molto «interventista».

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È opportuno, tuttavia, sottolineare che negli ordinamenti citati appare sussistere un costume nel dibattito politico per cui le personalità pubbliche e quanti rivestono cariche istituzionali non ricorrono mai (o quasi mai) alla magistratura per tutelare il proprio onore. Il concetto anglosassone di public figure (la persona che ha conquistato notorietà ed è dunque esposta alla valutazione dell'opinione pubblica) reca anche la generalizzata convinzione che il diritto di libera manifestazione della critica si può sviluppare quasi senza limiti nei confronti del titolare della carica.
Ad esempio, proprio nella campagna elettorale del 2006 per le mid-term elections negli Stati Uniti, la senatrice Clinton è stata accusata dal suo avversario di aver speso milioni di dollari per interventi di chirurgia estetica, ciò che l'avrebbe resa più gradevole allo sguardo oggi di quanto non fosse da giovane (ragione per cui peraltro il candidato repubblicano si è detto sorpreso che Bill Clinton l'abbia sposata). Orbene, non risulta che Hillary Clinton si sia rivolta al giudice per ottenere un risarcimento per tali ingiuriose dichiarazioni. Né risulta che siano preannunziati strascichi giudiziari per le reciproche e pesanti accuse che i candidati nelle elezioni presidenziali del 2008 si sono scambiati.

4. Ricognizione sul diritto di critica.

Sul piano definitorio, la critica è l'attività con cui si sottopongono a valutazione e giudizio la condotta, l'opera e l'idea altrui. Da sempre esiste la critica letteraria, teatrale, artistica. In democrazia sono coessenziali all'ordinamento il dissenso e dunque la critica politica, storica e scientifica. Questo è il senso dell'articolo 21 della Costituzione italiana, simile nello scopo - anche se con una formulazione più sofisticata - al I emendamento della Costituzione americana e all'articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
La satira è la sottospecie di critica che ne condivide i limiti giuridici e consiste nella raffigurazione caricaturale e paradossale della realtà che mira a suscitare nel fruitore del messaggio il gusto ironico e l'ilarità in modo da sdrammatizzare gli eventi e di umanizzare quanti sono percepiti ordinariamente come «potenti».
I titolari del diritto di critica sono tutti, anche se i più assidui fruitori di tale diritto sono quanti hanno più facile accesso ai mezzi di comunicazione di massa. Destinatario della critica è chi con un proprio comportamento si espone pubblicamente all'altrui considerazione. In questo senso i destinatari privilegiati dell'attività critica sono le personalità pubbliche, del mondo sia politico, sia imprenditoriale, sia del costume.
A limitare l'ampiezza del diritto di critica sta il diritto alla riservatezza, sicché l'argomento cui la critica si riferisce deve essere un tema di interesse pubblico, giacché non sarebbe di regola legittimo criticare taluno - pur noto al grande pubblico - per aspetti della sua vita privata o intima che non sono stati volontariamente esibiti. Restano però punibili le espressioni inutilmente volgari, umilianti o dileggianti.
Quando - come accade assai di frequente - alla critica si premette una narrazione dei fatti che si intendono criticare, è necessario che quei fatti siano riportati secondo le regole del diritto di cronaca, vale a dire che essi siano veri, di pubblico interesse e correttamente esposti.
I modi della critica devono essere - secondo la giurisprudenza italiana - corretti e proporzionati. I toni sono corretti quando sono comunque privi di contumelie fini a se stesse e di meri epiteti rivolti alla persona per il solo fatto della sua esistenza. Non può trovare applicazione la scriminante del diritto di critica quando l'agente trasmodi in aggressioni gratuite, non pertinenti ai temi in discussione ed integranti invece l'utilizzo dell'argumentum ad hominem, intesi a screditare l'avversario mediante l'evocazione di una sua pretesa indegnità o inadeguatezza personale anziché mediante la critica delle azioni. I modi sono proporzionati quando sono motivati da specifici elementi nella condotta e nelle affermazioni del soggetto criticato e non sono

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quindi gratuiti e debordanti rispetto allo scopo stesso dell'opinione espressa dall'autore della critica.
Gli standards di tollerabilità nell'espressione critica - secondo la giurisprudenza italiana - variano da settore a settore: mentre è comunemente accettato che la polemica politica, specie in periodo elettorale, possa attingere a toni assai marcati e coloriti, è di comune opinione che il linguaggio nel dibattito scientifico debba attenersi a criteri più corretti e rispettosi.

5. Prospettive sull'insindacabilità.

Il dibattito presso la Giunta nella XVI legislatura si è sviluppato sull'arco di alcune sedute e vi hanno partecipato diversi componenti, ciascuno offrendo preziosi spunti di riflessione e di esperienza. Dalla generalità degli interventi è rimasto confermato che nella presente riflessione si confrontano due esigenze:
1) quella di assecondare la naturale predisposizione della politica e dei suoi esponenti parlamentari a fruire nel modo più libero e pieno della scena mediatica (e quindi di sottrarsi in qualche misura alla criteriazione giurisprudenziale appena illustrata);
2) quella di evitare che l'applicazione concreta della regola dell'insindacabilità si trasformi in un privilegio personale, che produca proprio sul terreno mediatico un'odiosa disuguaglianza.

Quest'ultima potrebbe essere simboleggiata dalla situazione «tipo» della campagna elettorale, in cui un candidato sia già deputato e l'avversario no, ciò che nel sistema americano si realizza nel confronto tra l'incumbent (il titolare in carica) e il challenger (lo sfidante): si potrebbe infatti verificare che l'incumbent offenda - protetto dalla prerogativa immunitaria - il challenger e che invece il challenger - temendo il rischio di un processo - non possa replicare all'incumbent.
Si può, in proposito, osservare che la facilità e la dilatazione dell'applicazione dell'articolo 68, primo comma, Cost. finisce per far coincidere l'universo della politica con quello del Parlamento, disconoscendo in definitiva di quest'ultimo le specificità di sovranità e rappresentanza, quasi che essere o meno membro di una Camera sia indifferente agli effetti dell'attività politica stessa.
D'altro canto, il bilanciamento di interessi è stato trovato dalla Corte costituzionale su un terreno assai formalistico (con una compressione forse eccessiva di quello sub 1).
La Corte costituzionale infatti considera insindacabili gli atti tipici dell'attività parlamentare. Quelli invece svolti extra moenia, sono ritenuti insindacabili solo se e nella misura in cui siano fedele riproduzione all'esterno, e dunque divulgazione e rappresentazione, dei contenuti di attività parlamentari tipiche (proposte di legge, atti di sindacato ispettivo, interventi nelle varie sedi parlamentari, eccetera: per esempio sentenze nn. 10, 11, 56, 58, 82, 320, 321 e 420 del 2000; nn. 137 e 289 del 2001; nn. 50, 51, 52, 79, 207, 257, 283, 294 e 521 del 2002; nn. 219 e 379 del 2003 nonché 246, 347 e 348 del 2004 nonché 28 e 176 del 2005 e 331 e 335 del 2006). Questo tipo di approccio ha il pregio della certezza del riscontro ma appare davvero troppo formale e schematico. Né del resto è apparsa accettabile alla Giunta l'ulteriore curvatura restrittiva presente in alcune recenti sentenze (in particolare la n. 65 del 2007) secondo le quali - per riconoscere l'insindacabilità - non basterebbe più la corrispondenza sostanziale di contenuti tra atti parlamentari propriamente detti e dichiarazioni extra moenia, ma occorrerebbe una vicinanza cronologica tra i primi e le seconde.
In proposito si ritiene che occorra partire dal dato normativo contenuto nell'articolo 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003 secondo il quale l'insindacabilità vale in ogni caso per la presentazione di proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni e risoluzioni, interpellanze e interrogazioni, interventi nelle Assemblee e negli altri organi delle Camere, per qualsiasi espressione di voto comunque formulata e per ogni altro atto parlamentare

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e ogni attività di ispezione, divulgazione, critica e denuncia politica connessa alla funzione parlamentare, espletata anche fuori dal Parlamento.
Sicché, anche a seguito delle valutazioni espresse nella discussione avutasi nella XVI legislatura, si ritiene che ai parlamentari dovrebbe essere consentito di esternare le proprie opinioni con maggiore efficacia, incisività e puntualità, per rispondere meglio alle esigenze della moderna comunicazione politica, al riparo dal sindacato giurisdizionale, senza essere costretti al previo esercizio di attività parlamentare tipica che assumerebbe altrimenti una funzione meramente strumentale e intaserebbe il lavoro parlamentare, già intenso.
A quest'ultimo proposito appare doversi anche specificare che l'ambito d'applicazione dell'articolo 68, primo comma, della Costituzione inevitabilmente deve considerarsi in parte sovrapposto a quello dell'articolo 49 della Carta fondamentale. Quest'ultimo, come noto, reca: «Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
Per unanime dottrina l'associazione partitica, sebbene non esaustiva delle forme associative del Paese (tutte riconducibili all'articolo 18 della Costituzione), rappresenti la forma privilegiata del concorso popolare e partecipativo alla vita del Paese.
La Corte costituzionale, nella sua costante giurisprudenza, ha sì negato il rilievo dei partiti quali veri e propri poteri dello Stato (sentenza n. 79 del 2006) ma ha anche affermato il nesso stretto che esiste tra l'attività parlamentare e quella interna ai partiti (sentenza n. 58 del 2004).
L'autonomia del Parlamento - dunque - e delle sue articolazioni, quali innanzitutto i gruppi parlamentari, trova alimento e protezione nell'articolo 68 della Costituzione anche in collegamento con il predetto articolo 49. Non si spiegherebbe altrimenti perché gli articoli 72, terzo comma, e 82, secondo comma, della Carta costituzionale facciano riferimento alle proporzioni tra i gruppi rappresentati in Parlamento così mostrando di considerare essenziale per la composizione e la funzione rappresentativa del Parlamento stesso la pluralità dei partiti.
Se tanto è vero, ne deve conseguire che la proiezione esterna dell'attività funzionale al mandato elettivo vive e si materializza anche nella vita dei partiti. Sono questi che redigono le liste per le elezioni della Camera e del Senato; essi ricevono finanziamenti pubblici sotto forma di rimborsi elettorali; essi possono essere responsabili della stampa di quotidiani e periodici finanziati col concorso dello Stato.
D'altronde, la misura dei rimborsi elettorali viene decisa dall'ufficio di presidenza della Camera dei deputati e dal Consiglio di Presidenza del Senato e le certificazioni sulle dichiarazioni dell'esistenza del vincolo tra gruppo parlamentare e stampa di partito promanano proprio dai Segretari generali delle Camere.
Per questi motivi si ritiene che la Giunta debba adottare un criterio per cui anche le attività interne di partito, ove collegate con l'attività parlamentare, rientrino nella guarentigia dell'insindacabilità parlamentare.

6. Segue: la correttezza degli interventi. Conclusioni.

L'esigenza di una consistente libertà espressiva evidentemente deve trovare un limite.
Questo può essere rappresentato dal rispetto dell'insieme dei principi desumibili da svariate regole vigenti all'interno delle Camere.
È noto al riguardo che gli articoli 59, 89 e 139-bis del Regolamento della Camera vietano che i membri dell'Assemblea usino negli atti parlamentari toni e vocaboli sconvenienti e offensivi per terzi, rimettendo al Presidente della Camera e ai presidenti di commissione il compito di far rispettare tale divieto, attraverso il richiamo all'ordine. I richiami all'ordine sono assai frequenti e una rassegna meramente

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esemplificativa è contenuta nella relazione approvata dalla Giunta della scorsa legislatura.
È altresì noto che quando un deputato si senta intaccato nella propria persona può prendere la parola per fatto personale (articolo 42 r. C.); e se è accusato durante i lavori della Camera di fatti determinati che ritiene falsi e offensivi può chiedere l'istituzione di un Giurì d'onore (articolo 58 r. C.).
Ancora: l'articolo 60 prevede - quale sanzione per comportamenti irrispettosi di altri parlamentari o membri del Governo - l'esclusione dall'aula e la proposta all'ufficio di presidenza di una censura con interdizione temporanea dai futuri lavori dell'Assemblea.
Norme analoghe sono contenute nel regolamento del Senato (cfr. articoli 66, 87, 88 e 146).
In questo contesto, si constata dunque un tessuto normativo che testimonia l'esistenza di un principio generale per cui l'esercizio della funzione parlamentare necessita di forme corrette. Al riguardo, si consideri anche il «Parere sullo svolgimento di richiami al regolamento o per l'ordine dei lavori e sull'osservanza dei limiti di correttezza negli interventi», approvato all'unanimità dalla Giunta per il regolamento della Camera in esito alla seduta del 24 ottobre 1996.
Al punto 4 di tale Parere, si legge precisamente che «la particolare tutela che l'articolo 68 della Costituzione accorda alla libertà di espressione dei parlamentari è fondamentale guarentigia di indipendenza nell'esercizio della rappresentanza politica. L'ampiezza di tale prerogativa richiede tuttavia un vigile senso di responsabilità da parte di coloro che ne sono titolari, affinché essa non si trasformi in arbitrario strumento per ledere diritti e posizioni soggettive, di persone fisiche e giuridiche come di organi dello Stato, parimenti garantiti da norme di rango costituzionale».
Questa considerazione generale, riferita a tutti i parlamentari, porta poi come conseguenza che sia - come il Parere prosegue - «dovere della Presidenza garantire nei dibattiti parlamentari il pieno svolgimento della libertà di manifestazione del pensiero e del diritto di critica e di denunzia politica. Allo stesso modo, la Presidenza dovrà assicurare che tali fondamentali diritti siano esercitati nella forma adeguata al ruolo costituzionale del Parlamento e alle normali regole di correttezza parlamentare. Tale regola generale dev'essere fatta valere con particolare rigore a tutela dei soggetti esterni che, non essendo parlamentari, non possono avvalersi del diritto di replica né degli strumenti offerti dall'articolo 58 del regolamento ai deputati i quali, nel corso di una discussione, siano accusati di fatti che ledano la loro onorabilità. Di conseguenza, in considerazione del valore che riveste ogni dichiarazione pronunziata nelle sedi formali del dibattito parlamentare, sia nel rapporto fra la Camera e altri organi costituzionali, sia negli effetti sulla sfera personale dei singoli, è dovere della Presidenza assicurare che la libera manifestazione del pensiero e della critica non vada mai disgiunta dall'impiego dei modi corretti e delle forme appropriate al linguaggio parlamentare, e non abbia quindi a trascendere nella diffamazione personale o nel vilipendio di organi dello Stato. Essa richiamerà quindi, a norma dell'articolo 59, comma 2, del regolamento, i deputati che pronunzino parole sconvenienti, tali intendendosi anche le espressioni ingiuriose e le insinuazioni atte ad offendere, a recare discredito o comunque a ledere persone o istituzioni».
In conclusione, gli stessi regolamenti parlamentari e la relativa prassi di attuazione contengono norme volte a disciplinare le forme espressive del mandato parlamentare. Appare dunque evidente che l'esercizio delle funzioni rappresentative non può assumere extra moenia forme lessicali più disinvolte, licenziose e aspre di quelle consentite intra moenia.
Al riguardo, vale la pena riportare quanto affermato dal Segretario di Presidenza Valentina Aprea in una riunione di tale organo: «Scegliere di fare politica in Parlamento significa accettare di condurre le proprie battaglie con strumenti parlamentari.

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All'interno della Camera il confronto politico, anche aspro, deve avvenire secondo regole che tributino all'Istituzione il rispetto che merita» (Cfr. il resoconto della riunione del 15 novembre 2006, in Bollettino degli organi collegiali, XV, n. 6, pag. 11).
Sicché la Giunta e l'Assemblea potrebbero adottare il criterio per cui le affermazioni e le dichiarazioni a stampa di carattere politico-parlamentare rese da un deputato sono in sé generalmente collegate alla funzione, purché non debordino nell'insulto o nell'espressione che non sarebbe consentita nelle formali sedi della Camera.
Non possono considerarsi collegabili alla funzione parlamentare le dichiarazioni pertinenti all'attività privata o professionale del deputato interessato né possono esserlo le attribuzioni di fatti determinati oggettivamente diffamatori e indimostrati. Risulta così sindacabile non già la manifestazione di pensiero politico ma la sua espressione debordante ed eccessiva.
Questi criteri consentirebbero ai parlamentari di fruire di un'immediatezza espressiva non necessariamente legata al previo espletamento di un formale passaggio parlamentare; ma anche di preservare la finalità vera dell'insindacabilità, che consiste nel tutelare i membri delle Camere da iniziative giudiziarie pretestuose e insidiose, portate da centri di potere - pubblici o privati - contro il singolo volte a condizionarlo o a intimorirlo. È chiaro infatti che se il parlamentare usa un linguaggio sconveniente e gratuito, volto solo a dileggiare la figura morale di terzi, l'iniziativa giudiziaria cessa di essere futile o pretestuosa e assume un fondamento reale, anche a tutela dei cittadini terzi.
Resterebbe fermo evidentemente che sono sempre insindacabili le divulgazioni di contenuti di atti parlamentari tipici già svolti e che non lo sono invece i meri comportamenti materiali (percosse, accessi abusivi in luoghi altrui, ricezioni indebite di danaro, formazione di atti falsi, eccetera).
Questi parametri potrebbero essere adottati anche dall'ufficio di presidenza nel decidere se resistere o meno nei giudizi per conflitto instaurati a seguito di ricorso dell'autorità giudiziaria.
Si osserva, infine, che potrebbe giovare all'attività della Giunta la riassunzione dell'iniziativa di adottare il regolamento interno previsto dall'articolo 18 del Regolamento della Camera.