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Resoconto dell'Assemblea

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XVI LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 336 di lunedì 14 giugno 2010

Pag. 1

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE MAURIZIO LUPI

La seduta comincia alle 15.

DONATO LAMORTE, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 7 giugno 2010.
(È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Albonetti, Alessandri, Angelino Alfano, Berlusconi, Bonaiuti, Bossi, Brambilla, Brunetta, Buonfiglio, Carfagna, Casero, Cicchitto, Colucci, Cosentino, Cossiga, Craxi, Crimi, Crosetto, Dal Lago, Delfino, Dozzo, Gianni Farina, Renato Farina, Fassino, Fitto, Franceschini, Frattini, Galati, Gelmini, Alberto Giorgetti, Giancarlo Giorgetti, Giro, La Russa, Leone, Malgieri, Mantovano, Maroni, Martini, Menia, Miccichè, Migliori, Leoluca Orlando, Pianetta, Picchi, Prestigiacomo, Ravetto, Razzi, Reguzzoni, Rigoni, Roccella, Romani, Ronchi, Rotondi, Saglia, Stefani, Tremonti, Urso, Vegas, Vito e Zacchera sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
Pertanto i deputati in missione sono complessivamente sessantadue, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Su lutti dei deputati Mimmo Lucà e Mariastella Gelmini.

PRESIDENTE. Comunico che il collega Mimmo Lucà è stato colpito da un grave lutto: la perdita del padre.
La Presidenza della Camera ha fatto pervenire al collega le espressioni della più sentita partecipazione al suo dolore, che desidero ora rinnovare anche a nome dell'intera Assemblea.
Comunico che la collega Mariastella Gelmini è stata colpita da un grave lutto: la perdita della madre.
La Presidenza della Camera ha fatto pervenire alla collega le espressioni della più sentita partecipazione al suo dolore, che desidero ora rinnovare anche a nome dell'intera Assemblea.

Modifica nella composizione del comitato direttivo di un gruppo parlamentare.

PRESIDENTE. Comunico che il presidente del gruppo parlamentare Partito Democratico ha reso noto, con lettera pervenuta in data 10 giugno 2010, che l'assemblea dei deputati del gruppo medesimo ha provveduto, in data 8 giugno 2010, all'elezione del comitato direttivo che risulta così composto:
Sesa Amici, Pier Paolo Baretta, Teresa Bellanova, Giuseppe Berretta, Francesco Boccia, Luisa Bossa, Gianclaudio Bressa, Giulio Calvisi, Maria Coscia, Cesare Damiano, Donatella Ferranti, Alberto Fluvi, Dario Franceschini, Emanuela Ghizzoni, Roberto Giachetti, Sandro Gozi, Donata Lenzi, Ricardo Franco Levi, Giovanni Lolli, Andrea Lulli, Alessandro Maran, Elisa Marchioni, Raffaella Mariani, Andrea Martella, Michele Pompeo Meta, Pag. 2Anna Margherita Miotto, Carmen Motta, Delia Murer, Nicodemo Nazzareno Oliverio, Caterina Pes, Pina Picierno, Luciano Pizzetti, Barbara Pollastrini, Erminio Angelo Quartiani, Ettore Rosato, Antonio Rugghia, Giovanni Sanga, Giuseppina Servodio, Francesco Tempestini, Mario Tullo, Livia Turco, Guglielmo Vaccaro, Massimo Vannucci, Michele Ventura, Rosa Maria Villecco Calipari e Rodolfo Giuliano Viola.

Discussione del disegno di legge: S. 2171 - Conversione in legge del decreto-legge 10 maggio 2010, n. 67, recante disposizioni urgenti per la salvaguardia della stabilità finanziaria dell'area euro. Ordine di esecuzione dell'accordo denominato «Intercreditor Agreement» e dell'accordo denominato «Loan Facility Agreement» stipulati in data 8 maggio 2010 (Approvato dal Senato) (A.C. 3505) (ore 15,10).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge, già approvato dal Senato: Conversione in legge del decreto-legge 10 maggio 2010, n. 67, recante disposizioni urgenti per la salvaguardia della stabilità finanziaria dell'area euro. Ordine di esecuzione dell'accordo denominato «Intercreditor Agreement» e dell'accordo denominato «Loan Facility Agreement» stipulati in data 8 maggio 2010.

(Discussione sulle linee generali - A.C. 3505)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che i presidente dei gruppi parlamentari Italia dei Valori e Partito Democratico ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
Avverto, altresì, che la V Commissione (Bilancio) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore, onorevole Marinello, ha facoltà di svolgere la relazione.

GIUSEPPE FRANCESCO MARIA MARINELLO, Relatore. Signor Presidente, il decreto-legge in esame ratifica gli accordi raggiunti dai Governi dell'Unione europea l'11 aprile e il 2 maggio 2010, integrati l'8 maggio da ulteriori decisioni, su parere concorde della Commissione europea e della Banca centrale europea, che stabiliscono le modalità di sostegno comunitario alla crisi finanziaria della Grecia.
Nella riunione dell'11 aprile, sono state definite le condizioni economiche dell'erogazione, sulla base delle quali, con la decisione del 2 maggio, l'eurogruppo ha concordato all'unanimità di attivare un programma triennale di prestiti bilaterali alla Grecia.
Il decreto-legge prevede la concessione dei prestiti con atti del Ministero dell'economia e delle finanze, per un importo massimo potenziale di 14,8 miliardi di euro nei tre anni, con una prima tranche di 5,5 miliardi.
Il pacchetto di finanziamenti è accompagnato da significative correzioni di rotta nella gestione della finanza pubblica ellenica, tra tagli di spesa (contenimento degli stipendi dei dipendenti pubblici ed innalzamento dell'età pensionabile) e incrementi di entrate (aumenti di IVA e accise). Il percorso di rientro del deficit è ambizioso: solo per quest'anno la correzione del rapporto deficit/Pil dovrebbe essere di circa 5 punti; dall'attuale 14 per cento il rapporto dovrebbe scendere sotto il 3 per cento nel 2014.
Le risorse sono reperite mediante le emissioni di titoli di Stato a medio-lungo termine, non computati nel livello massimo di ricorso al mercato finanziario. L'ammontare del contributo di ciascun Paese è determinato sulla base della quota di partecipazione al capitale della Banca centrale europea, per l'Italia pari al 18,42 per cento.
Il prestito concesso dall'Unione europea alla Grecia è di 80 miliardi di euro, ai quali si aggiungono 30 miliardi del Fondo monetario internazionale. Pag. 3
In casi di urgenza, il Ministro dell'economia e delle finanze può fare ricorso ad anticipazioni di tesoreria, da coprire successivamente con l'emissione di titoli.
Il tasso di interesse, dedotta la commissione, è pari al 4,5 per cento per i primi 3 anni e al 5,15 negli anni successivi. Questi tassi sono più alti di quelli pagati per i titoli del debito pubblico emessi dal Tesoro; di conseguenza, è istituito un capitolo in entrata nel quale riversare le maggiori risorse.
Alcune considerazioni, comunque, vanno sviluppate. Si è evidenziato un rischio di tenuta dei conti per altri Paesi dell'Unione europea, in particolare Portogallo, Irlanda, Spagna e, secondo taluni analisti e talune ipotesi, anche l'Italia. Assieme alla Grecia, questi Paesi sono stati definiti con un acronimo, PIGS; tra l'altro, è un acronimo che in lingua inglese ha un'assonanza assolutamente poco piacevole.
Se questi Paesi non riuscissero a tamponare la crescita del debito e ad onorare i titoli di debito pubblico, nell'arco di tre anni potrebbero essere costretti a chiedere l'intervento comunitario come la Grecia. Ma il costo sarebbe assai più elevato: secondo alcuni calcoli, credo che non basterebbero 1.300 miliardi di euro, erogati sotto forma di prestito. È legittimo porsi una domanda: riuscirebbe l'Unione europea ad assorbire una crisi di tale portata?
Ecco perché è stato necessario intervenire con due decreti-legge, uno di adesione italiana all'accordo per il salvataggio della Grecia e l'altro contenente una manovra economica correttiva di almeno 24 miliardi di euro.
Si tratta di un decreto-legge atipico, che, in sostanza, non può essere toccato, in quanto recepisce un impegno tra Stati. Il Comitato per la legislazione, la III Commissione affari esteri e la XIV Commissione politiche dell'Unione europea, nei loro pareri, hanno sollevato obiezioni sull'inserimento, al Senato, di un nuovo comma - tra l'altro, derivante da un emendamento governativo - all'articolo unico del disegno di legge di conversione, recante una norma di carattere sostanziale, la cui introduzione appare configurarsi in contrasto con un ordinato e coerente impiego delle fonti normative e configurerebbe un atipico ordine di esecuzione di accordi internazionali in mancanza della relativa autorizzazione alla ratifica, la cui presenza in un disegno di legge di conversione è fattispecie assolutamente inedita.
La Commissione affari costituzionali della Camera ha sostanzialmente risolto il quesito sollevato dal Comitato per la legislazione, accogliendo l'interpretazione del Governo, secondo cui gli accordi raggiunti tra i partner europei rappresentano atti comunitari sui generis, non sottoposti ad uno specifico iter di approvazione; i maggiori Paesi europei hanno optato per questa ipotesi, provvedendo ad approvare norme ordinarie, senza fare ricorso allo strumento della ratifica di accordi internazionali.
La Commissione bilancio, pur comprendendo le perplessità evidenziate nei richiamati pareri delle succitate Commissioni, anche in considerazione della necessità di assicurare la conversione del decreto-legge in tempi brevi, ha approvato all'unanimità il provvedimento - di questo ringrazio tutti i membri della Commissione bilancio, in particolare i colleghi dell'opposizione - senza apportare alcuna modifica rispetto al testo licenziato dal Senato.
Comunque, ribadisco quanto già ho evidenziato in V Commissione nella seduta del 10 giugno 2010, cioè l'intenzione di presentare a mia firma uno specifico ordine del giorno - tra l'altro, approfitto dell'occasione per invitare i capigruppo della Commissione bilancio a firmarlo congiuntamente a me - volto a chiarire l'esatta portata della disposizione, escludendo che con ciò si sia voluto fare riferimento all'esecuzione di un accordo internazionale in senso tecnico, ed auspico che sin d'ora il Governo si impegni ad accoglierlo.
Per quanto attiene, più specificamente, al contenuto del decreto-legge, l'articolo 1 definisce l'ambito di applicazione del Pag. 4provvedimento in esame, specificando che le disposizioni da esso recate si applicano ai prestiti bilaterali alla Grecia che verranno posti in essere nell'ambito del programma triennale di sostegno finanziario, definito ai sensi della Dichiarazione dei Capi di Stato e di Governo degli Stati membri dell'Unione europea, facenti parte dell'area euro, assunta a Bruxelles il 25 marzo 2010, e delle conseguenti decisioni dell'Eurogruppo adottate l'11 aprile e il 2 maggio 2010.
L'articolo 2 disciplina le procedure di concessione dei prestiti in favore della Grecia. In particolare, il comma 1 prevede che con decreti del Ministero dell'economia e delle finanze è disposta - per la durata del programma triennale di sostegno finanziario di cui all'articolo 1 - l'erogazione di prestiti in favore della Grecia fino al limite massimo complessivo di 14 miliardi e 800 milioni di euro. Si prevede, inoltre, che la concessione del prestito avviene a condizioni conformi a quelle definite con le deliberazioni assunte dai Capi di Stato e di Governo dell'area euro e dai rispettivi Ministri delle finanze ai sensi dell'articolo 1.
Il comma 2 stabilisce che, in relazione a ciascuno dei prestiti di cui all'articolo 1, le risorse necessarie per finanziare le relative operazioni di prestito sono reperite mediante emissione di titoli di Stato a medio e lungo termine, destinando a tale scopo tutto o parte del netto ricavo delle emissioni stesse. Tali importi non sono computati nel limite massimo di emissione di titoli di Stato stabilito dalla legge di approvazione del bilancio e nel livello massimo del ricorso al mercato stabilito dalla legge finanziaria. Le emissioni di titoli di Stato necessarie per finanziare il prestito alla Grecia sono dunque, come precisa la relazione, aggiuntive rispetto a quelle previste nei documenti di finanza pubblica per il triennio considerato.
Il comma 3 autorizza il ricorso ad anticipazioni di tesoreria qualora non sia possibile procedere mediante ordinarie procedure di gestione dei pagamenti all'erogazione dei prestiti nei termini concordati. I decreti del Ministro dell'economia e delle finanze che dispongono l'erogazione dei prestiti autorizzano il ricorso alle anticipazioni, la cui regolarizzazione deve essere effettuata entro novanta giorni dal pagamento. La relazione, tra l'altro, definisce questa come una «procedura straordinaria di erogazione».
Nella documentazione depositata dal Governo nel corso dell'esame presso il Senato, è stato precisato che le erogazioni verso la Grecia «troveranno inizialmente copertura tramite l'utilizzo del conto disponibilità intrattenuto presso la Banca d'Italia. Tale conto, entro 90 giorni dal pagamento, beneficerà della regolarizzazione dell'anticipo di cassa, previo reperimento dei fondi con l'emissione di debito pubblico». Il Governo, nella stessa sede, ha inoltre affermato che è stata erogata una prima tranche del prestito, con decorrenza 18 maggio 2010, per un ammontare di 2.921.922.721 euro. Tale prestito avrà scadenza il 15 marzo 2015, e si rimborserà il capitale in otto tranche trimestrali a decorrere dal 15 giugno 2013.
L'articolo 3 individua i capitoli del bilancio dello Stato cui sono destinati i pagamenti in conto capitale e quelli in conto interessi da parte della Grecia, a fronte dei prestiti considerati dal provvedimento in esame. In particolare, l'articolo prevede che i rimborsi del capitale derivanti dalle operazioni di prestito siano versati nell'apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato per essere destinati al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato. I relativi interessi attivi sul prestito sono invece versati sull'apposito capitolo dello stato di previsione dell'entrata del bilancio dello Stato, per la successiva riassegnazione su appositi capitoli di spesa per il pagamento degli interessi passivi sulle emissioni di debito pubblico.
L'articolo 4 stabilisce che i decreti del Ministro dell'economia e delle finanze che dispongono l'erogazione dei prestiti in favore della Grecia sono comunicati al Parlamento e alla Corte dei conti entro 15 giorni dall'adozione.
La norma prevede, inoltre, che il Ministro dell'economia e delle finanze debba Pag. 5riferire al Parlamento in seguito all'erogazione di ciascun prestito alla Grecia.
Per quanto attiene ai profili finanziari dell'operazione, le relazioni e le documentazioni rese disponibili dal Governo si soffermano in maniera particolare sull'aspetto contabile dell'operazione e sulle caratteristiche tecniche della medesima.
Con riguardo al primo aspetto, le singole operazioni di erogazione dei prestiti non dovrebbero incidere ai fini del saldo netto da finanziare, dal momento che le uniche imputazioni a bilancio previste, di carattere compensativo, concernono la procedura di regolarizzazione delle anticipazioni di tesoreria e comportano l'iscrizione in entrata, in apposito capitolo di bilancio, del netto ricavo dell'emissione aggiuntiva di titoli di Stato, autorizzata dalle norme e, con variazione di bilancio, il trasferimento di tali risorse in apposito capitolo di spesa. Con emissione di ordini di pagamento a valere su tale capitolo sono, quindi, reintegrate le giacenze liquide sul conto disponibilità. Le singole operazioni di prestito incidono, invece, negli esercizi ricompresi nel triennio di durata del programma di sostegno, sul fabbisogno di cassa e sull'ammontare del debito lordo.
Con riguardo agli effetti su tale ultimo aggregato, ricordo che, nel corso della recente informativa urgente sulla crisi economico-finanziaria in Grecia, il Ministro dell'economia e delle finanze Tremonti ha affermato che trattasi di prestito, e quindi l'intervento non avrà effetti sul deficit ma sul debito, di cui però si terrà conto nettizzandolo nel quadro del Patto di stabilità.
Ho già detto che il provvedimento è stato «esitato» dalla V Commissione all'unanimità. Tutti i componenti si sono resi conto che la situazione impone uno sforzo unitario che va ben al di là degli schieramenti.
Durante l'iter in Commissione notevole è stata l'audizione della Banca d'Italia, che ha fornito una ricostruzione illuminante degli eventi e degli atti compiuti sullo stato del nostro sistema economico-finanziario e sulle cose ancora da fare.
Estraggo alcune delle considerazioni più importanti: nei Paesi del G7 i disavanzi pubblici hanno raggiunto nel 2009 un valore del 9 per cento sul PIL; per effetto del solo trend degli stabilizzatori automatici e dei necessari stimoli allo sviluppo tale disavanzo potrebbe crescere mediamente di venti punti nel prossimo quinquennio; l'esposizione delle banche italiane verso la Grecia a fine 2009 era di 4,8 miliardi (fortunatamente decisamente inferiore rispetto a quella di altri Paesi, tra cui la Germania); Irlanda, Spagna e Portogallo registrano una rapida crescita del tasso di interesse dei titoli immessi sul mercato; il tasso medio dei titoli italiani è invece cresciuto sia pure in misura molto più contenuta ed oggi si attesta al 4 per cento (mentre, ad esempio, i titoli tedeschi sono al 2,5 per cento, ma comunque risultano molto appetibili dagli investitori perché ritenuti più affidabili, ed infatti nelle ultime settimane si registra a nostro sfavore un considerevole aumento dei differenziali di rendimento).
È necessario quindi approvare rapidamente gli atti attuativi dell'Accordo europeo, anche per diminuire la volatilità dei mercati.
Un'altra considerazione che vogliamo evidenziare è come i debiti degli Stati sovrani dell'area dell'euro siano cresciuti nel 2009 di 490 miliardi di euro (tra l'altro l'Italia deve rifinanziare quest'anno il 20 per cento del debito in scadenza, cui si aggiunge il fabbisogno del 2010).
Svolgo ora alcune brevi considerazioni di carattere generale. La crisi che nel 2008 ha colpito banche e fondi di investimento, sin dall'inizio del 2010 ha colpito gli Stati. La seconda crisi è certamente legata alla prima, complice il generale indebolimento delle economie occidentali ipertrofizzate da strumenti derivati, a loro volta basati sulla scommessa della crescita infinita del valore degli immobili.
Ma la radice del crollo della Grecia sta nell'eccesso della spesa pubblica rispetto alle reali capacità di creazione di reddito del Paese. Questa situazione è stata occultata per anni, truccando i conti e sorreggendo il pagamento dei debiti con altri Pag. 6debiti sempre più onerosi: altissimo è il numero dei dipendenti pubblici (che incide per un terzo del PIL), bassa è l'età pensionabile. Ricordo, inoltre, l'inefficienza della pubblica amministrazione e spese militari sempre crescenti in forza anche dello storico, preoccupante confronto con la Turchia: è un po' quello che è accaduto in Parmalat, finché i nodi non sono arrivati al pettine.
Se la considerazione che nella crisi delle banche forse gli Stati avrebbero fatto meglio ad abbandonare gli istituti finanziari al loro destino, concedendo direttamente il credito occorrente a cittadini e imprese, poteva avere un qualche valore, quanto meno morale, nel caso della Grecia è diverso: non si possono cioè abbandonare gli Stati! Le conseguenze sarebbero catastrofiche per gli altri Paesi dell'Unione europea. Infatti, il soccorso è dovuto alla Grecia in quanto Stato dell'Unione, ma anche perché altrimenti si aprirebbe una falla che trascinerebbe nella crisi economica e sociale più nera tutti i Paesi dell'area dell'euro, a cominciare da quelli che prima avevamo definito i PIGS.
In ogni caso, la rilevanza della spesa pubblica nei Paesi dell'Unione europea obbliga ad una continua emissione di titoli di Stato, in una situazione di totale affollamento di questi titoli nei mercati mondiali (tra l'altro, anche gli Stati Uniti d'America stanno finanziando il loro debito con enormi emissioni che stanno inondando il mercato).
La competizione si gioca quindi sul livello dei tassi di interesse, ma anche sulla credibilità degli Stati emittenti. Gli investitori possono preferire il bond tedesco al 2,5 per cento piuttosto che quello greco al 7 per cento; i nostri tassi - come dicevo poc'anzi - sono al 4 per cento e se non sono più alti ed oggi si attestano, ripeto, intorno a tale cifra è grazie al fatto che riusciamo comunque a puntellare la nostra credibilità, la quale è dovuta alla solidità del nostro sistema economico rispetto a quello di altri Paesi ma anche alla stabilità del sistema bancario e, soprattutto, alla validità delle politiche del Ministro Tremonti.
Ma oggi la crisi dell'economia greca deve costituire una lezione per tutti i Paesi dell'Unione europea, specie quelli del sud Europa: occorrono politiche economiche virtuose, meno Stato, interventi che incidano sulla crescita automatica della spesa sociale.
Se parlo di spesa sociale non è perché voglio metterla in discussione, ma proprio perché ne ho cura. Semplicemente bisogna constatare una cosa, e cioè che i diritti sociali inderogabili e che per forza di cose drenano risorse al sistema costituiscono un concetto ben consolidato e sicuramente ovvio, ma oggi è indispensabile iniziare a ragionare non in termini di welfare tout court, ma di welfare sostenibile, proprio in funzione delle risorse a nostra disposizione.
Proprio più ampie tutele sociali possono derivare solo se manteniamo vigorosa la fonte primaria della ricchezza nazionale, e cioè il sistema produttivo. È quindi opportuno stimolare la crescita economica, approvare rapidamente riforme a costo zero, quali la semplificazione degli adempimenti burocratici delle imprese o lo statuto delle imprese che contiene gli strumenti di tutela e di rivalsa nei confronti della burocrazia ed anche della pubblica amministrazione, ed occorre intervenire in sede europea per ridurre l'eccesso di regole che pesano sulla competitività.
Se si esaurisce la fonte primaria della ricchezza nazionale guadagneremmo sicuramente un po' di tempo facendo debiti, ma potremmo ritrovarci un bel mattino come i cittadini greci, con un welfare semiazzerato.
Ed infatti pronta è stata l'azione del nostro Governo con la manovra di stabilizzazione dei conti, che tra l'altro è molto meno gravosa di quelle che altri Paesi dell'Unione europea si sono dovuti imporre. Per rendercene conto, basti considerare cosa è successo nella giornata di sabato, appena due giorni fa, in Germania, con disordini di piazza proprio nella città di Berlino.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

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GIUSEPPE FRANCESCO MARIA MARINELLO, Relatore. Ma le future manovre dovranno concentrarsi maggiormente sullo sviluppo del sistema Italia. Voglio dare atto al Governo del ruolo avuto nella definizione degli accordi di salvataggio della Grecia e di definizione dei meccanismi di stabilizzazione e messa in sicurezza dei mercati europei.
Alla luce di tali considerazioni e ricordando che proprio in questi giorni è in corso un dibattito in sede europea per rafforzare il coordinamento e le sinergie tra bilanci nazionali e bilancio comunitario, auspico una rapida conversione del decreto-legge al nostro esame e dunque un consenso ampio, così come si è verificato in V Commissione (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire in sede di replica. È iscritto a parlare l'onorevole Gozi. Ne ha facoltà.

SANDRO GOZI. Signor Presidente, con tutto il rispetto per la rappresentante del Governo presente qui in Aula, per il fatto che vi è una giovane rappresentante proprio del Governo mentre stiamo parlando del futuro dei nostri giovani, gravati da milioni di ipoteche di debito pubblico, e per il fatto che vi è anche un relatore che è considerato giovane, nonostante la sua età ormai avanzata, tuttavia mi permetta di far notare che su un tema di tal genere, caro Presidente, non è possibile che il Ministro Tremonti non sia presente. Su tutti i punti nodali della questione economica euro-italiana (e dovrei dire questione esclusivamente economica, perché ormai le questioni economico-finanziarie si svolgono ovviamente tra Bruxelles, Lussemburgo e Roma) non è possibile che il Ministro Tremonti, che ha trascorso un weekend in giro per l'Italia a predicare da Milton Friedman a Kennedy, non si prenda poi il tempo di venire in Aula e ascoltare quanto i rappresentanti della maggioranza e dell'opposizione hanno da dire su una materia così importante come questa.
Nonostante dunque tutto il nostro sostegno al merito e nonostante gli errori che il Governo ha commesso sull'articolo 1, comma 2, del disegno di legge di conversione - e sul quale, malgrado quanto ci ha detto il relatore, certamente tornerò nel corso dell'intervento - e, tengo a ripeterlo, con tutto il rispetto per il Ministro Meloni - «nulla di personale», come si direbbe in altri Parlamenti - credo veramente che un altro segnale così brutto il Ministro Tremonti non poteva darlo a questo Parlamento.
A mio avviso, come definizione del provvedimento si potrebbe dire: molto tardi per ora non troppo poco. Si tratta certamente di una critica a tutto il sistema comunitario e a tutti i Governi europei. Finalmente, dopo mesi di esitazioni e di miopie nazionali, l'Europa con tale intervento a favore della Grecia ha dato un segnale politico forte e ha reagito in modo convincente alle recenti speculazioni finanziarie contro l'euro e quindi contro noi tutti e tutti ci auspichiamo che non sia solo per ora, ma in maniera definitiva.
Possiamo dunque dire che l'Europa ha dato un segno di vitalità, ma dobbiamo guardare un poco più lontano, trascorsi ormai 60 anni da quella prima dichiarazione sull'avvio del processo di integrazione europea, mi riferisco alla «dichiarazione di Schuman», che aveva pregi e qualità che i Governi di questa Europa oggi non hanno, ovvero l'essere coraggiosi e visionari.
Cerchiamo allora di capire cosa è mancato all'Europa anche in tale vicenda, nell'elaborazione e approvazione di questo accordo e cosa dobbiamo fare invece per ridurre questa incompletezza e adeguatezza dell'Unione europea a intervenire su materie come l'euro e l'unione monetaria, così importanti per il nostro presente e futuro. È innanzitutto mancato in questi mesi quello spirito di solidarietà «di fatto», proprio per citare la famosa «dichiarazione Schuman», senza la quale l'Europa e soprattutto anche l'unione economica sono semplicemente impossibili. Se ognuno va per la sua strada i risultati Pag. 8non si raggiungono e i rischi monetari, economici e politici aumentano per noi tutti.
Quindi ci sarebbe bisogno di meno egoismo e di più lungimiranza. Inoltre è mancata la tempestività: la decisione di cui stiamo discutendo oggi è stata presa il 9 maggio e poteva benissimo essere presa almeno sei mesi prima (poteva benissimo essere presa nel gennaio di quest'anno). Le esitazioni delle Cancellerie nazionali ci hanno letteralmente portato sull'orlo del baratro; esitazioni dovute alla debolezza delle politiche nazionali, troppo dipendenti a breve termine, troppo legate all'ultimo sondaggio o all'imminente elezione locale o regionale (tanto per citare il caso tedesco).
Occorre molta meno miopia e molta più visione. Inoltre è mancata la spinta a sfruttare finalmente i Trattati esistenti. Merkel, Sarkozy e Tremonti, addirittura per nascondere le loro esitazioni, si sono lanciati in proposte di revisione dei Trattati. Non è necessaria alcuna revisione dei Trattati per dare all'Europa quegli strumenti di politica economica di cui ci sarebbe bisogno oggi per evitare, alla prossima crisi, di dovere intervenire nell'emergenza (così come si sta facendo con questo provvedimento). L'Europa non dispone certo di tutti gli strumenti ordinari d'emergenza per governare la zona euro ma ne ha alcuni. Noi abbiamo avuto occasione nei dibattiti in Commissione, e anche in questa Aula durante l'esame di precedenti provvedimenti, di indicarli, e tra questi c'è la possibilità appunto - è la base sulla quale il provvedimento che stiamo esaminando si fonda - di dare assistenza finanziaria ad uno Stato membro in caso di circostanze eccezionali.
È su questa possibilità che si basa l'intervento europeo. Occorrerebbero meno pretesti e più azione. La decisione in ordine al Fondo europeo e ai prestiti condizionati è un passo avanti importante ma non basta. Vediamo allora che cosa dobbiamo fare per avere un'Unione europea più solidale, più tempestiva e più completa. Il dispositivo di crisi predisposto dal Consiglio Ecofin a favore della Grecia è in grandissima parte intergovernativo, cioè basato su una serie di rapporti bilaterali tra alcuni Stati membri della zona euro e la Grecia. È sbagliato quindi dire - come ha fatto il Governo - che è un pezzo di quel governo economico europeo che noi tutti auspichiamo.
La Commissione Barroso in questa vicenda per una volta si era ricordata del suo ruolo, e aveva proposto una soluzione molto più ambiziosa, utilizzando il bilancio comunitario come garanzia dei fondi da erogare alla Grecia; ciò avrebbe significato creare uno strumento di gestione delle crisi permanente ed estendere la solidarietà a tutti e 27 gli Stati membri. Guarda caso, proprio pochi giorni dopo che è stato introdotto questo meccanismo, un'altra possibile crisi stava per scoppiare fuori dalla zona euro ma dentro all'Unione europea (il caso dell'Ungheria). Strumenti permanenti nella logica comunitaria sono di gran lunga più efficaci che accordi ad hoc come questo; e vorremmo sapere se il Governo italiano si è battuto per questa proposta (proposta che sarebbe stato molto più efficace di quella della Commissione Barroso), e se non lo ha fatto vorremmo saperne il motivo. È evidente infatti che l'Eurogruppo deve diventare il centro del coordinamento economico e di bilancio e, quindi, occorrerebbe rafforzarne i poteri ricorrendo ad una cooperazione rafforzata.
Ho ascoltato il relatore, e certamente sono d'accordo con alcune cose che ha detto, però non so perché il Governo in sede Ecofin non proponga semplicemente di rafforzare l'Ecofin utilizzando il Trattato di Lisbona e avviando una cooperazione rafforzata. Ciò non sarebbe impossibile; gli strumenti sono lì, non possiamo fare della retorica europea a Roma e poi essere molto silenziosi o timidi a Lussemburgo e a Bruxelles quando si prendono veramente le decisioni (prima e non dopo, come siamo discutendo noi oggi) sulle questioni economiche e monetarie. Anche su questo - lo ripeto - non c'è bisogno di modificare i Trattati.
È evidente anche che proprio in periodi di ristrettezze finanziarie ed economiche, Pag. 9in periodi di crisi, è tempo di rivedere il bilancio europeo. Perché? Perché qualsiasi seria analisi della spesa dimostra che la produttività della spesa risulta di gran lunga accresciuta se è spostata dal livello nazionale al livello comunitario. Ciò avrebbe importanti effetti macroeconomici anche in tempi di crisi, e anche a favore dei Paesi più in difficoltà come la Grecia.
Avrei voluto sapere, avrei voluto chiedere al Ministro Tremonti qual è la posizione del Governo sulla questione del bilancio comunitario rispetto, soprattutto e non solo, a situazioni di crisi come quella greca, e se prima o poi - speriamo prima che venga rivisto il bilancio comunitario - vorrà venire in questa Aula a dibatterne con la sua maggioranza e l'opposizione, perché queste sono solo alcune delle azioni necessarie per fare veramente quel passo in avanti per evitare tra un anno (magari con un altro Paese, certo non lo auspichiamo) di ritrovarsi nella stessa situazione.
Sono azioni che, però, non basterebbero se le forze politiche non trovano il coraggio di denunciare quella illusione della sovranità che continua ad accompagnare ogni vertice europeo, perché anche la soluzione trovata per far fronte alla crisi è appesantita e indebolita dal rifiuto dei Governi nazionali di mettere insieme la loro finta sovranità economica. Metterla insieme, perché all'Unione non verrebbe trasferito proprio nulla, dato che i Governi, in sede Ecofin, manterrebbero il proprio potere decisionale. Finzione della sovranità perché è altresì evidente - e questo provvedimento lo dimostra - che i Governi nazionali, da soli, non possono più nulla. Oggi, i Governi rimangono imprigionati nella logica dell'emergenza, che è la logica che ha caratterizzato questo provvedimento.
Pur sostenendo il provvedimento nel merito, c'è un altro aspetto che va sottolineato, che dimostra la disattenzione del Ministro Tremonti (forse, appunto, distratto da altri impegni extraparlamentari ed extragovernativi): obiettivamente, non sono convinto della soluzione che è stata trovata rispetto all'articolo 1, comma 2, del disegno di legge di conversione. Credo che sia stato commesso un errore madornale, da parte del Governo, avallato dal Senato. Non si è mai visto, in cinquant'anni di integrazione comunitaria, dare esecuzione ad un accordo raggiunto in sede di Consiglio dei ministri dell'Unione europea; non si è mai visto che si dia ordine di esecuzione ad un accordo politico del Consiglio Ecofin.
È evidente che, dal punto di vista formale e giuridico, occorrerebbe una legge di autorizzazione alla ratifica; è anche evidente che il Governo dovrebbe ammettere lo scivolone che ha fatto, perché è un errore macroscopico che, tra l'altro, dal punto di vista dei rapporti tra l'Italia e l'Unione europea, avrebbe potuto rischiare e rischierebbe di creare un precedente che, certo, nessuno vuole. Se ogni volta, infatti, che viene raggiunto un accordo, tra l'altro di tipo politico-finanziario, in sede Ecofin, dovessimo, nelle Camere, dare ordine di esecuzione e, poi, farlo accompagnare da una legge di autorizzazione alla ratifica, veramente faremmo un passo indietro di mezzo secolo. Abbiamo presentato un emendamento, su questo punto, per correggere la situazione; ci sarebbe il tempo di approvare il provvedimento con questa modifica. Riteniamo, infine, che, veramente, sia un errore che il Governo avrebbe potuto e dovuto evitare.
Rispetto alla Grecia: è evidente che il Governo greco, e soprattutto la maggioranza di destra greca che ha preceduto il Governo Papandreou, ha commesso dei gravissimi errori. È anche vero che l'Europa non aveva gli strumenti per verificare esattamente la veridicità dei conti della Grecia e, quindi, credo che un altro degli aspetti sia proprio quello di rafforzare la possibilità di verifica preventiva e di controllo dei conti da parte della Commissione europea rispetto agli Stati membri della zona euro. È anche vero che l'ipotesi di lasciare Atene al suo destino, come alcuni Governi avevano proposto inizialmente secondo il criterio del chi sbaglia paga, non meritava e non merita nemmeno di essere discussa. Pag. 10
È palese, però, che c'è un altro problema, un problema politico su cui noi tutti, forze della maggioranza e dell'opposizione, dovremmo oggi interrogarci e concerne le resistenze, i tira e molla, le indecisioni, manifestate dal Governo tedesco prima dell'assenso, fortemente condizionato da calcoli ed esigenze di politica interna, sul piano di salvataggio. Credo che questa Germania ripiegata su se stessa, che guarda unicamente al suo interno, sia veramente una delle questioni più preoccupanti che dobbiamo affrontare in Europa. I tentennamenti di Berlino hanno lasciato intravedere un cambiamento di prospettiva e credo, tra l'altro, che dovremmo, dal punto di vista nazionale, dell'interesse nazionale, in sede di Ecofin - magari se, oggi, il Ministro Tremonti fosse stato qui avrebbe potuto sentirlo -, sottolineare che la Germania, in rapporto al proprio PIL, non si sta affatto impegnando a favore della Grecia più di quanto stiamo facendo noi italiani, più di quanto stiano facendo i francesi, più di quanto stiano facendo gli spagnoli. Questo atteggiamento, quindi, della Germania, per cui essa starebbe facendo uno sforzo enorme e non dovuto per un partner della zona euro, è assolutamente non supportato dalle cifre, perché - ripeto - in rapporto al PIL, stiamo facendo uno sforzo equivalente e le nostre banche non hanno la stessa esposizione, nei confronti della Grecia, che hanno invece le banche tedesche e che si aggira tra i 35 e i 40 miliardi di euro.
Anche su questo, quindi, ritengo che dovremmo confrontarci e proseguire il dibattito.
L'ultimo punto e concludo, signor Presidente: il relatore parlava della necessità di non guardare soltanto ai conti, solo al rigore ma anche alla crescita. È la famosa questione del denominatore: impossibile avere una diminuzione del deficit e del debito se non si agisce anche sul lato della crescita e della competitività. Ora questo vuol dire anche affrontare la questione di quale tipo di debito viene preso in considerazione: accanto al debito pubblico occorre computare anche il debito privato, e ciò è la prima questione.
La seconda questione, di cui parleremo quando affronteremo la manovra economico-finanziaria, riguarda il fatto che è evidente che la risposta italiana alla situazione economica e finanziaria europea è del tutto inadeguata; infatti, non è previsto nulla dal lato della crescita. Soltanto Tremonti finge - perché lo sa benissimo - di non averlo capito. Se verrà in Aula cercheremo di farglielo capire durante la discussione della manovra economico-finanziaria (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Borghesi. Ne ha facoltà.

ANTONIO BORGHESI. Signor Presidente, la Ministra Meloni sa che io ho tanta simpatia nei suoi confronti tuttavia trovo grave, ingiustificato e inaccettabile che il Ministro Tremonti non sia presente in quest'Aula oggi quando si discute di un tema che costa, perlomeno per cassa, ai cittadini italiani più di 6 miliardi di euro; così come è inaccettabile che un Ministro, spesso assente e in questo caso assente ingiustificato, non senta il dovere di essere presente in questa sede e preferisca invece i salotti delle televisioni per parlare dell'economia italiana anziché l'Aula del Parlamento. Ciò a me pare che sia una ulteriore dimostrazione di come questo Governo ritenga che il Parlamento abbia un ruolo residuale e del tutto diverso da quello che la Costituzione gli assegna nell'attività legislativa che deve svolgere.
Noi dell'Italia dei Valori voteremo contro il provvedimento in esame. Siamo sicuramente soli a farlo ma lo facciamo perché vogliamo richiamare alcune questioni che riteniamo importanti e sulle quali anche il Ministro Tremonti nelle audizioni svolte si è rifiutato di dare risposte chiare.
Vede, signor Presidente, quando ci sono crisi come questa c'è qualcuno che non paga mai e c'è qualcuno che paga sempre. A non pagare mai sono, ad esempio, gli Pag. 11speculatori, coloro che spostano masse di danaro non importa se utilizzando fondi di Paesi socialisti piuttosto che di Paesi a diverso regime economico, ma spostano montagne di danaro per fruire solo di vantaggi speculativi e che, quando si interviene come stiamo intervenendo noi, vedono garantito il successo della loro azione speculativa.
Ci sono banche che prestano denaro sapendo che vanno incontro a dei rischi e che non pagano mai quando quei rischi diventano effettivi con la scusa che il sistema bancario va salvato e che il risparmio pubblico va salvato. I loro dirigenti - che continuano a fare i dirigenti anche dopo che, senza l'intervento pubblico, le loro aziende sarebbero fallite - non pagano mai e continuano a lavorare più che con la vera attività di banca, cioè prestando denaro, con un'attività che diventa di trading, di operazioni di speculazione ai quali essi stessi partecipano e grazie alle quali come dirigenti, come amministratori, usufruiscono di enormi indennità basate su quei risultati attraverso stock option di dimensioni inimmaginabili per un comune cittadino; tali dirigenti sono sempre lì e non cambiano mai.
Vi sono amministratori pubblici che non pagano mai, perché quando si riduce un Paese sul lastrico quelli non pagano mai, perdono forse un'elezione, ma la volta dopo ci sono di nuovo. Noi immaginiamo che anche la politica quando sbaglia dovrebbe pagare. Questo è il gruppo di quelli che non pagano mai.
Poi vi sono quelli che pagano sempre, che sono i cittadini, i lavoratori, i pensionati, quelli che - direttamente o indirettamente, con tasse vere o con l'inflazione o con altri strumenti - si vedono improvvisamente decurtate le proprie entrate, per salvare tutti coloro che stanno da quell'altra parte e che non hanno pagato.
Una delle motivazioni sulle quali noi fondiamo il nostro «no», non è perché non pensiamo che l'Europa e l'euro debbano essere protetti. L'idea di un'Europa vera, di un'Europa che pensa allo sviluppo delle popolazioni e dei cittadini va salvaguardata: ci mancherebbe. Tuttavia noi pensiamo che forse sia ora di iniziare a far capire a quelli che non pagano mai che è venuto anche il momento di pagare. Dunque ci siamo posti di fronte ad uno scenario diverso e ci siamo chiesti: ma se quei Paesi che non sono più in grado di onorare i loro impegni venissero dichiarati sostanzialmente falliti dalla comunità internazionale, cambierebbero le conseguenze per i cittadini di quei Paesi? E cambierebbero in misura così rilevante rispetto a ciò che noi stiamo facendo oggi, al punto tale da dire: «Buttiamo 600 o fino a 750 miliardi di euro, noi Italia mettiamo 5 miliardi di euro, ma li mettiamo per far star meglio loro»? Io non credo, non credo che cambierebbe sostanzialmente la vita di quei cittadini: quei cittadini pagherebbero comunque un prezzo che non è diverso da quello che dovranno pagare nei prossimi anni.
Allora la vera domanda da porsi è: l'idea di quel fallimento che ripercussioni ha dall'altra parte? Noi sappiamo che intanto gli speculatori vedrebbero sconfitta la loro speculazione (e questo è il primo risultato); poi vi sono le banche, che hanno prestato denaro a quegli Stati, che si troverebbero in difficoltà. Tra queste banche, com'è noto, quelle italiane rispondono in misura minore - circa cinque miliardi -, mentre quelle francesi e tedesche rispondono in misura assai rilevante. Mi pare di ricordare - ho anche il dato preciso - che si tratti di una quarantina di miliardi per quelle tedesche e una cinquantina di miliardi per quelle francesi. È evidente che qualora si trovassero in difficoltà, poiché non più ripagate dei loro debiti, vi sarebbero effetti per loro, per i loro dirigenti e vi sarebbero anche effetti per i clienti di quelle banche che hanno, grazie a quelle banche, investito su questi titoli. Però forse qualcuno inizierebbe a pagare. Fra l'altro noi pensiamo che la questione non è finita con ciò che sta capitando oggi.
Infatti, in questi ultimi giorni, si sono verificate alcune vicende e, la settimana Pag. 12scorsa, sul settimanale The Economist era riportato un articolo in cui si dava conto di una situazione.
Tutti sanno che il London interbank offered rate (LIBOR) è il tasso relativo ai prestiti tra banche. In altri termini, le banche che hanno liquidità, la mettono in vendita, e il saggio di interesse che ne risulta è appunto il LIBOR. Questo tasso nelle ultime tre settimane è raddoppiato rispetto al livello di un anno fa e si attende che possa ulteriormente raddoppiare entro la fine dell'anno. La giustificazione che viene data consiste proprio nel rischio delle perdite che le banche potrebbero soffrire a causa del mancato pagamento di bond governativi.
Un altro tasso, denominato Overnight indexed swap (OIS), nel mese di maggio è triplicato: ciò suggerisce l'idea che le banche vadano ad approvvigionarsi e ad immettere liquidità su questo mercato secondario, invece di ricorrere al LIBOR.
Cosa significa? Secondo gli economisti il fatto che vi sia una contemporanea crescita sia del LIBOR che dell'OIS significa che siamo in una situazione in cui inizia a non esservi più troppa credibilità nel mercato finanziario. Tutto ciò rappresenta un avvertimento piuttosto pesante, considerato che anche il Credit default swap (CDS) è in crescita.
Durante lo scorso fine settimana - ne danno notizia i giornali di oggi - il Ministro delle finanze greco Papakonstantinou, per la prima volta, ha introdotto il concetto della ristrutturazione del debito in Grecia. L'intervento dell'Unione europea è stato realizzato in modo da evitare che vi potesse essere una ristrutturazione del debito. Attenzione: ristrutturare il debito di un Paese significa che quel Paese non paga più alcune delle sue scadenze, e di fatto, ciò corrisponde al fallimento dichiarato del Paese stesso.
In altri termini, è stata realizzata un'operazione per evitare che ciò potesse avvenire, tuttavia, il Ministro delle finanze greco già immagina che si possa verificare una ristrutturazione del debito, perché la Grecia non ce la fa. Infatti, per restare all'interno dell'area dell'euro e recuperare quanto si è impegnata a fare in ragione dell'intervento dell'Unione europea, essa dovrebbe presupporre la possibilità di farcela e condizioni di sviluppo che non esisteranno. Contemporaneamente alla Grecia, infatti, tutti gli altri Paesi europei stanno intervenendo con misure restrittive che soffocano l'economia, che non hanno alcuna motivazione di sviluppo e che, anche in Italia, sono pagate - come dicevo prima - dai nostri lavoratori e dai nostri pensionati.
Per questo motivo, abbiamo presentato una contromanovra alla manovra economica del Governo, che ci accingiamo a discutere: con essa pagherebbero coloro che non hanno mai pagato e, in compenso, si destinerebbero, nei prossimi anni, 16 miliardi di euro all'anno alla riduzione delle tasse: 8 miliardi di euro alla riduzione delle tasse dei lavoratori e dei pensionati e 8 miliardi di euro alla riduzione delle tasse delle imprese.
Se non si agirà attraverso meccanismi di questo tipo, si faranno solo operazioni che soffocheranno ancora di più l'economia, indirizzandola verso una situazione di deflazione, che - credetemi - è molto peggio dell'inflazione e produce impatti gravissimi sulla gente e sui cittadini.
Pertanto, in tutto questo, il Ministro dell'economia e delle finanze - assente ingiustificato da questi banchi - ci venga a dire se in una situazione di questo tipo non sarebbe meglio fare ciò che sta succedendo in America. Infatti, qualcuno dice che occorre reintrodurre una moneta diversa. Non è così, signor Presidente. Negli Stati Uniti la California sta per andare al fallimento e usa i dollari come nel resto degli Stati Uniti: ciò non impedisce che all'interno del sistema finanziario americano vi sia uno Stato - appunto, la California - in fallimento ma che, per questo, non cambierà la sua moneta. Certo, in quel modo si determinerà un colpo alla speculazione, a coloro che prestano il denaro (come i banchieri), prendendo un sacco di soldi con operazioni speculative e che vedrebbero, quanto meno, le loro aziende colpite: verrebbero colpiti i loro azionisti e si comincerebbe Pag. 13davvero a far pagare le crisi a coloro che nelle crisi guadagnano e non perdono mai, e forse pagherebbero un po' meno, invece, i cittadini (Applausi dei deputati del gruppo Italia dei Valori).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Gioacchino Alfano. Ne ha facoltà.

GIOACCHINO ALFANO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo, come ha detto bene il relatore Marinello, in Commissione abbiamo esaminato questo provvedimento seguendo quello che è successo anche al Senato. Pertanto, l'approccio che abbiamo scelto in questa seconda lettura ha tenuto conto dell'approccio utilizzato al Senato. In effetti, si tratta di un esame - per quanto riguarda la conversione del decreto-legge e per quanto riguarda anche i tempi necessari per approvarlo - da valutare come importante: ossia, per dirle in poche parole, era indispensabile farlo presto.
Se in Europa il Ministro Tremonti vuole dimostrare questo, ebbene egli lo ha fatto. I colleghi oggi rimarcano il fatto che egli non sia presente: sicuramente, con questo provvedimento, abbiamo avuto un Ministro molto presente. Egli, infatti, in Europa è riuscito a dimostrare che l'Italia c'è e sa assumersi le responsabilità che le vengono dalla partecipazione alla Comunità europea; è, inoltre, un Ministro che ha saputo portare in Italia le determinazioni dei Paesi membri, basta vedere le date: in effetti, gli Stati membri hanno chiuso i lavori il 25 marzo e poi gli atti dei lavori svolti in seno all'Eurogruppo sono stati completati l'11 aprile e il 2 maggio. Cosa voglio dire? Quando parliamo di un provvedimento che deve riparare e intervenire per evitare maggiori disastri nel campo dell'economia e delle finanze, è ovvio che si deve valutare la forza che ha uno Stato per sostenere gli impegni che gli vengono assegnati e anche i tempi in cui questi vengono realizzati.
Devo dire - ha fatto bene il relatore a rimarcarlo - che anche l'opposizione durante i lavori è stata in questo costruttiva. Abbiamo svolto cinque sedute con una audizione della Banca d'Italia. Si è trattato di un'audizione importante perché la stessa Banca d'Italia ha segnalato quali sarebbero potute essere, in questo provvedimento e in quelli che saranno poi gli sviluppi futuri, le preoccupazioni dell'Italia.
È ovvio che la tentazione - io dico la «giusta» tentazione perché non voglio criticarla - ad utilizzare questo provvedimento per compiere valutazioni sulla politica economico-finanziaria del Governo italiano è una tentazione ovvia, che nasce spontanea. Tuttavia, durante i lavori in Commissione e anche adesso, voglio avvertire e segnalare che, anche se è ovvio che questo provvedimento dovrà essere «incastrato» nel decreto-legge sulla manovra che il Governo ha presentato e che il Senato sta esaminando, e se è vero che questo provvedimento ha un valore e un significato, è pur vero che bisogna cercare di «sterilizzare» le nostre valutazioni sull'effetto, sulla filosofia e sull'obiettivo che il decreto-legge vuole raggiungere.
Pertanto, svolgerò molto velocemente alcune riflessioni su quelle che possono essere le valutazioni correttive degli Stati membri e i rapporti tra di loro. Non ci incamminiamo, dunque, sulla valutazione della politica del Governo: non la voglio nascondere, ma adesso per me è più importante capire come si possano evitare scivoloni e disastri come quelli capitati in Grecia.
La prima riflessione riguarda le riforme: spesso infatti, troppo spesso, riteniamo che occorra fare le riforme e lo facciamo diventare un fatto tutto interno nostro. È indispensabile fare le riforme all'interno dell'Italia, ma è altrettanto indispensabile farle in Europa. Si tratta di un'Europa che tende ad allargarsi (alcune nazioni stanno lavorando per poterci entrare), ma che deve essere intransigente.
Per quanto riguarda la valutazione dei mercati finanziari: c'è bisogno di organi interni credibili e non organi che si accavallino. In Italia c'è una riforma in corso che tende a unificare i controlli sulle Pag. 14valutazioni finanziarie, ma dovrebbe esserci una simile riforma in Europa affinché si prevedano degli organi unici - identici da Stato a Stato - anche a tale livello. È ovvio, infatti, che se gli oggetti di valutazioni su operazioni finanziare non sono europei ma imposti da norme europei, e lasciati, poi, alla valutazione dei singoli Stati, l'informazione che deve essere data non è un'informazione chiara su cui si può basare una politica interna.
Il relatore ha parlato della riforma della previdenza ma non tralascerei l'evasione fiscale. È ovvio che le operazioni finanziarie vengano fatte utilizzando risorse che vengono dai risparmi e da attività dei risparmiatori; l'Italia in questo piano triennale ha previsto di coprire - e sta coprendo - il suo contributo con dei titoli che vengono offerti sul mercato.
Qual è il problema? La lotta all'evasione è una battaglia che va condotta in Europa. Credo che, in Europa, le nazioni debbano indirizzarsi e incamminarsi verso la riforma dell'imposizione indiretta cercando di unificare le aliquote.
L'Europa non deve essere irrigidita dal mercato ma essere rispettosa delle differenze dei vari territori. Deve, quindi, tener conto dell'Italia, del Meridione, dei Paesi europei del nord cercando di valorizzare le ricchezze che oggettivamente esistono e rimanendo unita in quelli che sono gli strumenti indispensabili per evitare scivoloni. Le riforme vanno quindi fatte a livello europeo.
Dico sempre che il ministro Tremonti ha un brutto carattere, che a volte dice le cose con severità e crudezza e possono essere difficili da digerire e da comprendere, ma, in Europa, ha rappresentato per noi un orgoglio perché ha saputo dimostrare intransigenza; ciò, anche quando la stessa Italia, gli enti locali, le regioni e i comuni cercavano di dimostrare che la politica interna era di rigore, come da lui intesa.
Con quella metodologia e con quell'approccio alla valutazione del mercato dei beni e anche delle valute, è indispensabile che si metta mano alle riforme. Quale può essere l'atteggiamento dei Paesi che oggi ci chiedono una mano? Noi abbiamo fatto, in effetti, una operazione di sostegno alla Grecia e subito alcune nazioni hanno cercato di tirarsi fuori ed altre di dimostrare che loro stesse erano nelle medesime condizioni.
Quale deve essere l'atteggiamento di queste nazioni che oggi ci chiedono una mano in un momento in cui anche noi abbiamo delle difficoltà interne? Mi piace fare riferimento agli enti dissestati; nella mia esperienza di sindaco ricordo bene che, in determinati momenti, alcuni comuni erano chiamati a dichiarare il dissesto, quindi a chiedere un sostegno da parte degli organi superiori. Tuttavia, la dichiarazione di dissesto imponeva all'ente di portare al massimo le aliquote per la tassazione degli immobili, per la copertura dei servizi a domanda individuale e veniva così chiesto, al soggetto che chiedeva aiuto, di poter aumentare quella che era la pressione sui propri cittadini.
Il problema è che se questo viene fatto - per esempio, in Grecia - si può verificare il paradosso che in un momento di crisi - in cui si ha bisogno di liquidità e di risorse - si deve aumentare la pressione sui cittadini per mantenere gli impegni assunti con gli altri Stati membri.
È ovvio: è indispensabile che le nazioni che oggi chiedono una mano in un momento così difficile si attrezzino ad aumentare quelle che sono le politiche di sviluppo e quelle attività che servono alle nazioni stesse ad essere autosufficienti.
Questo è il quadro del lavoro svolto in Commissione bilancio. Sicuramente il collega del PD farà riferimento alla necessità di allegare, alle manovre e a provvedimenti che intervengono sui saldi e sulla politica nazionale, manovre di aggiornamento così come previsto dall'articolo 10, comma 3, della riforma del bilancio. La legge n. 196 del dicembre 2009 ha infatti imposto al Governo di accompagnare ai provvedimenti che incidono sulla politica economica dell'Esecutivo, manovre di aggiornamento.
Questo serve, infatti, a valutare quali sono gli effetti di ogni tipo di azione. Pag. 15
Voglio ripetere adesso, come ho già fatto in Commissione, che riteniamo - e il Ministro lo sa - che questo strumento sia utile. Non si tratta di una riforma fatta per rimanere sulla carta. È il primo anno di applicazione della riforma del bilancio dello Stato ed è il primo anno in cui si sono compiuti tanti passi in avanti e, dunque, questo è uno di quei passi che va custodito. Pertanto, è ovvio che da oggi in poi sarà importante tenere in considerazione le valutazioni che ci hanno condotto a questa scelta.
Il fatto che non abbiamo proposto emendamenti, non significa che niente potesse essere fatto. Ringrazio tutti i colleghi. Il relatore ha preannunziato che presenterà un ordine del giorno che cercherà di chiarire un punto relativo alla tecnica di adeguamento dei provvedimenti nazionali ai dispositivi europei. Pertanto, il fatto che non sono stati presentati emendamenti conferma che, al di là della tentazione di cui parlavo all'inizio del mio intervento ossia di valutare la politica del Governo, com'è ovvio, se vogliamo ragionare su questo provvedimento dobbiamo dire «bravo» e «grazie» a tutti. Spero che questo sacrificio, come ha già avvertito la Banca d'Italia, possa servire in funzione di quel rischio maggiore che si correva nell'essere trascinati da uno Stato membro, qual è la Grecia, che con le sue difficoltà avrebbe comunque condizionato tutti gli ambienti europei che si interessano di economia e di finanza.
In conclusione, signor Presidente, voglio lanciare un messaggio ai colleghi, che in questi giorni interverranno nel corso della discussione su questo provvedimento, pregandoli di tenere in considerazione l'Europa, giovane o anziana che sia. È difficile, signor Presidente, capire quali sono i giovani e gli anziani e se vada valutata l'attività che si è svolta - e quindi l'esperienza - o l'età anagrafica. Io rientro tra coloro che sostengono che la gioventù vada al di là dell'età anagrafica. Anche io mi ritengo giovane se mi riferisco alla volontà di fare. Mi auguro, dunque, che nei prossimi giorni il provvedimento in esame sarà accompagnato da un dibattito - perché credo che il provvedimento al nostro esame sarà approvato così come è stato presentato - che possa mettere in evidenza che mai come ora le riforme sono necessarie in Italia ma ancora di più in Europa (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. Grazie, onorevole Gioacchino Alfano. Mi sarei aspettato da lei la cravatta...
È iscritto a parlare l'onorevole Misiti. Ne ha facoltà.

AURELIO SALVATORE MISITI. Signor Presidente, ritengo che nessuno dei deputati che siedono in quest'Aula sia felice di approvare un provvedimento di questo tipo, perché si tratta chiaramente di un provvedimento che costa. È un provvedimento che giunge dopo una serie di discussioni, anche in Europa, e di ritardi che hanno messo a nudo le difficoltà che l'Unione europea attraversa in questo periodo. Credo che tutti concordino sul fatto che fosse necessario intervenire prima.
I dubbi del principale Paese europeo, quello che contribuisce maggiormente, e quelli della Merkel hanno in qualche modo ritardato di alcuni mesi l'intervento in soccorso della Grecia che, come sappiamo, è un piccolo Paese, poco più grande della Lombardia, ma è un Paese sovrano e andare in default avrebbe comportato la possibilità di trascinare altri Paesi.
Vi sono, quindi, interrogativi che si pongono su questo ritardo e su questa azione della Germania.
Rispettiamo la Germania ma certo ci domandiamo se quel ritardare l'intervento fosse dettato dal fatto che non era stata compresa fino in fondo la pericolosità della situazione greca, oppure se si trattasse di una strategia per avere in qualche modo dei risultati positivi per la stessa economia tedesca.
Gli interventi anticrisi sono stati poi decisi come interventi di ciascuno Stato in rapporto con lo Stato in crisi, cioè in rapporto bilaterale. È chiaro che era molto giusto - e, a mio avviso, non c'è Pag. 16alcuno che possa dire il contrario - che, così come era stato indicato anche dalla Commissione europea, non si sarebbe dovuto seguire la via diversa da quella che prevedeva la costituzione di un Fondo unico, che avrebbe significato voler fare un passo avanti nella gestione della situazione economica europea in termini più unitari e, quindi, dare vita anche ad una gestione del regime fiscale della stessa Europa. Ciò non è stato fatto e credo che, sempre per la posizione degli Stati fondamentali (lo Stato tedesco in primo luogo), non si è arrivati a questo Fondo unico che però, a mio avviso, alla fine dovrà essere realizzato.
Oggi si interviene per la Grecia e domani potremmo avere altre difficoltà in altri Stati. Può darsi che alcuni di questi Stati abbiano agito per far fronte alla loro situazione, ma è anche vero che ciò non è facile quando, come in questo momento, si è osservati da parte degli speculatori, i quali vogliono approfittare di queste debolezze dell'Unione europea per sconfiggere l'euro e nello stesso tempo speculare su queste difficoltà per arricchirsi.
Qualcuno afferma: «va bene, forse era meglio lasciare la Grecia in default, non sarebbe successo niente, anzi avrebbero pagato solo i responsabili», come se i responsabili fossero i cittadini inermi. Dico, invece, che la situazione è stata affrontata, anche se in modo non ottimale, ed è giusto che ciò sia stato recepito anche nei vari Stati, perché tutti i Paesi, compresa la Germania, cominciano a premunirsi per garantire che attraverso le politiche economiche di questo periodo si affronti la crisi in modo tale che non ci possano essere pericoli di simili attacchi da parte della speculazione, ed è per questo che ogni Paese sta approvando le proprie leggi finanziarie guardando in questo modo all'Unione europea.
Tuttavia credo che la crisi della Grecia e la possibile crisi di altri Paesi spinga e debba spingere l'Europa ad andare avanti. Concordo con chi dice che bisogna riformare l'Europa, ma nel senso di avere maggiore coesione affinché ogni Paese si senta parte di un tutto (come lo è, anche se si tratta di uno Stato indipendente, la California negli Stati Uniti, che certamente non andrà in fallimento perché l'errore di Bush sulle grandi banche non è stato più ripetuto da Obama ed evidentemente non si lascerà fallire uno Stato). Anche alcune regioni italiane potrebbero trovarsi nella situazione della Grecia ma, essendo parti di uno Stato, non potranno andare in fallimento. Pertanto, quanto più gli Stati europei saranno coesi all'interno del continente europeo tanto meno ci potranno essere pericoli di attacchi da parte della speculazione e, quindi, pericoli di fallimento.
Questo decreto-legge con cui l'Italia partecipa all'intervento a favore della Grecia, che provvede ad erogare un prestito, perché di questo si tratta, è stato valutato dalla Commissione bilancio in modo abbastanza univoco; infatti, anche se ognuno ha mantenuto le proprie posizioni, alla fine, però, si è raggiunto un risultato soddisfacentemente positivo, nel senso che tutti hanno votato in modo concorde. Non capisco, allora, cosa sia successo da quel giorno ad oggi perché qualcuno possa cambiare opinione e credo che su questo disegno di legge di conversione del decreto-legge che predispone disposizioni urgenti - queste sì, sono disposizioni veramente urgenti - per la salvaguardia della stabilità finanziaria dell'euro non si possa non votare a favore.
Le disposizioni del decreto-legge si pongono in relazione al programma triennale di sostegno finanziario mediante prestiti bilaterali alla Grecia definito ai sensi della Dichiarazione dei Capi di Stato e di Governo degli Stati membri dell'Unione europea facenti parte dell'area euro assunta il 25 marzo, e poi con le decisioni dell'Eurogruppo dell'11 aprile e del 2 maggio 2010. Le linee di intervento messe in atto dai Capi di Stato e di Governo, con quei limiti che denunciavo prima, nelle riunioni del 2 e del 9 maggio, mirano comunque a fronteggiare la situazione di crisi finanziaria che si è manifestata negli ultimi mesi sui mercati internazionali, che Pag. 17ha colpito in modo specifico la Grecia, ma che, devo dire, ha minacciato diversi altri Paesi dell'area euro.
È una crisi che anche il nostro Paese è chiamato ad affrontare, perché essa costituisce una minaccia alla stabilità complessiva dell'eurozona: ecco perché è giusto che la discussione su questo decreto-legge sia in qualche modo sganciata dalla manovra finanziaria, che costituisce una parte della nostra attività su cui possiamo avere giudizi diversi, ma su questo provvedimento dovremmo essere tutti d'accordo.
Questa crisi rappresenta una minaccia alla stabilità complessiva dell'eurozona, dunque costituisce una minaccia anche per l'Italia. Ci troviamo, infatti, in uno spazio monetario ormai unificato, che non conosce più confini nazionali e politici e che impone azioni coordinate e congiunte tra tutti gli Stati membri e l'Unione europea, perciò, come osservavo prima, sarebbe stato meglio se tutti all'unisono si fossero pronunciati nello stesso tempo.
Al Senato il provvedimento in esame è stato approvato all'unanimità ed è stato accolto anche l'emendamento del Governo che vi inserisce la sostanziale ratifica dell'Accordo dell'8 maggio scorso. Nella riunione del 2 maggio il Consiglio europeo ha stabilito l'istituzione di un meccanismo di prestiti bilaterali per un ammontare di circa 110 miliardi di euro per permettere alla Grecia di coprire il fabbisogno finanziario. La concessione di questa linea di credito è vincolata al rispetto del programma che la Grecia, di concerto con la Comunità europea e con il Fondo monetario internazionale, si è dovuta impegnare ad attuare attraverso una manovra fondata proprio su grossi sacrifici e fatta giustamente di interventi che tendono a favorire la competitività e misure che regolano i mercati.
Il decreto-legge autorizza dunque il Governo a realizzare le operazioni di sostegno finanziario a favore della Grecia che sono state concordate a livello internazionale.
L'autorizzazione di un limite massimo complessivo di prestito di 14,8 miliardi nel triennio è in base alla quota di partecipazione al capitale della Banca centrale europea, che per l'Italia è pari al 18,42 per cento. L'articolo 2, comma 2, del decreto-legge autorizza l'emissione di titoli di medio e lungo termine, espressamente in deroga al limite massimo del ricorso al mercato autorizzato dalla legge finanziaria 2010.
All'interno dell'eurozona si è maturata dunque la consapevolezza, anche se con un ritardo che ha prodotto un maggiore esborso finanziario, di dover promuovere un'azione condivisa a tutela di una stabilità finanziaria d'insieme, che sottende la comune volontà di contribuire, attraverso prestiti bilaterali coordinati, all'attivazione di un programma di sostegno. Questa deve considerarsi come una opportunità politica per assumere più profondamente la consapevolezza di una responsabilità comune per migliorare gli strumenti operativi a tutela della stabilità finanziaria europea. È evidente che in questo momento storico per l'Unione europea e l'Italia sia necessario rafforzare le linee di una politica economica comune, per realizzare una coesione economica, sociale e territoriale più concreta ed efficace, in grado di rafforzare l'Europa e la stabilità dell'euro sui mercati internazionali, che oggi però è ben lungi dall'essere raggiunta. Non vorrei fare l'uccello del malaugurio.

PRESIDENTE. Onorevole Misiti, la prego di concludere.

AURELIO SALVATORE MISITI. Signor Presidente, mi avvio alla conclusione. Stamattina un giornale tedesco ha praticamente annunciato che si sta discutendo veramente in modo frettoloso sulla situazione reale in cui si trova la Spagna. La sfida che si prospetta, quindi, è strategica ed impegnativa. È improcrastinabile l'avvio effettivo di un percorso che assicuri la realizzazione concreta dei diritti sociali fondamentali, percorso che attraverso riforme strutturali e provvedimenti effettivamente anticrisi consenta di coniugare sviluppo, crescita, equità e diritti sociali.

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PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Vannucci. Ne ha facoltà.

MASSIMO VANNUCCI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor Ministro, relatore Marinello, la conversione di questo decreto-legge sarà agevole. Credo che la condivisione del Parlamento sarà ampia, ma la sua discussione ci permette di fare alcune valutazioni sulla crisi che ormai ci attanaglia da oltre due anni, anche perché le misure adottate dall'Unione europea per il sostegno finanziario alla Grecia - con questo decreto-legge ratifichiamo oggi gli impegni assunti dal nostro Paese per la partecipazione al prestito di 80 miliardi, con la quota di capitale della Banca centrale europea che ci compete, del 18,4 per cento - sono state accompagnate da misure volte a preservare la stabilità finanziaria, assunte in primo luogo dall'Ecofin per un valore di 500 miliardi. È un impegno finanziario da attivare, nel caso in cui si renda necessario, per fornire prestiti e crediti garantiti agli Stati membri a precise condizioni, riferite ai programmi di risanamento economico e finanziario.
Oltre all'Ecofin, ha assunto impegni anche la Banca centrale europea, sostanzialmente decidendo di intervenire in caso di necessità per acquistare titoli di Stato dei Paesi membri di fronte ad attacchi speculativi. Vi è stata sufficiente attenzione a salvaguardare l'autonomia della Banca centrale. Di questo si potrebbe discutere e approfondire, ma va considerato il livello di emergenza di fronte al quale ci siamo trovati. Impegni sono stati assunti dai Capi di Stato e di Governo per garantire la stabilità, l'unità e l'integrità della zona euro.
La Commissione europea ha emesso un'impegnativa comunicazione per rafforzare il coordinamento delle politiche economiche, con l'obiettivo di rendere più vincolante ed efficace il meccanismo del Patto di stabilità: maggiore sorveglianza, sanzioni e incentivi più stringenti.
Signor Presidente, questo è il quadro di riferimento che abbiamo di fronte. La Grecia non è un Paese di grandi dimensioni: 10 milioni di abitanti, un prodotto interno 7-8 volte inferiore al nostro, in Europa pesa per il 2 per cento, ma i rischi di contagio sono stati alti.
Quello che è successo ha aperto uno squarcio su questa crisi, sul modo di fronteggiarla in Europa, sull'analisi, sulla comprensione, sugli effetti indiretti; uno squarcio sull'Europa, sull'euro, sull'efficacia delle nostre misure, su quello che ancora può succedere.
È una situazione senza precedenti da quando l'euro è nato e che, forse, al momento della sua costituzione non si era prevista, perché ci ha colto, evidentemente, di sorpresa e ci ha trovati impreparati ad attivare strumenti di azione del tutto inediti.
Signor Presidente, lei ha già compreso che sostanzialmente noi sosterremo il nostro Paese rispetto agli impegni internazionali che esso ha assunto. Non possiamo, però, non sottolineare come l'intervento europeo sia stato tardivo: in Commissione bilancio abbiamo audito rappresentanti della Banca d'Italia, che hanno illustrato la cronistoria di quello che è successo. Più che i primi segnali, i segnali veri li abbiamo avuto il 13 gennaio 2010, quando avevamo già un differenziale di rendimento tra i titoli greci e i titoli tedeschi di due punti percentuali.
Dal 13 gennaio, progressivamente, con vari incontri, riunioni e prese di posizione, siamo arrivati a definire il concerto tra Unione europea, Banca centrale e Fondo monetario internazionale solo il 3 maggio; quindi, pur essendo imprevisto, l'intervento è stato senz'altro tardivo, anche perché - dobbiamo dirlo - in Europa si sono confrontate strategie e visioni diverse, sulle quali vorrei soffermarmi.
Bisogna dirlo: il ritardo è stato colpevole per i danni materiali arrecati e per l'immagine stessa dell'Europa. Non imputiamo certo il ritardo al nostro Paese: in questo caso, vi sono stati Paesi molto più timorosi - direi rigidi - che hanno rallentato l'azione, a danno della Grecia, ma una moneta così importante come l'euro non può essere appesa ad elezioni regionali, qualunque sia il Paese in questione, Pag. 19come è successo in questo caso. Il danno è stato arrecato alla Grecia stessa, che ha visto momenti drammatici. Purtroppo, la crisi, in questo caso, ha provocato anche delle vittime.
Al nostro Governo, però, non ci stancheremo mai di addebitare, in via generale, la sottovalutazione della crisi, i messaggi non sempre responsabili del Presidente del Consiglio e l'attendismo del Ministro dell'economia e delle finanze. L'entità della crisi e la sua gravità le vediamo oggi, mentre ratifichiamo questi provvedimenti.
Ma rimaniamo ancora in Europa (avremo occasione di tornare su questi temi quando discuteremo l'ingiusta manovra finanziaria che avete presentato): ho elencato all'inizio una serie di azioni eccezionali che sono state assunte, che sono condivisibili, ma che probabilmente non basteranno. A nostro parere, occorrono ulteriori misure in tema di regolamentazione dei mercati finanziari e di lotta alla speculazione; occorrono maggiore trasparenza e vigilanza dei mercati dei derivati, anche se questo tema, come è ovvio, va oltre l'Europa.
Da qui, dal mercato dei derivati è partita la crisi e ben poco, a nostro giudizio, è stato fatto. È evidente che le recenti misure prese dai singoli Stati, come la Germania e anche la Francia - se non sbaglio - sulle operazioni allo scoperto hanno scarsa efficacia, se non vengono assunte in un concerto generale; così com'è rimasta appesa, senza decisioni stringenti, la questione del ruolo delle agenzie di rating del credito.
Perché, signor Presidente, sono necessarie azioni forti? Sono necessarie perché tutti capiscano che la nostra moneta unica non ha alternative: non si tornerà indietro, anche perché non si può tornare indietro; né possono esserci velocità variabili.
Credo sia evidente a tutti l'esagerazione dei mercati rispetto ai problemi, che pure esistono, nell'area euro. Non vi è proporzione, non vi è stata proporzione: abbiamo assistito ad un crescendo di comportamenti negativi scollegato dalla realtà. Ma quanto è successo e che sta succedendo ci consegna anche un'immagine dell'Europa al di sotto delle sue necessità, delle sue potenzialità, delle sue possibilità: troppo debole nello scenario internazionale, soprattutto perché divisa, impaurita e non convinta della sua forza.
Vorrei proporvi un esempio. In questa crisi ci siamo abituati a confrontare numeri e analisi a volte contraddittori, ma via via abbiamo introdotto nuovi parametri e criteri, abbiamo raffinato le analisi, i raffronti, i confronti: ci siamo per esempio accorti, signor Presidente, che molti Paesi avevano una crescita del loro prodotto interno lordo gonfiata dalla crescita del debito aggregato, dato cioè dalla somma del debito pubblico con quello delle famiglie e delle imprese. È evidente che più famiglie e imprese si indebitano, più il prodotto tende a crescere; poi i PIL gonfiati sono scoppiati e gli interventi necessari su banche, famiglie e imprese hanno aumentato i debiti sovrani.
Ad oggi sommariamente qual è la situazione per macroaree? Vi sono Paesi come il Giappone, che hanno un debito aggregato oltre il 500 per cento del loro prodotto; fuori dall'euro, la stessa Gran Bretagna viaggia oltre il 400 per cento; gli Stati Uniti al 350 per cento circa: vorrei dire, ben al di sopra di Francia, Italia, Germania, che sono i cardini dell'euro, che sono attorno al 300 per cento in media. Bisognerebbe poi andare a vedere da chi è sottoscritto tale debito.
L'area dell'euro ha quindi migliori possibilità di altri di uscire da questa crisi: ha fondamentali migliori, se saprà coordinarsi e stare insieme senza furbizie, migliori di dollaro e di sterlina. Leggiamo oggi dalle agenzie di stampa che il Ministro degli affari esteri Franco Frattini, ha anticipato in sede europea una sorta di veto che il nostro Paese sarebbe pronto a porre, se non venissero modificati i parametri di valutazione degli indebitamenti: si chiede giustamente che venga posto a base il debito aggregato e non solo il debito pubblico.
Egli pone un problema corretto, sul quale ho cercato brevemente di parlare; mi permetto però di far notare che tale Pag. 20concetto, più che all'interno dei 27 Paesi, dev'essere fatto valere in una dimensione mondiale, come ho cercato di spiegare, soprattutto per fare ritrovare all'Europa le sue potenzialità, le sue possibilità, la sua forza.
Ciò vale, per esempio, nei rapporti con gli Stati Uniti. Sullo scenario internazionale avviene infatti il contrario: noi arranchiamo per tornare a crescere, altri Paesi sono più veloci a venirne fuori. Gli Stati Uniti resistono in una previsione di crescita doppia o tripla rispetto all'Europa, dopo essere stati i principali artefici della crisi: da lì sono partiti i prodotti tossici, lì è scoppiata la bolla, da lì gli effetti si sono scaricati in tutto il mondo in maniera pesantissima. Se si dice che tutto è avvenuto perché avremmo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, si potrebbe pure finalmente compiere un'operazione verità su chi realmente ha vissuto sopra, chi è stato in linea, chi è stato sotto e chi oggi sprofonda, come i grandi continenti del mondo. Non tutti hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi!
Per venirne fuori però, purtroppo, signor Presidente, ognuno pensa per sé, si cambiano repentinamente i rapporti, si costruiscono nuove alleanze. Non si contrasta, per esempio, il fatto che la Cina mantenga un tasso di cambio della propria moneta che non riflette le condizioni reali dell'economia, di fatto avvantaggiandola con una divisa sottovalutata. Nella competizione globale questi rapporti si modificano però non per gentile concessione, ma solo se vi è un attore forte in grado di offrire contropartite, di stringere alleanze, di imporre o di favorire visioni più equilibrate.
E l'Europa potrebbe esserlo, se ne avesse la convinzione; l'euro potrebbe esserlo! Registriamo invece che queste condizioni in Europa non vi sono pienamente per diverse visioni più o meno lunghe, per diversi interessi. Allora, diciamo subito che una politica europea che non punti con forza sullo sviluppo o che non ponga l'obiettivo primario di aumentare la propria competitività nei mercati internazionali facendo dell'export la strada di uscita dalla crisi sarebbe sbagliata, proprio perché un'Europa che non si ponesse il problema - oggi prioritario, essenziale - dell'occupazione ed in primis di quella giovanile (questo farà piacere al Ministro Meloni) sarebbe miope.
Abbiamo un milione di giovani senza occupazione o che entrano tardissimo nel mercato del lavoro: ma che società stiamo preparando, mentre manteniamo al lavoro gli anziani (tra l'altro più costosi e con meno energie delle forze giovani) e sentiamo parlare - soprattutto in Europa, ma anche nel nostro Paese - ancora del sistema pensionistico? La medaglia ha due facce e quella che dobbiamo tenere davanti è quella dei giovani. Un'Europa che va verso «Basilea 3» non superando «Basilea 2» e trasferendo la leva finanziaria in leva di sviluppo sostenibile socialmente e dal punto di vista ambientale mancherebbe un'occasione.
Quindi - e concludo - bisogna che prevalgano in Europa le forze che pensano che il nostro originale sistema di welfare e di Stato sociale possa sì essere rivisto (soprattutto ne abbiamo interesse noi, perché ne beneficia il 30 per cento di coloro che si trovano nel sommerso e che evadono le tasse), debba sì essere riformato, ma certo non smantellato in nome di una competitività globale al ribasso. Semmai, serve un'Europa forte che offra al mondo modelli sociali da imitare, diritti e garanzie irrinunciabili, se si vuole stare nel consesso internazionale.

PRESIDENTE. Onorevole Vannucci, deve concludere.

MASSIMO VANNUCCI. Non è accettabile competere con chi spesso non rispetta il lavoro e la dignità dell'uomo. Signor Presidente, approveremo questo provvedimento con lo spirito che ho cercato brevemente di spiegare, con queste convinzioni, con questo impegno, perché riteniamo che il provvedimento vada nell'interesse dell'Europa e, se va nell'interesse dell'Europa, di conseguenza va nell'interesse del nostro Paese (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

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PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Galletti. Ne ha facoltà.

GIAN LUCA GALLETTI. Signor Presidente, come abbiamo già fatto al Senato esprimeremo un voto favorevole su questo provvedimento e lo facciamo essenzialmente per due motivi. Il primo è che siamo culturalmente europeisti e pensiamo che la cosa migliore che possiamo lasciare ai nostri figli sia un'Europa unita e forte e vogliamo lavorare perché ciò avvenga.
Il provvedimento che stiamo per approvare va in questo senso. Non vi è dubbio che abbiamo visto, abbiamo vissuto e stiamo vivendo in questi giorni tutta la debolezza del sistema europeo che abbiamo creato. Non vi può essere una moneta unica senza regole uniche e controlli unici: è questo che è mancato, è questo che oggi ci impone di intervenire a favore di un Paese europeo e di stringere un patto tra tutti i Paesi europei per intervenire in futuro anche a favore di altri Paesi.
Siamo a metà di un guado, dobbiamo decidere se tornare nella sponda che abbiamo lasciato o arrivare dall'altra parte del fiume: noi vogliamo arrivare dall'altra parte del fiume. Abbiamo regole deboli, come si è dimostrato platealmente in questo frangente: la semplice regola del rispetto del Patto di stabilità non è sufficiente a supportare una moneta unica. Bisogna che facciamo un passo più lungo e il passo più lungo vuole dire un debito comune, un debito europeo, e un sistema fiscale comune. Non è possibile andare avanti con sistemi fiscali così diversi l'uno dall'altro: bisogna arrivare dall'altra parte del fiume e compiere questo ulteriore sforzo.
Per quanto riguarda, ad esempio, i controlli, ormai è palese che il sistema di controllo affidato alle società di rating non assicura un controllo serio e competente.
Ci vuole un'autorità di controllo europea che faccia riferimento direttamente a tutti gli Stati membri, con controlli reali sui bilanci e sui conti degli Stati aderenti alla UE.
Questi sono i due punti che oggi chiediamo in aggiunta al provvedimento che stiamo approvando.
Il secondo motivo che ci porta a votare a favore del disegno di legge in esame è il senso di responsabilità: abbiamo detto più volte in quest'Aula che siamo un'opposizione seria e responsabile e vogliamo dimostrarlo votando favorevolmente tale provvedimento, perché ci rendiamo conto che, tutelando gli interessi della Grecia e dell'Europa, tuteliamo anche gli interessi dei cittadini italiani. Per realizzare ciò, in aggiunta al provvedimento di oggi, chiediamo al Governo di assumersi anch'esso la responsabilità della grave situazione economica che l'Europa sta vivendo.
Riteniamo però che la manovra economica per il 2009-2011, già presentata al Senato, pur avendo taluni aspetti positivi, non sia sufficiente ad aggredire la crisi come dovrebbe. Basta pensare che Paesi come la Germania o la Francia stanno predisponendo misure economiche, che incidono sui propri conti per quasi 100 miliardi di euro, per renderci immediatamente conto della ridotta portata della nostra manovra economica, che incide per soli 24 miliardi di euro.
Chiediamo una maggiore responsabilità, in particolare sulle manovre strutturali. Crediamo infatti che questa finanziaria non sia sufficientemente strutturale per poter dare una risposta concreta ai bisogni economici del nostro Paese.
Lo chiediamo - guardate bene - assumendoci pure in questo caso delle responsabilità e dicendo agli italiani anche cose scomode, ad esempio che non basta una riforma delle pensioni solo per le donne, ma che deve essere fatta per tutti i lavoratori, pubblici e privati, uomini e donne. Bisogna allungare l'età pensionabile, perché solo aumentando l'età pensionabile riusciamo a offrire ai nostri figli ammortizzatori sociali degni di questo nome.
Capisco che forse non crea simpatie politiche nell'opinione pubblica parlare oggi di aumento dell'età pensionabile; tuttavia, se sapremo farlo con responsabilità e spiegando ai cittadini che lo facciamo Pag. 22per tutelare i nostri figli, credo che tale operazione potrebbe divenire un'azione di consenso politico, ovvero che porterà consenso, non già lo farà perdere.
Dobbiamo agire sul fronte delle liberalizzazioni: siamo indietro e abbiamo interrotto un percorso che avevamo iniziato e che va ripreso e completato.
È necessario affrontare in maniera seria il tema dei costi della politica, riducendo i livelli di governo. Capisco che sia scomodo parlare di abolizione delle province, dovendo spiegare ai propri consiglieri provinciali che non esisteranno più, ma bisogna farlo e avere il coraggio di farlo fino in fondo.
Riteniamo quindi che al presente disegno di legge debba seguire una seria manovra finanziaria di rigore per rafforzare gli italiani all'interno dell'Europa, ma soprattutto l'Europa stessa.
Voteremo pertanto favorevolmente il provvedimento, nella speranza che il sistema di approfondimento e discussione nelle Commissioni e nell'Aula, che abbiamo seguito in questo caso, possa essere di aiuto anche per la discussione della manovra finanziaria (Applausi dei deputati del gruppo Unione di Centro).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cambursano. Ne ha facoltà.

RENATO CAMBURSANO. Signor Presidente, saluto con piacere il Ministro Calderoli, che ha dato il cambio al Ministro della gioventù, onorevole Meloni.
In primo luogo, signor Ministro, mi fa piacere che ci sia lei a seguire in Aula tale provvedimento, visto lo storico euro-scetticismo che il partito che lei in qualche modo rappresenta ha dimostrato nel nostro Paese, almeno con riferimento agli anni precedenti.
D'altra parte noi sappiamo che oggi paghiamo per troppa poca Europa, non per eccessiva Europa. Le tesi che la Lega Nord andava sostenendo da tempo erano ben note, cioè che non si dovessero rassegnare all'Europa fette di potere e di decisioni; invece quella che è mancata è proprio la politica economica, la politica fiscale.
Vengo al tema, anche perché è strettamente correlato con quello che ho appena detto. Il gruppo Italia dei Valori, già in Commissione e adesso anche in Aula, esprime forte perplessità rispetto al provvedimento di finanziamento a sostegno della Grecia, ed esprime questa sua posizione convintamente proprio perché si ritiene che le condizioni poste per autorizzare il finanziamento siano davvero un colpo mortale alla Grecia. Tant'è che - come ricordava prima il collega Borghesi - l'omologo greco del nostro Ministro dell'economia ha già anticipato che molto probabilmente vi sarà la ristrutturazione del debito. Per il momento si parla di ristrutturazione soft, ma noi sappiamo cosa vuol dire - è vero Ministro - ristrutturare il debito pubblico. Vuol dire sostanzialmente non onorare il medesimo nei confronti delle banche e delle istituzioni che hanno sottoscritto i titoli di Stato di quel Paese. Allora l'interrogativo che ci ponevamo in Commissione e che riproponiamo qui è: era l'unica soluzione, quella di finanziare la Grecia, data la situazione? Ce la farà la Grecia, alle condizioni poste, a uscire indenne da questa crisi?
Illustri economisti hanno sostenuto altre tesi, come ben sa. Anche un collega di questa Assemblea, già Ministro della Repubblica, l'onorevole Martino, ha sostenuto tesi diverse, cioè che forse la strada del default sarebbe stata la meno dolorosa. Proviamo a verificare. È possibile che la Grecia riesca in due anni - queste sono le condizioni poste - a ridurre il deficit di tre punti percentuali nel corso di questo anno (e sono ormai passati sei mesi) e di 11 punti percentuali nel 2011? Questo è possibile solo ad una condizione: strozzare il Paese.
Ecco perché il Ministro dell'economia greco si sta interrogando se ristrutturare il debito. Allora Presidente, come in Commissione, chiedo se sia possibile parlare del «treno Italia», che non è quello delle Ferrovie dello Stato. Treno Italia: che cosa intendo dire? Questo Paese, che per comodità chiamo treno, ha un capotreno che è il Ministro dell'economia e delle finanze, pardon, che è il Presidente del Consiglio, il Pag. 23quale cosa fa? Va su e giù per i vagoni, per le carrozze, e cerca di tranquillizzare i viaggiatori dicendo che «va tutto bene madama la marchesa», di non preoccuparci, che la crisi non c'è, che l'abbiamo superata (ma se non c'era mi chiedo come potevamo averla superata). In altre parole minimizza, e gli riesce anche bene perché poi fa delle battute (gli riescono bene), fa lo showman. Abbiamo poi un macchinista, che è il Ministro dell'economia e delle finanze. Il macchinista sta davanti, sulla macchina che trascina il treno, vede i segnali (a volte rossi, a volte verdi), vede i binari, vede gli scambi. Qualche volta indovina, qualche volta, spesso e volentieri, non c'azzecca (per dirla in «dipietrese»). In altre parole, ci conduce esattamente dove siamo: in due anni abbiamo avuto bisogno (prima pensando che fosse un Paese allegro) di poter vivere al di sopra delle nostre potenzialità, e poi ci siamo resi conto che così non era. Rimanendo sempre sull'esempio che ho appena adottato, il macchinista segue i binari, ma i binari chi li ha messi giù? Il tracciato che dovrebbe portarci fuori da questa crisi mondiale (soprattutto europea in questo momento, in questi mesi) chi lo ha realizzato? La Germania.
Lo ha fatto con due provvedimenti molto chiari. Da una parte ha, addirittura, reso costituzionale una norma che afferma che entro il 2016 il deficit annuale di quel Paese, la Germania, non potrà superare lo 0,35 per cento del PIL. Capite che cosa vuol dire, vero? Che il nostro Paese non ce la farà mai - figuriamoci la Grecia, il Portogallo - nelle condizioni date. Ma, poi, ha messo in atto, subito dopo, un altro provvedimento, ossia una manovra da 80 miliardi di euro in quattro anni. E voi sapete, onorevoli colleghi, che il debito della Germania non è quello dell'Italia e la potenzialità di produzione, di PIL, è sicuramente superiore a quella del nostro Paese. Quando il nostro Ministro dell'economia e delle finanze, il cosiddetto macchinista, è venuto in quest'Aula, il 6 maggio 2010, e ha riferito della situazione della Grecia e di quello che stava maturando a livello europeo - ci ha pure fatto omaggio di un libretto con il suo discorso tenuto in quest'Aula, pertanto invito tutti i colleghi ad andarlo a rileggere -, non ha mai fatto cenno circa la situazione del Paese-Italia. Siamo al 6 maggio. Quattro giorni dopo, solo quattro giorni dopo, lo stesso Ministro, di fronte a Confindustria e alle organizzazioni sindacali - o meglio, a due delle organizzazioni sindacali: CISL e UIL -, ha detto, chiaramente, che il nostro Paese abbisognava di una manovra da 25 miliardi di euro.
Da quella data - questo avveniva il 10 maggio - il differenziale di rendimento decennale dei titoli di Stato italiani è aumentato in modo poderoso, raggiungendo anche i 180 punti base. Direte che rispetto a quelli della Grecia sono poca cosa. Sì, peccato che, invece, quelli della Spagna siano poco superiori: 220 punti base. I Bund tedeschi hanno visto concentrarsi le attenzioni, in queste settimane, in questi giorni, dei mercati. La volatilità dei nostri titoli è aumentata e così lo spread si è ampliato.
Voglio ricordare - visto che l'ho qui - quanto ci disse il dottor Panetta, responsabile dell'ufficio studi della Banca d'Italia per la congiuntura e la politica monetaria, nella memoria che ci ha lasciato. Al punto 29, lo voglio leggere perché è importante per noi, per capire dove stiamo andando, si legge: «Nei mesi a venire gli investitori saranno chiamati a sottoscrivere cospicue quantità di titoli pubblici in emissione». Sta parlando del globo terrestre. «Per il 2010, le emissioni di titoli a medio e a lungo termine dei Paesi europei, sono stimate in circa 1.440 miliardi, con un incremento del 4 per cento rispetto al 2009. A questi si aggiungono ingenti quantitativi (circa 880 miliardi) di titoli a breve, che vengono emessi e rimborsati nel corso dell'anno. Le agenzie di rating stimano che, per la fine dell'anno, i debiti degli Stati sovrani europei cresceranno di 760 miliardi di euro, rispetto all'esercizio 2009».
Allora, capite che la domanda che ci poniamo è: riuscirà il Paese-Italia a collocare questo debito pubblico in scadenza? E sapete che la manovra, sulla Pag. 24quale siamo chiamati a pronunciarci ora, per una prima tranche da 5,5 miliardi di euro, è anticipata con la tesoreria e sarà coperta poi con l'emissione di prestiti, che verranno collocati. È vero - ci dice la relazione - che abbiamo imposto il 5 per cento alla Grecia e ci costa, invece, il 2,5-3 per cento nel collocamento agli investitori istituzionali e, quindi, alla fine ci possiamo anche guadagnare. Sì, a condizione che non venga ristrutturato il debito greco, perché, altrimenti, sarà una perdita secca. Ma questi 5,5 miliardi di euro - che, poi, nell'arco di due anni, dovrebbero diventare 14,8, tanta è la nostra quota parte, sugli 80 di impegno che l'Europa si è assunta - vanno ad aggiungersi a quelli in scadenza, a medio, a lungo e a breve periodo, con le difficoltà che abbiamo proprio perché lo spread, come ho appena ricordato, rispetto ai titoli di Stato tedeschi, è aumentato e l'attenzione degli investitori va altrove.
Perché siamo in queste condizioni? Soprattutto per tre motivi. Il primo consiste nel fatto che abbiamo il secondo debito pubblico più alto del mondo pari a 1.800 miliardi di euro, almeno quello ufficiale. Infatti, in questo conteggio non sono considerate le operazioni di swap sul debito che sono state fatte nel corso degli anni. Ci è stato detto che gli enti locali nel corso degli anni precedenti hanno fatto operazioni swap sui derivati per 35 miliardi di euro circa.
Ho presentato un'interrogazione al Ministro dell'economia e delle finanze e spero che mi risponda prima o poi. No, ma non lo farà di sicuro anche perché dovrebbe scoprire le carte. Si parla di 250-300 miliardi di euro di operazioni swap. Dunque, che cosa chiedo con la mia interrogazione? Quale sia il numero e l'ammontare finanziario di ogni singolo contratto swap stipulato da aziende pubbliche, in buona sostanza dalla Repubblica italiana, con operatori finanziari italiani e stranieri e il loro totale complessivo. Credo sia un diritto-dovere dei parlamentari italiani e del popolo italiano sapere che cosa è accaduto in quegli anni su quel fronte.
A quanto ammonta, chiedo ancora, il mark to market e qual è il segno positivo o negativo relativo a tale contratti? Non se ne sa nulla. A quanto ammontino le singole commissioni pagate: infatti, se è vero com'è vero, che The New York Times ha detto che abbiamo pagato commissioni esorbitanti vorremmo sapere che cosa è avvenuto anche su quel fronte.
Per ultimo vorremmo sapere se siano state effettuate operazioni senza sottostante e sappiamo che cosa vuol dire, almeno me lo auguro, come incasso anticipato di flussi cedolari, vendita di opzionalità, scommesse sulla forma della curva e così via.
In buona sostanza mi vuole dire, signor Ministro dell'economia che non c'è o il sottosegretario qui presente, a quanto ammonta il debito vero dell'Italia? Questa è la prima ragione che ci fa preoccupare molto. Infatti, per dirla con uno dei più stretti collaboratori di Barroso, del Presidente della Commissione europea, quando dice che i più esposti sono ovviamente i Paesi che fanno maggior ricorso al debito per far fronte in particolare alla spesa pubblica e come questo alimenti ovviamente una bolla speculativa; aggiungendo inoltre che i mercati fanno classifiche mentali - leggo testualmente - per cui i Paesi del sud, i cosiddetti PIGS e li elenca (la I corrisponde all'Italia perché sta parlando dei Paesi del sud dell'Europa) sono quelli a rischio mentre quelli del nord sono più sicuri. Infine, concludeva dicendo che è una questione psicologica; i mercati seguono andamenti diversi, non regole precise. I mercati attaccano da sud iniziando da quelli più piccoli perché sono prede più facili. La situazione è più difficile per i Paesi che ricorrono regolarmente al credito: l'Italia rischia di non essere esente da questo attacco ai suoi titoli di Stato. E questo per tre ragioni: la prima l'ho appena ricordata, per l'enorme debito pubblico; la seconda per la decrescita che c'è stata: il debito pubblico nel corso del 2009 è aumentato del 10 per cento (lo sapete, vero?) rispetto all'anno precedente. La caduta del PIL è stata del 5 per cento. Pag. 25
Ma c'è un altro forte elemento di preoccupazione: l'aumento della spesa pubblica. È cresciuta la spesa pubblica, è cresciuta l'evasione fiscale, in compenso si è azzerato l'avanzo primario, che è esattamente il metro con il quale veniamo misurati sulla nostra capacità di ridurre il debito e il deficit.
Questo è a zero. In altre parole, la nostra capacità di rientrare rispetto agli impegni che abbiamo preso con l'Europa è pari a zero.
Mi avvio davvero alla conclusione: come possiamo - mi chiedo, chiedo ai colleghi e chiedo al Ministro dell'economia - evitare il crack? Vi è una sola ricetta, ma la domanda è: è proprio quella che dobbiamo seguire? Questa ricetta, per dirla con Roubini, è quella della svalutazione dell'euro, anche perché non è detto che l'opinione pubblica dei Paesi che oggi sosteniamo (la Grecia, probabilmente il Portogallo, la Spagna e io aggiungo anche l'Italia), se a pagare saranno sempre i soliti noti - come ricordava ancora anche su questo fronte il collega Borghesi - possa sopportare anni e anni di stretta feroce. I tagli provocheranno una caduta del PIL e questo contribuirà a rendere ancora più difficile la dimensione del deficit.
Su Il Sole 24 Ore di sabato vi era un'intervista - l'avrete vista sicuramente - a Paul Krugman, che definisce la politica tedesca, quella che ha tracciato i binari, una dissennata svolta depressiva. I falchi del disavanzo - aggiungeva - hanno preso il controllo del G20, quello che si è tenuto in Corea del Sud qualche giorno fa. Operare drastici tagli alla spesa pubblica nel caso di una grande depressione è un metodo costoso e inefficace. Le misure di austerità sono costose perché deprimono ulteriormente l'economia e sono inefficaci perché la contrazione della spesa pubblica, quella produttiva, frena il gettito fiscale. D'altra parte, lo ha detto il governatore Draghi non più tardi della settimana scorsa, quando vi è stata la sua audizione al Senato, sostenendo che la manovra che è all'esame di quel ramo del Parlamento e poi arriverà qui - spero non per la fiducia secca come spesso e volentieri succede - da sola rappresenta una caduta dello 0,5 per cento del PIL, cioè di mezzo punto percentuale del PIL.
Allora davvero mi viene da chiedermi se di fronte a questo stato di cose il nostro Paese debba tranquillamente procedere in questo modo oppure se non sia il caso di arrivare a quello che Giuseppe Guarino - credo che sia noto a tutti i presenti: è un noto docente, grande conoscitore della macchina dello Stato italiano - in un articolo apparso su un quotidiano qualche giorno fa, a firma di Paolo Savona, diceva: la preoccupazione deve essere certamente quella del debito, ma la preoccupazione di questo nostro Paese e dell'Europa deve essere la disoccupazione.
Invece, con questa politica, noi la disoccupazione la faremo aumentare, la depressione la faremo crescere. Ecco perché abbiamo tutte queste riserve rispetto ad un provvedimento che, ahimè, non salverà né la Grecia né tanto meno l'Europa (Applausi dei deputati del gruppo Italia dei Valori).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche del relatore e del Governo - A.C. 3505)

PRESIDENTE. Prendo atto che il relatore e il Governo rinunciano alla replica.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione delle mozioni Oliverio e altri n. 1-00366, Di Giuseppe ed altri n. 1-00385, Ruvolo ed altri n. 1-00386 e Reguzzoni ed altri n. 1-00387 concernenti misure di sostegno per i settori agricolo ed agro-alimentare (ore 17,05).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Oliverio e altri n. 1-00366, Di Giuseppe ed altri n. 1-00385, Ruvolo ed altri n. 1-00386 e Reguzzoni ed altri n. 1-00387 concernenti Pag. 26misure di sostegno per i settori agricolo ed agro-alimentare (Vedi l'allegato A - Mozioni).
Ricordo che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione delle mozioni è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).
Avverto che è stata presentata una nuova formulazione delle mozioni Oliverio ed altri n. 1-00366 e di Giuseppe ed altri n. 1-00385. I relativi testi sono in distribuzione.
Avverto, altresì, che sono state presentate le mozioni Mosella ed altri n. 1-00388, Beccalossi ed altri n. 1-00389, Misiti ed altri n. 1-00390 (Vedi l'allegato A - Mozioni) che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione.

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritto a parlare l'onorevole Zucchi, che illustrerà anche la mozione Oliverio ed altri n. 1-00366 (Nuova formulazione), di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

ANGELO ZUCCHI. Signor Presidente, signor sottosegretario e colleghi, noi abbiamo presentato la mozione in esame per mettere in evidenza la grave situazione che investe l'agricoltura italiana e quindi anche per sollecitare il Governo ad un impegno più deciso rispetto a quello che si è fatto in questo primo scorcio di legislatura.
La crisi ha prodotto quattro effetti principali: la diminuzione dei prezzi agricoli e del fatturato delle imprese, un peggioramento sensibile del margine di filiera, un allargamento della forbice tra prezzi al consumo e prezzi agricoli alla produzione e, ancora, una diminuzione dei redditi. Basti pensare, signor Presidente, che il reddito agricolo reale per ogni singolo lavoratore - sono dati Eurostat - ha subito una diminuzione del 25 per cento rispetto al 2008. La contrazione dei redditi in Europa è stata del 12 per cento, quindi l'Italia ha un record negativo, superiore del doppio rispetto alla media europea.
La situazione del credito in agricoltura è notevolmente peggiorata: il tasso di crescita tendenziale del credito nel settore agricolo si è più che dimezzato, passando dal 6 per cento del 2007 al 2,7 per cento dei primi nove mesi del 2009.
Nel presentare la mozione in esame, ci ha mosso, quindi, la consapevolezza che l'agricoltura italiana necessita di politiche strutturali e di imprese che facciano scelte strategiche e coraggiose in grado di rilanciare la competitività e la produttività del comparto con scelte imprenditoriali basate su nuove strategie, che mettano al centro la ricerca e anche l'innovazione. Ci ha mosso, altresì, la consapevolezza che l'agricoltura oggi ha bisogno di un approccio multifunzionale ed intersettoriale, che tenga conto delle interconnessioni che esistono con la tutela dell'ambiente e la salvaguardia del territorio, con la sicurezza alimentare e la tutela della salute dei cittadini.
Sappiamo, inoltre, che il settore agro-alimentare del nostro Paese sta sperimentando, in modo sempre più pervasivo, la presenza di fenomeni di illegalità e di criminalità, che alterano la libera e leale competizione tra imprese del settore e determinano forme di lavoro irregolari, spesso gestite da organizzazioni malavitose; una situazione che si manifesta con pesanti elementi di condizionamento dell'attività economica, del controllo delle filiere di produzione e di commercializzazione dei prodotti agroalimentari.
Inoltre, ci aspettano appuntamenti importanti. È iniziato in sede comunitaria il processo di revisione della politica agricola comune, che avrà delle ripercussioni certe sul sistema agroalimentare italiano: è necessario che il Parlamento - sarebbe il caso - avvii al più presto una comune Pag. 27riflessione, al fine di creare le condizioni per tutelare l'agricoltura italiana e per rilanciare il settore agro-alimentare.
Rispetto a questo scenario, cosa fa il Governo? Il Governo ha scelto una linea minimalista per intervenire sulla crisi, senza una vera politica anticiclica, lasciando andare naturalmente il corso delle cose, senza correzioni rilevanti dal punto di vista delle tendenze che si stanno manifestando. Non ha adottato alcun provvedimento per contrastare la crisi del settore agricolo; non solo, il Governo manifesta continue difficoltà a mantenere gli impegni consolidati di finanza pubblica per l'agricoltura, come documentano le incertezze generali sul Fondo di solidarietà nazionale, sugli sgravi degli oneri sociali per i settori svantaggiati e di montagna, oppure sugli interventi programmati nel settore bieticolo-saccarifero.
Si tratta di un tentennamento che, in quest'ultimo anno, è risultato sempre più evidente. Il Fondo di solidarietà nazionale è rimasto senza risorse pubbliche per tutto il 2009; nel settore bieticolo-saccarifero mancano 65 milioni di euro per finanziare le ultime due campagne di produzione; nel settore lattiero-caseario ci si è limitati, anzi, si è intervenuti pesantemente verso la categoria dei cosiddetti furbi, con una distribuzione dell'aumento di quote latte a loro, anziché alle imprese più virtuose che, addirittura, ha determinato la caduta del prezzo. Nessun intervento nel settore suinicolo, cerealicolo, tabacchicolo, ortofrutticolo: signor Presidente, potrei continuare con numerosi altri esempi.
In sostanza, il Governo si è limitato ad attuare le decisioni comunitarie con grande enfasi propagandistica, ma senza una strategia che possa contribuire a contrastare la crisi. Manca un disegno organico di rilancio e sviluppo del settore agroindustriale, a differenza degli altri Paesi europei, in particolare - per citarne qualcuno - la Francia, la Spagna e la Germania, che hanno predisposto una pianificazione strategica nazionale e hanno stanziato ingenti risorse per sostenere il settore agricolo.
Tali carenze sono ancora più pesanti alla luce della grave emergenza che sta vivendo il comparto della pesca, che la normativa europea inchioda al rispetto di nuove e più rigide regole; se tale processo non sarà adeguatamente governato, guidando il settore verso nuove modalità di gestione dell'attività produttiva e definendo un nuovo ruolo delle imprese ittiche nella filiera, i contraccolpi socioeconomici ed occupazionali derivanti da tale cambiamento saranno devastanti.
Per queste ragioni chiediamo un'inversione di tendenza e l'arrivo del nuovo Ministro ci sembra quanto mai propizio. Chiediamo un forte impegno su una serie di punti, molti dei quali saranno illustrati dai colleghi che mi seguiranno. Io mi limiterò a citarne alcuni.
In primo luogo, chiediamo un deciso intervento del Governo, come è avvenuto in Francia con l'autorevole mediazione di Sarkozy, finalizzato alla definizione di un patto interprofessionale che coinvolga per intero la filiera agroalimentare, dal produttore alla grande distribuzione organizzata, sulla base della proposta peraltro avanzata e approvata dalla Conferenza Stato-regioni per fronteggiare la crisi dei prezzi.
Chiediamo, poi, di prevedere con la massima urgenza un piano di gestione per il settore della pesca, che consenta alle imprese e agli operatori del comparto di far fronte ai nuovi obblighi comunitari, tutelando allo stesso tempo le specificità e le tradizioni del nostro Paese.
Chiediamo, inoltre, di adottare gli aiuti di Stato, recentemente autorizzati dall'Unione europea fino a 15 mila euro per le imprese agricole, quelle maggiormente colpite dalla crisi economica.
Chiediamo, altresì, di prorogare le fiscalizzazioni degli oneri sociali per le aziende che operano in territori svantaggiati di montagna, che scadono il 31 luglio di quest'anno; di promuovere l'«accisa zero» sul gasolio; di intervenire sui crediti di imposta per i nuovi investimenti produttivi in agricoltura, naturalmente con priorità agli investimenti che mirano all'aggregazione dell'offerta. Pag. 28
Chiediamo, quindi, di adottare tutti i provvedimenti previsti dalla legge n. 33 del 2009 sulle quote latte, ossia un apposito conto di tesoreria destinato ad interventi nel settore lattiero-caseario per la ristrutturazione del debito; o ancora, chiediamo di assegnare quei famosi 45 milioni di euro che dovevano uscire dalla regolarizzazione di coloro che sono stati particolarmente furbi in questi anni, a favore dei produttori che hanno acquistato o affittato quote latte, e che sono stati dentro la regola.
Ancora, chiediamo di attivare un programma di sostegno al processo di internazionalizzazione delle imprese agroalimentari italiane per migliorare la loro capacità di inserimento nei mercati esteri.
Inoltre, chiediamo di cominciare a ragionare per creare un quadro istituzionale che consenta lo sviluppo di un sistema efficiente ed efficace di assicurazione dell'impresa contro i rischi economici e ambientali.
In ultima fase, ma non meno importante, chiediamo una efficienza e una razionalizzazione delle istituzioni della pubblica amministrazione e degli enti collegati al Ministero. Ci riferiamo, in primo luogo, a Buonitalia, per la promozione delle produzioni nazionali nel modo, al Centro di ricerca agroalimentare (Cra), che da lungo tempo è in attesa di un effettivo rilancio, oppure anche ad Agea, per velocizzare e anticipare i pagamenti dei fondi europei.
Infine, chiediamo al Governo di adoperarsi per un significativo snellimento degli adempimenti burocratici a carico delle aziende, i quali determinano un costo spesso insostenibile per il settore così frammentato di piccole imprese dell'agricoltura.
Signor Presidente, crediamo che queste debbano e possano essere oggi le priorità per provare a dare risposte convincenti al settore dell'agricoltura, uscendo dalla propaganda di questi due anni e cercando di puntare su atti concreti (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Di Giuseppe, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00385 (Nuova formulazione). Ne ha facoltà.

ANITA DI GIUSEPPE. Signor Presidente, mi rivolgo al signor sottosegretario: il 13 luglio 2009 - ricordo che lei era presente in Aula - alcuni deputati del gruppo dell'Italia dei Valori presentarono una mozione che impegnava il Governo ad adottare misure che avrebbero dovuto mirare (perché poi, in effetti, i risultati non ci sono stati) al sostegno e alla valorizzazione della produzione biologica, alla quale noi tanto teniamo, ma alla quale tiene tanto anche il consumatore, ad incentivare la crescita di servizi che sostenessero le imprese agricole nelle scelte di strategie di qualità, nonché a potenziare e razionalizzare il sistema di certificazione.
Tuttavia, quelle mozioni (infatti anche gli altri gruppi parlamentari presentarono mozioni sull'agricoltura e su quei temi) non sono servite, non sono valse a nulla: le aziende sono ancora in forte difficoltà in quelle problematiche che riguardano sia lo sviluppo dell'agricoltura, sia la competitività del settore.
L'agricoltura italiana, in questo momento, sta veramente trascorrendo un periodo difficile, forse il più difficile di questi ultimi trent'anni. È una crisi che interessa tutti i comparti dell'agricoltura, da quello cerealicolo a quello ortofrutticolo, al vitivinicolo, all'oleario e al viticolo-saccarifero. Per quest'ultimo settore il gruppo dell'Italia dei Valori ha utilizzato atti di sindacato ispettivo e, proprio in un question time, abbiamo posto la questione degli 86 milioni di euro come aiuto statale da erogare ai quattro zuccherifici rimasti in attività.
Vi è, quindi, una situazione difficile e particolare, la quale merita più attenzione da parte del Governo; ricordo che già il 13 luglio del 2009 il gruppo dell'Italia dei Valori pretendeva dal Governo proprio una maggiore attenzione verso il comparto agricolo.
Questa crisi, cosa ha causato a tutti gli effetti? La diminuzione del fatturato delle Pag. 29imprese, il peggioramento della forbice tra prezzo al consumo e prezzo agricolo alla produzione e la diminuzione dei redditi delle imprese agricole. È chiaro che da parte del Governo debba esserci la consapevolezza della gravità della situazione che condiziona fortemente gli agricoltori stessi.
Le imprese, quindi, devono fronteggiare una situazione pesantissima con costi produttivi che sono arrivati a livelli insostenibili; gli oneri sociali sono sempre più gravosi e gli adempimenti burocratici creano non poche difficoltà agli agricoltori e alle imprese agricole.
I redditi - anche se nel 2008 hanno registrato una certa crescita - scontano, comunque, i crolli registrati negli ultimi anni. Finora, le risposte del Governo a questa condizione e situazione sono state limitate e riduttive e a volte, su alcune questioni, proprio non ci sono state.
Voglio ricordare - ma soprattutto sottolineare - che circa 500 mila imprese agricole - in particolare quelle che operavano in zone di montagna o svantaggiate - hanno ormai chiuso i battenti e che, nel 2009, più di 40 mila sono andate fuori mercato, e sono tante. Se non si adottano dei provvedimenti, e se il Governo non presta quell'attenzione che noi dell'Italia dei Valori tanto invochiamo, altre aziende agricole saranno costrette ad abbandonare l'attività.
Per questi motivi bisogna, ed è importante, che il Governo predisponga le basi affinché le imprese possano rilanciare la loro attività produttiva, favorire, a tutti gli effetti, l'occupazione ed essere così competitive anche a livello internazionale.
L'incremento dei prezzi nel settore agroalimentare è determinato da fattori strutturali quali l'eccessiva lunghezza delle filiere produttive (questo il sottosegretario lo sa perché ne abbiamo parlato anche spesso in Commissione agricoltura), la scarsa propensione all'associazionismo tra produttori, l'inadeguatezza e l'arretratezza delle infrastrutture logistiche di trasporto e, poi, la scarsa informazione degli stessi consumatori che sono una parte importante del settore. I consumatori, infatti, vogliono oggi essere più informati e, per dirla in breve, vogliono anche sapere qual è il prodotto che arriva sulla loro tavola.
L'incremento dei prezzi al consumo ha creato una ricchezza che si è poi dissolta nella filiera produttiva, senza arrivare al primo anello della catena rappresentato dal produttore agricolo e zootecnico. A causa di tali costi di produzione esagerati vi è stata una redditività che è andata via via scemando.
Chi ha subito maggiormente gli effetti del rialzo dei prezzi sono stati, appunto, i consumatori e i produttori. Per questo bisogna dare sostegno agli agricoltori e poi ai destinatari finali del prodotto, cioè i consumatori. In che modo? Secondo noi dell'Italia dei Valori assicurando ai primi, cioè ai produttori, le condizioni necessarie per poter competere sui mercati e poi garantendo ai secondi, i consumatori, il diritto a un'informazione che sia il più possibile trasparente anche per quanto riguarda il prezzo.
Inoltre, un altro dato rilevante è la carenza di meccanismi di monitoraggio e di controllo dei prezzi dei prodotti alimentari, che risultano veramente poco efficaci. Vi è anche un'evidente debolezza dell'organizzazione della filiera distributiva e anche una scarsa propensione all'aggregazione in determinate aree del nostro Paese, dove il contesto ambientale è fortemente influenzato dalla criminalità organizzata. In Commissione agricoltura abbiamo audito i rappresentanti dei sindacati che sono tutti coscienti del problema della criminalità organizzata, perché la criminalità organizzata controlla i mercati ortofrutticoli comprendendo la produzione, il trasporto, il facchinaggio e addirittura anche la proprietà diretta di ipermercati e di diverse attività di ristorazione. Pertanto, a nostro avviso è molto importante incentivare l'aggregazione delle imprese, perché l'unione di più aziende porta al miglioramento dell'efficienza nell'utilizzo dei fattori produttivi e a una maggiore competitività sui mercati originari delle aziende.
Ma vi sono anche altri fattori che favoriscono le aggregazioni di imprese Pag. 30agricole come, ad esempio, la gestione dei servizi, la valorizzazione delle produzioni, la gestione associata della manodopera e l'acquisto e la gestione in comune di mezzi agricoli. Per questo riteniamo, sottosegretario, che l'aggregazione di imprese agricole sia un nuovo strumento di sviluppo e che lo stesso Governo debba prestare attenzione a questo fenomeno.
Torniamo, però, ai consumatori. Un'altra condizione da garantire al consumatore è, quindi, un'adeguata informazione, in modo da permettergli di compiere acquisti che siano consapevoli. A questo proposito bisogna parlare della tracciabilità, perché è fondamentale per garantire la sicurezza alimentare. La possibilità di identificare, documentare e comunicare tutti i percorsi che un prodotto segue, dalla produzione in poi, può portare alla realizzazione di quello che è un elemento chiaro di identificazione, cioè all'etichettatura, che oltre ad accompagnare il prodotto dalla partenza deve anche giustificare poi la difformità fra i prezzi e lasciare la scelta finale e informata all'utente. A questo punto è logico il riferimento al provvedimento n. 2260, il cui articolo 6 è relativo proprio alle norme sull'etichettatura, che nel mese di febbraio ha fatto la sua comparsa in Aula per poi essere rinviato in Commissione. Diciamola tutta, signor sottosegretario: è tornato in Commissione per la mancanza di risorse. Dunque, si è trattato solo di un momento perché il provvedimento è arrivato per un attimo in Aula per poi essere rinviato in Commissione. In Commissione stiamo cercando di parlarne ma non troviamo via d'uscita. Vedremo cosa succederà. Mi auguro che il provvedimento n. 2260 porti delle buone novelle agli agricoltori che tanto lo aspettano. Il fatto è che il Governo deve impegnarsi per dare delle risposte precise agli agricoltori, perché di promesse ne sono state fatte tante e sono state anche ripetute. Ma in questo caso i repetita iuvant non servono agli agricoltori, perché fare continuamente delle promesse e poi non risolvere i problemi in questo momento è veramente fuori luogo. Gli agricoltori non lo possono accettare, perché veramente l'agricoltura sta aspettando delle risposte concrete ed efficaci dal Governo.
Servono inoltre interventi concreti proprio per ridurre i costi per le imprese, misure che devono riuscire ad offrire una boccata di ossigeno all'agricoltura e agli imprenditori che continuano ad operare in questa costante incertezza. Al riguardo, c'è da dire che la manovra varata dal Governo non è di certo ben disposta neanche verso l'agricoltura: non c'è traccia di un intervento mirato alla ripresa e ad un'eventuale crescita del comparto agricolo.
È chiaro che per un settore come quello agricolo che versa in gravi difficoltà i risultati rischiano di essere veramente devastanti. Voglio adesso ricordare alcuni dati che lei, signor sottosegretario, sicuramente conoscerà: con riguardo al periodo 2000-2009, in dieci anni nelle campagne è stato bruciato quasi il 36 per cento dei redditi a fronte di una crescita di oltre il 5 per cento della media europea. Sicuramente questa situazione danneggia i giovani imprenditori che vorrebbero dedicarsi all'attività agricola, ma con questi presupposti è chiaro che cambiano strada.
In questo settore primario dell'economia italiana si verifica un invecchiamento degli addetti ai lavori: il 45 per cento delle imprese è condotto da imprenditori con oltre 65 anni e in Italia il ricambio generazionale in agricoltura permane sempre ai livelli più bassi dell'Europa. Il numero dei conduttori agricoli sotto i 40 anni rappresenta il 6,9 per cento, con una costante tendenza alla diminuzione negli anni 2000. Di contro, quelli con età superiore a 65 anni sono oltre il 44 per cento del totale degli addetti ai lavori.
Vedete, quindi, come sia importante e indispensabile incrementare politiche che diano impulso all'imprenditoria giovanile, proprio per favorire sia il ricambio generazionale che la ristrutturazione fondiaria. A tutte queste difficoltà bisogna aggiungere anche gli oneri amministrativi connessi all'esercizio dell'attività agricola, gli elevati prezzi di affitto e di acquisto dei terreni, gli alti costi dei macchinari e, in Pag. 31generale, degli investimenti. È come dire: «perdete ogni speranza voi giovani che volete dedicarvi a questa attività».
La Commissione agricoltura ha lavorato molto - lo facevo notare pochi giorni fa al Ministro Galan -, ha profuso molto impegno in audizioni, risoluzioni, interrogazioni, e chi più ne ha più ne metta sottosegretario, però alla fine eravamo tutti bloccati da un'unica condizione negativa, ossia dalla mancanza delle risorse, e io dicevo sempre che senza soldi non si canta messa.
Questo nostro impegno poi veniva vanificato proprio perché il Governo non aveva alcuna intenzione di investire nel settore (e speriamo che l'imperfetto «aveva» poi non si trasformi in un presente o in un futuro). Mi auguro invece che le intenzioni del Governo siano proprio quelle di mettere risorse per incentivare questa attività, perché purtroppo se non c'è la disponibilità economica non si può fare nulla.
In ogni manovra che il Governo ha varato non ha fatto altro che tagliare risorse al settore agricolo.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

ANITA DI GIUSEPPE. Nella legge n. 191 del 2009 (legge finanziaria per il 2010) agli agricoltori sono state tolte risorse per oltre un miliardo di euro, tra cui 450 milioni di euro per i fondi per le aree sottoutilizzate, 550 milioni di euro per la cancellazione del bonus gasolio e poi anche le agevolazioni contributive a favore degli agricoltori nelle zone montane e svantaggiate a decorrere dal 1o agosto 2010.
C'è inoltre il settore della pesca che tanto stava a cuore a lei, ma anche a noi dell'Italia dei Valori. Pochi giorni fa in Commissione agricoltura abbiamo audito il Ministro Galan proprio sulle problematiche che investono il settore della pesca, che ha subito un ulteriore danno a causa delle ultime limitazioni imposte dall'Unione europea.
Noi dell'Italia dei valori abbiamo chiesto al Ministro che venga predisposto un fermo biologico straordinario, che venga prorogata la cassa integrazione al 31 dicembre 2011 e anche un fermo biologico diversificato a seconda delle zone marittime.
Ricordo che lei, sottosegretario, stava cercando di realizzare proprio un piano diversificato; mi domando come è andata a finire, vedremo cosa farà il Ministro Galan, anche perché questo settore si trova veramente in grandissima e fortissima difficoltà e, come ho detto in Commissione agricoltura, non si tratta soltanto di un problema economico, ma sta diventando anche un problema sociale per il settore della pesca.
Con questa mozione abbiamo chiesto tanto; speriamo, però, lo ripeto, che essa non sortisca gli effetti della mozione del 2009. Abbiamo chiesto di rafforzare le politiche di tutela e di controllo della qualità dei prodotti agricoli; di sostenere la filiera agricola, soprattutto per quanto riguarda i nostri prodotti di qualità, dunque di sostenere il made in Italy; di sostenere ed incentivare quelle soluzioni che possano dare respiro alla pesca; di emanare uno specifico provvedimento, vedremo cosa succederà al disegno di legge n. 2260 che estende l'obbligo delle indicazioni di origine in etichetta a tutti i prodotti di origine agro-alimentari.
Insomma, con questa mozione abbiamo chiesto molto. Voglio soltanto dire, signor sottosegretario, che non si può certo dire che il Governo non abbia da fare non solo negli altri settori, ma anche in quello dell'agricoltura. C'è tanto da fare e per fare bisogna trovare le risorse che gli agricoltori aspettano da tanto tempo, anche perché da parte vostra sarebbe ancora più grave avere qualcosa da fare e, in realtà, poi non fare nulla, perché ve ne dovreste assumere la responsabilità (Applausi dei deputati dei gruppi Italia dei Valori e Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fogliato, che illustrerà la mozione Reguzzoni n. 1-00387, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

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SEBASTIANO FOGLIATO. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, l'agricoltura, al pari di tutte le altre componenti del nostro sistema socio-economico, ha attraversato e sta attraversando delle difficoltà aggravate dagli effetti della crisi economica iniziata nell'autunno 2007 e della quale solo adesso si inizia a intravedere la via di uscita. Che l'agricoltura stia vivendo delle difficoltà è quindi indubbio, così come è indubbio che tali difficoltà non sono soltanto riconducibili all'attuale congiuntura, ma soprattutto a problemi strutturali che, in specie per quanto riguarda il nodo della piccola dimensione e polverizzazione delle imprese, trovano le loro ragioni nelle scelte di politica agraria del secondo dopoguerra.
Esistono, tuttavia, due modi di porsi di fronte ai problemi: uno pragmatico, fondato sull'analisi delle cause e sull'individuazione delle soluzioni; l'altro basato sulla strumentalizzazione ideologica finalizzata a trarre profitto dal problema stesso. Ne discende che i problemi si possono affrontare o cavalcare; noi con la nostra mozione, a fronte di un'analisi rigorosa delle cause di ciò che fino ad oggi è stato fatto, cerchiamo di proporre soluzioni finalizzate al futuro sviluppo del settore. L'opposizione si limita ad accusare il Governo di essere il responsabile di tutti i mali di cui oggi soffre l'agricoltura e, di fatto, contraddice se stessa nel momento in cui si propone comunque di impegnare questo stesso Governo, che così tanto disprezza, ad adottare i provvedimenti indicati nella mozione.
Colleghi dell'opposizione, consentitemi una piccola osservazione. Le premesse delle vostre mozioni sono tutte costruite in riferimento ai dati Ismea relativi al 2009 che, come tutti noi sappiamo, è stato il peggiore della difficile fase congiunturale che stiamo vivendo. Nei giorni scorsi l'Ismea, ossia la stessa fonte da voi utilizzata, ha presentato i dati relativi al primo trimestre 2010 indicando segnali di ripresa sul fronte sia della produzione (più 2 per cento) e del valore aggiunto (più 2,5 per cento) dei prodotti agricoli, sia delle esportazioni dei prodotti agro-alimentari (più 1,4 per cento). L'agricoltura, onorevoli colleghi, è un bene comune e come tale non è né di destra né di sinistra.
Niente d'altronde può essere più trasversale di un settore che, sebbene incida per meno del 2 per cento sul PIL, caratterizza, presidia e tutela l'84 per cento del nostro territorio ed è al centro di un sistema complesso come quello agro-alimentare, che ogni anno produce il 15 per cento della ricchezza naturale. Lasciamo dunque perdere le strumentalizzazioni e pensiamo al bene comune e agli interessi collettivi, ai quali sicuramente concorre il mantenimento sul territorio di un'agricoltura viva e vitale, obiettivo al cui mantenimento dovremmo tutti contribuire senza strumentalizzazioni né contrapposizioni.
Permettetemi poi anche di ringraziare il Ministro Zaia per il suo operato in questi due anni di Governo, che ha portato al centro del dibattito l'agricoltura, un settore che troppo spesso era dimenticato. Questo Dicastero troppo spesso veniva occupato da Ministri sulla base delle indicazioni delle segreterie di partito, che designavano persone che potevano anche non capire nulla di agricoltura. Penso che con il suo operato il Ministro Zaia, a prescindere dai dati che abbiamo ascoltato prima sui tagli che riguardano l'agricoltura (non so dove siano stati presi questi dati, ma sappiamo che si fa opposizione anche in questo modo, citando dei dati non veritieri, però questo non è assolutamente vero, anzi dico che è assolutamente falso), abbia restituito centralità al nostro settore primario, al nostro settore agricolo, e lo abbia fatto con determinazione.
Penso che un grazie dell'agricoltura e degli agricoltori del nostro Paese vada al Ministro per questi due anni di operato. Faccio gli auguri al nuovo Ministro per il suo operato in questo ulteriore scorcio di legislatura, affinché possa portare a termine questa fase virtuosa nel settore dell'agricoltura, che è ritornata centrale, e si possa affermare nei prossimi anni la politica intrapresa con successo dal Ministro Zaia.

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PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mosella, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00388. Ne ha facoltà.

DONATO RENATO MOSELLA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor sottosegretario, mi suona molto strano sentire in quest'Aula alcuni passaggi del collega che mi ha appena preceduto rispetto alla gestione di un Ministero che è da un po' di anni appannaggio del centrodestra e quindi del suo Governo. I dati che sono stati snocciolati sono nei rapporti ufficiali che in questo Paese girano e che fortemente orientano la politica nel modo migliore. Comunque, mi attengo al merito della nostra mozione.
Recentemente, il Consiglio dell'Unione europea ha riconosciuto che un settore agricolo sostenibile, produttivo e competitivo apporterebbe un contributo importante alla nuova strategia europea per la crescita e l'occupazione. L'agricoltura potrebbe svolgere un ruolo chiave nel raggiungimento di tre priorità nella nuova strategia europea per il 2020, ossia una crescita intelligente, che significa tra l'altro innovare per ottimizzare l'utilizzo delle risorse naturali, una crescita sostenibile, per fare ricorso alla bioenergia, tanto per capirci, ed una crescita inclusiva, mantenendo i posti di lavoro e le persone nelle zone rurali.
È stato inoltre evidenziato che rendere l'economia più rispettosa dell'ambiente è una sfida che non può non essere vinta senza tenere nella debita considerazione l'agricoltura, che gestisce quasi la metà del territorio dell'Unione europea, svolge un ruolo chiave nell'assicurare l'uso sostenibile delle risorse, la conservazione degli habitat naturali e della biodiversità ed è destinata a svolgere un ruolo sempre più importante nella lotta ai cambiamenti climatici.
Nonostante il rilievo dato all'agricoltura e le intenzioni che ne sono scaturite a livello europeo, il settore agricolo vive ormai da alcuni anni delle difficoltà, rese oggi più aspre dalle conseguenze della crisi economica, con una contrazione del prodotto interno lordo, che nel 2009 è stato pari a meno 0,8 per cento a livello mondiale ed a meno 4,8 per cento in Italia.
Per l'agricoltura italiana il 2009 si è chiuso con un bilancio di 40 mila imprese costrette a cessare l'attività; la produzione è calata del 3,8 per cento, così come gli investimenti. Questi sono dati fortemente indicativi. In effetti, il settore agricolo ha resistito meglio di altri al momento economico difficile - questo bisogna dirlo - in forza proprio di una maggiore flessibilità nell'utilizzo delle risorse, a partire dal lavoro, ed in virtù di un sistema di solidarietà familiare, che ha contribuito a limitare le difficoltà del ricorso al credito, ma ciò non vale per i prezzi, che mostrano una variabilità molto più accentuata rispetto ad altri settori.
Consiglio di vedere il percorso che fanno i pomodorini in questo nostro Paese per vedere dal produttore al consumatore come avviene il cambiamento dei prezzi, per rendersi conto di quale momento stiamo attraversando. È un momento economico difficile, che mette in evidenza mali antichi del settore agroalimentare, in particolare la presenza di una struttura di mercato largamente imperfetta lungo tutta la filiera. Ma non è solo la crisi ad opprimere l'agricoltura, stretta nella morsa delle mafie, che proprio da questo momento di forte difficoltà traggono benefici.
Sono 150 al giorno i reati commessi nelle campagne del nostro Paese: racket, furti, pizzo, usura, abusivismo edilizio ed ecomafie sottraggono all'agricoltura 50 miliardi di euro, pari ad un terzo del valore complessivo dell'economia illegale del Paese (lo rivela il terzo Rapporto sulla criminalità in agricoltura, che conviene andare a guardare ogni tanto).
È un fenomeno che non interessa solo il sud del Paese, ma è in costante e rapida espansione anche nel nord. Tutto ciò per evidenziare che occorre varare con urgenza interventi strutturali che favoriscano l'uscita dalla crisi e creino le condizioni per un nuovo sviluppo dell'agricoltura. Tagli e inasprimento delle tasse non agevolano certamente le imprese, che devono essere messe in condizione di rilanciare Pag. 34un'attività produttiva che possa generare occupazione ed essere competitiva a livello internazionale. Servono, quindi, una strategia di politica agraria, indirizzi per l'imprenditoria agricola e provvedimenti mirati volti al medio e lungo periodo, invece di misure tampone per tirare a campare.
Con il nostro di atto di indirizzo, come gruppo Misto-Alleanza per l'Italia, chiediamo dunque al Governo: di assumere iniziative per liberare l'agricoltura italiana, a partire da quella del Mezzogiorno, da ogni influenza mafiosa e malavitosa, anche costituendo un osservatorio composto da militari, polizia, rappresentanti della giustizia, nonché da operatori pubblici e privati del mondo agricolo e dalla società civile (sarebbero ben lieti di partecipare a questa nuova stagione di riprogrammazione), promuovendo contestualmente accordi con le regioni e gli enti locali, affinché, secondo le loro competenze, siano coinvolti nell'adozione di un pacchetto di misure a sostegno del settore agricolo, fortemente colpito dalla crisi economica; di attuare politiche atte a limitare la forte volatilità dei prezzi provocata dalle speculazioni di mercato, e quindi anche di contrastare il calo dei consumi; di intervenire per contrastare le evidenti anomalie presenti sul mercato alimentare, che la crisi rischia di amplificare; di sostenere il vero made in Italy attraverso la creazione di una vera e propria filiera agricola tutta italiana, con l'obiettivo di combattere le inefficienze e le speculazioni e per assicurare acquisti convenienti alle famiglie e sostenere il reddito degli agricoltori; di mettere in pratica tutte le iniziative per rendere maggiormente efficiente l'attuale sistema di certificazione, etichettatura e controllo della qualità e dell'origine dei prodotti; di prorogare la fiscalizzazione degli oneri sociali per le aziende operanti in territori svantaggiati e adottare rapidamente quegli aiuti di Stato autorizzati dall'Unione europea per sostenere le imprese agricole in difficoltà economica.
Ancora, proponiamo di convocare una Conferenza nazionale dell'agricoltura, ispirata al principio della massima partecipazione sociale e politica. Altro che sentire la voce di chi ha governato finora ad uso e consumo proprio. Sentiamo la realtà.
Infine, chiediamo di intraprendere idonee iniziative - questo è nella modifica che abbiamo apportato in corso d'opera - anche per il settore ittico; infatti, a causa delle limitazioni poste dall'Unione europea e di un cambio delle strategie di mercato, si rischia di penalizzare fortemente le imprese e i lavoratori italiani.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Misiti, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00390. Ne ha facoltà.

AURELIO SALVATORE MISITI. Signor Presidente, la crisi economica mondiale ha degli effetti su tutti i settori e certamente l'agricoltura non è esente da questi effetti negativi.
Nonostante i suddetti scenari negativi, però, nel Mezzogiorno d'Italia le nuove imprese agricole sono aumentate, e questo è un dato positivo; inoltre, nel sud si concentrano circa i due terzi delle coltivazioni biologiche nazionali, con quasi la metà delle relative imprese agricole nazionali: e anche questo è un fatto positivo.
Il carattere multidimensionale dell'agricoltura del Mezzogiorno e la sua centralità nell'equilibrio della società e dell'economia dell'Europa e del bacino del Mediterraneo pongono le prospettive di sviluppo del binomio Mezzogiorno-agricoltura anche in una condizione privilegiata.
Il sistema agricolo e della pesca, oltre a rappresentare una componente di rilievo del sistema economico nel Mezzogiorno, ha implicazioni che vanno oltre il suo rilievo in tale ambito: l'agricoltura ormai occupa infatti solo il 2 o 3 per cento del totale. La domanda di prodotti di qualità costituisce una grande opportunità strategica per l'agricoltura del Mezzogiorno, con la possibilità di diversificare profondamente le aree di mercato, attenuando nel medio-lungo termine la tradizionale competizione con i Paesi terzi del Mediterraneo e per l'accesso ai mercati di massa del nord Europa. Pag. 35
A seguito delle suddette misure - che saranno assunte comunque, se lo devono essere - gli agricoltori e i lavoratori del Mezzogiorno hanno finito con il godere di benefici assolutamente marginali, pur essendo i principali finanziatori del Fondo di cui all'articolo 68 del regolamento (CE) n. 73/2009, il cui valore si aggira intorno ai 420 milioni di euro. Per quanto riguarda l'ortofrutticoltura e l'olivicoltura, fortemente rappresentate nel sud Italia, settori che da soli contribuiscono per oltre il 30 per cento dell'intero Fondo, ad esse è stata riservata la misera somma di 6 milioni di euro per incentivi ai soli oli di oliva.
Il settore agroalimentare, com'è noto e già sottolineato, si caratterizza come uno dei settori di punta dell'economia italiana, secondo solo all'industria metalmeccanica, anche se nel Mezzogiorno devo dire che esso produce purtroppo veri e propri ghetti di lavoratori immigrati, caratterizzati da pessime condizioni lavorative.
In tale quadro generale, noi cerchiamo allora di impegnare il Governo: a stanziare urgentemente - alla stregua di altri Paesi europei, come la Spagna e la Francia - risorse finanziarie aggiuntive per sostenere il mercato e il mancato reddito delle aziende agricole e zootecniche che registrano un forte indebitamento e il rischio di chiusura; ad adottare un piano urgente di tutela e rilancio delle produzioni mediterranee, e ad aprire un tavolo di confronto con le associazioni di agricoltori, al fine di individuare misure condivise per fronteggiare la crisi del settore agricolo e le sue prospettive future; ad adottare provvedimenti normativi che prevedano la moratoria dei pagamenti contributivi a carico delle aziende, la copertura finanziaria del Piano assicurativo agricolo nazionale e la facilitazione dell'accesso al credito, al fine di scongiurare lo stato di crisi di tutto il comparto agricolo; infine, ad attivarsi affinché vengano mantenuti l'attuale regime delle quote dei prezzi nel settore dello zucchero, l'assegnazione di quote zucchero nazionali in linea con i consumi dei Paesi membri e la conferma degli aiuti nazionali per la bieticoltura meridionale.
Ciò intende chiedere al Governo il Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud con la mozione in esame, affinché si mobiliti in tale direzione.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Biava, che illustrerà la mozione Beccalossi n. 1-00389, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

FRANCESCO BIAVA. Signor Presidente, sottosegretario, onorevoli colleghi, la crisi economico-finanziaria congiunturale che ha colpito l'intero globo, e in maniera particolare l'America e l'Europa, ha indubbiamente avuto effetti negativi sul settore primario italiano; in particolare ne ha avuti su quello agricolo, che, come ricordato anche dai colleghi, ha contemporaneamente subìto una contrazione del sostegno comunitario: oltre ai negativi effetti di mercato dovuti alla riduzione della spesa, ha visto un incremento degli oneri finanziari per le aziende agricole in seguito all'innalzamento del costo medio del finanziamento esterno.
Il settore agricolo già precedentemente alla crisi assisteva ad un calo costante dei redditi delle aziende dovuto al differenziale di crescita tra il costo dei prodotti all'origine e i costi di produzione, con un più 10 per cento a favore di questi ultimi. Infatti da alcuni anni assistiamo ad una flessione dei prezzi alla produzione pari al 12 per cento, mentre per quanto riguarda i costi di produzione la flessione è soltanto del 2 per cento. Se a questo aggiungiamo l'eccessiva burocratizzazione del sistema, che vive un quadro legislativo del settore disperso tra il codice civile e le norme speciali emanate nel corso degli ultimi cinquant'anni di Repubblica, ci rendiamo conto di quanto urgente sia continuare ad intervenire a sostegno di questo settore che, nonostante la crisi, per l'Italia rappresenta una quota di export a livello mondiale del 5 per cento (grazie proprio al made in Italy), in linea con i maggiori Paesi produttori in questo campo (ad esempio, Cina, Spagna e Canada) e superiore a quella di altri Paesi di rilievo (come l'Argentina e l'Australia). Pag. 36
Il Governo - seppure costretto, a causa della crisi, a veicolare gli interventi normativi secondo logiche di razionalizzazione delle risorse e di riduzione degli sprechi - è intervenuto con forza per contrastare la congiuntura negativa del settore.
In materia di sburocratizzazione ha adottato il decreto-legge di riordino delle normative sull'attività agricola, ovvero il codice agricolo, attualmente in attesa del parere della Conferenza Stato-regioni. Ed è proprio con le regioni che diventa improrogabile costruire un dialogo forte ed articolato al fine di rendere coerenti sia il quadro normativo a supporto dell'imprenditoria agricola, sia gli interventi previsti nel piano di sviluppo rurale, evitando il disimpegno dei fondi comunitari.
Ingente appare anche lo sforzo economico-finanziario che il Governo ha messo in campo nel triennio 2010-2012 che, con la legge finanziaria per il 2010, arriva ad uno stanziamento di circa 1 miliardo e 115 milioni di euro. La legge finanziaria per il 2010 ha anche previsto la destinazione da parte del CIPE di 100 milioni di euro per le esigenze del settore agricolo, proprio al fine di prevedere misure anticrisi nel settore agroalimentare italiano.
Il rifinanziamento del Fondo di solidarietà nazionale e degli incentivi assicurativi attuato con la legge finanziaria per il 2010 è risultato sufficiente sia a coprire i fabbisogni del 2009, sia a soddisfare i fabbisogni del triennio 2010-2012, essendo stati stanziati 120 milioni di euro per ciascuno degli anni 2010, 2011 e 2012, a cui si aggiungono le risorse comunitarie attivabili nel contesto dell'organizzazione comune di mercato del settore del vino, pari a 20 milioni di euro per ciascuno degli anni che compongono il triennio 2010-2012.
A questi si aggiungono nella tabella D della legge finanziaria per il 2010 ulteriori 51,9 milioni di euro per il 2010, 16,7 milioni di euro per il 2011 ed una medesima cifra per il 2012, attinti dal fondo di cui all'articolo 5 della legge n. 183 del 1987, oltre a 100 milioni di euro per ciascuno degli anni 2010, 2011 e 2012, a valere sulle maggiori entrate derivanti dall'applicazione del decreto-legge sul cosiddetto scudo fiscale.
Con il decreto-legge «milleproroghe» è stato possibile inserire, grazie all'apporto del Governo, il consolidamento delle agevolazioni per la piccola proprietà contadina per tutto il 2010.
Anche nell'ultimo provvedimento di natura economica del Governo (il decreto-legge incentivi) sono state stanziate risorse a favore dell'agricoltura, in particolare introducendo incentivi per l'acquisto di nuovi macchinari agricoli.
Nella legge comunitaria 2009, approvata circa un mese fa da questa Camera, sono contenute numerose norme per rendere l'agricoltura italiana più competitiva, per aumentare il reddito nel settore primario e per rendere la burocrazia meno oppressiva. Tra gli interventi si ricordano: l'articolo 17 della legge, che consente l'assoggettamento alla DIA per gli impianti per la produzione di energia elettrica con capacità di generazione non superiore ad un megawatt elettrico; la revisione degli incentivi per la produzione di energia elettrica prodotta da impianti alimentati da biomasse e biogas, al fine di promuovere la realizzazione e l'utilizzazione di impianti in asservimento delle attività agricole; la definizione di alcol etilico di origine agricola proveniente dalle distillazioni vinicole quale bioliquido per scopi energetici.
Sempre la legge comunitaria 2009 ha introdotto l'esclusione dall'ambito di applicazione del decreto legislativo n. 194 del 2008 sui controlli sanitari ufficiali di tutte le attività dell'imprenditore agricolo, comprese nell'articolo 2135 del codice civile, incluse quelle connesse. Ciò ha consentito di escludere dal pagamento dei ticket per i controlli sanitari la produzione aziendale di vino, formaggi, olio, salumi e altre materie di produzione agricola e agroalimentare da parte degli imprenditori agricoli.
Nel settore bieticolo-saccarifero il Governo ha dimostrato attenzione alle necessità del settore e il nuovo Ministro per le politiche agricole, alimentari e forestali, Pag. 37onorevole Galan, ha già confermato l'impegno a stanziare gli aiuti nazionali autorizzati dalle normative comunitarie per complessivi 86 milioni di euro, relativi agli anni 2009 e 2010, trovando la necessaria copertura finanziaria.
Nel settore della pesca il Governo sta agendo con grande risolutezza, cercando di contrastare la gravissima crisi che coinvolge il settore, soprattutto dopo la fine del periodo transitorio di oltre tre anni di alcune disposizioni contenute nel regolamento (CE) n. 1967/2006 del Consiglio, cosiddetto regolamento Mediterraneo, che toccano direttamente oltre il 25 per cento della nostra flotta peschereccia.
Con riferimento alla situazione finanziaria del settore della pesca, la legge finanziaria del 2010 ha prorogato il Programma nazionale triennale della pesca e il decreto-legge n. 162 del 2008 ha stanziato a favore della pesca 30 milioni di euro, volti a contrastare il «caro gasolio» conseguente all'aumento del prezzo del petrolio. Anche nell'anno in corso verrà pagato il fermo biologico con le risorse della cassa integrazione in deroga.
Relativamente al «regolamento Mediterraneo», il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali ha deciso di attivare le richieste di deroghe consentite dal regolamento comunitario e ha costituito un'unità di crisi dove, grazie alla presenza delle regioni e delle associazioni professionali, saranno anche vagliate le necessarie e possibili iniziative a sostegno delle imprese e del personale imbarcato.
In merito al «piccolo strascico costiero» il Governo si sta inoltre adoperando per individuare le misure in grado di limitare al massimo l'impatto sociale ed economico determinato dalle nuove regole comunitarie ed è in corso un'istruttoria per la messa in opera dei provvedimenti previsti dal Fondo europeo per la pesca (FEP).
Molto è stato fatto, ma molto bisogna ancora fare per il settore. Per tale ragione, i componenti del gruppo PdL nella loro totalità nella XIII Commissione (Agricoltura) hanno presentato questa mozione per impegnare il Governo: ad operare al fine di proseguire e implementare l'azione di sostegno all'agricoltura italiana, attraverso misure volte a sostenere i settori in crisi, anche attraverso azioni di negoziazione a livello comunitario, con particolare riferimento al settore ittico, lattiero-caseario, cerealicolo, oleicolo e frutticolo; a promuovere il made in Italy all'estero in modo efficace, anche eliminando duplicazioni di funzioni e razionalizzando l'azione delle amministrazioni coinvolte, mediante la soppressione di Buonitalia Spa; a promuovere e rafforzare l'accesso al credito degli imprenditori agricoli e a valutare l'opportunità di una detassazione parziale dei redditi, consentendo un aumento della competitività del comparto; ad intraprendere un costruttivo dialogo con le regioni al fine di rendere coerenti gli interventi previsti nel piano di sviluppo rurale, evitando il disimpegno dei fondi comunitari; a continuare nell'opera di sburocratizzazione in favore delle imprese agricole; a valutare l'opportunità di stabilizzare gli oneri contributivi per le aree montane e svantaggiate, almeno per tutto il 2010; a reperire con immediatezza le risorse finanziarie necessarie per la ristrutturazione del settore bieticolo-saccarifero; ad attivare tutte le iniziative ritenute opportune, normative e negoziali con l'Unione europea, al fine di ridurre al minimo le conseguenze negative sul settore ittico italiano del «regolamento Mediterraneo» e di prevedere adeguate risorse finanziarie per tutelare i lavoratori e le imprese del settore.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Trappolino. Ne ha facoltà.

CARLO EMANUELE TRAPPOLINO. Signor Presidente, sottosegretario, onorevoli colleghi, era necessaria una mozione come quella oggi in discussione per far uscire l'agricoltura da una marginalità a cui è stata relegata da due anni di non politica, di chiacchiera e di propaganda? Era davvero necessaria una discussione sull'agricoltura italiana per smuovere un Governo che appare del tutto refrattario a prendere atto dello stato di crisi in cui verte il Pag. 38nostro comparto primario? Noi pensiamo di sì, e non per strumentalizzare la crisi (mi rivolgo al collega Fogliato, che prima ha abusato di questa parola), ma perché crediamo che, come Noè appena sceso dall'arca piantò una vigna e con questo gesto rese nuovamente disponibile il futuro affinché l'uomo esercitasse il suo progetto e la sua responsabilità nel tempo (perché solo la praticabilità del futuro rende possibile l'esercizio della responsabilità), appunto, il permanere della certezza che il futuro è un luogo praticabile sia la questione determinante. Si pianta la vigna sapendo che avremo bisogno di tempo e di certezze prima di goderne pienamente i frutti.
Se Noè fosse sbarcato nell'Italia di oggi (un Noè giovane, dei nostri giorni), sapendo dello stato in cui versa la nostra agricoltura, avrebbe certamente optato per un Gratta e vinci o avrebbe sfidato la sorte in qualche telequiz, e comunque mai avrebbe scelto di fare l'agricoltore.
Il collega Zucchi prima, illustrando la mozione, ha indicato con somma chiarezza gli effetti della crisi sul comparto e le criticità del settore. Di fronte a dati ben conosciuti il Governo ha fin qui scelto l'inerzia - abbiamo detto - e tuttavia a ben guardare si tratta di un'inerzia bucata, attraverso la quale spariscono risorse destinate al mantenimento di consolidati impegni, e comunque un'inerzia costosissima che ha portato a livelli di debito pubblico mai così alti.
Non solo non si fa nulla per affrontare la crisi, ma si coltivano incertezze destabilizzanti per quel che riguarda il Fondo di solidarietà nazionale, gli sgravi degli oneri sociali per i territori svantaggiati e di montagna e il Fondo per l'imprenditorialità giovanile in agricoltura.
Fatta eccezione per provvedimenti destinati a frange di elettorato, utili a fare demagogia, e del tutto privi di una reale efficacia, la linea minimalista di questo Governo anticipa una sorta di colossale dismissione di interi comparti agricoli. Più in dettaglio, su una questione che attiene un comparto ad alta intensità di lavoro, il settore tabacchicolo, si avverte la sommatoria di debolezze sospette e di una sin troppo evidente mancanza di azioni incisive verso la Commissione europea. A tale proposito, vorrei chiedere al collega Fogliato che fine ha fatto la promessa di Zaia in merito alla misura agro-ambientale.
Attraverso questa mozione, allora, intendiamo mettere il Governo dinanzi alle proprie responsabilità, perché, se vuole far il bene del Paese, dovrebbe riaprire almeno le porte di un futuro che è precluso a tanti, agli agricoltori e soprattutto ai giovani agricoltori. Come si può pensare al rilancio dell'agricoltura, come si può pensare in termini di multifunzionalità e di sviluppo rurale senza guardare ai soggetti che dovranno esserne i protagonisti? Il ricambio generazionale in agricoltura nel nostro Paese permane ai livelli più bassi d'Europa. Del resto come si può immaginare di scegliere di fare l'imprenditore agricolo quando chi si avventura in questo mondo viene dissuaso da una crisi che deprime i redditi, dal pressoché impossibile accesso al credito, da un Governo che non fa nulla per affrontare ora alcuni nodi strutturali e rende incerti persino gli impegni consolidati?
Ecco, su tale questione (quella del ricambio generazionale) il Governo preferisce soprassedere. Eppure, le misure destinate a ricreare delle condizioni di fiducia, senza le quali nessuno seguirebbe Noè nel piantare la vigna, non implicano voragini finanziarie. Mi chiedo, ad esempio, che fine abbia fatto la proposta, tanto propagandata, di affitto dei terreni demaniali a giovani imprenditori agricoli. Dopo l'annuncio dell'ex Ministro Zaia non se ne è fatto più nulla. E ancora, appunto, l'accesso al fattore terra resta per i giovani il punto centrale.
Presidente, sottosegretario, colleghi, servono segnali chiari per ricostruire un patrimonio di fiducia che oggi rischia di dissolversi e servono all'indirizzo di chi decide nel presente per esercitare la responsabilità rispetto ad un futuro in cui proiettare aspirazioni e progetti.
Segnali che possono venire dall'adozione di politiche fiscali nei riguardi di giovani imprenditori agricoli; politiche e Pag. 39misure che potrebbero concorrere, insieme ad altri urgenti provvedimenti, ad intervenire sugli sconcertanti dati relativi alla disoccupazione giovanile. È qui il senso della nostra discussione e mi avvio a concludere, signor Presidente. Il Governo deve assumersi una grande responsabilità nei confronti dell'agricoltura. Questo chiediamo. Soprattutto, deve smettere di considerare questo settore come una sorta di residuo di un sistema produttivo ormai desueto, perché guardando a cosa accade intorno a noi, in Europa, ciò che è desueto oggi è propriamente questa assenza di politica agricola, questo sostanziale disinteresse per le imprese, gli agricoltori e le funzioni svolte dall'agricoltura italiana (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Agostini. Ne ha facoltà.

LUCIANO AGOSTINI. Signor Presidente, signor sottosegretario, nei primi due anni di questo Governo ben poco si è fatto per il settore della pesca, settore storicamente debole, al pari di quello agricolo, che, di fronte a questa nuova e devastante crisi economica, rischia la paralisi se non, addirittura, la scomparsa. Il gruppo del Partito Democratico, in Commissione agricoltura, ha più volte sollecitato il Governo ad assumere iniziative volte al sostegno della filiera ittica. Purtroppo, i nostri richiami sono caduti nel vuoto. Ad inizio legislatura approvammo una risoluzione, presentata proprio dal gruppo del PD, ove si evidenziavano alcuni nodi strutturali del settore ittico. Anche a questa iniziativa non è stato dato seguito. Successivamente, abbiamo presentato anche una proposta di legge di riordino del settore, ma anche questa, nonostante le numerose sollecitazioni, ancora non vede avviare l'iter in Commissione.
Il Governo ha, al pari del settore agricolo, ignorato anche quello ittico: infatti, nelle finanziarie approvate, così come nei diversi provvedimenti cosiddetti anticrisi, non c'è traccia di misure atte a sostenere il settore della pesca. Anche nella manovra finanziaria 2011-2012, da pochi giorni approvata dal Governo, continuano ad essere ignorati sia il settore agricolo che quello ittico. Per sgombrare il campo da possibili equivoci vogliamo ribadire, ancora una volta, tutta la nostra attenzione e disponibilità al confronto, a tutte le iniziative verso una pesca responsabile e sostenibile, secondo i principi contenuti nel codice di condotta per una pesca responsabile.
La pesca italiana, quindi, fronteggia attualmente una crisi reale. La normativa europea inchioda il settore al rispetto di nuove regole che gran parte degli operatori ha sottovalutato e questo rischia di rendere irreversibili gli effetti di una crisi che parte da lontano, dai problemi dell'inquinamento marino e da una pesca non sempre razionale, chiamata a fare i conti con il grande problema del sovrasfruttamento delle risorse. Così come dalla estrema fragilità di un sistema di piccole e medie imprese frammentato, debole nei confronti del sistema creditizio, slegato da logiche commerciali e distributive e, per questo, messo già in ginocchio da qualsiasi oscillazione dei costi di produzione, in primis, ovviamente, il costo del gasolio, che gli operatori non sono più in grado di scaricare sul prezzo del prodotto.
Siamo di fronte ad una vera e propria emergenza, che rischia di avere contraccolpi socio-economici ed occupazionali devastanti, ma potremmo anche essere di fronte ad un cruciale momento di svolta che, se adeguatamente governato, potrebbe consentire di dare al settore risposte concrete in grado di accompagnare questo gravoso processo di cambiamento, guidandolo verso un nuovo modo di guardare a questa attività produttiva e al ruolo delle imprese nella filiera.
Per questa ragione, signor sottosegretario, rinviando ad altra occasione per una discussione di merito più profonda, voglio sinteticamente evidenziare alcuni punti. Il primo: piena attuazione e rilancio del pacchetto di misure anticrisi controfirmato dal Ministro Tremonti nell'aprile 2008. Come è noto, si tratta di una dotazione di 30 milioni di euro per misure a Pag. 40sostegno dei consorzi fidi e delle strutture finanziarie e per investimenti per la sicurezza e la dotazione di bordo.
Si ritiene opportuna l'emanazione di un nuovo decreto ministeriale per definire le procedure di attuazione delle misure ipotizzando di sanare definitivamente il problema del blue box e di finanziare gli investimenti per strumentazione ed equipaggiamenti di bordo effettuati dalle imprese a decorrere dal 1o giugno 2008.
Erogazione degli aiuti in regime di de minimis mirati esclusivamente alla capitalizzazione e alla patrimonizzazione delle imprese; attivazione dei periodi di fermo temporaneo a valenza ecobiologica, prevedendo magari anche alcuni periodi di tipo volontario sostenuto con il ricorso alla cassa integrazione in deroga estesa anche al segmento del piccolo strascico costiero; su questo devo dare atto al sottosegretario che avevamo iniziato un proficuo confronto che aveva portato anche a risultati importanti e, poi, per mancanza di delega si è dovuto interrompere tutto. Creazione di un fondo per lo sviluppo dell'imprenditoria ittica che innovi la strumentazione di supporto alle imprese per il recupero della competitività in linea con la più recente normativa europea sugli aiuti di Stato per le piccole e medie imprese del settore, mediante investimenti orientati alla crescita delle dimensioni aziendali, ristrutturazioni e salvataggi, concentrazioni e fusioni, prestiti partecipativi e ed altre cose ancora.
Agevolazione per l'accesso al credito per interventi di ristrutturazione e riconversione delle imprese; varo di un piano di salvataggio per il piccolo strascico costiero coordinando i possibili canali di intervento finanziario; fondo unico con dotazione autonoma per l'attuazione di una serie di misure socioeconomiche di competenza statale e regionale, come l'arresto definitivo, sostituzione attrezzi in licenza, ammodernamenti, piani di gestione locali, azioni per l'integrazione del reddito, la diversificazione e la riqualificazione.
Corsia preferenziale alle misure FEP volte a promuovere l'organizzazione della catena di produzione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti della pesca e l'integrazione della filiera; valorizzare e promuovere la qualità dei prodotti mediante politiche di marchio e certificazione, sostenendo le organizzazioni di produttori, le OP, e portare al decollo i piani di sviluppo locale.
Signor sottosegretario, questi sono alcuni punti sintetici che noi abbiamo anche richiamato nella nostra proposta di legge così come facemmo nella risoluzione che approvammo all'inizio della legislatura e non vorremmo che quel confronto che si era avviato in maniera proficua sui temi della pesca con lei in Commissione si debba interrompere o addirittura con la nomina del nuovo Ministro si debba iniziare ancora da capo.
Su tutto questo il Partito Democratico lancia una sfida ed è pronto ad un confronto di merito nella sede parlamentare per arrivare nel più breve tempo possibile all'approvazione di idonei provvedimenti che possano risollevare un settore fortemente in crisi (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Marco Carra. Ne ha facoltà.

MARCO CARRA. Signor Presidente, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, ho recuperato un'intervista di qualche giorno fa che il neoministro Galan ha concesso al Corriere della Sera. Il Ministro ha detto che i redditi da lavoro agricolo dal 2001 al 2009 sono calati del 36 per cento e, considerando anche i pesanti tagli del passato, lancia un sos al Governo; la mia preoccupazione fortissima, dice il Ministro, è di aver trovato una situazione difficile; l'agricoltura non è quel mondo da «mulino bianco» che si descrive in TV.
Ora senza bisogno di fare nome e cognome, si comprende benissimo a quale neopresidente di regione, già predecessore del Ministro Galan, quest'ultimo si stia riferendo. Insiste il Ministro: questo settore è fondamentale e ha bisogno del sostegno pubblico. Mi auguro che il Governo nel quale ho fiducia sappia tenerne conto. Non si può massacrare il made in Italy. Pag. 41
Mi pare che attraverso tali considerazioni ritroviamo la risposta alle considerazioni che hanno qui esposto i colleghi Fogliato e Biava. È il Ministro che sta dicendo cose estremamente importanti, che fa considerazioni che noi andiamo sostenendo da un po' di tempo.
Va modificato, signor sottosegretario, da parte del Governo e della maggioranza il paradigma culturale che vede oggi l'agricoltura come un comparto fine a se stesso.
Noi viceversa pensiamo che agricoltura significhi salute, ambiente, alimentazione, cioè assume un valore di carattere - senza esagerare - di ordine planetario.
Per stare sempre sulle parole del Ministro, laddove richiama il dato in negativo dall'inizio del secolo, del millennio, dobbiamo considerare che tranne una breve parentesi - cioè dalla metà del 2006 alla fine del 2007, periodo nel quale ha governato il centrosinistra - in tutto questo arco temporale ha sempre governato il centrodestra. Se la situazione è questa, mi pare che vi siano responsabilità politiche enormi e ben identificate.
In questo biennio - lo hanno già ricordato i colleghi - il Governo non ha adottato alcun provvedimento per affrontare la crisi, né evidentemente, a maggior ragione, per indirizzare una prospettiva, per individuare un orizzonte. La mozione in esame ci sembra che tutto questo lo faccia. Nella stessa manovra di fine maggio l'agricoltura viene maltrattata. Dunque vede, signor sottosegretario, per un Governo ed una maggioranza che si definiscono «del fare» non è un gran risultato. Infatti, nella migliore delle ipotesi per l'agricoltura siete stati e siete il Governo del fare niente, nella peggiore delle ipotesi siete stati e siete il Governo del fare disastri. D'altronde è il Ministro stesso, signor sottosegretario, a dichiarare quanto ho letto e non mi pare che vi siano grandi spazi interpretativi.
Noi vi chiediamo di ascoltarci. Abbiamo la presunzione, in qualche modo, di rappresentare il mondo agricolo, una parte considerevole di esso. Ascoltateci. Riportate l'agricoltura in cima all'agenda della politica, in cima all'agenda del Parlamento e del Governo. Raccordatevi con il mondo dell'associazionismo, andate nelle campagne e nelle aziende. Il collega Mosella ha lanciato - o meglio ha rilanciato - l'idea degli stati generali dell'agricoltura: è un'idea buona, che va ripresa, signor sottosegretario. Bisogna tenere aperto il confronto e individuare con gli attori le soluzioni agli enormi problemi che attanagliano il comparto.
Il Ministro precedente, su un tema specifico, l'ippica, ha abbozzato un tentativo simile, ha tentato di dar vita ad una sorta di stati generali. Mi pare che il risultato non abbia prodotto e non stia producendo grandi risultati, noi anzi valutiamo anche l'ipotesi, tanto per stare sull'ippica, di sciogliere l'UNIRE, perché francamente rischia di essere un baraccone - mi si consenta l'utilizzo di questo termine - che succhia risorse pubbliche e la cui finalità è oggi un po' a tutti ignota.
Per stare su alcune questioni di merito, voglio sottolineare un paio di problemi e di temi: la questione nitrati, signor sottosegretario, che interessa gli allevamenti suini e quelli bovini. Noi sulla questione nitrati abbiamo a che fare con una nuova norma, che per gli allevamenti si traduce in una scure terribile, perché viene richiesta una quantità di terreno, come lei ben sa, superiore del 200 per cento della superficie agricola disponibile. Siccome il terreno non è un bene riproducibile, la soluzione potrebbe diventare quella di azzerare gli allevamenti, ma anche questa ci pare difficilmente percorribile. Noi pensiamo che sia opportuno che il Governo prenda in mano questa situazione. Noi questo tema non lo abbiamo affrontato nello specifico della mozione, perché lo abbiamo affidato ad una risoluzione, che giace ormai da troppo tempo e vorremmo si discutesse, per tentare di entrare nel merito di un problema davvero annoso. Vi è la necessità, come dicevo, che il Governo prenda in mano la situazione, che incoraggi gli imprenditori agricoli ad investire nello sviluppo di tecnologie per l'abbattimento dell'azoto. Siccome questi sono investimenti che non producono reddito, difficilmente gli agricoltori da soli li fanno Pag. 42e li producono: c'è bisogno di un intervento pubblico. È bene poi interrogarsi, nonostante le difficoltà che sicuramente incontreremo in sede europea, sulla necessità di applicare una qualche deroga, sapendo che non si può vivere costantemente di deroghe.
Arrivo rapidamente alla conclusione signor Presidente: volevo toccare brevemente il tema dei suini, che abbiamo rilevato nella nostra mozione.
Pensiamo che debba essere realizzato un prodotto differenziato (siamo contrari all'indifferenziazione) e che debba avere precise connotazioni distintive. Dobbiamo, inoltre, proteggere il nostro prodotto dalla concorrenza estera, che spesso è sleale.
Per questi motivi, nella nostra mozione, proponiamo il tema dell'etichettatura all'origine, affinché si possano valorizzare le produzioni tipiche italiane: riteniamo che rappresenti una scelta di grande qualità (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Sani. Ne ha facoltà.

LUCA SANI. Signor Presidente, le ragioni di fondo della mozione sottoscritta dai deputati del Partito Democratico sono state ben illustrate dall'onorevole Zucchi. Mi riferisco alla necessità di portare in Parlamento una discussione seria sulla crisi dell'agricoltura e di richiamare ad un impegno conseguente il Governo. Proponiamo ciò perché, in questi due anni, il Parlamento non lo ha fatto nella maniera dovuta, mentre i problemi sono molto seri.
La premessa della nostra mozione è, forse, un bollettino di guerra, tuttavia, non è catastrofismo, bensì è la dura realtà: vi è un calo dei prezzi e dei redditi, ed aumenta l'illegalità. Per avere dimostrazione di ciò, non occorre fare riferimento ai dati dell'Ismea - mi rivolgo al collega Fogliato - basta andare tra gli agricoltori per capire che vento tira.
La realtà è che, in questi anni, vi è stata un'assenza complessiva di politiche. In questa legislatura, abbiamo registrato sostanzialmente tagli, a partire da quando qualcuno diceva che la crisi non c'era o che, perlomeno, era già alle nostre spalle. A questo si è accompagnata un'assenza di certezze sul Fondo di solidarietà nazionale e sulle risorse per i contributi previdenziali nelle zone svantaggiate, che - lo ricordo - ad oggi, sono coperte solo fino al 31 luglio.
Inoltre, sono stati portati all'esame di quest'Aula due provvedimenti: il primo è stato svuotato dal decreto-legge cosiddetto milleproroghe del 2009; l'altro - quello famoso, concernente la competitività - è «impaludato», con scarse speranze che vi siano recuperi effettivi.
Nel frattempo, la crisi si è aggravata e, nell'ambito di questa crisi generale, è stata predisposta una manovra nella quale la parola «agricoltura» non viene mai citata. Qualcuno si consola dicendo che, per lo meno, non vi sono saldi. Ci credo che non vi sono saldi: non siamo nemmeno in condizione di raschiare il barile, perché, ormai, a forza di raschiare, il barile è sfondato. La verità è un'altra: per questo Governo, per questa maggioranza e per il Popolo della Libertà, che presenta una mozione addirittura all'ultimo momento, l'agricoltura è la cenerentola dell'economia italiana.
Noi pensiamo diversamente: riteniamo che affrontare i problemi relativi al settore agroalimentare possa anche contribuire ad uscire dalla crisi, attraverso il rafforzamento del made in Italy ed il rilancio dell'export delle principali produzioni. Inoltre, dobbiamo tenere conto di un fattore e, cioè, che esiste uno scarto enorme tra una sensibilità crescente nel cittadino consumatore rispetto alla sicurezza, alla qualità alimentare, alla tutela del paesaggio e alla salvaguardia dell'ambiente e le politiche a sostegno delle produzioni agricole, della tutela delle produzioni e dell'agricoltura.
Vorrei prendere ad esempio la vicenda che riguarda il settore dei cereali, in particolar modo del grano duro. Nell'ultimo biennio, in Italia, sono stati persi due milioni di tonnellate di produzione di grano duro. I costi di produzione superano i ricavi e molte aziende vanno fuori mercato, Pag. 43mentre il fabbisogno nazionale di grano duro per pasta, pane ed altri generi è di sei milioni di tonnellate (la sola pasta ne impiega tre, di cui il 55 per cento è dedicato all'export). Per i fabbisogni impiegati sulle produzioni nazionali vengono utilizzati tre milioni di tonnellate di grano duro italiano. E gli altri tre? Da dove arrivano? Con quali garanzie per la sicurezza alimentare? È stato riscontrato, che in alcuni tipi di pasta sono rilevabili tracce di DDT, che in Europa non è consentito, ma che in alcuni Stati africani, per esempio, può essere impiegato per le attività di coltivazione del grano duro.
Inoltre, chi fa i controlli? Sappiamo, per esempio, che i controlli non vengono fatti nelle stive delle navi e laddove vi sono porti più scrupolosi si finisce con il chiudere le operazioni di sbarco.
Pertanto, dobbiamo rispondere a quella sensibilità che hanno i cittadini consumatori rispetto alla sicurezza alimentare, garantendo la provenienza del grano duro per le produzioni della nostra pasta, che sono occasione anche di qualità più complessiva delle nostre produzioni. Al contrario, ci troviamo al paradosso per cui gli agricoltori italiani sono costretti a vendere un prodotto di qualità - quello del grano duro italiano - al mercato zootecnico, al prezzo più basso del mondo. Dunque, recuperare un impiego del grano duro prodotto in Italia è utile al rilancio della produzione nazionale e alla garanzia della qualità. Infatti, qualità della pasta significa qualità dell'alimentazione mediterranea, significa qualità dell'export, ma questo richiede politiche.
Attraverso questa mozione, chiediamo di ripartire dal piano cerealicolo che era stato approvato e che anche le associazioni di categoria avevano apprezzato, nonché di finanziare i contratti di filiera e di distretto, in quanto, tra l'altro, il margine di filiera sta aumentando (cioè si paga ancora meno nel luogo di produzione, con un crollo dei prezzi, mentre i prezzi rimangono invariati al consumo).

PRESIDENTE. La invito a concludere.

LUCA SANI. Chiediamo, inoltre, che sia garantita l'etichettatura chiara e trasparente sulla provenienza e sulla qualità delle materie prime, in particolar modo per la produzione della pasta. In più, sempre per il settore cerealicolo, chiediamo riforme delle voci merci: riformare i metodi di definizione dei listini.
Infine, in occasione della riforma della PAC, dobbiamo pensare a meccanismi di tutela economica del prodotto per l'agricoltore e per il tessuto imprenditoriale del nostro Paese. Ciò serve non solo alla produzione cerealicola, ma anche alle altre produzioni, ossia intervenire per fermare la chiusura di molte aziende e l'aumento delle superfici non coltivate.
Un ultima riflessione: per consentire alle nostre aziende di vivere meglio, occorre davvero semplificare perché il carico di burocrazia è soffocante, specialmente nelle piccole aziende.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

LUCA SANI. Al di là della riforma dell'articolo 41 della Costituzione, occorre spingere sull'anagrafe delle aziende per lo scambio di informazioni tra diversi enti e diverse amministrazioni, e non costringere il povero agricoltore quotidianamente a fare file interminabili di fronte agli sportelli di amministrazioni o di enti diversi (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Servodio. Ne ha facoltà.

GIUSEPPINA SERVODIO. Signor Presidente, nessuna strumentalizzazione: era doveroso portare in quest'Aula il dibattito sulla crisi del comparto agroalimentare proprio alla vigilia del dibattito parlamentare sulla manovra finanziaria.
Oggi si può governare l'agricoltura con un approccio multifunzionale e intersettoriale. Nell'approccio multifunzionale - signor sottosegretario, lei è stato investito in questi anni - le agroenergie rappresentano un aspetto di importanza strategica. Purtroppo il Governo, in questi anni, ne Pag. 44ha sottovalutato la portata, ha operato con interventi saltuari, senza indicare regole certe agli operatori che hanno inteso cimentarsi in questo settore. Spesso sono stati cambiati criteri e regole. I protagonisti vivono ancora oggi situazioni di incertezza per i propri investimenti.
Oltre al valore per il rispetto degli accordi internazionali per contrastare i cambiamenti climatici, l'interesse strategico delle agroenergie si riferisce alla possibilità di incrementare la produzione lorda vendibile del mondo agricolo del 10 per cento, fermo restando il ruolo primario dell'agricoltura, che è e rimane quello della produzione alimentare e di presidio ambientale.
Riteniamo urgente, signor sottosegretario, definire il profilo delle politiche in tale settore, proprio per scongiurare interventi frammentari o, peggio, condizionati da alcune lobbies che nessun apporto positivo portano alle imprese agricole.
Chiediamo al Governo di confrontarsi in Parlamento sul tema delle energie alternative. Il sistema deve essere compatibile con le peculiarità del nostro Paese e, quindi, dell'agricoltura italiana, la quale, da tale attività, deve ricavare un reddito integrativo e non sostitutivo.
Nel recente passato, il Governo, nell'adottare la tariffa onnicomprensiva, ha mortificato profondamente il mondo agricolo; chiediamo di intervenire in tempi rapidissimi per considerare il mondo agricolo e agro-industriale con pari dignità all'interno della stessa filiera agro-energetica.
Sull'adozione del piano nazionale, il Governo, è in forte ritardo: non sono state definite le linee strategiche di azione per indicare regole, condizioni e tempi certi per lo sviluppo delle risorse da biomassa, l'applicazione di dispositivi per la sostenibilità dei biocarburanti e delle filiere di biometano nell'ottica di incrementare le fonti di reddito agli agricoltori.
Segnaliamo che il gestore dei servizi elettrici e il Ministero dello sviluppo economico hanno predisposto un piano bozza. Tuttavia, ci preoccupa che il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali non sia stato tempestivamente e pienamente coinvolto. Possibile che il ruolo di tale Ministero venga tenuto in così basso profilo su una materia di sua specifica competenza?
Occorre, inoltre, un testo unico sulle agro-energie e sulle energie alternative in generale. Ci troviamo di fronte ad un caos normativo che ha bloccato la fiducia delle banche sul settore.
Riconfermiamo - e lo diciamo nella mozione - l'assoluta necessità di adottare un modello di sviluppo per il settore agro-energetico nel quale i distretti agro-energetici siano la dimensione compatibile che consentirebbero le filiere corte e la valorizzazione delle piccole realtà agricole orientate alle agro-energie. Il nostro futuro possibile sono le agro-energie di terza generazione che puntano a valorizzare i sottoprodotti agricoli della zootecnia e della forestazione. Nell'attuale condizione di incertezza normativa, di provvisorietà delle misure economiche e di vuoto di coordinamento - come tra le regioni - si sta creando un terreno facile per speculazioni e per la utilizzazione di territori per insediamenti industriali di produzione di energia con carichi di biomasse importati da altri Stati.
Signor sottosegretario, questa non è la nostra vocazione, e non per un pregiudizio, ma per la consapevolezza delle caratteristiche dei territori rurali che sono la grande risorsa del nostro Paese. Diciamo «no» agli impianti di trasformazione e di produzione di energia da biomasse di grandi dimensioni e «sì» ad una rete di strutture capaci di essere in sintonia con le caratteristiche del territorio. Chiediamo un piano nazionale di azione che introduca finalmente criteri di compatibilità, di razionalità e di equità all'intero settore delle energie rinnovabili (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fiorio. Ne ha facoltà.

MASSIMO FIORIO. Signor Presidente, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, noi del Partito Democratico, un anno fa, Pag. 45presentammo una nostra mozione per denunciare il grave stato di crisi della salute dell'agricoltura del nostro Paese. Sapevamo, infatti, che eravamo in una situazione di rischio e di compromissione fatale. Allora il Ministro rassicurò il Parlamento, rilanciò il proprio impegno e il proprio attivismo per arrivare a una soluzione. Dobbiamo dare atto al Ministro che alcuni risultati li raggiunse, personalmente, attraverso la sua candidatura a presidente della regione Veneto.
Invece, quello che mettemmo allora sul piatto rimane ancora oggi: gli interessi generali del Paese e dell'agricoltura rimangono impegni non portati a termine. In un anno di lavoro poche volte si è parlato di agricoltura in quest'Aula: ricordo un'iniziativa del Partito Democratico sui prodotti di quarta gamma e un provvedimento sulla classificazione del riso. Quest'ultimo è stato licenziato da questa Camera ma, adesso, in Senato si trova una soluzione differente; probabilmente tornerà qui in terza lettura e non sappiamo ancora quale sarà la soluzione finale.
Il Paese sta ancora aspettando soluzioni. Con la mozione da noi presentata abbiamo ripercorso la crisi di vari comparti.
Non vogliamo essere così pressappochisti da denunciare e fare soltanto un'elencazione delle difficoltà, un cahier des doléances. Tuttavia, non vogliamo neanche essere così ingenui da pensare che siamo in grado di portare a soluzione ogni comparto. Quello che chiediamo al Governo è che metta mano e che prenda atto della necessità di scegliere e di prendere delle decisioni chiare, ma questo non può avvenire con il rincorrere, come finora è avvenuto, su provvedimenti che sono dovuti al settore. Per due anni abbiamo parlato di Fondo di solidarietà, di agevolazioni contributive per le zone svantaggiate e ogni anno l'opposizione, il Parlamento e le categorie hanno inseguito il Governo perché mantenesse gli impegni.
Tuttavia, non è neanche possibile procedere per leggi delega e penso, per esempio, al settore vitivinicolo, in cui il Governo ha deciso di subire una normativa europea quando si poteva mettere mano in quel settore in modo importante anche riformandolo, perché quel settore non è soltanto un pezzo importante del nostro agro-alimentare ma anche del nostro made in Italy. Magari anche attraverso un'attenta valutazione di quel comparto e della normativa nazionale si potevano affrontare le questioni dell'internazionalizzazione del nostro prodotto, si poteva mettere mano e riformare istituti come l'ICE e come Buonitalia Spa, perché il nostro prodotto può stare sul mercato internazionale soltanto con strumenti adeguati e molto spesso le nostre aziende arrivano in modo disordinato sui mercati internazionali e subiscono l'aggressione di competitor più aggressivi di quelli italiani.
A proposito poi del settore lattiero caseario chiediamo che il Governo dia notizie in un momento difficile e in cui circolano notizie contrastanti. Ci auguriamo che il Governo e il Ministro diano chiarimenti rispetto a questo settore e che per il momento almeno sia sospeso il pagamento della sesta rata a favore di coloro che hanno deciso negli anni, attraverso il lavoro e le proprie risorse, di adeguarsi alla loro capacità produttiva.
In ordine poi alla semplificazione prima citata - che però è sempre e soltanto sbandierata - chiediamo che il Governo proceda e che per intanto si prenda atto delle differenze produttive che ci sono nel nostro Paese. Abbiamo aziende di diverse dimensioni e non possiamo lasciare che le piccole aziende subiscano lo stesso onere burocratico delle aziende agro-alimentari di grosse dimensioni, quelle industriali, perché in questo momento queste aziende rischiano più delle altre.
Se non vogliamo che accada in modo più drammatico ciò che già sta accadendo in molte parti del nostro territorio, cioè le speculazioni in atto sul territorio da parte di imprese che cercano di desertificare il territorio agricolo attraverso la posa in atto di impianti fotovoltaici a terra che davvero rischiano di compromettere per sempre il nostro territorio agricolo, chiediamo che il Governo metta mano a misure Pag. 46costruttive e che in questo percorso la nostra parte sia coinvolta. Non ci sottrarremo come non ci siamo sottratti finora a un confronto con il Governo e ci auguriamo che questo confronto vi sia e che non si proceda come finora si è proceduto (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.
Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire in sede di parere sulle mozioni presentate.
Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

Discussione del disegno di legge: Individuazione delle funzioni fondamentali di Province e Comuni, semplificazione dell'ordinamento regionale e degli enti locali, nonché delega al Governo in materia di trasferimento di funzioni amministrative, Carta delle autonomie locali. Riordino di enti ed organismi decentrati (A.C. 3118-A); e delle abbinate proposte di legge: Stucchi; Stucchi; Urso; Mogherini Rebesani ed altri; Angela Napoli; Garagnani; Giovanelli ed altri; Borghesi ed altri; Di Pietro ed altri; Ria e Moffa; Mattesini ed altri; Reguzzoni; Garagnani (A.C. 67-68-711-736-846-1616-2062-2247-2471-2488-2651-2892-3195) (ore 18,40).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Individuazione delle funzioni fondamentali di Province e Comuni, semplificazione dell'ordinamento regionale e degli enti locali, nonché delega al Governo in materia di trasferimento di funzioni amministrative, Carta delle autonomie locali. Riordino di enti ed organismi decentrati; e delle abbinate proposte di legge: Stucchi; Stucchi; Urso; Mogherini Rebesani ed altri; Angela Napoli; Garagnani; Giovanelli ed altri; Borghesi ed altri; Di Pietro ed altri; Ria e Moffa; Mattesini ed altri; Reguzzoni; Garagnani.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali - A.C. 3118-A)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari Unione di Centro e Partito Democratico ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
Avverto, altresì, che la I Commissione (Affari costituzionali) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore, presidente della Commissione affari costituzionali, onorevole Bruno, ha facoltà di svolgere la relazione.

DONATO BRUNO, Relatore. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il disegno di legge del Governo, del quale l'Assemblea inizia oggi la discussione, intende, in primo luogo, assicurare la piena attuazione delle disposizioni del Titolo V della Parte seconda della Costituzione in materia di enti locali e, in secondo luogo, perseguire una più efficiente allocazione delle funzioni presso i diversi livelli di governo, una razionalizzazione dell'apparato pubblico locale complessivo e una riduzione delle relative spese.
Esso costituisce un provvedimento collegato alla manovra di finanza pubblica per il 2010 in adempimento di quanto deliberato dalle Camere con apposite risoluzioni: la Camera dei deputati, con la risoluzione in Assemblea n. 6-00028 del 29 luglio 2009; il Senato della Repubblica, con la risoluzione n. 6-00017 del 29 luglio 2009.
La prima finalità del provvedimento è quella di definire le funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane. Ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p) della Costituzione, le funzioni fondamentali sono materia di competenza Pag. 47legislativa esclusiva dello Stato. Con questa previsione, il legislatore costituente del 2001, nel suo disegno non sempre per la verità razionale, ha inteso riservare l'individuazione delle funzioni fondamentali degli enti locali alla legge dello Stato, così da garantire contro possibili tentazioni centralistiche delle regioni l'attuazione del principio cardine stabilito con l'articolo 118 della Costituzione, secondo cui le funzioni amministrative devono essere attribuite tendenzialmente agli enti locali, a cominciare dai comuni in quanto enti più vicini al cittadino, e possono essere attribuite ai livelli di governo più distanti, comprese le regioni e lo Stato, solo se vi sia l'esigenza di assicurarne l'esercizio unitario.
L'individuazione delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane è inoltre necessaria perché costituisce a sua volta una condizione indispensabile per la completa esecuzione del disegno delineato dall'altra legge approvata dal Parlamento per l'attuazione del Titolo V, vale a dire la legge delega per il federalismo fiscale (legge n. 42 del 2009).
Questa legge, come ognuno ricorderà, si prefigge un nuovo assetto dei rapporti economici e finanziari dello Stato e delle autonomie territoriali, incentrato sul superamento del sistema di finanza derivata e sull'attribuzione di una maggiore autonomia di entrata e di spesa a comuni, province, città metropolitane e regioni nel rispetto dei principi di solidarietà e di coesione sociale.
In questo quadro, uno degli obiettivi principali della legge è il passaggio dal sistema dei trasferimenti fondato sulla spesa storica a quello dell'attribuzione di risorse basato sull'individuazione dei bisogni standard necessari a garantire sull'intero territorio nazionale il finanziamento integrale, da una parte, e i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e, dall'altra, delle funzioni fondamentali degli enti locali. Com'è evidente l'individuazione delle funzioni fondamentali degli enti locali, assieme alla determinazione del costo standard dell'esercizio di esse, è un passaggio fondamentale per l'attuazione del federalismo fiscale.
Infine, proprio in vista dell'attuazione del nuovo assetto della Repubblica delineato dal riformato Titolo V e caratterizzato dalla equiordinazione tra lo Stato, le regioni e gli enti locali, secondo il principio sancito dal nuovo articolo 114 della Costituzione, il provvedimento in esame si prefigge di razionalizzare l'apparato amministrativo locale in modo da assicurare un'efficienza in termini di servizi offerti sostenibile sotto il profilo finanziario.
La Commissione affari costituzionali ha iniziato l'esame del disegno di legge del Governo, cui sono state via via abbinate alcune proposte di legge di iniziativa parlamentare, l'11 marzo 2010.
L'istruttoria è stata ampia, nei limiti del tempo disponibile che era fin dall'inizio limitato, attesa l'urgenza del provvedimento e la connessa decisione del Governo di qualificarlo come collegato alla manovra di finanza pubblica, con tutto quel che ne deriva sul piano procedurale soprattutto in termini di tempi di esame.
Dopo un approfondito esame preliminare, nel corso del quale è stata anche svolta una concentrata indagine conoscitiva, la Commissione è passata all'esame degli emendamenti che sono stati molto numerosi. Le modifiche apportate al testo iniziale sono state diverse, come avrò modo di illustrare nel dettaglio. All'esito del lavoro il provvedimento si compone di 28 articoli che individuano le funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane, modificano ampiamente la disciplina degli enti locali e recano una delega al Governo per l'adozione di una Carta delle autonomie locali che raccolga e coordini le disposizioni in materia.
Vengo ora ad un'esposizione analitica dei diversi articoli. L'articolo 1 indica l'oggetto e le finalità del provvedimento, tra cui l'individuazione delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane e l'introduzione di alcune misure di razionalizzazione degli enti locali. Con un emendamento è stata inserita una clausola di salvaguardia (comma 1-bis)Pag. 48in base alla quale la legge e i decreti legislativi delegati devono essere attuati in conformità con gli impegni finanziari assunti con il Patto di stabilità e crescita, nonché in conformità con la disciplina del Patto di stabilità interno. Altre modifiche all'articolo 1 sono state apportate ai fini del coordinamento del testo per tenere conto delle variazioni introdotte nel complesso dell'articolato.
Gli articoli da 2 a 8 trattano delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane. Riguardo a queste ultime ricordo, incidentalmente, che sono previste dall'articolo 114 della Costituzione, ma non ancora istituite, e che alla loro istituzione dovrà provvedere il Governo con decreti legislativi sulla base di una delega contenuta nella già citata legge per il federalismo fiscale. Più precisamente, gli articoli 2, 3 e 4 individuano le funzioni fondamentali rispettivamente di comuni, province e città metropolitane. L'intervento della Commissione su questa parte del testo è stato nel complesso contenuto; si è precisato che l'attribuzione agli enti locali delle diverse funzioni fondamentali non fa venir meno la titolarità delle regioni non solo in materia di programmazione, ma, come previsto dal testo del Governo, anche in materia di coordinamento.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ROCCO BUTTIGLIONE (ore 18,50)

DONATO BRUNO, Relatore. Per quanto riguarda i comuni si è precisato che essi sono competenti non soltanto in materia di pianificazione urbanistica, ma anche di regolamentazione urbanistica di ambito comunale e non soltanto con riferimento agli interventi di recupero del territorio, come previsto dal testo iniziale, ma anche a quelli di riqualificazione degli assetti insediativi. Si è inoltre prevista la partecipazione del comune alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale. Inoltre, si è precisato che la tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e lo svolgimento dei compiti in materia di servizi anagrafici da parte dei comuni costituiscono esercizio di funzioni di competenza statale.
Per quanto riguarda le province è stata eliminata dall'elenco delle funzioni fondamentali quella dell'assistenza tecnico-amministrativa ai comuni. È stato inoltre precisato che la funzione provinciale inerente l'attività di previsione, la prevenzione e la pianificazione di emergenze in materia di protezione civile si esercita nell'ambito di piani nazionali e regionali di protezione civile.
Come si è detto, l'articolo 117, secondo comma, lettera p) rimette in via esclusiva alla legge dello Stato la definizione delle funzioni fondamentali degli enti locali; accade, però, che alcune di queste funzioni riguardino ambiti materiali che il terzo e quarto comma della Costituzione attribuiscono alla competenza legislativa concorrente dello Stato e delle regioni o alla competenza legislativa esclusiva residuale delle sole regioni. Unicamente per queste funzioni l'articolo 5 prevede che la legge regionale possa modificare il riparto di funzioni stabilite dalla legge statale attribuendo ai comuni funzioni fondamentali che la legge statale attribuisce alle province o viceversa. Ciò deve avvenire, però, al fine di garantire l'effettivo esercizio delle funzioni fondamentali a condizione che si ottenga il soddisfacimento ottimale dei bisogni delle rispettive comunità e comunque nel rispetto dei principi di leale collaborazione, di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. L'esercizio delle funzioni trasferite dalle regioni in base a questo articolo decorre dall'effettivo trasferimento dei beni e delle risorse tra i comuni e le province interessate. Si tratta di un principio generale ribadito con riferimento a diverse previsioni anche in altre parti del provvedimento.
L'articolo 6 precisa che le funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane indicate negli articoli precedenti sono disciplinate, e deve intendersi, nel loro esercizio dalla legge statale o dalla legge regionale, a seconda che la materia nella quale la funzione interviene spetti allo Stato o alle regioni in base al riparto di competenze legislative di cui Pag. 49all'articolo 117 della Costituzione. Pertanto, le funzioni afferenti alle materie nelle quali lo Stato ha potestà legislativa esclusiva saranno disciplinate dalla legge statale; le funzioni rientranti tra le materie di legislazione concorrente saranno disciplinate dal concorso, per i rispettivi ambiti, della legge statale e della legge regionale; le altre funzioni saranno disciplinate con legge regionale.
Tenuto poi conto che, ai sensi dell'articolo 117, sesto comma, della Costituzione, gli enti locali hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, in sede emendativa si è stabilito un principio di carattere generale per orientare questa potestà, prevedendo che i comuni, le province e le città metropolitane debbano organizzare le rispettive funzioni valorizzando, in applicazione del principio di sussidiarietà, l'iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale e per l'erogazione di servizi e prestazioni di interesse pubblico.
L'articolo 7 precisa che le funzioni fondamentali degli enti locali non possano essere esercitate da enti o agenzie statali o regionali o da enti o agenzie di enti locali diversi da quelli cui sono attribuite. Si tratta di una disposizione di salvaguardia intesa a garantire che l'esercizio delle funzioni fondamentali avvenga al livello cui è stato assegnato dalla legge statale o, dove è consentito, regionale. Con un emendamento in Commissione si è precisato che tali funzioni fondamentali non possono neppure essere attribuite ad enti o agenzie statali o regionali o ad enti o agenzie di enti locali diversi da quelli cui sono attribuite.
In sostanza, le funzioni che la legge dello Stato attribuisce come fondamentali agli enti locali devono restare attribuite agli enti locali, ferma la possibilità di trasferimento dalla provincia al comune e viceversa nei casi di cui al quinto comma e devono essere esercitate da questi. Con emendamenti della Commissione sono state introdotte all'articolo 7 anche altre due disposizioni di salvaguardia: la prima, al comma 1-bis, è stata suggerita dalla Commissione ambiente e prevede che restano ferme in ogni caso le competenze in materia ambientale riconosciute per legge all'Istituto superiore per la protezione della ricerca ambientale e alle agenzie regionali per la protezione dell'ambiente; la seconda, al comma 2, prevede che, con l'entrata a regime del nuovo sistema di titolarità delle funzioni, cessi ogni forma di finanziamento delle funzioni esercitate in contrasto con le disposizioni di legge e siano nulli gli atti adottati nell'esercizio delle suddette funzioni.
L'articolo 8 stabilisce innanzitutto il principio per cui l'esercizio delle funzioni fondamentali è obbligatorio per l'ente che ne è titolare. Reca inoltre alcuni principi in materia di modalità di esercizio delle funzioni fondamentali. Per quanto riguarda i comuni, l'articolo distingue tra le funzioni strumentali interne, quelle cioè che garantiscono l'autonomia normativa ed organizzativa dei comuni stessi, come ad esempio la disciplina organizzativa delle funzioni, e le altre funzioni fondamentali e prevede che queste ultime siano esercitate obbligatoriamente in forma associata da parte dei comuni più piccoli.
Il testo iniziale del Governo fissava la soglia di tremila abitanti, ma un emendamento della Commissione ha elevato tale soglia a cinquemila abitanti. È inoltre precisato che l'obbligo non vale per i comuni il cui territorio non sia limitrofo a quello di altri. Per gli altri comuni e per le province l'esercizio associato delle funzioni è libero. L'articolo prevede inoltre che nelle materie di competenza legislativa concorrente Stato-regione o residuale delle regioni la legge regionale possa, previa concertazione con i comuni interessati, definire la dimensione territoriale ottimale per lo svolgimento di alcune funzioni fondamentali da parte di comuni in forma obbligatoriamente associata.
Non sono comunque obbligati all'esercizio delle funzioni in forma associata i comuni capoluogo di provincia e i comuni con un numero di abitanti superiore a centomila. Salvo quanto previsto dalla legge regionale, si ammettono come forme Pag. 50associative esclusivamente la convenzione e l'unione di comuni. La disciplina di quest'ultima, legata all'articolo 32 del Testo unico degli enti locali, viene in qualche aspetto rivista dall'articolo in commento.
Devo peraltro dire che sulla materia dell'articolo 8 intervengono anche alcune disposizioni del decreto-legge n. 78 del 2010, recante la manovra di finanza pubblica del 2011, attualmente all'esame del Senato in prima lettura. La Commissione sta valutando insieme al Governo il da farsi per evitare che provvedimenti diversi contengano disposizioni diverse sulla medesima materia e addirittura contrastanti.
L'articolo 9 reca una delega al Governo per l'individuazione del trasferimento delle funzioni amministrative non fondamentali che sono esercitate dallo Stato o da enti pubblici, ma non richiedono un'unità di esercizio a livello statale, che possono essere attribuite a comuni, province, città metropolitane o regioni, nonché per l'individuazione delle funzioni che invece rimangono attribuite allo Stato.
Per quanto riguarda le prime, il Governo, nell'esercizio della delega, deve attenersi ai principi di cui all'articolo 118 della Costituzione, ossia deve conferire a un livello diverso da quello comunale soltanto le funzioni di cui occorre assicurare l'unitarietà d'esercizio sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
Su questo articolo la Commissione è intervenuta con due emendamenti: il primo ha previsto che le funzioni non fondamentali, da individuare ed eventualmente delegare, non siano quelle dello Stato o degli enti territoriali, ma quelle dello Stato e degli enti pubblici. Il secondo emendamento ha integrato i principi e i criteri direttivi della delega, prevedendo che, nel caso di trasferimento di una funzione, l'esercizio della funzione trasferita da parte del nuovo titolare decorra solo a partire dall'effettivo trasferimento delle risorse necessarie all'esercizio della funzione.
L'articolo 10 disciplina il trasferimento delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative connesse a una funzione fondamentale nel caso in cui, in base al presente provvedimento, tale funzione fondamentale sia trasferita a un ente diverso da quello che oggi la esercita. Con un emendamento in Commissione è stato stabilito il principio generale che, in caso di trasferimento di una funzione fondamentale da un livello di governo a un altro, l'esercizio della funzione decorra solo dal momento in cui avviene l'effettivo trasferimento delle risorse necessarie.
Questo principio è stato ribadito all'articolo 11, che impegna il Governo a presentare alle Camere, previa intesa con le regioni, un disegno di legge per individuare e trasferire alle regioni stesse le funzioni inerenti a materie di competenza legislativa concorrente Stato-regione o residuale regionale che oggi siano esercitate dallo Stato. Naturalmente, il riferimento è alle funzioni che il provvedimento in esame non qualifica come fondamentali per gli enti locali.
Con un emendamento approvato in Commissione si specifica che i disegni di legge in materia devono essere presentati entro 12 mesi dall'entrata in vigore della legge. L'articolo 12 prevede che, nelle materie di competenza legislativa concorrente Stato-regioni o residuale regionale, le regioni, con propria legge, si adeguano alla disciplina statale di individuazione delle funzioni fondamentali, regolandone le modalità di esercizio, e provvedono a razionalizzare e semplificare strutture, enti, agenzie e organismi operanti a livello regionale titolari delle funzioni da allocare agli enti locali.
L'articolo reca principi per la disciplina delle funzioni non fondamentali nelle materie di competenza legislativa concorrente e residuale. L'articolo 13 reca una delega al Governo per l'adozione di una Carta delle autonomie locali che riunisca e coordini sistematicamente le disposizioni statali in materia di enti locali. La Commissione ha abbreviato a 18 mesi, da 24 che erano, il termine per l'esercizio della delega, il cui schema deve essere trasmesso alle Camere per il parere.
Con un emendamento approvato in sede referente si è previsto che, qualora il Pag. 51Governo non intenda conformarsi al parere parlamentare, ritrasmette i testi alle Camere per le sue osservazioni ed eventuali modificazioni, affinché le Commissioni competenti esprimano un nuovo parere entro 30 giorni, trascorsi i quali il testo può essere comunque adottato in via definitiva.
L'articolo 13-bis, introdotto dalla Commissione, delega il Governo al riordino delle disposizioni concernenti il comune di Campione d'Italia, in ragione della sua collocazione distaccata dal restante territorio della Repubblica. Si è, infatti, ritenuto che il comune in questione debba essere oggetto di una disciplina specifica.
L'articolo 14, che prevedeva una delega al Governo per la razionalizzazione e riduzione delle province, è stato soppresso con un emendamento del relatore. Su questo punto ritengo di dover spendere qualche parola, per spiegare cosa è accaduto in Commissione. In un primo momento, come relatore, avevo presentato un emendamento, che la Commissione aveva approvato, con il quale veniva, tra l'altro, fissato un parametro per l'individuazione di alcune province potenzialmente sopprimibili, naturalmente con forme e procedure rispettose dell'articolo 133 della Costituzione: si faceva riferimento alle province con popolazione inferiore ai 200 mila abitanti.
Nell'emendamento era stata integrata una proposta subemendativa proveniente dalla maggioranza, con la quale la soglia era stata ridotta a 150 mila abitanti in caso di province con un territorio montano per oltre il 50 per cento.
Tuttavia, da un primo, se pur non definitivo, calcolo degli uffici del Governo, è risultato che le province che avrebbero potuto essere soppresse sulla base di questi requisiti sarebbero state solamente quattro; oggettivamente troppo poche per giustificare un intervento al quale è stato dato dal Governo così grande risalto di fronte all'opinione pubblica.
Pertanto, ho ritenuto preferibile soprassedere per il momento all'intervento di razionalizzazione delle province, anche per rivendicare la serietà e tutelare la dignità del ruolo della Commissione.
La soppressione dell'articolo 14, quindi, non deve essere interpretata come una rinuncia da parte della maggioranza ad intervenire sul sistema delle province per riordinarlo e razionalizzarlo, eventualmente anche sopprimendo alcune province.
Anche l'articolo 15 è stato soppresso con un emendamento in Commissione. Esso recava un'ulteriore delega al Governo per il riordino delle prefetture-uffici territoriali del Governo. Anche in questo caso devo precisare che la soppressione dell'articolo 15 non va intesa come un'indisponibilità della maggioranza o del Governo. Come ha infatti chiarito il Ministro Calderoli in Commissione, l'ordinamento prevede già oggi uno strumento utilizzabile per il riordino delle prefetture.
L'articolo 1, comma 425, della legge finanziaria per il 2007 prevede infatti che, con regolamento ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge n. 400 del 1988, su proposta del Ministro dell'interno siano individuati gli ambiti territoriali determinati per l'esercizio delle funzioni di competenza degli uffici periferici dell'amministrazione dell'interno. Il Ministro ha chiarito che il Governo intende avvalersi di questo parere regolamentare per procedere al riordino dell'amministrazione periferica del Ministero dell'interno.
L'articolo 16, che prevedeva la soppressione della figura dei difensori civici comunali, è stato soppresso in Commissione in quanto recante una disposizione analoga a quella già introdotta nell'ordinamento dalla legge finanziaria per il 2010, come modificata dal decreto-legge n. 2 del 2010, articolo 2, comma 186, lettera a) della legge n. 191 del 2009.

PRESIDENTE. La invito a concludere.

DONATO BRUNO, Relatore. In qualità di relatore dovrei continuare ad esaminare il provvedimento articolo per articolo; consegno quindi la relazione. Mi preme però, prima di concludere, dire qualcosa Pag. 52sui pareri delle Commissioni competenti in sede consultiva e del Comitato per la legislazione.
Sul provvedimento sono state chiamate ad esprimersi tutte le Commissioni permanenti ad eccezione della Commissione difesa, nonché la Commissione parlamentare per le questioni regionali ed il Comitato per la legislazione. Tutti i previsti pareri sono stati espressi fuorché quello della Commissione bilancio, che renderà il proprio direttamente all'Assemblea. Le Commissioni esteri, cultura, attività produttive, affari sociali e politiche dell'Unione europea hanno espresso pareri favorevoli; le altre Commissioni hanno espresso pareri favorevoli, con condizioni e osservazioni. Il Comitato per la legislazione ha reso un parere assai articolato e puntuale. Data la complessità politica e giuridica delle questioni poste nei pareri, ho ritenuto preferibile prendere qualche giorno di tempo anche per valutare il da farsi; mi sono riservato insieme al Governo di proporre eventuali emendamenti di recepimento dei pareri direttamente al Comitato dei nove (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Bruno, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire in sede di replica.
È iscritto a parlare l'onorevole Tassone. Ne ha facoltà.

MARIO TASSONE. Signor Presidente, il rappresentante del Governo si riserva di parlare dopo aver ascoltato il dibattito, e quindi anche gli apporti da parte dei colleghi. Farò una qualche valutazione per il mio gruppo, poi, sempre per il gruppo dell'UdC, parleranno l'onorevole Lusetti e l'onorevole Ciccanti.
Vorrei utilizzare il poco spazio temporale che è a me attribuito per svolgere qualche riflessione. Il provvedimento è stato certamente molto atteso: è stato atteso all'inizio di questa legislatura, ma anche nella coda della legislatura precedente. L'esigenza di riorganizzare le autonomie locali, renderle più efficienti, più aderenti ai bisogni ed alle esigenze dei cittadini era legata anche ad una nuova visione e ad una nuova articolazione ordinamentale del nostro Paese, che avesse nelle autonomie locali un punto forte di riferimento nella costruzione della democrazia, della partecipazione e del coinvolgimento dei cittadini. E non c'è dubbio che tutto ciò dovrebbe prevedere compiti e responsabilità dei comuni, non come momento «assorbente» di funzioni in termini burocratici, bensì come momento dialettico di costruzione di una nuova fase della democrazia all'interno del nostro Paese.
Il provvedimento in esame, per dire la verità, senza anticipare atteggiamenti conclusivi del mio gruppo, ci lascia perplessi, e, quel che è peggio ancora, ci lascia delusi. Non credo che il dettato costituzionale contenuto nella riforma del Titolo V del 2001, il riferimento dunque alle regioni, alle province e, come fatto innovativo, alle aree metropolitane, e quindi ai comuni, sia stato seguito nello sforzo che è stato compiuto.
Nessuno certamente può negare che vi sia stato questo sforzo, ma non abbiamo visto né uno sforzo innovativo né un'originalità, forse perché non sono stati tenuti presenti alcuni aspetti fondamentali su cui si sono districati e inerpicati il dibattito ed il confronto tra le forze politiche (e non soltanto) in questa legislatura.
Signor Presidente, la presenza del Ministro Calderoli - che stimo - mi spinge anche a chiedere qualche elemento che illumini il nostro ragionamento e che, soprattutto, dia senso al nostro confronto. Questo provvedimento giunge in un momento in cui è in atto il dibattito sul federalismo fiscale. Il federalismo fiscale - come ho detto con estrema chiarezza anche quando abbiamo avuto la possibilità di esprimerci in quest'Aula - è il tentativo, partendo proprio dall'autonomia impositiva, o l'avvio del tentativo - secondo la Pag. 53Lega o secondo chi è legato a tale visione - di riarticolare e definire il nuovo modello ordinamentale ed istituzionale del nostro Paese.
Questo è un dato e queste vicende non sono minimali rispetto ad un progetto o un programma che, per quanto mi riguarda, ho colto: se poi vogliamo stringere o coprire tutto di ipocrisia e soprattutto stendere dei veli, credo che potremmo pure compiere questa operazione, ma non ritengo che ci aiuterebbe molto (come ho avuto modo di dire parecchie volte).
Il federalismo significa federazione o confederazione di Stati, in cui le regioni ovviamente non costituiscono il momento del decentramento, ma un momento di concentrazione di poteri e di attribuzione di compiti e di ruoli, che oggi non è dato avere ben presente neanche nella norma primaria, quella costituzionale.
Non vi è dubbio allora che esiste un problema legato al federalismo fiscale. Qui si parla dei comuni, ma viene lasciata in ombra, proprio rispetto all'equivoco e alla confusione cui facevo poc'anzi riferimento, tutta la situazione delle regioni. Esiste infatti la grande situazione di abrasione, anche sul piano politico e sociale, determinata dalle regioni (quelle a statuto ordinario e a statuto speciale, ma anche le province autonome di Trento e di Bolzano), con compiti e dislivelli diversificati, che certamente non ci aiutano neanche rispetto alle deleghe che il Governo ha chiesto relativamente all'attribuzione e alla definizione dei compiti.
Ne parlava testé il relatore quando faceva riferimento agli articoli 117 e 118 della Costituzione circa i compiti amministrativi che dovrebbero essere attribuiti alle regioni (e su tale punto dovremmo anche chiarirci quali siano questi compiti amministrativi).
Inoltre, o le regioni hanno una potestà legislativa oppure non si può parlare di una delega volta a definire i compiti amministrativi delle regioni senza avere una visione di riattribuzione e soprattutto di assegnazione di questi compiti amministrativi in termini cogenti ai comuni o alle province.
Per quanto riguarda poi le province, non abbiamo contezza né una chiara visione del ruolo delle aree metropolitane. Certo, c'è l'elenco dei compiti attribuiti ai comuni, alle province e alle regioni, ma rileggendo attentamente i compiti delle aree vaste anche rispetto alle funzioni fondamentali - forse avrò qualche difetto, qualche limite o qualche lacuna nel comprendere le cose -, non riesco a capire quale sia la grande linea di demarcazione tra le aree metropolitane e le province, tant'è vero che si era parlato a suo tempo del fatto che le aree metropolitane fossero sostitutive delle province. Si diceva chiaramente infatti che dove erano presenti le aree metropolitane non aveva senso mantenere le province.
Siamo stati e siamo per l'eliminazione delle province. Ne parleranno i colleghi, lo abbiamo detto più volte e abbiamo fatto anche una battaglia: ci si è spesso dichiarati per un'azione ferma, decisa, forte, determinata, senza scrupoli e senza esclusione di colpi per abbassare i costi della politica. Avevamo proposto di eliminare le province, ma non per un'eliminazione sic et simpliciter, ma per poter partire da lì a discutere nuovamente sulla ridefinizione dei compiti delle autonomie locali, senza perdere di vista il ruolo delle aree metropolitane, delle regioni e dei comuni.
Questo era il senso e il significato della nostra proposta e, respingendola, si è respinto un progetto. Tale provvedimento rimane quindi asciutto, senza respiro e senza anima, tanto è vero che non ha ottenuto il viatico della Conferenza Stato-regioni e della Conferenza Stato-città e autonomie locali. Sia l'UPI, sia l'ANCI si sono rifiutati di essere auditi, perché volevano recitare un ruolo diverso all'interno della I Commissione.
Vi sono poi taluni altri problemi, ma mi avvio alla conclusione, signor Presidente. Per quanto riguarda i comuni, quali sono i loro compiti? La questione rimane in ombra. Avevamo avanzato una proposta emendativa per quanto riguarda il ruolo dei comuni nel campo urbanistico. Sì, vi è una definizione, ma non in termini forti: o il comune ha la titolarità piena della Pag. 54gestione del territorio oppure vi è una parte, anche nell'elencazione dei compiti relativi alle funzioni fondamentali dei comuni, che rimane in una zona d'ombra, grigia e di grande ambiguità.
Non vi è poi nessun ruolo dei comuni delle isole minori, come aveva anche chiesto l'onorevole Bosi. Si fa l'unione dei comuni, l'associazione dei comuni, riprendendo tutta la logica e soprattutto tutta la filosofia che sottintendeva la legislazione dal 1990. Si parla di unione di comuni, ma non è la prima volta che parliamo di unione di comuni! Non è la prima volta che parliamo di associazione di comuni! Oggi è prevista l'obbligatorietà dell'unione dei comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti per lo svolgimento delle funzioni fondamentali, ma non vi è nessuna azione cogente né un momento sanzionatorio rispetto ad una eventuale inadempienza o rifiuto; non vi è quanto meno un modo per accertare sul piano formale - non dico sostanzialmente - rispetto ad alcuni servizi e funzioni fondamentali che detta la normativa.
È un discorso molto ampio che deve essere approfondito, ma io vedo che il ruolo dei consigli comunali si va svuotando e non riesco ad accettare - lo dico, signor Presidente, con estrema chiarezza - di avere visto, nel sistema dell'elezione diretta del sindaco o del presidente della provincia, un grimaldello per condizionare, affievolire o quanto meno per mortificare l'espansione della democrazia e della partecipazione, che proprio attraverso le autonomie locali dovrebbe essere esaltata e rafforzata.
Non vi è il ruolo del consiglio comunale. Per tale ragione a me dispiace che una nostra proposta di legge, poi emendata dall'onorevole Mantini, non è stata accolta, quando invece noi pensavamo, rispetto ad una situazione particolare in cui poteva essere coinvolto il presidente della provincia o il sindaco, che vi fosse anche la possibilità di fare continuare per qualche tempo il consiglio comunale, proprio per dare una dignità a questo organo e alle assemblee, che non sono soltanto gli organi di consulenza del presidente o del sindaco.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

MARIO TASSONE. Sto per concludere, signor Presidente. Ritengo che non aver accettato tale punto - e abbiamo riproposto tale emendamento anche in Aula - sia una forma di chiusura che non possiamo accettare.
Ci sarebbe molto da dire. Ad esempio, bisognerebbe parlare dei segretari comunali (so che l'onorevole Bruno sta predisponendo un emendamento a tale proposito), del problema dei direttori generali e dell'eliminazione dei consigli circoscrizionali. Abbiamo presentato un emendamento in cui definiamo gratuita l'elezione dei consiglieri circoscrizionali: perché infatti togliere la possibilità ai ragazzi di vivere e di farsi un'esperienza sul territorio, affrontando i problemi?
Noi andremo avanti anche nella nostra attività emendativa. Mi chiedeva un autorevolissimo collega: voi che fate? La cosa più semplice che potremmo dire è: votiamo, tanto stiamo all'opposizione sia che votiamo a favore, contro o che ci asteniamo. A me duole molte volte dare delle risposte così trancianti, ma voglio capire se gli stessi protagonisti (lo stesso relatore che ringrazio) sinceramente sono convinti che questo sia un fatto rivoluzionario o meno, o un modo per gestire, aver ridotto alcuni aspetti, razionalizzati altri del testo unico precedente, qui riproposto. Credo che non vi sia motivo di esaltarsi, di essere entusiasti. Certamente non è un provvedimento di grande rivoluzione, che dia la dimensione, il senso e il significato del ruolo delle autonomie locali nel nostro Paese (Applausi dei deputati del gruppo Unione di Centro).

LINDA LANZILLOTTA. Chiedo di parlare sull'ordine dei lavori.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LINDA LANZILLOTTA. Signor Presidente, credo che, per rispetto della Camera, Pag. 55prima di procedere all'esame di questo provvedimento servirebbe un chiarimento da parte del Governo. Infatti, tra il giorno in cui noi lo abbiamo licenziato - giovedì scorso - in Commissione e oggi (giorno in cui si avvia la discussione in Assemblea) per tutto il week end siamo stati tartassati dal Ministro dell'economia e delle finanze, che è copresentatore di questo disegno di legge, che annunciava l'immediata e urgente presentazione di un disegno di legge di revisione costituzionale degli articoli 41 e 118, in particolare per ciò che riguarda la sovrapposizione di competenze tra livelli amministrativi (quindi una riscrittura radicale del Titolo V).
Siccome tutto il disegno di legge in esame riguarda esattamente questa materia, per rispetto di noi stessi e della Camera, credo che il Governo dovrebbe darci preliminarmente un chiarimento, ovverosia se questo testo ha un'utilità e una prospettiva, oppure se verrà accantonato perché il Governo si riserva di presentare una modifica del Titolo V della Costituzione, in particolare riguardo alle competenze dei livelli amministrativi subregionali.

ROBERTO CALDEROLI, Ministro per la semplificazione normativa. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ROBERTO CALDEROLI, Ministro per la semplificazione normativa. Signor Presidente, il Governo ha predisposto il testo, l'ha seguito in Commissione e intende seguirlo in Aula a Costituzione vigente. Quindi, ci stiamo muovendo in questa logica.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Amici. Ne ha facoltà.

SESA AMICI. Signor Presidente, l'intervento e la richiesta sull'ordine dei lavori della collega Lanzillotta non pongono una questione formale, ma di sostanza, però la risposta del Ministro può considerarsi esattamente una «non risposta». È del tutto evidente che la discussione che stiamo avviando costituisce un tentativo di razionalizzazione e di attuazione del Titolo V, ma se diventa preminente una modifica costituzionale dell'intero articolato del Titolo V, tale discussione corre il rischio di incamminarsi su un binario morto. Quindi mi associo alla richiesta della collega Lanzillotta.
Per quanto riguarda il merito, innanzitutto ringrazio il presidente Bruno della relazione e della modalità con cui è stato possibile all'interno della Commissione svolgere una discussione serrata e un confronto, comprese le audizioni, e con la costante presenza del Governo, che ha agevolato il dialogo con i gruppi di opposizione, accogliendo anche una serie di emendamenti. Sarà poi il terreno degli emendamenti a vederci di nuovo nel prendere posizioni su questo articolato.
A noi oggi spetta nella discussione generale provare a fare un quadro di sintesi e dare un giudizio complessivo. Vorrei partire da un'affermazione: il coraggio degli innovatori si misura non solo attraverso la radicalità dell'oggetto che si vuole innovare, ma soprattutto attraverso la coerenza della stessa innovazione.
Quando questi due termini, radicalità e coerenza, non vengono tenuti insieme, il rischio è che non ci si trovi di fronte al coraggio degli innovatori ma, semplicemente, di chi compie un'operazione di mera fotografia dell'esistente. E potrebbe essere questo, in maniera sintetica, il giudizio che esprimiamo su questo articolato.
Il Ministro e i colleghi della maggioranza sanno come abbiamo inteso e ci siamo approcciati a questa discussione, ossia con grande interesse, sapendo di dover rispondere, non solo ad una precisa riflessione intorno al Titolo V, alla sua evoluzione e alle sensibilità istituzionali che quella riforma aveva immesso del mondo delle autonomie, a partire dalla stagione degli statuti, ma anche e soprattutto delle norme dei regolamenti. Quel mondo delle autonomie, e non solo, chiedeva al Governo e alla funzione politica una maggiore sensibilità intorno a temi rimasti ancora imprecisi, ma ciò non significa Pag. 56alcun sentimento di pentitismo né, in modo assoluto, costituisce il tentativo di mettere in discussione un'ipotesi di riforma che pure il Titolo V conteneva.
Non appartengo, quindi, a quella schiera di persone pentite; capisco, invece, che c'è la necessità di mettere ordine e, in quell'ambito, di dare la misura cogente di chi fa che cosa e di avere un'articolazione della nostra statualità, che affida con i principi costituzionali funzioni chiare e certe a comuni, province, regioni e città metropolitane.
Che cosa abbiamo partorito, Ministro Calderoli? Abbiamo partorito una discussione spezzettata, come troppo spesso ci avete abituato sin dall'inizio di questa legislatura, perché la complessità di questo provvedimento sta nel fatto che alcune norme sono presenti in altri disegni di legge, alcune questioni sono state anticipate nella manovra finanziaria e molta della nostra discussione risentirà della stessa manovra correttiva, di cui oggi si è avviato l'iter della discussione sulle linee generali al Senato.
Sarebbe veramente singolare che la Camera dei deputati, in rappresentanza della Nazione, oggi debba discutere, in maniera così frammentata, di un provvedimento che attiene, invece, ad un profilo di complessità istituzionale. Ve l'avevamo detto ed eravamo stati i primi anche a sollevare un problema riguardo alla legge n. 42 del 2009, quella del federalismo fiscale, e riguardo all'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione.
Ci era parso allora - e rimane il giudizio - che aver voluto scindere, da una parte, la riforma e semplificazione del codice delle autonomie e, dall'altra, la discussione separata sul federalismo fiscale comportasse il rischio di non trovare né coerenza né il coraggio dell'innovazione.
Perché ciò avviene? Ciò avviene perché, nel corso dell'esame della legge sul federalismo fiscale, il mio gruppo ha mostrato la capacità di accettare la sfida e, dentro quella sfida, di contribuire con un voto di astensione alla convinzione che fossero necessarie profonde modifiche anche nell'assetto dei tributi propri degli enti locali. Oggi, alla luce di questo testo, invece, si corre il rischio di mutare il giudizio di collaborazione con le forze dell'opposizione.
La delega eccessiva, contenuta nell'articolo 13, testimonia esattamente questo: volete una delega che vi definisce la questione del codice delle autonomie, perché nell'elencazione delle funzioni fondamentali di comuni e province siamo di fronte, semplicemente, alla razionalizzazione di quello che già c'è oggi.
I compiti e le funzioni amministrative fondamentali di comuni e di province sono quelle già elencate nel testo unico sugli enti locali. Siamo, cioè, di fronte a nessuna capacità di innovazione, ma permangono elementi di insofferenza anche rispetto a quanto succede nella realtà oggettiva del nostro Paese.
Non sta a me ricordarlo al Ministro, che è molto sensibile, ma egli sa che siamo di fronte ad una situazione in cui gli 8.100 comuni e le 104 province sono elementi dai quali non possiamo prescindere ed è importante che sia stata recepita, in questo testo, la forma associata obbligatoria elevata ai comuni fino ai cinquemila abitanti. Perché nella capacità di stare dentro quella questione delle forme associate, si ridefiniscono i diritti, le funzioni, i servizi, gli enti e le istituzioni che devono guardare all'interesse generale delle proprie comunità piuttosto che ad una semplice articolazione astratta delle funzioni. Non aver chiarito esattamente questi punti, in raccordo anche all'articolo 118, e soprattutto all'articolo 119, della Costituzione, credo che faccia di questo provvedimento proprio quello che il mondo delle autonomie non sia aspettava.
Siamo cioè di fronte ad un andamento ancora abbastanza ciclico nelle nostre discussioni sulle sensibilità istituzionali tra la voglia di innovare e, d'altro lato, di fronte all'innovazione, avere la paura e frenare dentro una logica che tutto va nella direzione non del federalismo ma di un accentuato centralismo che rimette in discussione la stessa autonomia organizzativa dei comuni e delle province. In Pag. 57particolare per quanto riguarda i comuni, nell'elencazione delle funzioni fondamentali anche in quelle in forme obbligatorie associate, credo che debba venire avanti un elemento di discussione vera e non demagogica e di propaganda circa il ruolo e la funzione della partecipazione democratica, vale a dire su come si forma la rappresentanza democratica dentro quelle assemblee elettive. Avere voluto inserire, poi si è eliminata, un'idea per la quale la riduzione dei costi della politica e la capacità di intervenire nell'interesse generale delle proprie comunità fossero legate al numero dei consiglieri, alla rideterminazione delle giunte e tutto questo una volta facendo un passo avanti e poi un passo indietro, fa sì che, alla fine, permanga un dato di incertezza complessiva intorno alle funzioni fondamentali. Credo che sia un danno alla democrazia e soprattutto alla democrazia di rappresentanza. Avevamo proposto emendamenti che noi continueremo a proporre ed auspichiamo che l'Assemblea ne possa discutere in maniera serena e soprattutto non in maniera pregiudiziale.
C'è un tema vero che riguarda il funzionamento della politica e anche della sua classe dirigente. Ma ciò non può prescindere dalle funzioni a cui vengono chiamati gli enti. Quando si discuteva se ai comuni spettasse semplicemente la questione decisiva del governo del territorio mentre gli veniva sottratta una delle funzioni attraverso la quale registra la capacità di difendere l'interesse dei cittadini, come le questioni dell'urbanistica e dei piani territoriali dell'urbanistica, è del tutto evidente che c'è voluta la capacità di ascolto reciproco per capire che voler sottrarre loro quella funzione era un elemento di debolezza.

PRESIDENTE. La prego di concludere, onorevole Amici.

SESA AMICI. Mi avvio a concludere, signor Presidente, altri colleghi del gruppo interverranno. Lo voglio dire con grande schiettezza al presidente Bruno: capisco che da parte della maggioranza aver voluto sopprimere gli enti territoriali di governo nell'articolo concernente le soppressioni è un elemento non di sordità. Lo voglio prendere come un elemento vero. Ma è veramente singolare che aver voluto sopprimere quell'emendamento in Commissione significa aver voluto rendere questo provvedimento ancora una volta non innovativo, non coraggioso. Di fronte alle dinamiche che si sono aperte ancora una volta si tratta degli elementi frenanti di un processo riformatore che riguardano questo Paese e questa nazione a cui l'insieme della classe politica deve dimostrare serietà, coerenza e soprattutto coraggio (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Calderisi. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE CALDERISI. Signor Presidente, il disegno di legge al nostro esame, di particolare importanza e complessità, si prefigge obiettivi ambiziosi, quali l'individuazione delle funzioni fondamentali degli enti locali, secondo quanto previsto dall'articolo 117, secondo comma, lettera p) della Costituzione, passaggio indispensabile per definire costi e fabbisogni standard e dare così attuazione a quanto previsto dalla legge n. 42 del 2009 in materia di federalismo fiscale; la semplificazione dell'ordinamento delle regioni e degli enti locali; il trasferimento di funzioni amministrative ai sensi dell'articolo 118 della Costituzione attraverso una delega al Governo; la redazione della Carta delle autonomie locali, attraverso un'altra delega al Governo, il riordino di enti ed organismi decentrati.
Occorre dare atto al Governo, in primo luogo, e alla Commissione affari costituzionali successivamente di aver svolto un buon lavoro, certamente ancora perfettibile ma occorre essere consapevoli che difficilmente si poteva e si potrebbe fare molto di più considerato il vigente quadro di riferimento costituzionale in materia di autonomie territoriali, vale a dire il Titolo V della Costituzione come modificato nel 2001. Pag. 58
Gli esponenti dell'opposizione, a partire da quelli del Partito Democratico, hanno espresso profonda delusione per l'esito finale del lavoro svolto dal Governo e dalla Commissione. Ma al lavoro della Commissione hanno contribuito anch'essi con una serie di proposte, alcune delle quali sono state accolte dal relatore e dal Governo. Quanto a quelle non accolte, esse non appaiono invero di portata e contenuto così alternativi e innovativi da giustificare un giudizio così negativo sul testo giunto all'esame dell'Assemblea. La posizione espressa risente, evidentemente, di un giudizio o pregiudizio politico contro il Governo e la maggioranza, in questo particolare momento politico che prescinde dal merito effettivo del provvedimento al nostro esame, ed è da considerare, oltretutto, che il PD non è neppure favorevole alla soppressione delle province come altri gruppi.
D'altro canto, se il PD dispone di soluzioni così importanti e innovative per dare attuazione al Titolo V, perché mai non ha provveduto quando è stato al Governo, dal 2006 al 2008?
Si accusa il testo del provvedimento di mancanza di organicità, ma il difetto di organicità - come hanno rilevato diversi costituzionalisti nelle audizioni svolte dalla I Commissione - va ricollegato al vizio di origine del processo di costruzione di un assetto federale che è in corso nel nostro Paese. Il vizio di origine si trova nella modifica del Titolo V, con la creazione di un sistema che non è né federale, né regionale, ma multilivello, estremamente complicato e caotico, che crea necessariamente sovrapposizioni, interferenze, confusioni ed incertezze sulla ripartizione delle competenze legislative, amministrative e regolamentari tra Stato, regioni, province, città metropolitane, comuni e diversi altri enti introdotti già prima del 2001.
È un sistema che giustamente è stato definito di policentrismo istituzionale esasperato. In questo contesto, in primo luogo il decisore politico, ma poi tutti, la dottrina, la giurisprudenza costituzionale, gli operatori economici e i cittadini, incontrano inevitabilmente grandi difficoltà nello stabilire chi fa che cosa, a livello non soltanto della singola competenza amministrativa, ma soprattutto della definizione del ruolo. Qual è il ruolo della regione, quale quello della provincia, del comune e così via? Tutto ciò determina - non c'è ombra di dubbio - un ostacolo fortissimo alla crescita economica del Paese.
Ad esempio - è solo uno dei tanti che si possono fare - pensiamo ai rigassificatori. Oltre allo Stato, alla regione e al comune, c'è anche la provincia, ed è difficilissimo dare vere indicazioni e, soprattutto, stabilire in che tempi si compie un'operazione. Non sappiamo a monte chi la compie, figuriamoci i tempi. Se il sistema è frammentato, se non conosciamo i ruoli, inevitabilmente le risorse necessarie cresceranno e, indipendentemente da qualsiasi legge sul federalismo fiscale, vi è il rischio di ripercussioni negative sulla nostra economia.
Non c'è dubbio che il disegno di legge in esame risente della difficoltà di dare volto, forma e sostanza a quel policentrismo istituzionale esasperato previsto dal Titolo V, che è comunque il nostro testo della Costituzione vigente e a cui non possiamo sottrarci. Si potrebbero fare molti esempi sul groviglio di competenze tra i diversi livelli, in materia di governo del territorio, di servizi pubblici, di igiene ambientale, di trasporti, di scuole e via dicendo. E non basta invocare le clausole di flessibilità che sono molto difficili a realizzarsi, perché bisogna andare in Conferenza unificata, un iter molto gravoso da affrontare.
Signor Presidente, salterò molti pezzi del mio intervento, che consegnerò poi, se ne ho l'autorizzazione, per la pubblicazione in calce al resoconto stenografico, perché altrimenti non rientro nei limiti di tempo, seppure massimi, che utilizzerò per questo mio intervento.
Per tutte queste ragioni che ho esposto ritengo necessario e urgente giungere ad una riforma del Titolo V, nel tempo a disposizione in questa legislatura, prima Pag. 59dei due anni previsti per l'esercizio della delega relativa alla Carta delle autonomie, anzi spero molto prima.
Mi auguro che Governo, maggioranza e opposizione convergano su questo obiettivo a mio avviso imprescindibile per il nostro Paese, giungendo ad una riforma condivisa, almeno per quanto riguarda gli aspetti più importanti. Sarebbe, a mio avviso, un modo per favorire anche la riforma degli altri aspetti della parte seconda della Costituzione, cioè la riforma del Parlamento, del sistema bicamerale e della forma di Governo. Anche perché la modifica del Titolo V e la conseguente giurisprudenza della Corte costituzionale hanno determinato un grave vulnus alle prerogative del Parlamento, signor Presidente, che si trova compresso tra il potere politico-legislativo assunto di fatto - a monte del processo legislativo - dal sistema delle Conferenze (un sistema privo di qualsiasi trasparenza, responsabilità e democraticità) e - a valle - dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che, per quanto benemerita nel correggere i più macroscopici difetti del Titolo V, ha assunto e assume decisioni di carattere politico, in particolare la valutazione del principio di adeguatezza-sussidiarietà, che spetterebbe invece al Parlamento. Chissà perché però di questo vero e proprio esproprio delle prerogative del Parlamento non si occupa quasi nessuno.
Per quanto riguarda il Titolo V, non si tratta solo di correggere gli errori più evidenti compiuti dal legislatore costituente del 2001, ma è necessario a mio avviso puntare più in alto, cioè a riorganizzare l'assetto territoriale della Repubblica.
Per questo concentrerò la parte restante del mio intervento sugli obiettivi che, a mio avviso, occorre perseguire per dare davvero un senso al nostro federalismo, obiettivi che non sono dissimili, in gran parte, da quelli esposti in un'audizione presso le Commissioni affari costituzionali di Camera e Senato, nel 2006, dal professor Augusto Barbera, e che ritengo opportuno richiamare per la loro importanza - sia pure a grandi linee - in questo dibattito.
Una prima considerazione riguarda il localismo. Abbiamo sempre discusso dei limiti del centralismo, paralizzante ed uniformante, ma poco si è discusso e si ha piena coscienza dei limiti del localismo. Essi rappresentano un problema altrettanto grave e costituiscono una «palla al piede» dell'economia italiana su diversi fronti. Si potrebbero fare tantissimi esempi: pianificazioni territoriali invischiate in logiche campanilistiche (per esempio, in ogni campanile, si prevede una zona industriale); il superamento delle dimensioni localistiche delle aziende pubbliche locali è frenato da logiche municipalistiche e da una legislazione che non incoraggia la concorrenza e il superamento delle inefficienze; si moltiplicano il numero di strutture sottodimensionate (per esempio, agli aeroporti privi di servizi adeguati); i comuni utilizzano i loro poteri di veto (formali ed informali) e respingono, o ritardano, l'insediamento di impianti ritenuti inquinanti (dai termoconvettori per i rifiuti alle centrali per la produzione di energia), mentre l'alleanza tra corporazioni mediche ed interessi campanilistici ha reso impossibile in alcune regioni una seria pianificazione ospedaliera; la ricerca di fondi porta le università a disperdere energie, disseminando sedi universitarie in ogni comune di media grandezza. Questi sono i problemi di sprechi che abbiamo di fronte.
Difficilmente le regioni sono riuscite a superare le resistenze localistiche. Tali poteri di veto e di interdizione si sono, anzi, accresciuti con il Titolo V del 2001, che ha reso di competenza legislativa regionale (sia pure concorrente) materie come la produzione e la distribuzione nazionale dell'energia (ad esempio, per le centrali elettriche e i rigassificatori); inoltre, esso - con una norma che non ha eguali in altri ordinamenti - ha reso il comune titolare (in linea di principio, salvo verifica della sua adeguatezza da parte della legge) di ogni funzione amministrativa, cui secondo una certa dottrina Pag. 60si accompagnerebbe la relativa competenza regolamentare, al di fuori, addirittura, degli stessi vincoli legislativi nazionali e regionali.
Stretta tra i limiti del centralismo e del localismo, l'Italia non è riuscita a realizzare importanti politiche territoriali e rischia per questo un declino. Nonostante questi limiti, la valorizzazione dei governi regionali è richiesta anche e soprattutto dai processi di globalizzazione, tanto quanto è richiesta la costruzione di organismi sovranazionali, quelli europei in primo luogo.
Infatti, la competizione in un'economia globalizzata tende sempre più a porsi come competizione tra sistemi regionali, che non riguarda solo le imprese, ma avviene tra sistemi territoriali entro i quali si collocano le imprese stesse. Tali imprese non sono più organizzate sul modello piramidale fordista, ma su quello dell'impresa «a rete», diffusa, interconnessa e ad alta tecnologia. Quest'ultima ha bisogno di un contesto territoriale favorevole, né centralizzato, né frammentato in logiche localistiche.
Solo robusti livelli regionali di governo regionali e locali, che facciano tra loro sistema, sono in grado di creare tali condizioni ambientali, favorendo la cooperazione tra imprese, la flessibilità dei fattori della produzione e l'intercambiabilità delle conoscenze. Solo tali livelli di governo possono fornire adeguati servizi reali alle imprese, dalla formazione professionale, manageriale ed imprenditoriale, all'infrastrutturazione del territorio, alle reti di approvvigionamento idrico, energetico, ai sistemi integrati di trasporto e di comunicazione, al cablaggio e all'informatizzazione, ai servizi di disinquinamento.
Si tratta di un ruolo attivo della dimensione regionale che non esclude, ma anzi richiede un rafforzamento dei poteri di direzione dello Stato centrale; un'azione non uniformante, ma unificante, che spinga i vari poteri e i livelli di governo a fare sistema. Domani verrà presentato un libro dei colleghi De Michelis e Sacconi, intitolato «Dialogo a nordest», che mi sembra muoversi nella stessa direzione e chiede per le regioni un ruolo soprattutto in questa direzione, quella di essere attori, di essere un volano per l'economia del Paese; non essere, cioè, «una palla al piede», ma essere visti dall'opinione pubblica come un volano per dare uno sviluppo aggiuntivo all'economia complessiva del Paese, a partire dalla specificità del loro territorio.
Non a caso, si parla di regionalismo economico. Basti pensare, per esempio, allo sviluppo del Galles, di importanti zone dell'Irlanda, della regione del Reno settentrionale e di quella del Rodano, della regione catalana, dell'area di Tolosa, oppure, in altri continenti, della regione-Stato di Singapore, della regione di Osaka, della Silicon Valley di San Diego, e così via. Credo che dovremmo riflettere, perché l'opinione pubblica si chiede spesso - lo abbiamo visto anche durante le ultime elezioni - a cosa serva la regione. Ritengo che dobbiamo fornire, innanzitutto, una risposta a questo interrogativo.
Alla luce di questa riflessione si possono enucleare alcune proposte concrete di modifica del Titolo V. Sperando di avere ancora a disposizione del tempo, nel mio intervento (il cui testo lascerò a disposizione per la pubblicazione in calce al resoconto stenografico) vorrei richiamare le proposte che, a mio avviso, derivano dall'analisi che ho svolto e che devo ancora finire di compiere. Tali proposte sono volte a modificare il Titolo V e superare la dissociazione presente tra organizzazione territoriale e sviluppo economico-produttivo del Paese. Vi è una dissociazione in questo senso: tale frattura va sanata e va prevista un'organizzazione territoriale della Repubblica in grado di essere funzionale a questa esigenza di fondo dell'economia e dello sviluppo del nostro Paese.
Bisognerebbe partire dall'articolo 114: ritengo che sia assurda - per come è stata formulata - l'espressione del primo comma che mette sullo stesso piano il più piccolo comune di cinquanta abitanti con lo Stato: la Repubblica non «si riparte» (come previsto nel vecchio articolo 114), ma «è costituita» dagli stessi enti cui si Pag. 61aggiungono le città metropolitane e lo Stato. Tralascio le considerazioni a tal riguardo, perché potrebbe risultare solo una disputa nominalistica (in realtà non lo è), per venire alla questione relativa all'articolo 114 quale occasione per apportare una modifica alla questione delle province.
Questa potrebbe, infatti, essere l'occasione per ripensare il ruolo delle province: si tratta di una questione che molto difficilmente potrebbe essere risolta con una legge ordinaria e, dunque, ritengo che sia stato giusto, alla fine, lo stralcio dal provvedimento di quella delega che avrebbe incontrato resistenze nell'articolo 133 e avrebbe difficilmente portato a qualcosa.
Ritengo che con una modifica costituzionale si possa fare molto in tal senso: infatti, le attuali province insistono in confini spesso irrazionali sotto il profilo economico-sociale. Si va dalla provincia di Torino con 315 comuni a quella di Prato con 7, dai quasi 4 milioni della provincia di Roma ai meno di 90 mila della provincia di Isernia. Nel nord le province sono espressione storica della conquista del comune sul contado, nel sud talvolta corrispondono a «regioni naturali» (Capitanata, Irpinia, Salento), ma il più delle volte i confini sono stati disegnati dai Governi preunitari e unitari per le esigenze di mantenimento dell'ordine pubblico. Esse sono a volte avvertite come un peso dai comuni, soprattutto dal capoluogo, tollerate come un diaframma della regione, invise ad altri importanti centri della provincia. I progetti di riforma varati in questi decenni non hanno dato una risposta valida ai problemi di riassetto del territorio, limitandosi a sovrapporre una miriade di enti funzionali a ben quattro o cinque livelli generali di governo.
Ma il vero problema è il superamento della frammentazione comunale e la riorganizzazione del potere locale. Per quanti sforzi di intelligente collaborazione tra comuni si siano prodotti in questi decenni, peraltro solo in alcune zone del Paese, rimane una marcata dissociazione - come dicevo prima - tra dimensione territoriale e processi economico-sociali da governare (comprensori, distretti, patti territoriali).
Nella definizione di un livello sovracomunale occorre tenere conto delle diverse realtà regionali. Non sono la stessa cosa i grandi comuni delle Puglie e i piccoli comuni della Lombardia. È necessario che il potere locale sia strutturato con la necessaria flessibilità, evitando una reductio ad unum in contrasto con la complessità dei fenomeni da regolare, ma facendo sì che governo regionale e governo locale costituiscano un sistema unitario di governo, evitando sia miopi chiusure municipalistiche, sia paralizzanti neocentralismi regionali.
Per questo formulerei la proposta di scrivere l'articolo 114 nel modo seguente: «Con legge regionale, sulla base di parametri fissati con legge dello Stato, possono essere istituite le province, con compiti di coordinamento e collaborazione tra comuni. Gli organi di amministrazione delle province sono espressi dall'assemblea dei sindaci dei comuni del territorio.»
In questo modo: in primo luogo, si potrebbero evitare le province nelle regioni molto piccole; in secondo luogo, si potrebbero costruire province flessibili, legate sia ai comuni che alle regioni, mentre oggi sono avvertite come un peso per i primi e un diaframma per le seconde; in terzo luogo, si potrebbero costituire in alternativa alle tante organizzazioni consortili tra comuni e anche in alternativa alle unioni di comuni più grandi e alle stesse comunità montane.
Vengo ora alla parte più significativa, ossia le proposte relative all'articolo 117. La strada mi sembra obbligata: occorre sostituire ad una rigida distribuzione delle materie, ispirata ad un «federalismo duale» (anacronistico perché non più attuale in nessuno Stato federale), una più moderna e flessibile ripartizione per funzioni ed obiettivi. L'esperienza accumulata dall'approvazione del Titolo V dimostra che una rigida separazione alimenta la conflittualità nella vana definizione di fragili ambiti materiali che finiscono per affidare alla giurisprudenza della Corte costituzionale compiti politici innaturali. Pag. 62L'azione della Corte, indubbiamente, è stata benemerita e ha corretto le più vistose anomalie del Titolo V, ma ha aperto non meno gravi problemi.
A questo punto lascio all'intervento scritto tutta l'analisi della giurisprudenza della Corte. Tuttavia, al riguardo voglio solo sottolineare tre punti: è stata posta in essere da un organo, non legittimato democraticamente il cui compito è quello di giudicare la legittimità delle leggi e non quello di riscrivere - perché di questo in pratica si è trattato - i parametri o addirittura di valutare - invadendo il merito di una legge - la «adeguatezza» di un intervento regionale o statale (perché questo, di fatto, comporta il principio di sussidiarietà).
Non sempre è stato raggiunto l'effetto razionalizzatore, anche in alcuni casi, si sono aperti nuovi problemi. Ad esempio, avere previsto l'intesa fra Stato e regioni nelle materie ricollocate a livello nazionale in forza del principio di sussidiarietà ed adeguatezza, ha portato ad accrescere il potere di veto di regioni ed enti locali proprio nelle materie in cui sono più coinvolti interessi nazionali.
Il difetto «competentista» della modifica del Titolo V viene necessariamente esaltato dalla giurisprudenza della Corte. I margini delle competenze statali e regionali sono così affidati alle avvocature regionali e statali e a sentenze che, proprio perché provocate da casi specifici, non possono avere uno sguardo d'insieme e producono un effetto di «polverizzazione» che rende indecifrabile il quadro delle competenze.
Rimetto all'intervento scritto anche la valutazione e l'analisi sul problema dell'esercizio delle funzioni amministrative e sul potere regolamentare, sui limiti del Titolo V relativo a questo.
Passo alle proposte che riguardano l'articolo 117 e il primo comma dell'articolo 118. Occorre eliminare l'elenco delle materie concorrenti, del tutto, di cui al terzo comma; non parlare di materie ma parlare di funzioni e ricollocare fra le funzioni statali una serie di quelle previste, oggi, nel comma terzo delle materie concorrenti e cioè, in particolare: «le grandi reti strategiche di trasporto e navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza»; «produzione strategica, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia»; «ordinamento della comunicazione»; «ordinamento delle professioni intellettuali»; «la previdenza, ivi compresa la previdenza complementare e integrativa»; «istruzione universitaria e i programmi strategici per la ricerca scientifica».
Bisogna aggiungere una clausola di supremazia che è presente in tutti i Paesi federali, dall'America alla Germania (chiamiamola come vogliamo, clausola di supremazia o in altro modo), sostituendo il quarto comma dell'articolo 117 con il seguente: «Tutte le altre funzioni non espressamente elencate sono di competenza regionale. Il legislatore statale può intervenire per l'esercizio delle medesime funzioni con una propria disciplina allorché lo richieda la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica della Repubblica e lo renda necessario il perseguimento di programmi nazionali. La disciplina può anche essere temporalmente circoscritta ad alcune regioni, fino alla introduzione, in ciascuna regione, di norme legislative regionali».
Dopo si potrebbe aggiungere: «In particolare compete alle regioni la infrastrutturazione del territorio regionale, la mobilità all'interno del territorio, i servizi reali alle imprese, la qualificazione professionale, l'organizzazione dei servizi sociali e sanitari e, ferme restando le norme generali sull'istruzione e l'autonomia delle istituzioni scolastiche, i servizi scolastici».
Aggiungere, inoltre, in sostituzione della norma di cui al sesto comma sul potere regolamentare, la seguente norma: «La potestà regolamentare spetta allo Stato o alla regione in relazione alle proprie competenze legislative. I comuni, le province e le città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina della organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, nel rispetto della legge statale o regionale competente». Tale norma va scritta in Costituzione e non solo nella legge. Pag. 63
Inoltre, cambiare il primo comma dell'articolo 118 nel modo seguente: «Le funzioni amministrative sono di norma attribuite dalla legge statale o regionale in relazione alla propria competenza ai comuni, alle province alle città metropolitane sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza».
A questo punto si potrebbe anche superare il terzo comma dell'articolo 116, avendo definito la modifica che consente allo Stato, con la clausola di supremazia, di provvedere in maniera differenziata anche per le singole regioni. Ovviamente, tutto questo richiede poi che vi sia una sede di raccordo (questo riguarda, però, il problema della riforma del bicameralismo e la disciplina del sistema delle Conferenze fra Stato e regioni).
Questo complesso di modifiche avrebbe un pregio fondamentale che voglio sottolineare: la realizzazione delle riforme di settore di modo che in Parlamento - di intesa con le regioni e le autonomie, nella sede di raccordo - mentre si affronta la riforma di settore, si compila non solo il testo unico ma si fa la riforma. In quel momento, quindi, avendo in mano la materia, si decide il chi fa che cosa, senza avere un elenco rigido che lo impedisca.
Questo sarebbe il modo di fare le riforme e di evitare i conflitti di competenza, sia per quanto riguarda gli aspetti legislativi sia per quanto riguarda le funzioni amministrative. Si deve stabilire mentre si fa la riforma - riforma per riforma, settore per settore - chi fa che cosa. Questo è il modo con cui si consente di fare le riforme - lo ripeto - e creerebbe un modo - a questo punto effettivo - di evitare i conflitti dinanzi la Corte costituzionale, che sarebbero un fatto fisiologico e non più patologico, e costituirebbe un modo per dare veramente un assetto territoriale alla nostra Repubblica.
In conclusione, signor Presidente, mi auguro che la politica sia in grado di recuperare le condizioni - anche se sono cosciente che forse è un po' difficile in questo momento - di consenso per giungere ad utilizzare questo periodo di tre anni per varare le riforme. In particolare, penso che la riforma dell'articolo 117 della Costituzione potrebbe essere quella in grado di trainare tutte le altre. Pertanto, tiriamo subito questo filo perché ne ha bisogno sia il Paese sia noi per varare poi anche le altre riforme, sia quella del Parlamento sia quella della forma di governo.
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Calderisi, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritto a parlare l'onorevole Borghesi. Ne ha facoltà.

ANTONIO BORGHESI. Signor Presidente, intanto voglio ringraziare il Ministro Calderoli che è presente in Aula per seguire questo suo provvedimento. In questa legislatura siamo costretti e ridotti a ringraziare i Ministri che sono in Aula per seguire i loro provvedimenti. Piuttosto, vorrei chiedere al Ministro, dato che noi non lo vediamo ormai ma lui forse qualche volta lo vede, di dire al suo collega dell'economia e delle finanze, Tremonti, che è inaccettabile che durante l'esame di un provvedimento con il quale diamo più di 5 miliardi alla Grecia non sia presente in Aula ad ascoltare quello che si dice e abbia fatto seguire dai banchi del Governo quel provvedimento dal Ministro Meloni, che di economia penso si occupi abbastanza poco, dallo stesso Ministro Calderoli, che si occupa d'altro, e dal sottosegretario Buonfiglio, che si occupa di agricoltura. Nemmeno un sottosegretario per l'economia e le finanze!
Faccio anche una piccola polemica con il collega Calderisi, prima che se ne vada. Non dobbiamo prenderci in giro, collega. L'ho sentita dire che della questione dell'abolizione delle province ne parleremo con legge costituzionale. Ma lei si è già dimenticato che sette mesi fa in quest'Aula avete rinviato in Commissione una nostra proposta di legge costituzionale per l'abrogazione delle province, dicendo che Pag. 64avremmo dovuto discuterne nella Carta delle autonomie? Ma ci prendete in giro?

GIUSEPPE CALDERISI. Ma non voglio abolirle, voglio riformarle!

ANTONIO BORGHESI. Che balletti fate? Balletti, appunto, che purtroppo sono frequenti dentro questo provvedimento.
Avevamo posto molte speranze in questa Carta delle autonomie che trovavamo intimamente collegata e connessa alla legge sul federalismo fiscale che pure abbiamo approvato, così come abbiamo approvato il primo degli atti successivi. Tuttavia, devo dire che siamo fortemente delusi dal risultato cui siamo giunti.
Signor Ministro, abbiamo contato almeno nove livelli istituzionali riconosciuti dalla Costituzione o da leggi ordinarie: Stato, regioni, province, comuni, unioni tra comuni, comunità montane, consorzi di bonifica, bacini imbriferi montani, circoscrizioni. Sono tutti livelli istituzionali che in qualche modo usano denaro pubblico, sia perché lo alimentano in modo diretto o coattivo in virtù di legge ordinaria (lo Stato, le regioni, le province e i comuni). Le comunità montane si avvalgono dei trasferimenti statali, i consorzi di bonifica dei contributi obbligatori e i bacini imbriferi dell'addizionale sull'energia. Inoltre, vi sono altri enti che lo alimentano in modo indiretto, come l'unione tra comuni e le circoscrizioni che ricevono denaro dai comuni.
Tutti questi livelli hanno un sistema di governo eletto o nominato. I consorzi di bonifica e i bacini imbriferi hanno consigli di amministrazione e presidenti di nomina sostanzialmente politica. Tutti hanno strutture di supporto e sistemi di governo composti da dirigenti, impiegati, automobili di servizio. Tutti assegnano incarichi di consulenza e contribuiscono al mantenimento di un numero imprecisato di persone - qualcuno dice 500 mila - che vivono di politica. È evidente che in una situazione come quella che stiamo vivendo e nel quadro di un federalismo fiscale vero tutti questi livelli sono incompatibili.
Allora andiamo a guardare che di questi nove livelli istituzionali è rimasto quasi tutto. Parliamo appunto di questo balletto, per me indecente, delle province che ha rappresentato una bandiera nel momento delle elezioni, quando almeno una parte di voi annunciava alle piazze che i costi della politica si eliminavano grazie alla loro abolizione.
In seguito, qualcuno di voi ha proposto sì l'abolizione delle province, ma non di tutte, di una parte, solo di quelle che non funzionano. Poi abbiamo presentato il progetto di legge e ci avete detto che se ne sarebbe parlato nel provvedimento sulle autonomie, quindi avete fatto una manovra nella quale c'era dentro qualche cosa (mi pare che fossero diciotto), ma poi si cominciava a prevedere la salvezza di enti che, anche se piccoli, stavano in montagna.
Allora avete tolto da lì la previsione sulla riduzione delle province, avete detto che sarebbe stata inserita nel provvedimento sulle autonomie e avete adottato un provvedimento che comunque rappresentava qualche cosa, ma subito ci avete aggiunto l'esclusione per gli enti di montagna e, come ha ricordato il presidente della Commissione nel suo intervento, alla fine le province abolite erano solo quattro. Ma neanche quelle sono state eliminate.
Credo che se questo è il risultato, riproporremo tali modifiche in quest'Aula con i nostri emendamenti. Dovrei denunciare il Governo all'Autorità garante della concorrenza e del mercato per pubblicità ingannevole. Avete usato la questione delle province come manifesto elettorale e ciò è pubblicità ingannevole, quindi dovreste essere condannati per questo.
Cerco anche di essere rapido per passare a qualche altra cosa contenuta nel disegno di legge in esame che non va bene. Si pensi alle circoscrizioni, le quali, se fatte bene, hanno forse un significato in una città come Roma, Milano, forse Napoli, ma francamente le città di 250 mila abitanti non ne hanno assolutamente bisogno.
Eppure neanche sulle circoscrizioni si è intervenuto, così come sono rimaste le comunità montane e i consorzi di bonifica Pag. 65che non hanno più nessuna relazione con la legge del 1931 che istituì coattivamente il prelievo a carico di cittadini e senza controlli nella spesa, perché siamo di fronte a soggetti che tirano un bilancio alla fine dell'anno e ripartiscono quei soldi obbligatoriamente e coattivamente sui cittadini senza alcuna ragione.
Allora che Carta delle autonomie è se ha lasciato praticamente inalterato tutto quello che c'era prima. Abbiamo dato da tempo dei suggerimenti e, in parte, sono stati accolti nelle legge sul federalismo. Ma ci vuole anche coraggio per fare le riforme.
Vedete, quando mettete il limite di 5 mila abitanti per far sì che i comuni siano obbligati a unirsi, è una direzione giusta. Tuttavia sapete quanti sono i comuni con meno di 5 mila abitanti? Sicuramente il Ministro lo sa, sono 5.740 in Italia. Quindi, bene o male, se uno di quei comuni si unisce ad un altro riduciamo a 2.500 il numero dei centri di costo.
Ma è davvero troppo poco. Se quei 5 mila - e vi proporremmo di aumentare la soglia - li portassimo ad una soglia accettabile, che è quella di 15-20 mila, ridurremmo i centri di spesa comunali a meno di 500. Quello sì che sarebbe un effettivo intervento per favorire anche la riduzione della spesa pubblica.
Lo stesso dicasi per le prefetture, per le quali prima si prevede la loro riduzione e poi si cancella tale previsione. Sapete quanto costano le prefetture ogni anno? Quasi un miliardo. Chiaramente non è che si risparmi tutto, eppure anche in questo caso prima si doveva fare un intervento, addirittura era prevista l'intera soppressione, la riduzione ad una prefettura per ogni regione, poi improvvisamente anche lì si è avuta la soppressione della modifica, così come si evince se andiamo a vedere cos'è successo in Commissione.
Noi ve lo riproporremo anche domani e staremo anche attenti a vedere come si voterà su questi aspetti. Ed ancora, si è parlato della soppressione del difensore civico: ma quante soppressioni abbiamo trovato in questa Carta delle autonomie, che lascia sostanzialmente inalterata la situazione?
Non voglio farla più lunga di così, voglio semplicemente dire che ovviamente il nostro giudizio sul provvedimento, così come risulta dall'esame della Commissione è negativo e riproporremo i nostri emendamenti nella giornata di domani. Il nostro giudizio potrebbe anche cambiare ove vi fosse un diverso atteggiamento da parte del Governo e della maggioranza rispetto a tali proposte, ma non se tutto dovesse restare così. Inoltre, vi prego: non fate passare il provvedimento per una cosa che non è, altrimenti vi devo denunciare una seconda volta per pubblicità ingannevole, perché è esattamente l'applicazione del motto di Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo «Che tutto cambi perché nulla cambi» (Applausi dei deputati del gruppo Italia dei Valori).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Volpi. Ne ha facoltà.

RAFFAELE VOLPI. Signor Presidente, prima di iniziare l'intervento mi permetto di trasmetterle una mia amarezza che non può essere una doglianza, perché ovviamente l'organizzazione dei lavori è normalmente condivisa da tutti i gruppi. Tuttavia, Presidente, le devo dire che credo che sia veramente mortificante derubricare il provvedimento che stiamo trattando ad un argomento da affrontare in coda a tutto ciò che è stato fatto oggi, alle otto di sera, peraltro con l'avvicinarsi di un evento sportivo che interessa molti miei colleghi.
Credo che quando si discute di un argomento come questo, che tra l'altro non è stato modificato dal 2000, cioè da quando fu varato il Testo unico delle autonomie, vi sia la necessità di un rilievo diverso, anche per dare spazio alla politica che viene fatta seriamente in questo Parlamento, dedicando al dibattito un momento diverso, più qualificante. Ciò fa il pari con un'altra mia doglianza, che anch'essa non può essere trasmessa alla Presidenza, perché ho ascoltato le dichiarazioni Pag. 66di un autorevole collega questa settimana il quale diceva che avrebbe presentato emendamenti al provvedimento in esame; peccato che nonostante questo collega sia un «titolare», uso il termine sportivo, e non una «riserva» nella Commissione affari costituzionali, in due mesi e mezzo di discussione non l'ho mai visto, né a partecipare alla discussione, né a votare. Evidentemente anche in questo caso la portata eclatante della televisione o di certi talk show aiuta ad abbassare il livello della politica e fa il pari con quelli che pensano che la politica sia un ring e pensano di scendere in campo.
Detto questo, rivolgo un'osservazione al collega Tassone e a quei pochi colleghi che ormai sono rimasti in Aula. Collega Tassone, noi non viviamo momenti di esaltazione per quello che proviamo a fare, per quel poco che proviamo a fare, magari, secondo lei, o per quel poco che riusciamo a fare. Ma vede, penso che altri non possano esaltarsi per ciò che non sono riusciti a fare, che hanno provato a fare, senza riuscire a ottenere alcun risultato, oppure per quello che ritengono di non fare per calcolo politico. Io sono un po' un dilettante della politica, però mi capita di leggere i giornali in questi giorni e leggo di qualche atteggiamento in evoluzione legandolo, come dire, a delle determinazioni politiche che hanno contingenze diverse rispetto agli argomenti che stiamo trattando in quest'Aula. Magari questi atteggiamenti sono legati alla parola d'ordine di dover creare un «Vietnam parlamentare» nei prossimi due mesi, piuttosto che discutere di quello che stiamo affrontando, ma credo che pensare ad un «Vietnam parlamentare» non sia utile nemmeno per chi lo propone.
Ciò detto, non farò sicuramente un intervento di portata costituzionale come quello del collega Calderisi, ma mi soffermerò su due questioni che credo rappresentino gli aspetti più pratici che individuo in questo provvedimento. Innanzitutto, mi riferisco all'obiettivo di superare le duplicazioni dei centri di responsabilità, ossia quelle duplicazioni che costano, attraverso una forma che è indicata chiaramente, specificatamente, di sussidiarietà.
L'aver individuato, peraltro in maniera molto chiara, la soglia dei piccoli comuni con cinquemila abitanti significa dare finalmente chiarezza ad uno dei contenziosi sulla filosofia del piccolo comune. Credo che alla fine questo provvedimento abbia una parola d'ordine al suo interno, ossia la responsabilità: la responsabilità nelle scelte e la responsabilità nella spesa. È stato detto giustamente, prima, che vi è un richiamo forte alla parte istituzionale che riguarda il federalismo, ma secondo me c'è qualcosa di più. Ci sono delle opportunità che possono essere esercitate, perché è vero che c'è una forma obbligatoria di associazione fra i comuni, ma vi è anche la possibilità che altri comuni si associno nelle forme organizzate fra enti locali, così come vi è anche un passaggio, che sembra marginale nel contesto, che dice che per alcune funzioni addirittura le stesse province possono associarsi e organizzarsi in questo senso.
Ebbene, parlando dei livelli locali insieme e non disgiunti - perché secondo me questo passaggio è importante - penso che in questo momento questo provvedimento abbia un senso ancora più importante. Si può parlare di tre temi (faccio l'esempio di questi tre temi, che peraltro mi sono anche cari): pianificazione del territorio, sviluppo e mobilità. Oggi come oggi, viviamo un momento di crisi e penso che ci sia la necessità di stimolare gli enti locali, specialmente quelli più piccoli, ad uscire da uno stato di asfissia che è proprio dell'unico indirizzo da dare all'interno del proprio minimo ambito. D'altra parte, c'è un altro aspetto che consente di fare questo ragionamento. Infatti, non sono stati toccati i livelli di democrazia, non si è toccata quella che veniva chiamata la municipalità, cioè quel senso di partecipazione della comunità ad un'architettura democratica che elegge i propri rappresentanti e che è rappresentata dal gonfalone, non dal palazzo, quindi dalla politica vera. Pag. 67
Questa partecipazione diventa importante perché, quando si ragiona a livello territoriale di valori comuni, di aree di vocazione e di opportunità, si parla di una pianificazione strategica che ormai non può vedere il piccolo comune isolato, magari egoisticamente, da un contesto più ampio, ma lo inserisce in un contesto più generale, che consente di raccogliere opportunità vere, che oggi sono a maggior ragione importanti. Ciò quindi con quelle responsabilità, che sono altamente individuate e che diventano anche, dal mio punto di vista, un momento di riqualificazione dell'ente locale e dei suoi rappresentanti, un momento di nuova credibilità all'interno della programmazione territoriale. È una credibilità che si trasforma in una nuova autorevolezza e, se è vero che anche la politica locale purtroppo è spesso attaccata da quella che ormai è diventata una moda, penso che questo diventi un momento qualificante in cui l'autorevolezza comporta a livello di base, nell'immediato contatto che c'è fra il cittadino e la politica, un rinnovato rinascimento degli enti locali.
Vista l'ora, non vorrei dilungarmi, ma quello che ho detto mi sembrava importante, a prescindere dalle formule giuridiche. Credo che ci siano altri passaggi importanti: vi è quello della responsabilità. Affrontiamo un tema dove i conti sono conti e non più cose lasciate lì. Ci sono dei responsabili anche nel passaggio relativo all'adeguamento delle sovrastrutture. Le regioni devono eliminare sovrastrutture che non servono più, ma non solo: si devono prendere anche la responsabilità - credo che questo sia un passaggio estremamente serio - di ragionare in termini di utilità su ciò che vogliono avere sul proprio territorio. Parlo per esempio delle comunità montane.
Parliamoci chiaro: chi vuole avere una strutturazione territoriale che ritiene utile, non clientelare, non fatta per chissà quali motivi, ma per organizzare meglio la sua attività e per dare più possibilità agli enti locali di lavorare in un certo modo, si prenda la responsabilità politica di mantenerle. Certo, vedremo chi le manterrà e come verranno mantenute o se non vi saranno le solite regioni che intenderanno mantenere comunità montane che non hanno nulla di montano e che diventano assolutamente delle cose inutili, ma costose.
Anche per quanto riguarda il passaggio sui controlli di bilancio, penso che in questo momento - abbiamo parlato prima della Grecia - occorra partire dai nostri comuni, se ci preoccupiamo tanto delle crisi e dei default.
Cominciamo a controllare i conti dei nostri comuni: non abbiamo la preoccupazione che un controllo in più faccia saltare il sistema delle autonomie. Mi sembra che la preoccupazione dovrebbe essere quella opposta: che un controllo in meno faccia saltare il sistema Paese. L'ho sentito dai colleghi oggi: parlavano di problemi veri, come quello dei derivati nei comuni. Bene, d'ora in poi controlliamo in maniera diversa e più attenta; probabilmente, avremo più certezze anche noi.
Non continuerei oltre, signor Presidente e signor Ministro, anche perché in questi due mesi mi sembra che appassionatamente vi sia stata una discussione che mi dispiace possa eventualmente sfociare in un dissenso, perché la passione ci ha comunque fatto ritrovare con dei pensieri comuni su molti temi.
Penso che il percorso in Assemblea abbia la possibilità di raccogliere, eventualmente, ancora delle sensibilità e considero che questa sia un'occasione da non perdere. Il mio gruppo ritiene che questa sia una nuova Carta fondativa dei rapporti tra i livelli di governo e tra i livelli di governo e i cittadini.
Mi attendo, quindi, in questi giorni, partecipando a questa discussione, di vedere alla fine un lavoro che trovi non solo la massima condivisione, ma meno speculazione politica e più interesse per i cittadini (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Lusetti. Ne ha facoltà.

RENZO LUSETTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor Ministro, sulle Pag. 68perplessità, sulle incongruenze e sulle criticità di questo provvedimento ha già parlato prima di me l'onorevole Tassone e parlerà poi l'onorevole Ciccanti, che in Commissione hanno seguito dettagliatamente tutto il provvedimento. Signor Ministro, vorrei solo portare alcune riflessioni alla sua attenzione con riferimento a due punti di questo provvedimento: il primo è la delega al Governo per l'adozione della Carta delle autonomie locali.
Credo che questo sia un tema veramente fondamentale, legato ad una sorta di progetto molto ampio che il Governo dovrebbe avere; però, nulla di tutto ciò. Signor Ministro, credo che la Carta delle autonomie debba essere un mezzo per rinnovare l'unità nazionale intorno ad uno Stato riformato e intorno a enti territoriali che sono più autonomi e responsabili.
Non noto nulla di tutto ciò in questo provvedimento. A giudicare della delega contenuta all'articolo 13, penso che questa Carta delle autonomie produrrà ben poco rispetto ad un progetto più ambizioso di riforma dell'intero sistema. Mi preoccupo, perché l'obiettivo principale che dovremmo avere sicuramente è quello di ridurre il peso degli apparati centrali, ma il rischio che corriamo è che si sostituisca un unico Stato con venti piccoli Stati regionali, che riproducono a livello locale una sorta di «peso centralizzato» nei confronti delle autonomie e rischiano di indebolire tutto il sistema delle autonomie locali.
Per questo, credo che si debbano individuare le funzioni fondamentali degli enti locali e si debbano attribuire delle funzioni amministrative ai diversi livelli istituzionali in base a un principio solido di sussidiarietà.
In sostanza, signor Ministro, dovremmo prima stabilire le funzioni dei diversi livelli di governo, e poi decidere le risorse: non si può parlare prima di risorse, e poi di funzioni. Per decidere le risorse dei diversi livelli di governo, si devono stabilire le funzioni di ciascuno. Cosa è successo nel nostro dibattito parlamentare in questi mesi? È successo che prima il Governo ha puntato sul federalismo fiscale, tentando di definirne le risorse, e solo dopo le funzioni. Così non va!
Ministro, lei ci ha un po' trascinato nella discussione sul federalismo fiscale, e adesso arriveranno i decreti. Non so come farà: lei è un abile mediatore, ma finché si parla di demanio va anche bene; arriveranno i decreti delegati sul prelievo, poi arriveremo anche alla distribuzione delle risorse. Non so come farà nella sua maggioranza, a definire tutti i passaggi che occorrono su un tema così importante. Penso però che il Governo abbia sbagliato facendo «alla rovescia», puntando prima su risorse e federalismo fiscale, e poi sulle funzioni che dovremmo definire nella Carta delle autonomie: è questo il tema principale che noi abbiamo affrontato, per cui non condividiamo la filosofia del provvedimento.
Il secondo tema è quello delle province. Prima, nell'intervento del presidente Bruno, Governo e maggioranza hanno gettato la maschera, perché hanno annunciato tagli delle province nella manovra economica, e con molta ambiguità la norma è stata presentata come trasferita nel provvedimento che stiamo discutendo. Si è discusso, i giornali ne hanno parlato, si è detto di tutto: prima vi erano le province sotto i 200 mila abitanti, poi 220 mila abitanti, poi si è deciso di fare sotto i 200 mila; poi è stato presentato l'emendamento Lorenzin, che ha introdotto anche il concetto delle comunità montane. Alla fine cosa è successo? Niente, assolutamente nulla! Tutto il dibattito svolto sul tema delle province non ha prodotto assolutamente niente; e giustamente il presidente Bruno ha annunciato il fallimento di questa politica, perché ha detto: abbiamo ritenuto di sopprimere l'articolo 14, perché noi vogliamo compiere un discorso più razionale, organico. Sono tutte «fesserie», se mi consente il Governo, perché non si può andare avanti in questo modo: non vi è nessun disegno strategico, vi è solo demagogia e improvvisazione.
Mi rendo conto che la Lega è una sorta di azionista di maggioranza di questo Governo, e ha decretato che le province Pag. 69non debbono essere tagliate né riformate, e neanche razionalizzate; però mi chiedo cosa ne pensino i colleghi del Popolo della Libertà, che hanno sottoscritto progetti di legge per abolire le province, o lo stesso Presidente del Consiglio, che in tanti casi ha annunciato: noi taglieremo le province, le elimineremo. Non vi è un'idea organica di questo Governo.
Soprattutto noi ci chiediamo una cosa, visto che l'UdC ha fatto e farà una battaglia per l'abolizione delle province. Abbiamo 110 province; quando andavo a scuola (ho fatto le scuole elementari negli anni Sessanta) vi erano 92 province. Hanno poi aggiunto Isernia e Campobasso: 94 province, sembrava il massimo. Siamo arrivati a 110 province in questo nostro Paese; qualche anno fa abbiamo introdotto quattro province in più in Sardegna, altre tre province, la famosa BAT, Barletta, Andria e Trani, poi Fermo. Non possiamo continuare in questo modo. Ci troviamo di fronte ad una grossa sproporzione. Il collega Tassone sa che in Calabria vi sono alcune province molto piccole, e la provincia di Cosenza è una provincia grandissima rispetto alle altre di Crotone e di Vibo Valentia. Non vi è un disegno organico.
Noi chiediamo che si compia una vera razionalizzazione delle province. Per questo motivo aderisco all'emendamento (ormai divenuto articolo aggiuntivo, perché non vi è l'articolo da emendare) proposto dal collega Ciccanti e dal collega Tassone, in cui si chiede una delega al Governo in materia di razionalizzazione delle province, cercando di fare in modo che possano essere «tagliate» le province che hanno meno di 500 mila abitanti; e comunque rimarranno tante. Ciò accade a Costituzione vigente, perché è evidente che noi non possiamo fare altrimenti; però l'obiettivo nostro è andare avanti con un progetto di legge costituzionale, che ci consenta di arrivare all'abolizione delle province. Se infatti vi riusciremo, nel provvedimento in esame tenteremo di compiere un drastico mutamento strutturale delle province, diminuendole di molto; se non vi riusciremo, noi tenteremo il tutto per tutto, con un progetto di legge costituzionale.
Noi non vogliamo abolire le province come dimensione geografica, ma come struttura politica. L'abolizione non solo aiuta ad abbassare il livello della spesa pubblica, ma facilita anche il recupero di un rapporto costruttivo e di fiducia tra i cittadini e la politica stessa. Per questo noi crediamo che sia necessario compiere una riflessione maggiore sul tema delle province nel nostro Paese.
In questa prospettiva non è in gioco la dimensione provinciale come realtà socio-geografica perché vi saranno sempre aggregazioni sindacali, politiche, sportive e imprenditoriali che hanno come riferimento i confini provinciali: è l'ente provincia che - a nostro avviso - non va bene in questo terzo millennio, in cui crediamo anche per ragioni di modernità.
Penso che la provincia è solo una delle dimensioni di riferimento che va oltre il comune e non arriva alla regione: abbiamo le aziende sanitarie (che vanno oltre il comune e non arrivano alla regione) e le circoscrizioni giudiziarie (che vanno oltre la provincia e non arrivano alla regione), ma abbiamo anche le diocesi (lasciatemi dire, da cattolico, che molte diocesi vanno oltre i confini provinciali, pensiamo alla diocesi ambrosiana, ma ciò non significa nulla, se aboliamo veramente gli enti provinciali).
Credo che tutti questi enti fanno riferimento a realtà territoriali che non corrispondono alle dimensioni delle entità politiche. Allora il problema è forse di competenze? No, non si tratta di un problema di competenze perché abolire il livello politico-elettivo della provincia non vuol dire che dal giorno dopo nessuno si occupa più di strade, di scuole, di tutela dell'ambiente; abbiamo infatti altri livelli, e può essere pure la regione che, anche se non ci convince fino in fondo, però è comunque un'istituzione presente che può essere titolare di funzioni che prima erano in capo alle province.
Se potessimo spostare all'indietro le lancette della storia potrebbe anche avere Pag. 70una logica far prevalere la dimensione provinciale su quella regionale, ma se vogliamo guardare avanti (visto che la settimana scorsa al Senato abbiamo celebrato il quarantesimo anniversario della costituzione delle regioni) è chiaro che le regioni oggi rappresentano il punto di riferimento politico-territoriale maggiormente riconosciuto ed ormai stabilmente definito.

PRESIDENTE. Onorevole Lusetti, deve concludere.

RENZO LUSETTI. Onorevoli colleghi - e concludo - ci vuole coraggio, molto coraggio, ed è il coraggio della politica. Noi abbiamo il coraggio di abolire le province, a partire dalla Costituzione, ma come scriveva Manzoni «se uno il coraggio non ce l'ha non se lo può dare»: noi ce l'abbiamo, ce lo vogliamo dare e sappiamo che abolire le province, o almeno ridurre la loro mostruosità, vuol dire ridurre il divario tra il necessario prezzo della democrazia ed i sempre più pesanti costi della politica (Applausi dei deputati del gruppo Unione di Centro).

PRESIDENTE. Grazie, onorevole Lusetti, anche per la citazione manzoniana. È iscritto a parlare l'onorevole Zaccaria. Ne ha facoltà.

ROBERTO ZACCARIA. Signor Presidente, questo è un disegno di legge di attuazione costituzionale che - secondo la sua impostazione - dovrebbe avere un grande rilievo; è un disegno di legge al quale tutti noi avevamo attribuito importanza al punto che - lo si è già ricordato - quando si è parlato di federalismo fiscale in qualche modo non ci siamo mai sottratti a quel confronto, ma abbiamo anche detto che sarebbe stato necessario avere questa visione più generale.
Debbo dire peraltro che quando, prima della riforma del Titolo V, era ancora in vigore l'articolo 128 e si parlava degli enti locali (una nozione che era molto chiara) si parlava del fatto che le funzioni degli enti locali avrebbero dovuto essere attribuite attraverso una legge di carattere generale: l'idea era cioè che la legge attributiva di funzioni agli enti locali avesse questo carattere di organicità, avesse una visione di carattere generale all'interno della quale si dovevano misurare le funzioni ed il contesto nel quale gli enti locali erano inseriti (una legge generale dunque, potremmo dire una legge organica).
Quando invece il tema è stato affrontato ci siamo resi conto quasi subito che questo respiro organico veniva oggettivamente a mancare. Il Governo, che pure ha firmato questo disegno di legge, si è reso protagonista forse di un involontario «spezzatino»: nel valutare l'impatto di questa normativa sul quadro complessivo si ricava infatti che le leggi rispetto alle quali il provvedimento in esame va ad operare sono probabilmente una decina.
Non solo il testo unico del 2000 e la legge «La Loggia», ma la stessa legge sul federalismo fiscale contiene delle disposizioni, con riferimento alle funzioni fondamentali sulle quali si devono poi calcolare i finanziamenti, che non sono del tutto omogenee rispetto a quelle contenute nel testo in esame.
Vi è un delicato problema di raffronto fra queste due disposizioni normative, che certamente non può essere sottovalutato, come non può essere sottovalutato il fatto che già la legge finanziaria sia in qualche modo intervenuta su tale argomento.
Il decreto-legge n. 2 del 2010 ha anche preso la sua parte, modificando la finanziaria e intervenendo sulla materia; così la manovra contenuta nel decreto-legge n. 78 del 2010, che attiene in molte parti a questo provvedimento. È un disegno di legge quindi che, agli occhi dei parlamentari, dell'intero Parlamento e di chi ha seguito il dibattito non appare assolutamente caratterizzato da una visione di tipo organico.
Non nego che qualcuno, come il Ministro Calderoli - che sicuramente sia sul federalismo sia su tale provvedimento è molto attento e puntuale - possa avere una visione organica, che tuttavia in questo momento non hanno né la Camera né Pag. 71la Commissione affari costituzionali, perché non la possono avere, operando su una tastiera così complessa.
La collega onorevole Amici ha parlato del carattere non innovativo del testo in esame; è una riflessione che dovranno fare anche gli altri colleghi che interverranno, ma certo è difficile pensare che possa parlarsi di un provvedimento organico, perché l'organicità è smentita dai riferimenti di carattere normativo che ho citato.
A questi, se volete, potrebbero aggiungersene degli altri, perché mi sembra che al momento vi siano anche all'esame del Parlamento la proposta di legge Realacci, relativa ai piccoli comuni, che tocca tale argomenti, e il disegno di legge di iniziativa del Governo, cosiddetto pacchetto anti-corruzione, che pure contiene altre disposizioni.
Volendo essere eufemistici, si può dire che il provvedimento si pone in un quadro complesso, caratterizzato da una pluralità di interventi normativi realizzati in un ristretto contesto temporale - anche questo è un elemento che influisce -, che deve essere valutato in termini di coerenza complessiva.
Certamente, qualcuno alla fine troverà la coerenza, ma questo è un provvedimento sul quale occorre riflettere ed è questo l'elemento sul quale vorrei soltanto fare qualche considerazione aggiuntiva: l'abitudine a conferire deleghe. L'altro giorno dicevo, con riferimento al problema di carattere generale, che vi sono ben 270 disposizioni di delega, ormai già approvate in veste di leggi formali dal Parlamento. Qui non si contesta il fatto che si usi la delega per intervenire in tale materia o con riferimento a una parte significativa, ma quella prevista all'articolo 13 del provvedimento in esame è in realtà una «super delega», perché, se si guarda la sua struttura, ci si rende conto che sostanzialmente il vero disegno organico è quello che realizzerà il Governo nei diciotto mesi successivi, in virtù della delega che il Parlamento conferirà nell'approvare tale disposizione.
Con l'espressione «super delega», intendevo una delega diversa dalle altre. Abbiamo visto anche la settimana scorsa, quando abbiamo esaminato il testo sulla pubblica amministrazione, con riferimento alla Carta dei doveri, che qui in Parlamento parliamo di tante cose, ma poi alla fine chi perfeziona l'atto finale e conclusivo ed esercita una capacità di visione complessiva è il Governo.
Ma è questo che vuole la Costituzione? Vuole che le leggi che dovrebbero avere carattere generale, e quindi organico, siano fatte alla fine dal Governo?
Io credo di no. Credo che, se si leggono i criteri di delega, ci si rende conto che il Governo ha un margine molto ampio di intervento, in primo luogo perché realizzerà, alla fine, il coordinamento formale, terminologico e sostanziale. Poiché il coordinamento sostanziale delle disposizioni vigenti riguarda praticamente un mosaico, nel quale ci si deve orientare, formato da ben otto atti normativi molto diversi come visione, filosofia, impostazione, evidentemente questo coordinamento sostanziale sarà la vera legge che verrà prodotta su questa materia.
Inoltre, per quanto riguarda i principi di delega vi è una condizione del Comitato per la legislazione - ve ne sono altre, ma è l'unica che vorrei citare - che si riferisce alla lettera c): rispetto dei principi desumibili dalla giurisprudenza costituzionale. Bisogna provvedere, perché immaginate cosa succederebbe se si facesse una delega che dicesse che il Governo, nell'attuare la delega, deve tenere conto della Costituzione. È pensabile una delega che stabilisca che il Governo intervenga in una certa materia tenendo conto della Costituzione italiana? È chiaro che sarebbe impossibile. Ma dire che il Governo deve tenere conto dei principi della giurisprudenza costituzionale - che, come noto, sono diversissimi - naturalmente lascia al Governo quel ruolo di interprete che, con riferimento alla giurisprudenza, deve essere solo del Parlamento.

PRESIDENTE. Deve concludere.

ROBERTO ZACCARIA. Concludo augurandomi che vi possano essere degli interventi Pag. 72di correzione, però questo provvedimento - come diceva la collega Amici - è privo di carattere innovativo e io aggiungo che è privo di ogni carattere di organicità (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fontanelli. Ne ha facoltà.

PAOLO FONTANELLI. Signor Presidente, anzitutto condivido quanto ha detto all'inizio il collega Volpi sul fatto di aver relegato questo dibattito in una condizione particolarmente ristretta e angusta, peraltro anche con qualche rischio - visto che siamo qui insieme al Ministro Calderoli - mentre gioca l'Italia di essere accusati di leso patriottismo (invece di tifare per la nazionale siamo qua a discutere...).

ROBERTO GIACHETTI. Meno male che il calendario non lo fa il Ministro Calderoli...

PAOLO FONTANELLI. Cercherò di essere rapido nelle valutazioni. Come hanno espresso già i colleghi Amici e Zaccaria intervenuti prima di me, credo...

PRESIDENTE. Onorevole Fontanelli, vorrei essere sicuro che effettivamente tutti stiamo ascoltando il dibattito e che qualcuno non stia guardando la partita... Prego, continui pure, onorevole Fontanelli.

PAOLO FONTANELLI. La prima valutazione è quella che abbiamo dato sul disegno di legge e che è una valutazione e un giudizio negativi. C'è uno scarto enorme, molto forte, tra i propositi, le attese e i risultati ottenuti. Questo nonostante - come ha ricordato il presidente Bruno - vi siano state delle modifiche, alcune positive, con una collaborazione, e alcune negative rispetto al testo iniziale e che non l'hanno certamente rafforzato. Tuttavia, il complesso del provvedimento è molto lontano dai propositi da cui si era partiti, cioè l'idea di una Carta delle autonomie e di un riordino complessivo delle funzioni che fossero capaci di rilanciare l'autonomia e la responsabilità del sistema degli enti locali italiani.
Tutto questo non c'è nel provvedimento e questa esigenza - si diceva - rappresentava anche una necessità in rapporto all'evoluzione del federalismo nel nostro Paese. Di questo obiettivo oggi c'è ben poco. Credo che si sia persa un'occasione, l'abbiamo persa tutti, in modo particolare la maggioranza.
Non credo che serva, nel cercare di giustificare questa delusione, appellarsi alla situazione difficile, al momento e alla crisi economica e finanziaria. Già vediamo, comunque, come le regioni e i comuni reagiscano alla manovra economica che, ancora una volta, e in maniera più marcata di prima, rappresenta una scelta di penalizzazione e di forte insostenibilità per l'insieme del sistema degli enti locali.
Il provvedimento che, invece, stiamo discutendo appare assai lontano e inadeguato proprio rispetto a quegli obiettivi di modernizzazione e di cambiamento che sono stati più volte evocati in relazione all'attuazione del Titolo V e del federalismo che lì è contenuto.
Qual è e qual era la sfida che dovevamo e speravamo di affrontare? La sfida era quella di saper rispondere ad un'esigenza di innovazione e di rilancio delle capacità e del ruolo del sistema delle autonomie, in un clima di delegittimazione del sistema istituzionale, anche quello locale, che ha camminato fortemente nella testa di tante persone in questi anni e che sta troppo spesso sulle prime pagine dei giornali. Lo abbiamo visto anche in questi giorni.
È stato un errore grave, perché la sfida che l'Italia ha davanti oggi, per rispondere alla crisi e per affrontare la possibilità di un suo rilancio, non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista della coesione sociale, della tenuta e della crescita civile del Paese, passa soprattutto attraverso la capacità di rilanciare il ruolo delle autonomie locali. Ne è una condizione fondamentale, certo non l'unica, ma è una condizione fondamentale, che sta scritta nella storia dell'Italia, del nostro Pag. 73Paese, perché le autonomie locali e i comuni, in modo particolare hanno rappresentato, nella storia italiana, un punto di riferimento fondamentale, un fattore centrale di coesione e di costruzione della cultura civica del nostro Paese. Tra l'altro c'è stato, anni fa, un bellissimo studio di uno storico e sociologo statunitense, Putnam, che individuava proprio nella tenuta del senso civico e nelle realtà territoriali dove questa tenuta era maggiore il frutto del lavoro, del rapporto, in relazione all'attività degli enti locali e della capacità di coesione che erano capaci di generare nelle loro comunità.
Oggi, rispetto ai tanti fenomeni che quotidianamente vediamo, di inciviltà e di caduta di senso civico, avremmo ancora molto più bisogno di recuperare questa visione e questa attenzione. Sappiamo che, senza un sistema delle autonomie che sia forte, apprezzato, autorevole, e che costituisca, quindi, un punto di riferimento per un'autonomia e una responsabilità credibili, è difficile ricostruire questo tessuto forte.
È stato dato, invece, un messaggio opposto nel modo in cui in questi mesi, in questi ultimi anni, è stato affrontato il problema. Il messaggio è stato quello degli enti locali come enti di spreco e di burocratismo. Così si è affrontato anche questo provvedimento, che risente fortemente di tale fatto, del modo in cui, già con i precedenti, la legge finanziaria, l'intervento che c'è stato all'inizio dell'anno in sviluppo della legge finanziaria con i tagli ai consigli comunali, si sia attaccata la rappresentanza, che è un elemento fondamentale di tenuta per una comunità, come se fosse il punto critico, il punto principale di spreco. Insieme a quello, la partecipazione: si è messo sul banco degli accusati la rappresentanza e la partecipazione. Si è fatto l'opposto di ciò di cui vi era bisogno. Si è affrontato questo tema, che pure doveva essere affrontato, nel modo più sbrigativo e propagandistico possibile.
Ritengo che, per esempio, anche l'affermazione che abbiamo letto sui giornali stamani, fatta ieri dal Ministro Tremonti, il quale, rispetto alle critiche delle regioni, dei comuni e degli enti locali sostiene che essi possono saltare un giro, non fa nulla, come se il sistema delle autonomie gestisse solo delle attività di tipo burocratico, che non hanno influenza, ogni giorno, sulla vita dei cittadini e sulla vita delle persone.
Ebbene, il sistema delle autonomie è fondamentale nell'erogare oggi servizi per i cittadini, servizi che i cittadini chiedono in misura ancora maggiore proprio perché più forte è la crisi e più si chiede una protezione. Tutto questo, invece, oggi viene messo in discussione con le risorse che vengono tagliate in modo del tutto iniquo.
Ricordo che dai dati che si ricavano dalla relazione della Corte dei conti, tra il 2004 e il 2009, la spesa complessiva al netto degli interessi è aumentata del 10,7 per cento nei comuni, del 6,8 nelle province e del 29,9 nelle amministrazioni centrali. Dunque, era il centro, lo spreco, il punto reale che dovevamo affrontare? Credo che se si prosegue su questa strada non si farà compiere un salto di qualità al Paese, soprattutto nel modo e nella sua capacità e determinazione ad affrontare la crisi.
La nostra idea è quella che oggi, anche attraverso questi provvedimenti, si tratta o si tratterebbe (usiamo il condizionale anche se c'è la speranza che qualche provvedimento possa sempre esser preso fino a che non siamo arrivati al voto finale) di lavorare per favorire un assestamento del federalismo come previsto dal Titolo V. Sappiamo che vi sono molte contrarietà - alcune le abbiamo anche già ascoltate -, che ci sono molti scettici, che molti vogliono tornare indietro e molti pensano che il centralismo sia la strada più adeguata per affrontare oggi i problemi del Paese.
Noi non siamo di questo avviso. Pensiamo che si debba andare avanti. Ciò significa e richiede un'effettiva coerenza di sistema: quella che non c'è stata, non c'è in questo provvedimento, non c'è stata nel lavoro di questi mesi. Noi lo diciamo affrontando il problema con la concretezza del realismo, lontani da ogni demagogia propagandistica: tuttavia, è ciò che è Pag. 74avvenuto. Infatti, noi avevamo detto fin dall'inizio che insieme al federalismo fiscale dovevamo affrontare subito la questione delle funzioni: funzioni e risorse devono camminare insieme. Federalismo fiscale e Carta delle autonomie dovevano camminare insieme. Così non è stato e oggi ci si arriva con uno scarto difficile. Probabilmente questo scarto potrà provocare ulteriori difficoltà anche sul cammino dei decreti attuativi del federalismo fiscale.
Siamo di fronte ad un provvedimento - lo ripeto - deludente per noi, con un approccio minimalista in ciò che cambia, arretrato rispetto a ciò che non fa. In certi punti, sul tema del ruolo e della funzione delle autonomie, il testo che oggi discutiamo è minore, meno forte, meno importante per le autonomie di ciò che già è scritto nel testo unico delle autonomie locali.
Quindi vi sono anche punti di arretramento assai seri. Non so se il collega Calderisi si è buttato a descrivere una riforma costituzionale proprio perché non voleva affrontare nel merito gli elementi di questa delusione, ma questo è il dato di fatto.
In questa vicenda - concludo - ritengo che sia stato emblematico anche il modo in cui sono stati affrontati nel merito alcuni dei punti di cui si parla. Il primo è stato lungamente ripreso e riguarda le province, la straordinaria performance di approssimazione, soprattutto dal punto di vista del rischio e del modo di affrontare e fare le leggi. Noi abbiamo più volte ricevuto richiami anche in relazione all'eccesso di uso e abuso dei decreti-legge. Anche il Presidente della Repubblica più volte ci ha rivolto il richiamo all'esigenza di cercare di fare delle buone leggi, di lavorarci bene, di approfondirle, di avere equilibrio.
Il modo con cui è stata affrontata la questione delle province è tutto l'opposto: si è detta una cosa, se ne è fatta un'altra, si è votata, poi si è tolta, poi si è fatta di nuovo, dando l'impressione che un tema così importante di riforma istituzionale (peraltro, quando si parla delle province si modifica un istituto presente nella Costituzione e, quindi, la questione avrebbe anche una rilevanza e una proiezione di tipo costituzionale) rilevasse solo nel modo in cui veniva venduto sui giornali, come questo argomento era materia di propaganda e di acquisizione di qualche consenso. Non mi pare un bel modo di affrontare le riforme di cui parliamo e per essere coerenti.
Sul piano delle province, sin dall'inizio (siamo coerenti e, in questo senso, lontani con il programma elettorale) abbiamo sempre detto e ribadiamo - e ci dispiace che questo elemento non sia stato colto, perché poteva essere un punto serio di arricchimento ed approfondimento del testo di legge - di andare avanti con l'idea di prevedere il superamento delle province laddove si preveda la costituzione delle città metropolitane.
Si dice: ma è previsto nella legge n. 42 del 2009 e sarà fatto. È tutto un rimando. Abbiamo sentito diversi costituzionalisti che sono venuti nella nostra Commissione, chiamati dalle diverse forze politiche e tutti quanti, mi pare senza distinzione, ci hanno detto che più eravamo in grado di entrare nei dettagli, di definire meglio le funzioni, di riorganizzare il quadro, meglio era. In realtà, noi non abbiamo colto questo punto e siamo stati invece su una soglia molto più generica, rimandando ad altri provvedimenti cose che si potevano fare e affrontare in maniera più efficace in quella sede.
Vi sono alcune ultime considerazioni che voglio fare, per motivare anche nel merito questa valutazione critica: innanzitutto il fatto che si è indebolita fortemente, rispetto già al testo unico delle autonomie locali, l'autonomia statutaria dei comuni. Basta fare i confronti e andare a vedere che cosa si è inserito. Credo che il primo segno, forse anche più importante di arretramento da questa potestà di autonomia statutaria, lo vediamo benissimo sulla vicenda dei difensori civici. Non vi era un obbligo per farli: c'è scritto che i comuni possono. Quindi se vogliono, se hanno le condizioni economiche, se il bilancio glielo consente, se ritengono che Pag. 75quella cosa sia utile, i difensori civici sono un fattore di trasparenza importante nei rapporti con i cittadini.
Seconda questione, chiedo un ultimo minuto e concludo. La questione di aver eliminato, soppresso l'articolo 15. Noi lo consideravamo insufficiente, ma averlo eliminato non ci sembra una buona cosa. Non riteniamo coerente affrontare il problema della riorganizzazione - superando duplicazioni e così via - delle funzioni, senza avere la possibilità di ragionare anche sulla possibilità di decentrare una serie di attività, di funzioni e di uffici decentrati del Governo, come gli uffici territoriali del Governo, che tra l'altro contribuiscono non poco alla spesa. Potrebbero essere un elemento di razionalizzazione importante e di miglioramento del rapporto con i cittadini. A me ha fatto piacere, per esempio, che il Ministro Maroni in questi giorni sia andato a Pisa e in relazione alla firma del patto per la sicurezza abbia detto: noi vogliamo iniziare a sperimentare il fatto che i rinnovi dei permessi di soggiorno li faccia il comune, anziché la questura.
Mi pare che questo sia un modo, o perlomeno un accenno a ragionare in termini razionali. Perché queste cose non si sono volute affrontare e sviluppare in quel contesto? Mi sembra un errore grave.
Un'ultima cosa davvero: noi abbiamo presentato un emendamento - non accolto in Commissione e che ripresentiamo in Aula - che è quello dell'istituzione dell'anagrafe pubblica degli eletti. Noi ci teniamo molto, pensiamo che sarebbe un fattore importante per ricostruire il rapporto di fiducia fra i cittadini e le istituzioni, perché crea trasparenza. Facciamolo questo scatto di innovazione. L'appello che facciamo è: discutiamo e vediamo se si può trovare un'intesa e inserire questa novità in una legge che è deludente, ma che potremmo davvero migliorare (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Giovanelli. Ne ha facoltà.

ORIANO GIOVANELLI. Signor Presidente, come ricordava il collega Zaccaria si tratta di una legge di attuazione costituzionale, quindi sicuramente una legge attesa dal mondo delle autonomie locali, una legge che, come ricordava il collega Volpi, aveva bisogno forse anche di un altro contesto nello svolgimento del dibattito generale che stiamo facendo.
È stato rilevato un ritardo. Penso che l'Assemblea possa darsi una risposta da sola sul perché arriviamo tardi all'approvazione di un provvedimento di riordino delle funzioni attribuite ai comuni, alle province e alle città metropolitane. Basta guardare il calendario: dal 2001, anno di approvazione del nuovo Titolo V della Costituzione, ad oggi sono passati nove anni e sette di questi anni sono stati governati dal centrodestra.
Si è detto che il provvedimento in oggetto manca di organicità. La stessa natura di essere un collegato alla manovra di finanza pubblica testimonia il taglio prevalente che è stato dato all'interno di questa maggioranza: ridurre, cioè, il dibattito sulle funzioni di alcuni livelli istituzionali fondamentali che concorrono alla Repubblica ad un problema di costi. Ritroviamo questo tratto in modo assolutamente coerente in tutta la produzione normativa, che ha tolto organicità - lo ricordava il collega Zaccaria - alla riflessione sul sistema delle autonomie locali.
Ritengo che il taglio che è stato dato - cioè, aver ridotto tutta la problematica ad un problema di costi - sconti un'altra verità non detta, che è stata anticipata in precedenza dal collega Fontanelli, il cui intervento condivido totalmente. Mi riferisco alla falsa idea che si tende a far passare nel Paese, secondo cui il Titolo V è stato un errore, che ha tolto la possibilità di controllo della spesa pubblica e che ha messo la spesa pubblica in una situazione - diciamo così - di irresponsabilità. Al contrario, alcuni dati della Corte dei conti - nel corso del dibattito, torneremo su questo provvedimento in modo continuativo - dimostrano che, negli ultimi cinque anni, se vi è un livello istituzionale che ha prodotto una situazione Pag. 76di incontrollato aumento della spesa, questo è lo Stato centrale. Sono i dati della Corte dei conti ad evidenziare questo aspetto: il 30 per cento in più di spesa a livello centrale, contro il 10,7 per cento dei comuni, e circa il 6 per cento delle province. Neanche il dibattito sulla sanità evidenzia tutta la verità: infatti, se non avessimo attribuito la responsabilità della sanità alle regioni, saremmo ancora in una situazione indistinta, nella quale non riusciremmo neanche a prendere provvedimenti finalizzati a colpire le inefficienze, laddove vi sono. Questo è il punto che questa maggioranza non è riuscita ad affrontare e risolvere: cioè, utilizzare gli strumenti previsti dal Titolo V, nella sua attuazione, al fine di mettere in gioco una riforma vera dello Stato centrale; altrimenti, il sistema non è in equilibrio e ciò è del tutto evidente. Invece, siamo costretti ad assistere al paradosso per il quale, da una parte si procede nel realizzare il provvedimento in oggetto, la Commissione bicamerale per il federalismo fiscale si accinge a discutere dei decreti di attuazione della legge n. 42 del 2009, il provvedimento in oggetto viene vissuto per lo più come una formalità in funzione dei decreti attuativi del federalismo fiscale, e dall'altra parte, si assiste ad una manovra che farà un vero e proprio massacro delle autonomie locali e delle regioni.
Tale contraddizione si regge soltanto perché questo è un modo di tenere insieme due spinte opposte: da una parte, infatti, vi è la Lega Nord, che spinge all'interno del Governo per andare avanti sul federalismo e, dall'altra parte, vi è un corposo «pezzo» della maggioranza, che resiste ad una modifica effettiva dello Stato centrale. Abbiamo avuto le prove di ciò anche durante il dibattito svolto in Commissione. Per noi, uno degli elementi più emblematici è stata la discussione che, poi, ha portato all'accantonamento dell'articolo 15 concernente gli uffici territoriali del Governo.
Non ha alcun senso, dopo l'approvazione del Titolo V, che i Ministeri abbiano ancora uffici regionali e provinciali che impegnano migliaia di persone, che spendono milioni e milioni di euro all'anno, che producono ruoli dirigenziali, che costano, quando tali funzioni attribuite a questi uffici decentrati dei singoli Ministeri sono soltanto funzionali ad una logica precedente al Titolo V - ossia la logica ministeriale - e non alle funzioni nuove che sono state attribuite alle regioni e alle autonomie.
La proposta transitoria degli uffici territoriali del Governo - che torneremo a proporre nella versione del vostro testo prima che sopprimeste l'articolo 15 - era per noi un passaggio importante, il segno di una volontà di razionalizzazione dello Stato centrale, speculare ad una politica di effettiva valorizzazione delle autonomie.
Cosa produrrà la perpetuazione di questa contraddizione, tra spinte forti ad andare avanti in senso federalista e, dall'altro, questa resistenza pervicace a non modificare lo Stato centrale? Cosa produrrà? Penso che stia già producendo qualcosa di pericoloso.
Leggo il dibattito di questi giorni sulla crisi, come giustamente veniva ricordato dalla collega Lanzillotta, ossia tornare a ragionare sull'articolo 118 della Costituzione. Leggo una spinta quasi a dire che, per semplificare, ci vuole un'idea illuminata che sta nel Governo nazionale e poi l'appello alla società civile, alle forze dinamiche della società civile.
Tuttavia - e mi rivolgo agli amici della Lega - ciò significa tagliare fuori i livelli istituzionali intermedi, significa togliere di mezzo i corpi sociali intermedi, ossia disegnare un modello diverso da quello che abbiamo scritto nel Titolo V della Costituzione che così faticosamente stiamo cercando di portare avanti e di attuare, a meno che...

PRESIDENTE. La invito a concludere.

ORIANO GIOVANELLI. Concludo, Signor Presidente. A meno che non vi sia, in verità, una riserva mentale: piuttosto che attuare il Titolo V della Costituzione riformata del 2001, si voglia dare libero sfogo a un Titolo V di un'altra natura - quello popolare - per cui alla fine esiste Pag. 77un Titolo V per il quale chi ha i soldi ha sempre vinto. E se questa è l'idea di federalismo che ci volete preparare passando attraverso il massacro delle autonomie locali, come quello che ci rappresentate con la manovra, credo che dovrete aspettarvi la nostra forte opposizione (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Naccarato. Ne ha facoltà.

ALESSANDRO NACCARATO. Signor Presidente, Ministro Calderoli, il testo all'esame della Camera è deludente perché non dà piena attuazione ai principi contenuti nel Titolo V della Costituzione e rischia di diventare l'ennesima occasione sprecata per completare il disegno riformatore avviato nel 2001.
Il gruppo del Partito Democratico, spesso trovando collaborazione e ascolto anche nei gruppi della maggioranza, ha lavorato in Commissione per migliorare il testo e per attuare finalmente le previsioni costituzionali che riconoscono il ruolo fondamentale di comuni, province, città metropolitane e regioni, e che prevedono l'autonomia finanziaria degli enti locali. Continueremo anche in Aula il nostro lavoro.
Il testo in discussione, inoltre, evidenza ancora una volta la distanza tra le promesse e i fatti, tra le funzioni attribuite agli enti locali a parole, durante le campagne elettorali, le funzioni attribuite davvero e i tagli sistematici che stanno mettendo in ginocchio i comuni. Questa è un'osservazione che attiene più alle politiche economiche che non agli assetti istituzionali, ma dobbiamo essere consapevoli che assegnazione di funzioni e di risorse devono andare di pari passo, altrimenti si fa soltanto propaganda, ed è quanto è accaduto finora. Più si promette e si parla di federalismo, più gli enti locali subiscono tagli e vedono ridotti i propri spazi di autonomia di intervento.
Nel testo in discussione siamo ancora lontani dal nuovo ordinamento generale federalista, più efficiente e meno costoso, delineato nel Titolo V della Costituzione e, in particolare, negli articoli 114 e 118. I nostri emendamenti vanno in questa direzione e dimostrano la nostra volontà di contribuire a migliorare il testo. Per attuare davvero il federalismo bisogna stabilire le funzioni fondamentali e garantire le risorse per svolgerle in autonomia.
Nel testo la maggioranza si è limitata a fotografare l'esistente: le funzioni fondamentali degli enti locali sono attribuite senza uno schema di base chiaro e ciò rischia di complicare, fin dall'inizio, l'attuazione del federalismo fiscale. Le nostre proposte sono semplici: le regioni devono svolgere il ruolo di legislazione, di programmazione strategica dello sviluppo e di riferimento per il sistema delle autonomie territoriali; devono rinunciare alle funzioni di amministrazione diretta, spesso svolte attraverso agenzie o enti settoriali da sopprimere.
I comuni devono svolgere le funzioni amministrative che le caratterizzano come enti di governo di prossimità e le province devono svolgere le funzioni amministrative che le caratterizzano come enti per il Governo delle aree vaste. Nel testo manca la definizione precisa delle funzioni fondamentali, porto alcuni esempi: nell'articolo 2 mancano due funzioni fondamentali da attribuire ai comuni, il catasto e lo sviluppo economico del territorio comunale; nell'articolo 3 si lascia tra le funzioni fondamentali delle province la polizia locale ed è evidente il doppione tra questa funzione e quanto è stato assegnato ai comuni, anche con i recenti interventi normativi tanto voluti dal Ministro Maroni.
Ci sono, però, anche degli aspetti positivi e credo sia giusto ricordarli, dei passi avanti raggiunti, soprattutto, grazie gli emendamenti del Partito Democratico. Ad esempio, all'articolo 8 vi è la previsione che i comuni con meno di cinquemila abitanti, debbano svolgere obbligatoriamente in forma associata le funzioni fondamentali. È stata una decisione molto opportuna anche quella di sopprimere alcuni articoli che erano presenti nel testo originale; credo infatti sia ora di finirla Pag. 78con la demagogia sulle province, sui difensori civici, sugli organi degli enti locali (penso ai consigli comunali e ai consigli circoscrizionali, additati soltanto come centri di costo).
Ora, i dati - e l'onorevole Giovanelli ne ha ricordati alcuni che arrivano dalla Corte dei conti - ci dicono che gli sprechi non sono negli enti locali ma al centro, nei Ministeri. Il debito della pubblica amministrazione è costituito per il 93,7 per cento dalle amministrazioni centrali ed è là che si deve intervenire. Non servono i tagli a pioggia disordinati su altri centri di costo.
Su tutti questi temi maggioranza e Governo hanno causato una grande confusione: sono prima intervenuti con la finanziaria per l'anno in corso, poi con il decreto n. 2 del 2010 e all'inizio con l'atto Camera n. 3118. Questi temi devono, ora, essere spostati nella delega al Governo per la stesura della Carta delle autonomie; aspettiamo di vedere cosa succederà e lavoreremo per modificare alla radice l'idea che finora hanno manifestato Governo e maggioranza sul punto.
Governo e maggioranza hanno trattato gli enti locali - in particolare i comuni - come centro di sprechi e di costi enormi, addossando loro la responsabilità delle difficoltà dei conti pubblici.
Inoltre, hanno trattato i comuni come un peso e un impiccio inutile e non come una risorsa per la partecipazione e la democrazia. Se non si supera questa idea sbagliata, il federalismo resterà lettera morta, e la retorica sul federalismo determinerà, come è stato finora, soltanto un rafforzamento del centralismo.
Mentre discutiamo il provvedimento - per stabilire le funzioni fondamentali degli enti locali e per attuare il Titolo V della Costituzione e rendere possibile il federalismo fiscale - il Governo, con la manovra correttiva del 31 maggio ha deciso ulteriori tagli indiscriminati agli enti locali. Tali tagli colpiscono soprattutto - alla faccia del merito e della responsabilità - gli enti amministrati meglio, quelli definiti virtuosi.
Porto anche qui, per ragioni di chiarezza, un esempio molto concreto. Sabato ho partecipato al consiglio comunale aperto del comune di Loreggia, in provincia di Padova, che sarà il comune, sulla base dei dati del Ministero, che subirà più tagli a livello nazionale.
Il comune di Loreggia ha 7 mila abitanti e 20 dipendenti, un bilancio sempre in attivo e rappresenta un modello di gestione attento ed efficiente. Con il decreto il comune dovrà tagliare la spesa corrente del 60 per cento, dovrà cioè chiudere. Perché? Perché nel 2007 - unico anno di riferimento per il Patto di stabilità individuato a posteriori, e con valore retroattivo, nel decreto - il comune ha comprato, per 2 milioni 400 mila euro, la rete del gas metano in base alle normative vigenti, mettendo poi il bene in gara, determinando un'entrata di circa 300 mila euro all'anno fino al 2019.
Siamo dunque in presenza di un comune che, per avere effettuato una scelta in applicazione della legge, e vantaggiosa per i propri cittadini, verrà pesantemente colpito da tagli ingiusti e irragionevoli.
Attenzione, perché molti comuni virtuosi si trovano nelle stesse condizioni di questo comune e la maggior parte di questi comuni, Ministro Calderoli, sono in Veneto, in Lombardia e in Emilia Romagna. È così che il Governo difende il nord? Ma, sopratutto, per quanto tempo pensate ancora di distrarre l'opinione pubblica con sceneggiate indegne come quella di sabato scorso che ha visto protagonista negativo il presidente della regione veneto, Luca Zaia, che ha sostituito l'inno nazionale con il Va' pensiero in una manifestazione ufficiale per l'inaugurazione di una scuola a Vedelago, in provincia di Treviso? Gli elettori vi hanno chiesto altro, vi hanno chiesto di realizzare il federalismo, non di nascondere i tagli con sceneggiate del tipo di quella che ho appena descritto.
Mentre si discute di federalismo e di attuazione del Titolo V della Costituzione la manovra economica del Governo va nella direzione opposta. Del resto, basta pensare alla vicenda dell'ICI: è stata abolita l'unica imposta, la più federalista, che Pag. 79aveva introdotto l'autonomia finanziaria per i comuni. In attesa del federalismo ai comuni non vengono neppure trasferite le risorse corrispondenti alle entrate dell'ICI.
Per trovare conferma dell'impostazione centralista del Governo e della maggioranza basta guardare le norme sul patto di stabilità. Anche queste dimostrano che Governo e maggioranza ritengono i comuni e gli enti locali soltanto centro di sprechi da tagliare e non autonomi luoghi di rappresentanza e di governo nel territorio.
Per attuare il federalismo e il Titolo V della Costituzione il Parlamento deve definire le funzioni fondamentali e deve assicurare l'autonomia finanziaria agli enti locali. Dobbiamo lavorare per raggiungere questi obiettivi altrimenti, come sta accadendo finora, ai proclami sul federalismo corrisponderà soltanto un momento di centralismo (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Favia. Ne ha facoltà.

DAVID FAVIA. Signor Presidente, intanto siamo lieti che sia in Aula il Ministro. È cosa rara e dobbiamo riconoscere che ha seguito con attenzione anche i lavori in Commissione.
Allo stato il nostro parere su questo disegno di legge non è favorevole. Sospendiamo, tuttavia, il giudizio definitivo in quanto abbiamo presentato una nutrita serie di emendamenti e qualora siano, in qualche modo o in parte, approvati decideremo cosa fare.
Allo stato attuale riteniamo che questo provvedimento sia debole, vuoto di contenuti e poco innovativo per quanto riguarda le funzioni. Rimette in ordine cose già note, non innova - come dicevo prima - e permangono troppi livelli istituzionali. È un provvedimento con poche soppressioni ed è debole.
Ad esempio, ricordo che sulle province - che sono una nostra battaglia forte, ma anche una battaglia di tutti in campagna elettorale - noi dell'Italia dei Valori abbiamo portato in Assemblea una proposta di legge costituzionale proprio per arrivare all'abolizione delle province. Ci venne detto che se ne sarebbe parlato con la Carta delle autonomie anche se essendo questa una legge ordinaria si fa fatica a pensare che possa prevedere un risultato, come quello dell'abolizione delle province, al di là dello schema della legge costituzionale. Insisteremo ancora una volta perché ciò venga fatto. Francamente, ciò che è successo nell'ambito della discussione di questo provvedimento, ma anche in altri ambiti in relazione alla ipotesi di razionalizzazione o abolizione delle province, è stato veramente un bruttissimo spettacolo.
Con il decreto-legge in materia finanziaria si volevano abolire almeno le province sotto i 220 mila abitanti. Di questa normativa non vi è più traccia. Il relatore ha tentato lodevolmente di introdurre quanto meno una razionalizzazione. Poi, influenze varie hanno portato all'ipotesi di partorire il topolino, ma nemmeno ciò poi si è avuto il coraggio di fare.
Credo che dobbiamo avere il coraggio di dare un segnale all'Italia, perché siamo ormai convinti tutti dell'inutilità delle province in quanto le loro competenze - lo vediamo in questa normativa - si possono tranquillamente suddividere tra i comuni e le regioni. Ma non c'è il coraggio politico di fare un'azione che sarebbe riconosciuta positivamente e lodevolmente da tutta la nazione.
Prima o poi dobbiamo trovare questo coraggio. Non c'è stato nemmeno il coraggio, nel prevedere le città metropolitane, di abolire le province corrispondenti, pur avendo gli stessi poteri e le stesse identiche competenze. Ritengo che anche questo sia assurdo.
Le province sono veramente inutili e non troviamo il coraggio di intervenire nemmeno per ridurle consistentemente. Sappiamo tutti che la massa critica ottimale è tra i cinquecentomila abitanti e il milione, ma non abbiamo - anzi non avete, perché noi abbiamo portato la proposta di legge fino in quest'Aula - il coraggio di intervenire.
Che dire poi delle associazioni dei comuni? Riconosco che c'è stato un miglioramento Pag. 80in quanto l'obbligatorietà delle funzioni previste dal comma 1 dell'articolo 2, dalla lettera g) alla z), è stata prevista non più, com'era originariamente, per i comuni sotto i tremila abitanti, ma per quelli sotto i cinquemila. Anche in questo caso noi abbiamo presentato degli emendamenti più coraggiosi: bisognerebbe prevedere almeno 10-15 mila abitanti perché in Italia, come ricordava il collega Borghesi, di comuni sotto i 5 mila abitanti ce ne sono più di cinquemila e non è possibile non prevedere anche l'accorpamento di comuni più grandi. Credo che ciò razionalizzerebbe l'esercizio delle funzioni e soprattutto ci farebbe risparmiare tantissimo.
Siamo ancora in tempo, ritengo che addirittura ci si potrebbe spingere nel rendere obbligatorie anche altre funzioni previste dall'articolo 2.
Segnaliamo ancora, come abbiamo fatto in Commissione, la potenziale incostituzionalità dell'articolo 6 ove, in una materia di competenza statale esclusiva, si prevede anche la sottoposizione a leggi regionali. Questa parte, a nostro giudizio, è costituzionalmente illegittima.
Nella parte relativa ai controlli, si parla e si codificano unicamente i controlli interni che sappiamo essere deboli in quanto molto spesso, in tanti casi, i controllori sono in qualche modo sottoposti al giudizio dei controllati e, quindi, questo tipo di funzione non è efficace. Pertanto, crediamo che su questo bisognerebbe intervenire anche consentendo controlli esterni.
La qualità della deliberazione degli enti locali è crollata negli ultimi anni. Al riguardo, noi facciamo, ad esempio, la proposta di consentire ai consiglieri comunali e ai consiglieri provinciali di impugnare davanti all'organo di giustizia amministrativa gli atti e le delibere a spese dell'ente, previa delibazione positiva di procedibilità da parte del presidente del TAR o suo delegato.
Questo consentirebbe un maggiore controllo sugli atti degli enti locali perché non essendoci più controlli esterni efficaci anche i consiglieri comunali e i consiglieri provinciali, non avendo mezzi, non hanno il coraggio di attivarsi davanti alla giustizia amministrativa. Certo, si potrebbe dire che questo potrebbe diventare uno strumento usato, ma perciò proponiamo la delibazione di procedibilità da parte del presidente del TAR. Non c'è stato il coraggio nemmeno di intervenire sulla qualità delle contabilità degli enti locali, che tutti sappiamo essere avvelenate dai derivati: su questo bisognerebbe avere coraggio e intervenire per ripulire bilanci la cui debolezza è nota, ma non fino in fondo, e non c'è stato il coraggio di realizzare questo tipo di intervento.
Questo disegno di legge non affronta molte questioni di cui si sono occupati, o si stanno occupando, altri provvedimenti. Segnalo, ad esempio, che in una Carta delle autonomie sarebbe interessante regolamentare anche la proprietà delle società pubbliche, perché vi è un altro provvedimento, che sta passando forse troppo sotto silenzio, che sta svendendo (considerato che, trattandosi di un decreto-legge, finché non viene convertito o respinto ha efficacia) le partecipazioni dei comuni e delle province ai privati con l'obbligo di avere una sola partecipazione per i comuni sotto i 50 mila abitanti, ma zero partecipazioni per i comuni sotto i 30 mila abitanti. Dal momento che non si sa bene come questa svendita debba essere attuata, ciò significa che gli enti locali saranno costretti a svendere le loro partecipazioni a dei privati pronti ad acquistarle, perché molto spesso sono partecipazioni interessanti da un punto di vista economico, con enorme depauperamento del patrimonio pubblico, ma anche delle capacità di controllo su alcuni servizi pubblici fondamentali.
Quindi, concludo il mio intervento dicendo in maniera critica che questo provvedimento è debole, vuoto, poco innovativo, poco coraggioso e che potremmo ipotizzare di condividerlo solo qualora venga fortemente rafforzato a seguito dell'approvazione di molti nostri emendamenti, altrimenti il nostro voto sarà contrario (Applausi dei deputati del gruppo Italia dei Valori).

Pag. 81

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Lanzillotta. Ne ha facoltà.

LINDA LANZILLOTTA. Signor Presidente, credo sia giusto sottolineare che questo disegno di legge interviene ben dieci anni dopo l'approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione, dei quali otto, peraltro, governati dal centrodestra con la presenza decisiva della Lega nei Governi che si sono succeduti, e che oggi è fortemente sostenitrice di quel progetto di riforma costituzionale.
Questo è in realtà il primo provvedimento che tende, o dovrebbe tendere, ad attuare il disegno originario che fu alla base di quella riforma costituzionale. Il disegno originario non era quello che, invece, questo Governo ha anticipato, cioè il federalismo fiscale; infatti, il federalismo fiscale era uno strumento di un'autonomia dei territori finalizzata ad una maggiore efficienza e ad una razionalizzazione di tutto il sistema di governo regionale e locale.
L'idea era quella di realizzare un modello di Governo territoriale più vicino a quello dei grandi Paesi europei, con regioni che fossero enti promotori dello sviluppo e delle vocazioni economiche dei singoli territori ed enti subregionali, che come è noto l'articolo 114 si limita ad enumerare, rinviando poi alle successive leggi la declinazione e la concretizzazione di quel progetto, ciascuno dei quali responsabile di dare qualità ed efficienza ai servizi per le imprese e per i cittadini e, quindi, per rendere il proprio ambito territoriale e il proprio sistema regionale più competitivo e attrattivo di investimenti e di talenti, perché ormai, come è noto, la competizione globale si gioca tra territori.
Dunque quel Titolo V, anche con tutte le sue contraddizioni e le sue complessità, che sono state più volte sottolineate ma che via via sono state sciolte e dipanate, aveva alla base un grande progetto di modernizzazione, che dipendeva poi in concreto dalle leggi statali di attuazione. In realtà quelle leggi statali non sono arrivate se non adesso, molto tardi. Nel frattempo, come si dice, il dentifricio è andato fuori dal tubetto, nel senso che poi ognuno è andato per la propria strada e ha interpretato quel disegno appropriandosi di poteri, ma non inserendo questi nuovi poteri in una strategia generale al servizio dell'interesse generale del Paese. Così le regioni, che come si diceva sarebbero dovute essere i motori dello sviluppo territoriale, sono rimaste prigioniere della spesa sanitaria e di tutto quello che la spesa sanitaria comporta in termini di focalizzazione, potere, mediazione degli interessi economici, e gli enti locali si sono moltiplicati a dismisura, producendo più costi, più burocrazia, più inefficienza. In realtà, proprio quel sistema di governo locale è stato quello più vicino al cittadino, più visibile e più percepibile come ipertrofia della casta, che poi ha determinato tante polemiche e tante reazioni di antipolitica.
Il ritorno al progetto del Titolo V e, quindi, partendo dall'articolo 118 - quello che in base a quei principi tanto citati e tanto poco praticati di specializzazione, differenziazione, proporzionalità ed adeguatezza avrebbe dovuto attribuire competenze a ciascun ente territoriale, a ciascuno un compito ben specificato, ben visibile e ben accountable, cioè tale da poter essere oggetto di responsabilità e di rendiconto nei confronti dei cittadini - arriva solo oggi con l'attuazione dell'articolo 118, che è in questo disegno di legge, ma con grande timidezza.
Infatti, recuperare quel progetto vorrebbe dire smontare e rimontare il sistema delle competenze, così come si è venuto configurando e consolidando, determinando assetti di potere sul territorio che condizionano molto fortemente la politica e il sistema dei partiti. Credo che proprio per questo motivo questo progetto di legge vada criticato e valutato soprattutto per quel che non fa, piuttosto che per quel che fa. Non fa la specializzazione delle funzioni: tutti gli enti continuano a fare tutto e questo continuerà a produrre una ipertrofia burocratica. Però, nell'ultimo weekend abbiamo appreso che il Ministro Tremonti risolverà questo problema, nel senso che modificherà l'articolo 118, modificherà Pag. 82il Titolo V - ancora non lo sappiamo - e quindi tutto il lavoro che stiamo facendo rischia di essere inutile.
Credo che ci dovremmo porre questo problema nel corso della discussione e dovremmo chiedere al Ministro Tremonti - visto che il Ministro Calderoli forse non è stato coinvolto e ci ha detto che la Costituzione è quella che è e che a lui per il momento non risulta altro - che invece ha questa visione lunga, visionaria, strategica e, di volta in volta, ci dice cosa ci riserva il futuro, qual è la nuova Costituzione che egli prefigura, anche per il sistema delle autonomie locali. Occorre capire se questo provvedimento avrà una sua utilità o dobbiamo prenderlo e buttarlo via. In quel caso avremmo buttato tutto il nostro tempo e mi dispiacerà per i colleghi.
Per il momento non c'è la specializzazione delle funzioni e non c'è la razionalizzazione delle province, che non è un caso di furore anticasta. Infatti, se le funzioni delle province si specializzano e sono quelle della gestione delle reti, cioè di dimensioni vaste, tanto possono essere governate appropriatamente, in quanto si riferiscono ad aree di dimensioni che fanno massa critica.
Infatti, se si sminuzzano, il limite della dimensione comunale per la gestione dei servizi a rete o delle reti di servizio si riproporrà anche per le province. Quindi, non è solo un approccio di cieco furore antipubblicistico, ma è la ricerca di un disegno di appropriatezza, che è l'obiettivo indicato dalla Costituzione.
Manca, poi, un'altra cosa fondamentale, che il Ministro Calderoli ci dovrà spiegare: manca un raccordo tra questo provvedimento e l'altra operazione che si sta facendo in un'altra sede e in altri tavoli, che è quella dell'identificazione dei costi standard.
Per avere i costi standard - i costi sono una misurazione del costo dei servizi - bisogna capire chi fa cosa e la contabilità degli enti locali, che il professor Longobardi, nella Commissione bicamerale per il federalismo, ci ha detto essere a livelli medievali, dovrebbe, in base a questo provvedimento, cominciare a modernizzarsi e costituire la base per la comparazione tra servizi aventi standard omogenei e i relativi costi, in modo che questa complessa operazione del federalismo fiscale possa avere una base reale.
Ma manca un altro aspetto molto importante, che è quello di una convergenza tra i vari modelli di autonomia regionale. Qui vi è un'inutile e superflua affermazione che le regioni a statuto speciale possono, se vogliono, adeguarsi a questa riforma. Questa è una grande riforma di assetto ordinamentale e le regioni a statuto speciale, pur nel rispetto delle procedure previste dai loro statuti, devono adeguarsi, perché sappiamo che vi sono alcune realtà in cui, addirittura, i comuni non si sono adeguati alla legge n. 142 del 1990.
Questo è evidentemente incompatibile con un sistema che, proprio nel Titolo V, tende, attraverso una modalità di finanziamento standardizzato delle funzioni dei servizi, a far convergere i vari sistemi verso un modello omogeneo. Senza alcuna polemica, do atto al relatore e al Governo di essersi misurati con gli emendamenti e le proposte e di avere discusso e di essersi confrontati, ma la questione è quella di una distanza profonda e strategica e dell'incapacità di condurre un sistema complesso, come quello del governo multilivello sul territorio, verso una graduale trasformazione e verso la modernizzazione.
Per questo, allo stato, il nostro giudizio è contrario. Ciò si tradurrà in emendamenti su specifici punti e mi auguro che, nel corso della discussione, il testo possa essere migliorato, sottolineando, infine - e con questo concludo - che la mancata attuazione coerente e innovativa dell'articolo 118 della Costituzione mina profondamente la sostenibilità e la fattibilità del federalismo fiscale (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Ciccanti. Ne ha facoltà.

AMEDEO CICCANTI. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, Pag. 83onorevoli colleghi, presidente relatore, vi sono questioni preliminari di carattere costituzionale che andrebbero segnalate, perché credo che vi sia una limitazione di questo disegno riformatore che pretende di dotare l'ordinamento di una Carta delle autonomie. Alcune questioni di carattere costituzionale avrebbero infatti dato maggior respiro, forse, a questa pretesa riformista.
La prima questione è che manca il Senato delle autonomie: le autonomie territoriali non hanno voce nella legislazione nazionale; non hanno voce nemmeno nella legislazione che le riguarda, come, per esempio, questa che stiamo discutendo.
La seconda questione è che l'articolo 114 della Costituzione pone sullo stesso piano, in forma equiordinata, comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato, ma tale equilibrio non è garantito dalla Corte costituzionale, dove non vi sono loro rappresentanti.
La terza questione è che non vi è una rilettura dei poteri delle regioni a statuto ordinario e delle regioni a statuto speciale, come è stato sottolineato dal collega Tassone e dalla collega Lanzillotta.
Perché non si è voluto inserire in una cornice più ampia la riforma delle autonomie? Perché, nonostante che il giorno dell'insediamento il Presidente del Consiglio Berlusconi abbia voluto lanciare un messaggio a tutto il Parlamento per una collaborazione su alcune riforme costituzionali, le vicende hanno poi preso una piega tutta diversa e la rottura che vi è stata tra maggioranza ed opposizione non ha più consentito quel dialogo, che è indispensabile per effettuare delle riforme condivise.
Va detto che la pretesa autosufficienza da parte della maggioranza nell'affrontare situazioni così delicate e complesse, che richiedono l'apporto di tutte le forze politiche, è forse la colpa più grave per questa cornice entro la quale avremmo dovuto discutere tale riforma.
Questo disegno riformatore è però di corto respiro per altre ragioni. La prima è la seguente: vi è una prevalenza del ruolo regionale che contrasta sia con il principio di equiordinazione dell'articolo 114, che ho richiamato, sia con l'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione. Infatti l'espressione «Ferma restando la programmazione regionale», che si premette all'elencazione delle funzioni fondamentali dei comuni e delle province, significa che competono alle regioni anche gli atti normativi e amministrativi di contenuto generale e di dettaglio.
Il fatto poi che si lasci alle regioni la facoltà di legiferare il trasferimento delle funzioni fondamentali, rinvenibili nella legislazione concorrente ed in quella residuale esclusiva, invece di essere fatto direttamente dallo Stato in questa occasione, è un ulteriore motivo di perplessità. Comprendo bene che l'articolo 119 della Costituzione delinea un ruolo di riferimento istituzionale della regione come snodo nei nuovi equilibri di potere tra Stato ed autonomie, ma rimane fondamentale il principio di sussidiarietà, quale misura per ritenere che il nostro sistema repubblicano nasce dal basso con i comuni e si organizza verso l'alto, fino ad arrivare all'Unione europea.
Altra questione irrisolta è la pretesa semplificazione. Con il disegno di legge n. 3118 rimangono 8.800 comuni, dei quali soltanto 662 hanno una popolazione superiore a 15 mila abitanti: meno del 10 per cento! Vi sono 2 mila comuni inferiori a mille abitanti e tra questi 846 con meno di 500 abitanti; soltanto 2.263 comuni superano i 5 mila abitanti. Sono convinto che il presidio del territorio, soprattutto di quello montano, è garantito dall'impegno civico di sindaci e consiglieri, che danno lustro al loro sentimento patriottico e municipalistico; però un meccanismo di fusione e di gestione associata obbligatoria di funzioni determinerebbe una gestione più razionale ed efficace delle risorse pubbliche, senza tagliare i servizi. Tale pretesa, che è stata riassorbita nell'emendamento approvato dalla Commissione, che eleva da 3 mila a 5 mila abitanti il limite per lo svolgimento di funzioni obbligatorie associate, è in qualche modo obnubilata dalla mancanza di sanzioni, Pag. 84che lasciano sostanzialmente facoltativo l'impegno. Rimangono in vita, poi, 107 province.
Dopo una rovinosa altalena di tagli ed abolizioni, questa maggioranza è naufragata con l'abolizione dell'articolo 14 e delle sue pretese di innovazione. Berlusconi a Porta a porta di Vespa proclamò, in occasione della campagna elettorale del 2008: «Aboliremo le province». Interrogato il Ministro Maroni in question time dopo le elezioni disse: «Finché sarò Ministro, le province non saranno abolite». Siccome in questa maggioranza comanda la Lega, le province non si aboliscono.
Del resto l'articolo 14 è stato abolito dopo che il giorno prima lo aveva annunciato Bossi, noi dell'UdC invece seguitiamo a sfidare il Popolo della Libertà e il suo coraggio per essere coerenti e leali con gli elettori. Perciò abbiamo riproposto l'emendamento del relatore Bruno con la soglia di 500 mila abitanti al di sotto dei quali le province sono da abolire. In Italia vi sono 60 milioni di persone e 107 province, quindi una media di 500 mila abitanti per ogni provincia. In realtà, le province tra 250 mila e 500 mila abitanti sono il 42 per cento di quelle esistenti. Le province che sarebbero abolite con la nostra proposta ammontano a 59, poco meno della metà: sarebbe una cosa seria.
La spesa pubblica delle province è di 16 miliardi di euro, poco meno dell'1 per cento del PIL e poco più del 3 per cento della spesa pubblica. Il costo degli apparati politici è di un miliardo 108 milioni, che si triplica con i costi indiretti dell'apparato burocratico. Questi sono i costi annuali, il problema di una razionalizzazione pertanto è doveroso, soprattutto con la crisi finanziaria in corso che non si chiuderà con il 2011 così come previsto nella manovra estiva del 2010.
La nostra crisi finanziaria è profonda, data da lontano, molto prima della crisi finanziaria del settembre 2008, che si è aggiunta a difficoltà di carattere strutturale che già erano nella nostra discussione. Quello che ci preoccupa però è soprattutto il costo degli uffici periferici provinciali dello Stato che ancora funzionano nonostante le funzioni dello Stato siano state trasferite a regioni, province e comuni.
Vi sono 11 regioni con meno di due milioni di abitanti e 10 province con più di un milione di abitanti: è di tutta evidenza come alcune funzioni di governo potrebbero diventare regionali anziché essere provinciali e ringraziamo la Commissione per aver accolto all'articolo 15 un emendamento dell'UdC che, per quanto riguarda le prefetture-uffici territoriali del Governo, introduce una delega affinché possano essere ricomprese in un disegno più ampio di territorio (undici regioni con 2 milioni di abitanti ben potrebbero avere questure regionali, uffici periferici dello Stato come la Ragioneria generale dello Stato, come l'ufficio del tesoro, come gli uffici del Governo a livello regionale).
Un altro aspetto in cui questo disegno di legge perde riguarda le città metropolitane che rimangono ancora appese. Vi sono 20 milioni di abitanti che vivono nelle supposte aree metropolitane, che continuano a vivere frammentate a causa della incapacità di questa maggioranza di attuare una norma costituzionale ferma da otto anni (quindi niente semplificazione, niente razionalizzazione).
Avete imposto con due voti di fiducia alla Camera di tagliare il 20 per cento di consiglieri comunali, di tagliare i consigli circoscrizionali, di tagliare i cosiddetti costi della politica: in verità, avete tagliato i costi della democrazia per tagliare rappresentanza democratica, controllo e trasparenza.
I consigli circoscrizionali per le città sotto i 250 mila abitanti, come ha ricordato il collega Tassone, potevano essere lasciati a titolo onorifico, così come a titolo onorifico potevano essere lasciati i difensori civici nei comuni sopra i quindicimila abitanti. Un consigliere comunale costa circa 10 mila euro l'anno: tagliandone il 20 per cento avete ridotto il controllo e la rappresentatività, però in cambio lasciate 25 mila amministratori Pag. 85delle società partecipate comunali, dal momento che non avete voluto accettare la nostra proposta, quella dell'UdC, di nominare i dirigenti comunali come amministratori di queste società partecipate.
Laddove cadevano province a governo leghista e società partecipate lottizzate dalla Lega non avete mosso un dito, però avete mostrato i muscoli amputando i consigli provinciali e comunali anziché rafforzarli dal punto di vista della qualità normativa ed anche del controllo del potere esecutivo.
Parleremo però, quando tratteremo le proposte emendative, dei direttori generali, delle funzioni fondamentali, del potere dei consigli comunali, dei comuni montani, del federalismo fiscale e anche dei segretari comunali - e abbiamo sott'occhio l'emendamento che ci è stato presentato dalla Commissione - e dei controlli interni.
Dovremo anche parlare degli intrecci con il decreto-legge n. 78 del 2010, in esame al Senato, riguardante le indennità degli amministratori. Tale aspetto dà la dimensione della frammentarietà con la quale si è proceduto sul funzionamento degli enti territoriali: la manovra finanziaria 2010, il decreto-legge n. 2 del 2010 riguardante gli interventi urgenti in materia di enti locali, poi la Carta delle autonomie e contemporaneamente il decreto-legge n. 78 del 2010 sulla manovra estiva; una confusione senza precedenti e senza paragoni. Fortuna, anzi direi purtroppo, tale confusione ci è stata proposta dal Ministro per la semplificazione normativa.
Per detti motivi esprimiamo il nostro disappunto, la nostra delusione e il nostro malumore per aver perso un'altra occasione per una riforma strutturale attesa e necessaria per la finanza pubblica e la funzionalità nel sistema amministrativo.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

AMEDEO CICCANTI. Amici e colleghi della maggioranza e del Governo, avete tradito gli elettori sul tema delle province, ma anche sulle riforme e sul buongoverno.
Ciò che è più grave è il tradimento di questo Paese, che ha bisogno di riforme per uscire dalla crisi, e che invece è tenuto in ostaggio dal conflitto di interessi giudiziari del nostro Premier.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche del relatore e del Governo - A.C. 3118-A)

PRESIDENTE. Prendo atto che il relatore, onorevole Bruno, rinunzia alla replica.
Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.

ROBERTO CALDEROLI, Ministro per la semplificazione normativa. Signor Presidente, vorrei poter dire che non sarò breve, invece credo che lo sarò, per rispetto dell'Aula e dei tempi.
Faccio mie le considerazioni svolte dall'onorevole Volpi e riprese dal collega Fontanelli rispetto ai tempi e alle modalità con cui si è svolta questa discussione sulle linee generali. È evidente che la vera replica sarà svolta nell'ambito dell'esame degli articoli e delle proposte emendative, però voglio sottolineare un concetto: qualcuno ha detto che si vuole cambiare tutto per non cambiare niente. A me sembra che qualcuno dica: non tagliate di qui, perché bisogna tagliare di là, e alla fine nessuno vuole tagliare niente.
Questo Governo e la maggioranza i tagli li hanno fatti e li stanno facendo veramente.
E in risposta proprio all'ultimo intervento - onore al merito all'onorevole Ciccanti per aver resistito - se si citano dei numeri, questi devono essere quelli corretti.

PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Pag. 86

Ordine del giorno della seduta di domani.

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.

Martedì 15 giugno 2010, alle 11:

1. - Svolgimento di interpellanze e interrogazioni.

(ore 15)

2. - Seguito della discussione del disegno di legge:
S. 2171 - Conversione in legge del decreto-legge 10 maggio 2010, n. 67, recante disposizioni urgenti per la salvaguardia della stabilità finanziaria dell'area euro. Ordine di esecuzione dell'accordo denominato «Intercreditor Agreement» e dell'accordo denominato «Loan Facility Agreement» stipulati in data 8 maggio 2010 (Approvato dal Senato) (C. 3505).
- Relatore: Marinello.

3. - Seguito della discussione delle mozioni Oliverio ed altri n. 1-00366, Di Giuseppe ed altri n. 1-00385, Ruvolo ed altri n. 1-00386, Reguzzoni ed altri n. 1-00387, Mosella ed altri n. 1-00388, Beccalossi ed altri n. 1-00389 e Misiti ed altri n. 1-00390 concernenti misure di sostegno per i settori agricolo ed agroalimentare.

4. - Seguito della discussione del disegno di legge:
Individuazione delle funzioni fondamentali di Province e Comuni, semplificazione dell'ordinamento regionale e degli enti locali, nonché delega al Governo in materia di trasferimento di funzioni amministrative, Carta delle autonomie locali. Riordino di enti ed organismi decentrati (C. 3118-A).

e delle abbinate proposte di legge: STUCCHI; STUCCHI; URSO; MOGHERINI REBESANI ed altri; ANGELA NAPOLI; GARAGNANI; GIOVANELLI ed altri; BORGHESI ed altri; DI PIETRO ed altri; RIA e MOFFA; MATTESINI ed altri; REGUZZONI; GARAGNANI (C. 67-68-711-736-846-1616-2062-2247-2471-2488-2651-2892-3195).
- Relatore: Bruno.

La seduta termina alle 21,45.

TESTO INTEGRALE DELLA RELAZIONE DEL DEPUTATO DONATO BRUNO IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DEL DISEGNO DI LEGGE N. 3118-A

DONATO BRUNO, Relatore. Onorevoli colleghi, il disegno di legge del Governo del quale l'Assemblea inizia oggi la discussione intende in primo luogo assicurare la piena attuazione delle disposizioni del titolo V della parte seconda della Costituzione in materia di enti locali e in secondo luogo perseguire una più efficiente allocazione delle funzioni presso i diversi livelli di Governo, una razionalizzazione dell'apparato pubblico locale complessivo e una riduzione delle relative spese. Esso costituisce un provvedimento collegato alla manovra di finanza pubblica 2010 in adempimento di quanto deliberato dalle Camere con apposite risoluzioni (Camera dei deputati, risoluzione in Assemblea n. 6-00028 del 29 luglio 2009, e Senato della Repubblica, risoluzione n. 6-00017 del 29 luglio 2009).
La prima finalità del provvedimento è quella di definire le funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane. Ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, le funzioni fondamentali sono materia di competenza legislativa esclusiva dello Stato. Con questa previsione, il legislatore costituente del 2001 - nel suo disegno non sempre per la verità razionale - ha inteso riservare l'individuazione delle funzioni fondamentali Pag. 87degli enti locali alla legge dello Stato così da garantire, contro possibili tentazioni centralistiche delle regioni, l'attuazione del principio cardine stabilito con l'articolo 118, secondo cui le funzioni amministrative devono essere attribuite tendenzialmente agli enti locali, a cominciare dai comuni, in quanto enti più vicini al cittadino e possono essere attribuite ai livelli di governo più distanti, compresi le regioni e lo Stato, solo se vi sia l'esigenza di assicurarne l'esercizio unitario.
L'individuazione delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane è inoltre necessaria perché costituisce a sua volta una condizione indispensabile per la concreta esecuzione del disegno delineato dall'altra legge approvata dal Parlamento per l'attuazione del titolo V, vale a dire la legge delega per il federalismo fiscale (n. 42 del 2009).
Questa legge, come ognuno ricorderà, si prefigge un nuovo assetto dei rapporti economico-finanziari tra lo Stato e le autonomie territoriali, incentrato sul superamento del sistema di finanza derivata e sull'attribuzione di una maggiore autonomia di entrata e di spesa a comuni, province, città metropolitane e regioni, nel rispetto dei principi di solidarietà e di coesione sociale. In questo quadro, uno degli obiettivi principali della legge è il passaggio dal sistema dei trasferimenti fondato sulla spesa storica a quello dell'attribuzione di risorse basate sull'individuazione dei fabbisogni standard necessari a garantire sull'intero territorio nazionale il finanziamento integrale, da una parte, dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e, dall'altra, delle funzioni fondamentali degli enti locali. Com'è evidente, l'individuazione delle funzioni fondamentali degli enti locali, assieme alla determinazione del costo standard per l'esercizio di esse, è un passaggio fondamentale per l'attuazione del federalismo fiscale.
Infine - proprio in vista dell'attuazione del nuovo assetto della Repubblica delineato dal riformato titolo V e caratterizzato dall'equiordinazione tra lo Stato, le regioni e gli enti locali, secondo il principio sancito dal nuovo articolo 114 della Costituzione - il provvedimento in esame si prefigge di razionalizzare l'apparato amministrativo locale in modo da assicurare un'efficienza, in termini di servizi offerti, sostenibile sotto il profilo finanziario.
La Commissione affari costituzionali ha iniziato l'esame del disegno di legge del Governo - cui sono state via via abbinate alcune proposte di legge di iniziativa parlamentare - 1'11 marzo 2010. L'istruttoria è stata ampia, nei limiti del tempo disponibile, che era fin dall'inizio limitato, attesa l'urgenza del provvedimento e la connessa decisione del Governo di qualificarlo come collegato alla manovra di finanza pubblica, con tutto quel che ne deriva sul piano procedurale, soprattutto in termini di tempi di esame.
Dopo un approfondito esame preliminare, nel corso del quale è stata anche svolta una concentrata indagine conoscitiva, la Commissione è passata all'esame degli emendamenti, che sono stati molto numerosi. Le modifiche apportate al testo iniziale sono state diverse, come avrò modo di illustrare in dettaglio. All'esito del lavoro, il provvedimento si compone di 28 articoli, che individuano le funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane, modificano ampiamente la disciplina degli enti locali e recano una delega al Governo per l'adozione di una «Carta delle autonomie locali» che raccolga e coordini le disposizioni in materia.
Veniamo ora ad una esposizione analitica dei diversi articoli.
L'articolo 1 indica l'oggetto e le finalità del provvedimento, tra cui l'individuazione delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane e l'introduzione di alcune misure di razionalizzazione degli enti locali. Con un emendamento è stata inserita una clausola di salvaguardia (comma 1-bis) in base alla quale la legge e i decreti legislativi delegati devono essere attuati in conformità con gli impegni finanziari assunti con il patto di stabilità e crescita, nonché in conformità con la disciplina del patto di stabilità interna. Altre modifiche all'articolo 1 sono Pag. 88state apportate ai fini di coordinamento del testo, per tenere conto delle variazioni introdotte nel complesso dell'articolato.
Gli articoli da 2 a 8 trattano delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane. Riguardo a queste ultime ricordo incidentalmente che sono previste dall'articolo 114 della Costituzione, ma non ancora istituite, e che alla loro istituzione dovrà provvedere il Governo, con decreti legislativi, sulla base di una delega contenuta nella già citata legge per il federalismo fiscale (n. 42 del 2009).
Più precisamente, gli articoli 2, 3 e 4 individuano le funzioni fondamentali, rispettivamente, di comuni, province e città metropolitane.
L'intervento della Commissione su questa parte di testo è stato nel complesso contenuto. Si è precisato che l'attribuzione agli enti locali delle diverse funzioni fondamentali non fa venire meno la titolarità delle regioni non solo in materia di programmazione, come già previsto dal testo del Governo, ma anche di coordinamento.
Per quanto riguarda i comuni, si è precisato che essi sono competenti non soltanto in materia di pianificazione urbanistica, ma anche di regolamentazione urbanistica di ambito comunale, e non soltanto con riferimento agli interventi di recupero del territorio - come previsto dal testo iniziale - ma anche a quelli di riqualificazione degli assetti insediativi. Si è inoltre prevista la partecipazione del comune alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale. Ancora, si è precisato che la tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e lo svolgimento dei compiti in materia di servizi anagrafici da parte dei comuni costituiscono esercizio di funzioni di competenza statale.
Per quanto riguarda le province, è stata eliminata, dall'elenco delle funzioni fondamentali, quella della assistenza tecnico-amministrativa ai comuni. È stato inoltre precisato che la funzione provinciale inerente l'attività di previsione, la prevenzione e la pianificazione d'emergenza in materia di protezione civile si esercita nell'ambito dei piani nazionali e regionali di protezione civile.
Come si è detto, l'articolo 117, secondo comma, lettera p), rimette in via esclusiva alla legge dello Stato la definizione delle funzioni fondamentali degli enti locali. Accade però che alcune di queste funzioni riguardino ambiti materiali che i commi terzo o quarto della Costituzione attribuiscono alla competenza legislativa concorrente dello Stato e delle regioni o alla competenza legislativa esclusiva residuale delle sole regioni. Unicamente per queste funzioni, l'articolo 5 prevede che la legge regionale possa modificare il riparto di funzioni stabilito dalla legge statale, attribuendo ai comuni funzioni fondamentali che la legge statale attribuisce alle province o viceversa. Ciò deve avvenire però al fine di garantire l'effettivo esercizio delle funzioni fondamentali, a condizione che si ottenga il soddisfacimento ottimale dei bisogni delle rispettive comunità e comunque nel rispetto dei principi di leale collaborazione, di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. L'esercizio delle funzioni trasferite dalla regione in base a questo articolo decorre dall'effettivo trasferimento dei beni e delle risorse tra i comuni e le province interessate. Si tratta di un principio generale ribadito, con riferimento a diverse previsioni, anche in altre parti del provvedimento.
L'articolo 6 precisa che le funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane indicate negli articoli precedenti sono disciplinate - deve intendersi: nel loro esercizio - dalla legge statale o dalla legge regionale a seconda che la materia nella quale la funzione interviene spetti allo Stato o alla regione in base al riparto di competenza legislativa di cui all'articolo 117 della Costituzione. Pertanto le funzioni afferenti alle materie nelle quali lo Stato ha potestà legislativa esclusiva saranno disciplinate dalla legge statale; le funzioni rientranti tra le materie di legislazione concorrente saranno disciplinate dal concorso, per i rispettivi ambiti, della legge statale e della legge regionale; le altre funzioni saranno disciplinate con legge regionale.
Tenuto poi conto che, ai sensi dell'articolo 117, sesto comma, della Costituzione, Pag. 89gli enti locali hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, in sede emendativa si è stabilito un principio di carattere generale per orientare questa potestà, prevedendo che i comuni, le province e le città metropolitane debbono organizzare le rispettive funzioni valorizzando, in applicazione del principio di sussidiarietà, l'iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale e per l'erogazione di servizi e prestazioni di interesse pubblico.
L'articolo 7 precisa che le funzioni fondamentali degli enti locali non possono essere esercitate da enti o agenzie statali o regionali o da enti o agenzie di enti locali diversi da quelli cui sono attribuite: si tratta di una disposizione di salvaguardia intesa a garantire che l'esercizio delle funzioni fondamentali avvenga al livello cui è stato assegnato dalla legge (statale o, dove consentito, regionale). Con un emendamento in Commissione si è precisato che tali funzioni fondamentali non possono neppure essere attribuite ad enti o agenzie statali o regionali o a enti o agenzie di enti locali diversi da quelli cui sono attribuite. In sostanza, le funzioni che la legge dello Stato attribuisce come fondamentali agli enti locali, devono restare attribuite agli enti locali - ferma la possibilità di trasferimento dalla provincia al comune e viceversa nei casi di cui al comma 5 - e devono essere esercitate da questi.
Con emendamenti della Commissione sono state introdotte nell'articolo 7 anche altre due disposizioni di salvaguardia. La prima, al comma 1-bis, è stata suggerita dalla Commissione ambiente e prevede che restino ferme in ogni caso le competenze in materia ambientale riconosciute per legge all'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) e alle agenzie regionali per la protezione dell'ambiente (ARPA).
La seconda, al comma 2, prevede che con l'entrata a regime del nuovo sistema di titolarità delle funzioni cessi ogni forma di finanziamento delle funzioni esercitate in contrasto con le disposizioni di legge e siano nulli gli atti adottati nell'esercizio delle suddette funzioni.
L'articolo 8 stabilisce innanzitutto il principio per cui l'esercizio delle funzioni fondamentali è obbligatorio per l'ente che ne è titolare. Reca inoltre alcuni principi in materia di modalità di esercizio delle funzioni fondamentali.
Per quanto riguarda i comuni, l'articolo distingue tra le funzioni strumentali interne - quelle cioè che garantiscono l'autonomia normativa e organizzativa dei comuni stessi, come ad esempio la disciplina organizzativa delle funzioni stesse - e le altre funzioni fondamentali e prevede che queste ultime siano esercitate obbligatoriamente in forma associata da parte dei comuni più piccoli: il testo iniziale del Governo fissava la soglia in 3.000 abitanti, ma un emendamento della Commissione ha elevato tale soglia a 5.000 abitanti ed ha inoltre precisato che l'obbligo non vale per i comuni il cui territorio non è limitrofo a quello di altri. Per gli altri comuni e per le province l'esercizio associato delle funzioni è libero.
L'articolo prevede, ancora, che nelle materie di competenza legislativa concorrente Stato-regioni o residuale delle regioni, la legge regionale possa - previa concertazione con i comuni interessati - definire la dimensione territoriale ottimale per lo svolgimento di alcune funzioni fondamentali da parte dei comuni in forma obbligatoriamente associata. Non sono comunque obbligati all'esercizio delle funzioni in forma associata i comuni capoluogo di provincia e i comuni con un numero di abitanti superiore a 100.000. Salvo quanto previsto dalle leggi regionali, si ammettono come forme associative esclusivamente la convenzione e l'unione di comuni. La disciplina di quest'ultima, recata dall'articolo 32 del testo unico degli enti locali, viene in qualche aspetto rivista dall'articolo in commento.
Devo peraltro dire che sulla materia dell'articolo 8 intervengono anche alcune disposizioni del decreto-legge n. 78 del 2010, recante la manovra di finanza pubblica per il 2011, attualmente all'esame del Pag. 90Senato in prima lettura. La Commissione sta valutando, insieme al Governo, il da farsi per evitare che provvedimenti diversi contengano disposizioni diverse sulla medesima materia e addirittura contrastanti.
L'articolo 9 reca una delega al Governo per l'individuazione e il trasferimento delle funzioni amministrative non fondamentali che sono esercitate dallo Stato o da enti pubblici, ma, non richiedendo l'unitario esercizio a livello statale, possono essere attribuite a comuni, province, città metropolitane o regioni, nonché per l'individuazione delle funzioni che, invece, rimangono attribuite allo Stato. Per quanto riguarda le prime, il Governo nell'esercizio della delega deve attenersi ai principi di cui all'articolo 118 della Costituzione, ossia conferire ad un livello diverso da quello comunale soltanto le funzioni di cui occorra assicurare l'unitarietà di esercizio, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Su questo articolo la Commissione è intervenuta con due emendamenti: il primo ha previsto che le funzioni non fondamentali da individuare ed eventualmente riallocare non siano quelle dello Stato e degli enti territoriali, ma quelle dello Stato e degli enti pubblici; il secondo emendamento ha integrato i principi e criteri direttivi della delega prevedendo che, in caso di trasferimento di una funzione, l'esercizio della funzione trasferita da parte del nuovo titolare decorra solo a partire dall'effettivo trasferimento delle risorse necessarie all'esercizio della funzione.
L'articolo 10 disciplina il trasferimento delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative connesse a una funzione fondamentale nel caso in cui, in base al presente provvedimento, tale funzione fondamentale sia trasferita ad un ente diverso da quello che oggi la esercita. Con un emendamento in Commissione è stato stabilito il principio generale che, in caso di trasferimento di una funzione fondamentale da un livello di governo a un altro, l'esercizio della funzione decorre solo nel momento in cui avviene l'effettivo trasferimento delle risorse necessarie.
Questo principio è stato ribadito all'articolo 11, che impegna il Governo a presentare alle Camere, previa intesa con le regioni, disegni di legge per individuare e trasferire alle regioni stesse le funzioni inerenti a materie di competenza legislativa concorrente Stato-regioni o residuale regionale che oggi siano esercitate dallo Stato: naturalmente il riferimento è alle funzioni che il provvedimento in esame non qualifica come fondamentali degli enti locali. Con un emendamento approvato in Commissione, si specifica che i disegni di legge in materia devono essere presentati entro dodici mesi dall'entrata in vigore della legge.
L'articolo 12 prevede che nelle materie di competenza legislativa concorrente Stato-regioni o residuale regionale, le regioni, con proprie leggi, si adeguino alla disciplina statale di individuazione delle funzioni fondamentali, regolandone la modalità di esercizio; e provvedano a razionalizzare e semplificare strutture, enti, agenzie o organismi operanti a livello regionale, titolari delle funzioni da allocare agli enti locali. L'articolo reca principi per la disciplina delle funzioni non fondamentali nelle materie di competenza legislativa concorrente e residuale.
L'articolo 13 reca una delega al Governo per l'adozione di una «Carta delle autonomie locali» che riunisca e coordini sistematicamente le disposizioni statali in materia di enti locali. La Commissione ha abbreviato a diciotto mesi (da ventiquattro che erano) il termine per l'esercizio della delega, il cui schema deve essere trasmesso alle Camere per il parere. Con un emendamento approvato in sede referente si è previsto che, qualora il Governo non intenda conformarsi al parere parlamentare, ritrasmetta i testi alle Camere con le sue osservazioni ed eventuali modificazioni affinché le Commissioni competenti esprimano un nuovo parere entro trenta giorni, trascorsi i quali il testo può comunque essere adottato in via definitiva.
L'articolo 13-bis, introdotto dalla Commissione, delega il Governo al riordino delle disposizioni concernenti il comune di Campione d'Italia. In ragione della sua Pag. 91collocazione distaccata dal restante territorio della Repubblica, si è infatti ritenuto che il comune in questione debba essere oggetto di una disciplina specifica.
L'articolo 14, che prevedeva una delega al Governo per la razionalizzazione e riduzione delle province, è stato soppresso con un emendamento del relatore. Su questo punto ritengo di dover spendere qualche parola per spiegare cosa è accaduto in Commissione. In un primo momento, come relatore, avevo presentato un emendamento, che la Commissione aveva approvato, con il quale veniva tra l'altro fissato un parametro per la individuazione di alcune province potenzialmente sopprimibili, naturalmente con forme e procedure rispettose dell'articolo 133 della Costituzione: si faceva riferimento alle province con popolazione inferiore a 200.000 abitanti. Nell'emendamento era stata integrata una proposta subemendativa proveniente dalla maggioranza con la quale la soglia era stata ridotta a 150.000 abitanti nel caso di province con un territorio montano per oltre il 50 per cento. Tuttavia, da un primo, seppur non definitivo calcolo degli uffici del Governo è risultato che le province che avrebbero potuto essere soppresse sulla base di questi requisiti sarebbero state solamente quattro: oggettivamente troppo poche per giustificare un intervento al quale è stato dato dal Governo così grande risalto di fronte all'opinione pubblica. Ho pertanto ritenuto preferibile soprassedere per il momento all'intervento di razionalizzazione delle province, anche per rivendicare la serietà e tutelare la dignità del lavoro della Commissione. La soppressione dell'articolo 14, quindi, non deve essere interpretata come una rinuncia, da parte della maggioranza, ad intervenire sul sistema delle province per riordinarlo e razionalizzarlo, eventualmente anche sopprimendo alcune province.
Anche l'articolo 15 è stato soppresso con un emendamento in Commissione. Esso recava un'ulteriore delega al Governo per il riordino delle prefetture-uffici territoriali del Governo. Anche in questo caso devo precisare che la soppressione dell'articolo 15 non va intesa come una indisponibilità della maggioranza o del Governo. Come ha infatti chiarito il ministro Calderoli in Commissione, l'ordinamento prevede già oggi uno strumento utilizzabile per il riordino delle prefetture: l'articolo 1, comma 425, della legge finanziaria per il 2007 prevede infatti che, con regolamento ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge n. 400 del 1988, su proposta del ministro dell'interno, siano individuati gli ambiti territoriali determinati per l'esercizio delle funzioni di competenza degli uffici periferici dell'amministrazione dell'interno. Il ministro ha chiarito che il Governo intende avvalersi di questo potere regolamentare per procedere al riordino dell'amministrazione periferica del Ministero dell'interno.
L'articolo 16, che prevedeva la soppressione della figura dei difensori civici comunali, è stato soppresso in Commissione in quanto recante una disposizione analoga a quella già introdotta nell'ordinamento con la legge finanziaria 2010, come modificata con il decreto-legge n. 2 del 2010 (articolo 2, comma 186, lettera a), della legge n. 191 del 2009).
L'articolo 17 demanda alle leggi regionali la possibilità di disporre la soppressione delle comunità montane, isolane e di arcipelago e, a seguito di un emendamento introdotto in Commissione, dispone che lo Stato cessa di concorrere al finanziamento delle comunità isolane o di arcipelago. Questa disposizione riprende quella già prevista nella legge finanziaria 2010, come modificata con il decreto-legge n. 2 del 2010 (articolo 2, comma 187, della legge n. 191 del 2009), con la quale lo Stato ha cessato di concorrere al finanziamento delle comunità montane.
L'articolo 18, ancora, è stato soppresso perché l'eliminazione delle circoscrizioni di decentramento comunale nei comuni fino a 250.000 abitanti è già stata prevista dalla legge finanziaria per il 2010, come modificata con il decreto-legge n. 2 del 2010 (articolo 2, comma 186, lettera b)).
Peraltro, approvando un significativo emendamento proposto dall'opposizione, la Commissione ha stabilito che i comuni Pag. 92con più di 100.000 e meno di 250.000 abitanti ed i comuni capoluogo di provincia possono prevedere forme di consultazione e di partecipazione senza spese o oneri aggiuntivi.
L'articolo 19, nel nuovo testo introdotto dalla Commissione, dispone la soppressione dei consorzi tra enti locali per l'esercizio di funzioni, ad eccezione di quelli già costituiti dagli enti locali per la gestione associata di uno o più servizi di cui all'articolo 31 del testo unico degli enti locali, nonché ad eccezione dei bacini imbriferi montani (BIM). La norma disciplina la decorrenza e gli effetti, così integrando la disposizione di soppressione già contenuta nella legge finanziaria 2010, come modificata con il decreto-legge n. 2 del 2010 (articolo 2, commi 186, lettera b)). La Commissione ha modificato l'articolo regolando direttamente gli effetti conseguenti allo scioglimento dei consorzi costituiti esclusivamente da enti locali, anziché rimetterne la disciplina a questi ultimi, come previsto nel testo originario.
Gli articoli da 20 a 23, che prevedevano la riduzione dei componenti delle giunte e dei consigli comunali e provinciali e la possibilità di delega delle funzioni del sindaco, sono stati soppressi in Commissione in quanto disposizioni analoghe sono contenute nella legge finanziaria 2010, come modificata con il decreto-legge n. 2 del 2010 (articolo 2, comma 184, 185, e 186, lettera c)).
L'articolo 23-bis, introdotto dalla Commissione, stabilisce le modalità in base alle quali i Presidenti di Regione possono avvalersi, nell'ambito degli uffici di diretta collaborazione, di magistrati e avvocati dello Stato.
L'articolo 24 interviene sulla disciplina delle attribuzioni dei consigli comunali e provinciali.
Gli articoli 25, 26 e 27 introducono la definizione di piccolo comune (con popolazione residente pari o inferiore a 5.000 abitanti) a favore del quale sono previste alcune misure agevolative.
L'articolo 28, modificato in sede referente, sopprime la figura del direttore generale nei comuni con meno di 100.000 abitanti (anziché 65.000 abitanti, come previsto nel testo originario).
L'articolo 29, ampiamente modificato in Commissione, e l'articolo 30 riformano, attraverso numerose novelle al testo unico degli enti locali, la disciplina dei controlli negli enti locali, prevedendo in particolare le seguenti tipologie di controlli interni: controllo di regolarità amministrativa e contabile; controllo strategico; controlli sulle società partecipate; controllo degli equilibri finanziari; controlli sugli organismi gestionali.
L'articolo 31 abroga numerose disposizioni del testo unico degli enti locali e di altri provvedimenti, riguardanti prevalentemente le comunità montane.
Infine, l'articolo 32 reca una norma di coordinamento per le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano, in base alla quale queste possono adeguarsi a quanto previsto dalla legge in armonia con i rispettivi statuti. Anche su questo articolo è intervenuto un emendamento in Commissione: il testo iniziale del Governo prevedeva infatti l'obbligo, anziché la facoltà, per le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano di disciplinare le materie di cui al provvedimento in esame secondo i rispettivi statuti.
Questo dunque è il contenuto del testo che la Commissione presenta oggi all'Assemblea. Le opposizioni hanno sostenuto, abbastanza unanimemente, che si tratterebbe di un testo deludente e poco coraggioso. Io ritengo invece che si tratti di un importante passo avanti in direzione dell'attuazione del federalismo e del titolo V. Può sembrare un piccolo passo avanti, ma la sua portata va valutata nel contesto dell'insieme delle misure che il Governo e il Parlamento stanno adottando in questo campo. Questo insieme può sfuggire, dal momento che gli interventi di riforma sono sparpagliati in diversi provvedimenti, non di rado sottoposti al Parlamento in contemporanea. Ma se si tiene d'occhio l'insieme si comprende che gli interventi Pag. 93sono ispirati da una strategia unitaria, che si potrà forse non condividere, ma che è salda e di lungo respiro.
Prima di concludere, desidero dire qualcosa sui pareri delle Commissioni competenti in sede consultiva e del Comitato per la legislazione.
Sul provvedimento sono state chiamate ad esprimersi tutte le Commissioni permanenti, ad eccezione della Commissione difesa, nonché la Commissione parlamentare per le questioni regionali ed il Comitato per la legislazione. Tutti i pareri previsti sono stati espressi, fuorché quello della Commissione bilancio, che renderà il proprio direttamente all'Assemblea. Le Commissioni esteri, cultura, attività produttive, affari sociali e politiche dell'Unione europea hanno espresso pareri favorevoli. Le altre Commissioni hanno espresso pareri favorevoli con condizioni o osservazioni. Il Comitato per la legislazione ha reso un parere assai articolato e puntuale.
Data la complessità - politica o giuridica - delle questioni poste nei pareri, ho ritenuto preferibile prendermi qualche giorno ancora per valutare il da farsi. Mi sono pertanto riservato di proporre eventuali emendamenti di recepimento dei pareri direttamente al Comitato dei nove. L'unico parere che non presentava problemi né dal punto di vista politico né da quello tecnico-giuridico era il parere della Commissione ambiente, che ho quindi proposto alla Commissione di recepire già prima del conferimento del mandato al relatore, e così è stato.

TESTO INTEGRALE DELL'INTERVENTO DEL DEPUTATO GIUSEPPE CALDERISI IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DEL DISEGNO DI LEGGE N. 3118-A

GIUSEPPE CALDERISI. Il disegno di legge al nostro esame, di particolare importanza e complessità, si prefigge obiettivi ambiziosi, quali l'individuazione delle funzioni fondamentali degli enti locali, secondo quanto previsto dall'articolo 117, secondo comma, lettera p) della Costituzione, passaggio indispensabile per definire costi e fabbisogni standard e dare così attuazione a quanto previsto dalla legge n. 42 del 2009 in materia di federalismo fiscale; la semplificazione dell'ordinamento delle regioni e degli enti locali; il trasferimento di funzioni amministrative ai sensi dell'articolo 118 della Costituzione attraverso una delega al Governo, la redazione della Carta delle autonomie locali, attraverso un'altra delega al Governo, il riordino di enti ed organismi decentrati.
Occorre dare atto al Governo, in primo luogo, e alla Commissione affari costituzionali, successivamente, di aver svolto un buon lavoro, certamente ancora perfettibile, ma occorre essere consapevoli che difficilmente si poteva e si potrebbe fare molto di più considerato il vigente quadro di riferimento costituzionale in materia di autonomie territoriali, vale a dire il titolo V della Costituzione, come modificato nel 2001.
Gli esponenti dell'opposizione, a partire da quelli del PD, hanno espresso profonda delusione per l'esito finale del lavoro svolto dal Governo e dalla Commissione. Ma al lavoro in Commissione hanno contribuito anch'essi con una serie di proposte, alcune delle quali sono state accolte dal relatore e dal Governo. Quanto a quelle non accolte, esse non appaiono invero di portata e contenuto così alternativi e innovativi da giustificare un giudizio così negativo sul testo ora giunto all'esame dell'Aula. La posizione espressa risente, evidentemente, di un giudizio (o pre-giudizio) politico contro il Governo e la maggioranza, che prescinde dal merito effettivo del provvedimento al nostro esame (da considerare, oltretutto, che il PD non è neppure favorevole alla soppressione delle province). D'altro canto, se il PD dispone di soluzioni così importanti e innovative per dare attuazione al titolo V, perché mai non ha provveduto quando è stato al governo, dal 2006 al 2008?
Si accusa il testo del provvedimento di mancanza di organicità, ma il difetto di organicità - come hanno rilevato diversi costituzionalisti nelle audizioni svolte dalla Pag. 94prima Commissione - va ricollegato al vizio di origine del processo di costruzione di un assetto federale che è in corso nel nostro Paese. Il vizio di origine si ritrova nella modifica del titolo V, con la creazione di un sistema che non né federale, né regionale, ma multilivello, estremamente complicato e caotico, che crea necessariamente sovrapposizioni, interferenze, confusioni ed incertezze sulla ripartizione delle competenze legislative, amministrative e regolamentari tra Stato, regioni, province, città metropolitane, comuni e diversi altri enti introdotti già prima del 2001.
Un sistema che giustamente è stato definito di policentrismo istituzionale esasperato. In questo contesto, in primo luogo il decisore politico, ma poi tutti, la dottrina, la giurisprudenza costituzionale, gli operatori economici e i cittadini, incontrano inevitabilmente grandi difficoltà nello stabilire chi fa che cosa, a livello non soltanto della singola competenza amministrativa, ma soprattutto della definizione del ruolo. Quale è il ruolo della regione, quale quello della provincia, del comune e così via? Tutto ciò determina - non c'è ombra di dubbio - un ostacolo fortissimo alla crescita economica del Paese.
Ad esempio, pensiamo ai rigassificatori. Oltre allo Stato, alla regione e al comune, c'è anche la provincia, ed è difficilissimo dare vere indicazioni e, soprattutto, stabilire in che tempi si compie un'operazione. Non sappiamo a monte chi la compie, figuriamoci i tempi. Se il sistema è frammentato, se non conosciamo i ruoli, inevitabilmente le risorse necessarie cresceranno e, indipendentemente da qualsiasi legge sul federalismo fiscale, vi è il rischio di ripercussioni negative sulla nostra economia.
Non c'è ombra di dubbio che il disegno di legge n. 3118 risente della difficoltà di dare volto, forma e sostanza a quel policentrismo istituzionale esasperato previsto dal titolo V. Si potrebbero fare molti esempi sul groviglio di competenze tra i diversi livelli, in materia di governo del territorio, di servizi pubblici, di igiene ambientale, di trasporti, di scuola, eccetera. E non basta invocare le clausole di flessibilità che sono molto difficili a realizzarsi perché bisogna andare in Conferenza unificata, un iter molto gravoso da affrontare.
Certamente, risulta quanto mai complesso e problematico - a Costituzione vigente - ricondurre ad unità quanto previsto in riferimento ai poteri normativi chiamati a definire le funzioni degli enti locali. Infatti, la concreta determinazione di quali funzioni amministrative nelle diverse materie saranno attribuite ai vari enti locali spetta al legislatore statale o regionale, a seconda delle rispettive competenze legislative, il cui riparto - però - è per molti aspetti indecifrabile a causa delle improprietà e dei difetti del titolo V.
Così pure, è molto difficile individuare con precisione lo spazio proprio dei regolamenti degli enti locali ai quali il sesto comma dell'articolo 117 affida la disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, considerata la formulazione lacunosa di tale comma che lascia spazio anche ad una interpretazione giurisprudenziale secondo la quale il giusto riconoscimento del potere regolamentare agli enti locali avrebbe come conseguenza la sottrazione del potere regolamentare stesso ai vincoli della legislazione statale e regionale, superando addirittura il principio di legalità.
Per tutte queste ragioni ritengo necessario e urgente giungere ad una riforma del titolo V nel tempo a disposizione in questa legislatura, prima dei due anni previsti per l'esercizio della delega relativa alla Carta delle autonomie, anzi spero ancor prima.
Mi auguro che governo, maggioranza e opposizione convergano su questo obiettivo a mio avviso imprescindibile per il nostro Paese, giungendo ad una riforma condivisa, almeno per quanto riguarda gli aspetti più importanti.
Sarebbe, a mio avviso, un modo per favorire anche la riforma degli altri aspetti della parte II della Costituzione, cioè il Parlamento, il sistema bicamerale e la forma di governo. Anche perché la modifica del titolo V e la conseguente giurisprudenza della Corte costituzionale Pag. 95hanno determinato un grave vulnus alle prerogative del Parlamento, che si trova compresso tra il potere politico-legislativo assunto - a monte del processo legislativo - dal sistema delle Conferenze (un sistema privo di qualsiasi trasparenza, responsabilità e democraticità) e - a valle - dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che, per quanto benemerita nel correggere i più macroscopici difetti del titolo V, ha assunto e assume decisioni di carattere politico, in particolare la valutazione del principio di adeguatezza-sussidiarietà, che spetterebbe invece al Parlamento. Chissà perché di questo vero e proprio esproprio delle prerogative del Parlamento non si occupa quasi nessuno.
Per quanto riguarda il titolo V, non si tratta solo di correggere gli errori più evidenti compiuti dal legislatore costituente del 2001, ma è necessario puntare più in alto, cioè riorganizzare l'assetto territoriale della Repubblica.
Per questo concentrerò la parte restante del mio intervento sugli obiettivi che a mio avviso occorre perseguire per dare davvero un senso al nostro federalismo.
Si tratta di proposte non dissimili, in buona parte, da quelle formulate dal professor Augusto Barbera, in particolare in un'audizione del dicembre 2006 presso le Commissioni affari costituzionali di Camera e Senato e che ritengo opportuno richiamare in questo dibattito.
Le ultime elezioni regionali hanno messo in evidenza, al di là delle particolari vicende politiche che le hanno caratterizzate, un forte disorientamento degli elettori, un disorientamento che nasce dalla difficoltà di trovare risposte soddisfacenti a domande di fondo: Servono le regioni? E a quale scopo? Con quali compiti, con quali obiettivi da perseguire? Quali i collegamenti tra la regione e gli enti locali? Insomma, quale è il ruolo dei diversi enti?
Se vogliamo realizzare seriamente il processo riformatore in senso federalista queste domande dobbiamo porcele con forza, questa riflessione è necessaria, e dobbiamo cercare di svolgerla rifuggendo da ideologismi (autonomista, federalista o municipalista), dal tatticismo politico, dal consociativismo istituzionale, nella consapevolezza che l'assetto istituzionale della Repubblica è il punto più alto della missione politica di un Parlamento (e non può essere solo il frutto di una trattativa tra e con rappresentanze di enti locali).
Devo premettere alcune considerazioni di fondo.
Dei limiti del centralismo, paralizzante e uniformante, si è tanto discusso. Ma del localismo non sempre si ha piena coscienza. I suoi limiti sono un problema altrettanto grave che costituisce una palla al piede dell'economia italiana su diversi fronti: la pianificazione territoriale è invischiata in logiche campanilistiche (ad esempio, in molte regioni si è costruita una zona industriale attorno ad ogni campanile ingolfando i trasporti e accrescendo l'inquinamento, e mettendo da parte i tentativi di pianificazione volti a concentrare tali insediamenti in aree comprensoriali o distrettuali); il superamento delle dimensioni localistiche delle aziende pubbliche locali è frenato da logiche municipalistiche e da una legislazione che non incoraggia la concorrenza e il superamento delle inefficienze; si va moltiplicando il numero di strutture sottodimensionate (per esempio gli aeroporti spesso privi di servizi adeguati, accrescendo i costi per la finanza locale e trascurando le grandi opere); i comuni utilizzando i loro poteri di veto (formali o informali) respingono o ritardano l'insediamento di impianti ritenuti inquinanti (dai termoconvettori per i rifiuti alle centrali per la produzione di energia), mentre l'alleanza tra corporazioni mediche e interessi campanilistici ha reso impossibile in alcune regioni una seria pianificazione ospedaliera; la ricerca di fondi porta le Università a disperdere energie disseminando sedi universitarie in ogni comune di media grandezza.
Difficilmente le regioni sono riuscite a superare le resistenze localistiche. Tali poteri di veto e di interdizioni si sono accresciuti con il titolo V del 2001 che ha reso di competenza legislativa regionale (sia pure concorrenti) materie come la produzione e distribuzione nazionale dell'energia Pag. 96(ad esempio per le centrali elettriche e i rigassificatori) e che, con una norma che non ha eguali in altri ordinamenti, ha reso il Comune titolare (in linea di principio, salvo verifica della sua adeguatezza da parte della legge) di ogni funzione amministrativa, cui secondo una certa dottrina si accompagnerebbe la relativa competenza regolamentare, al di fuori - sic! - degli stessi vincoli legislativi nazionali e regionali. (Ad esempio, la sentenza Corte costituzionale n. 246 del 2006 ha annullato, per violazione dell'autonomia regolamentare delle province, la norma regionale che tratteneva il potere regolamentare in capo alla regione).
Stretta tra i limiti del centralismo e del localismo, l'Italia non è riuscita a realizzare importanti politiche territoriali e rischia per questo un declino. Nonostante questi limiti la valorizzazione dei governi regionali è richiesta anche e soprattutto dai processi di globalizzazione, tanto quanto è richiesta la costruzione di organismi sovranazionali, quelli europei in primo luogo.
Infatti la competizione in un'economia globalizzata tende sempre più a porsi come competizione tra sistemi regionali, competizione che non riguarda solo le imprese ma avviene tra i sistemi territoriali entro i quali si collocano le imprese stesse. Imprese che non sono più organizzate sul modello piramidale fordista, ma su quello dell'impresa «a rete», diffusa, interconnessa e ad alta tecnologia. Impresa a rete che ha bisogno di un contesto territoriale favorevole, né centralizzato né frammentato in logiche localistiche. Solo robusti livelli regionali di governo regionali e locali che facciano tra loro sistema, sono in grado di creare tali condizioni ambientali, favorendo la cooperazione tra imprese, la flessibilità dei fattori della produzione, l'intercambiabilità delle conoscenze. Solo tali livelli di governo possono fornire adeguati «servizi reali» alle imprese, dalla formazione professionale, manageriale e imprenditoriale, alla infrastrutturazione del territorio, alle reti di approvvigionamento idrico, energetico ecc, ai sistemi integrati di trasporto e di comunicazione, al cablaggio e all'informatizzazione, ai servizi di disinquinamento. Un ruolo attivo della dimensione regionale che non esclude ma anzi richiede un rafforzamento dei poteri di direzione dello Stato centrale; un'azione non uniformizzante ma unificante, una funzione che spinga i vari poteri e livelli di governo a fare sistema (vedi il libro di De Michelis e Sacconi «Dialogo a Nordest» che sembra muoversi proprio in questa direzione). Le variabili ambientali costituiscono ormai fattori esterni all'impresa, strettamente dipendenti dal territorio in cui essa opera, sia sotto il profilo della sua infrastrutturazione che con riferimento ai valori culturali in esso radicati. Non a caso si parla in proposito di regionalismo economico. Basti pensare, per esempio, allo sviluppo del Galles, di importanti zone dell'Irlanda, della regione del Reno settentrionale e di quella del Rodano, della regione catalana, dell'area di Tolosa, oppure in altri continenti della regione-Stato di Singapore, della regione di Osaka, della Silicon Valley, di San Diego, eccetera.
Gli Stati «regionali» tendono ad essere il modello comune verso il quale convergono sempre più sia gli Stati unitari, sia gli Stati federali. I processi di regionalizzazione sono infatti paralleli a quelli di sempre più intesa unificazione che subiscono da tempo gli Stati federali (Germania e Stati Uniti tra questi). (Modello regionale che oltre alla Spagna si va affermando anche in Olanda, Portogallo, nella stessa Francia con la riforma del 2003, nel Regno Unito con la «devolution» dei poteri alla Scozia e al Galles). Per questo, al di là delle dispute nominalistiche, dovremmo rivalutare il modello dello Stato regionale che per lungo tempo è stato previsto dalla sola Costituzione italiana.
Alla luce di questa riflessione si possono enucleare alcune proposte concrete di modifica del titolo V.
Occorrerebbe partire dall'articolo 114 per eliminare l'assurda espressione del primo comma che mette sullo stesso piano il più piccolo comune con lo Stato (la Repubblica non «si riparte», come nel Pag. 97vecchio articolo 114 ma «è costituita» dagli stessi enti cui si aggiungono le città metropolitane e lo Stato).
Un'espressione che richiama un «processo costituente» di cui sarebbero protagonisti gli enti in questione. Ma chi è il soggetto che stipula il «foedus»? Le regioni? Le comunità infraregionali? Entrambe? E chi rappresenta le comunità che si federerebbero? In ogni caso lo Stato centrale - ci dice la storia - può essere il frutto del «foedus», non - come paradossalmente nel testo attuale - uno dei soggetti contraenti!
Si tratterebbe di un ben strano «foedus» tra collettività «autonome» e lo Stato che autonomo non è (rispetto a chi, del resto, dovrebbe rivendicare autonomia?). Si vuole distinguere tra «Stato ordinamento»e «Stato comunità», fra «Stato comunità» e «Stato apparato»? Ma allora che senso ha, in tale formula, la giustapposizione dello «Stato apparato» alle comunità territoriali, regionali e locali? E poi, perché utilizzare un linguaggio cifrato in un documento che deve parlare al popolo in modo alto e chiaro e non solo ai costituzionalisti? È facile per i cittadini distinguere la Repubblica dallo Stato? E poi, ad esempio, il Parlamento sarebbe organo della Repubblica o organo solo dello Stato? In questo caso l'unica organo della Repubblica sarebbe la Corte costituzionale? Non sarebbe proprio il massimo sotto il profilo della teoria democratica).
Ma non voglio insistere più di tanto su questa modifica e farne motivo di scontro. Piuttosto, la modifica del 114 potrebbe essere l'occasione per ripensare il ruolo delle province che molto difficilmente può essere risolto con la legge ordinaria.
Le attuali province in molti casi insistono in confini spesso irrazionali sotto il profilo economico-sociale. Si va dalla provincia di Torino con 315 comuni a quella di Prato con 7, dai quasi 4 milioni della provincia di Roma ai meno di 90 mila della provincia di Isernia. Nel Nord le province sono espressione storica della conquista del Comune sul contado, nel Sud talvolta corrispondono a «regioni naturali» (Capitanata, Irpinia, Salento, ecc.) ma il più delle volte i confini sono stati disegnati dai governi preunitari e unitari per le esigenze di mantenimento dell'ordine pubblico. Esse sono a volte avvertite come un peso dai Comuni, soprattutto dal capoluogo, tollerate come un diaframma dalla Regione, invise ad altri importanti centri della provincia.
I progetti di riforma varati in questi decenni non hanno dato una risposta valida ai problemi di riassetto del territorio limitandosi a sovrapporre una miriade di enti funzionali a ben quattro/cinque livelli generali di governo. Ma il vero problema è il superamento della frammentazione comunale e la riorganizzazione del potere locale. Per quanti sforzi di intelligente collaborazione tra comuni si sono prodotti in questi decenni, peraltro solo in alcune zone del paese, rimane una marcata dissociazione fra dimensione territoriale e processi economico-sociali da governare (comprensori, distretti, patti territoriali). Un dato fa riflettere. I quasi 400 comuni con meno di 2000 abitanti hanno un bilancio pro capite superiore del 25-30 per cento rispetto ai comuni medi, ma godono di servizi pubblici inferiori in media del 30 per cento circa.
Nella definizione di un livello sovracomunale occorre tenere conto delle diverse realtà regionali. Non sono la stessa cosa i grandi comuni delle Puglie e i piccoli comuni della Lombardia. È necessario che il potere locale sia strutturato con la necessaria flessibilità evitando una «reductio ad unum» in contrasto con la complessità dei fenomeni da regolare, ma facendo sì che governo regionale e governo locale costituiscano un sistema unitario di governo, evitando sia miopi chiusure municipalistiche sia paralizzanti neocentralismi regionali.
Per questo formulerei la proposta di scrivere nell'articolo 114: «Con legge regionale, sulla base di parametri fissati con legge dello Stato, possono essere istituite le Province, con compiti di coordinamento e collaborazione fra comuni. Gli organi di amministrazione delle province sono espressi dall'assemblea dei sindaci del Comuni del territorio». Pag. 98
In questo modo si potrebbero evitare le province nelle regioni molto piccole; si potrebbero costruire province flessibili, legate sia ai comuni che alle regioni, mentre oggi sono avvertite come peso per i primi e un diaframma per le seconde; si potrebbero costituire in alternativa alle tante organizzazioni consortili fra comuni e anche in alternativa alle unioni di Comuni grandi e alle stesse comunità montane.
Proposte relative agli articoli 117 e 118.
Ma veniamo alle proposte più importanti, quelle relative all'articolo 117 la cui formulazione ha prodotto i danni più gravi.
La strada mi sembra obbligata: occorre sostituire ad una rigida distribuzione delle materie, ispirata a un «federalismo duale» (anacronistico perché non più attuale in nessun Stato federale) una più moderna e flessibile ripartizione per funzioni ed obiettivi. L'esperienza accumulata dall'approvazione del titolo V dimostra che una rigida separazione alimenta la conflittualità nella vana definizione di fragili ambiti materiali che finiscono per affidare alla giurisprudenza della Corte costituzionale compiti politici innaturali. L'azione della Corte, indubbiamente è stata benemerita e ha corretto le più vistose anomalie del titolo V, ma ha aperto non meno gravi problemi.
Richiamo brevemente le tecniche utilizzate dalla Corte: attraverso il principio di sussidiarietà - che in realtà riguardava la distribuzione delle funzioni amministrative - la Corte ha in parte sopperito alla eliminazione del limite dell'interesse nazionale e all'inserimento tra le materie concorrenti di materie che si sarebbe dovuto inserire tra quelle di competenza esclusiva dello Stato (sentenza n. 303/2003); sempre utilizzando il principio di sussidiarietà si è ritenuta legittima l'assunzione diretta da parte dello Stato nelle materie concorrenti sia di una funzione amministrativa (sentenza n. 37/2004) sia del potere regolamentare (sentenza n. 151/2005); utilizzando il principio di «leale collaborazione» si sono di fatto redistribuite funzioni tra i vari livelli di governo ma talvolta richiedendo «intese cosiddette forti» tra Stato e regioni che portano in caso di disaccordo, alla paralisi del processo decisionale (sentenze nn. 303/2003, 6/2004, 383/2005 in materia di energia, 222/2005 in tema di trasporto locale); in altre occasioni si è apertamente parlato, per escludere o ridimensionare la competenza regionale di «dimensione nazionale» di interessi relativi a determinate materie (sentenza n. 50/2005) o di «materie non frazionabili» (sentenze nn. 388/2004 e 405/2005) o di dimensione «macroeconomica di un intervento» (sentenze nn. 134/2005 e 13/2004); le materie di competenza esclusiva dello Stato sono state trasformate in «materie-valori» in grado di tagliare trasversalmente le competenze regionali (sentenze nn. 282/2002, 407/2002, 232/2005, 272/2004, 259/2004); la clausola di residualità a favore delle regioni è stata fortemente ridimensionata richiedendo, prima di riconoscere una competenza regionale, che si verifichi se un oggetto non previsto negli elenchi dell'articolo 117 possa essere ricondotto entro l'ambito delle materie statali o concorrenti, in ragione degli interessi e delle finalità prevalenti (varie sentenze); è stata ripristinata la categoria delle norme «cedevoli» che lo stato può adottare anche nelle materie di sicura competenza regionale con vigenza temporalmente limitata fino all'intervento del legislatore regionale (varie sentenze).
Questa a volte molto benemerita, azione della Corte ha due limiti gravi: è stata posta in essere da un organo, non legittimato democraticamente il cui compito è quello di giudicare la legittimità delle leggi e non quello di riscrivere - perché di questo in pratica si è trattato - i parametri o addirittura di valutare - invadendo il merito di una legge - la «adeguatezza» di un intervento regionale o statale (perché questo comporta la applicazione del principio di sussidiarietà); non sempre è stato raggiunto l'effetto razionalizzatore, anzi in alcuni casi, si sono aperti nuovi problemi. Ad esempio, avere previsto l'intesa fra Stato e regioni nelle materie ricollocate a livello nazionale in forza del principio di adeguatezza-sussidiarietà Pag. 99ha portato ad accrescere i poteri di veto di Regioni ed enti locali proprio nelle materie in cui più sono coinvolti interessi nazionali (esempio, sentenza n. 4/2004).
Il difetto «competentista» della modifica del titolo V viene necessariamente esaltato nella giurisprudenza della Corte. I margini delle competenze statali e regionali sono così affidati alle avvocature regionali e statali e a sentenze che, proprio perché provocate da casi specifici, non possono non avere uno sguardo di insieme e producono un effetto di «polverizzazione» che rende indecifrabile il quadro delle competenze.
Anche per l'esercizio della funzione amministrativa la distinzione fra la regione che esercita solo funzioni di legislazione e programmazione e gli enti locali che gestiscono l'amministrazione appare più un assunto ideologico (giustificato dalla deteriore tendenza regionale ad accrescere gli apparati) che un criterio di efficienza. La Corte ha superato tale scissione (a partire dalla sentenza n. 303/2003) e ha unificato la funzione legislativa attorno a quella amministrativa. Decisione alquanto discutibile che capovolge la tradizionale unificazione della funzione amministrativa attorno alla funzione legislativa, ma che ci aiuta a considerare superata la rigida distribuzione delle materie a vantaggio di un più flessibile riparto di compiti basato su principi di adeguatezza-sussidiarietà.
Per quanto riguarda il potere regolamentare sottolineo due punti: l'eliminazione delle materie concorrenti potrà evitare la scissione incomprensibile tra potere legislativo affidato in condominio allo Stato e alla regione e potere regolamentare affidato alle sole regioni; va contrastata la lettura di una certa letteratura che vede come conseguenza del giusto riconoscimento di un potere regolamentare ai comuni da parte dell'articolo 117 il superamento del principio di legalità, vale a dire la sottrazione del potere regolamentare locale ai vincoli della legislazione statale e regionale.
Pertanto, le proposte di modifica degli articoli 117 e 118 potrebbero essere le seguenti: eliminare l'elenco delle materie concorrenti (articolo 117, comma 3); al comma 2, integrare l'elenco delle materie statali, anzi - come ho già sottolineato - delle funzioni statali, con quelle relative a: «le grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza»; produzione strategica, trasporto e distribuzione nazionali dell'energia«; »ordinamento della comunicazione«; »ordinamento delle professioni intellettuali«; la previdenza, ivi compresa la previdenza complementare e integrativa»; «l'istruzione universitaria e i programmi strategici per la ricerca scientifica».
Aggiungere una «Supremacy clause», sostituendo il comma 4 con il seguente: «Tutte le altre funzioni non espressamente elencate sono di competenza regionale. Il legislatore statale può intervenire, per l'esercizio delle medesime funzioni, con una propria disciplina allorché lo richieda la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica della Repubblica o lo renda necessario il perseguimento di programmi nazionali. La disciplina può anche essere temporalmente circoscritta ad alcune regioni, fino alla introduzione, in ciascuna regione, di nome legislative regionali».
E dopo si potrebbe aggiungere: «In particolare compete alle regioni la infrastrutturazione del territorio regionale, la mobilità all'interno del territorio, i servizi reali alle imprese, la qualificazione professionale, l'organizzazione dei servizi sociali e sanitari e, fermo restando le norme generali sull'istruzione e l'autonomia delle istituzioni scolastiche, i servizi scolastici».
Aggiungere (in sostituzione della norma di cui al sesto comma dell'articolo 117): «La potestà regolamentare spetta allo Stato o alla regione in relazione alle proprie competenze legislative. I comuni, (le province) e le città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello Pag. 100svolgimento delle funzioni loro attribuite, nel rispetto della legge statale o regionale competente».
Aggiungere (in sostituzione del primo comma dell'articolo 118): «Le funzioni amministrative sono attribuite dalla legge statale o regionale in relazione alla propria competenza. Di norma esse sono attribuite ai comuni (alle province) e alle città metropolitane sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza».
Superare l'ultimo comma dell'articolo 116. Se si prevede la clausola di supremazia come prima descritta, se cioè il legislatore statale può, con flessibilità, in determinate materie, circoscrivere temporalmente e territorialmente l'efficacia delle proprie disposizioni attraverso norme cedevoli, può anche essere superato l'ultimo comma dell'articolo 116, che così formulato (prefigurando cioè forme di autonomia speciale) potrebbe costituire fonte di possibile lesione per l'unità nazionale.
Ovviamente occorre una sede di raccordo tra legislatore statale e legislatori regionali che va individuata con la riforma del bicameralismo e con la disciplina del sistema delle Conferenze.
Pregio della soluzione proposta è quello di consentire la realizzazione delle riforme di settore stabilendo, proprio mentre si scrive ciascuna riforma (e possibilmente si compila anche il testo unico del settore), chi fa che cosa, senza essere costretti da un riparto rigido di materie, capace solo di provocare la moltiplicazione del contenzioso costituzionale.