Camera dei deputati

Vai al contenuto

Sezione di navigazione

Menu di ausilio alla navigazione

Cerca nel sito

MENU DI NAVIGAZIONE PRINCIPALE

Vai al contenuto

Per visualizzare il contenuto multimediale è necessario installare il Flash Player Adobe e abilitare il javascript

Resoconto dell'Assemblea

Vai all'elenco delle sedute >>

XVI LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 146 di lunedì 16 marzo 2009

Pag. 1

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE MAURIZIO LUPI

La seduta comincia alle 11.

ANGELO SALVATORE LOMBARDO, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 12 marzo 2009.
(È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Albonetti, Angelino Alfano, Bergamini, Berlusconi, Bonaiuti, Bossi, Brambilla, Brunetta, Buonfiglio, Carfagna, Casero, Cicchitto, Colucci, Cossiga, Cota, Craxi, Crimi, Crosetto, D'Antoni, Fitto, Frattini, Gelmini, Gibelli, Alberto Giorgetti, Giro, La Russa, Malgieri, Mantovano, Maroni, Martini, Meloni, Miccichè, Prestigiacomo, Rigoni, Roccella, Romani, Ronchi, Rotondi, Soro, Stefani, Tremonti, Urso, Vegas, Vitali e Vito sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
Pertanto i deputati in missione sono complessivamente quarantasette, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

In morte dell'onorevole Olindo Del Donno.

PRESIDENTE. Comunico che è deceduto l'onorevole Olindo Del Donno, già membro della Camera dei deputati dalla VII alla X legislatura.
La Presidenza della Camera ha già fatto pervenire ai familiari le espressioni della più sentita partecipazione al loro dolore, che desidera ora rinnovare anche a nome dell'Assemblea.

Discussione della mozione Franceschini ed altri n. 1-00123 concernente iniziative in merito alla situazione economico-finanziaria degli enti locali (ore 11,06).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Franceschini ed altri n. 1-00123 concernente iniziative in merito alla situazione economico-finanziaria degli enti locali (Vedi l'allegato A - Mozioni).
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi per la discussione della mozione è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).
Avverto che in data odierna sono state presentate le mozioni Donadi ed altri n. 1-00134 e Galletti ed altri n. 1-00135 (Vedi l'allegato A - Mozioni) che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalla mozione all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione.
Saluto gli studenti della scuola elementare «Giuseppe Garibaldi» di Castel Volturno, in provincia di Caserta, e gli alunni della scuola elementare «Federico Fellini» di Roma, che stanno assistendo ai nostri lavori dalle tribune (Applausi). Come sono certo che gli alunni sapranno, stiamo aprendo la prima seduta di questa settimana e siamo in fase di discussione sulle linee generali degli argomenti che saranno trattati nel lavoro dell'Assemblea plenaria di tutta la settimana. Pertanto oggi, lunedì Pag. 2mattina, sono presenti soltanto i deputati che hanno chiesto di intervenire per illustrare le mozioni o per l'intervenire sulle mozioni o sugli altri punti all'ordine del giorno.

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritto a parlare l'onorevole Fontanelli, che illustrerà anche la mozione Franceschini ed altri n. 1-00123, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

PAOLO FONTANELLI. Signor Presidente, come gruppo del Partito Democratico, abbiamo presentato la mozione Franceschini ed altri n. 1-00123 per segnalare ancora una volta la situazione di gravissima emergenza che riguarda la finanza locale. La situazione che ci viene segnalata ogni giorno da moltissimi amministratori locali, sindaci e presidenti di provincia, è di grandissima difficoltà. Si tratta di una situazione che è conosciuta: non è la prima volta che se ne parla. In più occasioni anche in quest'Aula è stata sollecitata e sono stati approvati ordini del giorno che raccoglievano questa preoccupazione sia in relazione alle risorse disponibili, sia in relazione ai meccanismi di attuazione del patto di stabilità interno che rendono spesso difficile, anche laddove vi sono risorse disponibili, la possibilità di utilizzarle e di destinarle ad investimenti.
Su questi temi, lo ripeto, sono stati approvati ordini del giorno e sono stati assunti impegni, anche a larga maggioranza, ma sinora bisogna dire che non vi sono state risposte adeguate e convincenti benché ci si fosse impegnati in questa direzione. Mentre si resta in attesa di risposte, l'allarme è fortemente cresciuto. È cresciuto ancora di più negli ultimi mesi in relazione all'evolversi della crisi economica che produce anche importanti effetti sociali e che implementa e fa crescere da parte dei cittadini una domanda, riguardante la realtà economica e produttiva del territorio, affinché gli interventi delle amministrazioni pubbliche siano più solleciti, più forti e più incisivi.
A fronte di questa domanda, purtroppo, le condizioni e le possibilità di intervento sono estremamente limitate e difficili.
Noi - vogliamo ricordarlo - partiamo da una situazione che proprio negli ultimi mesi ha subito un aggravamento: la difficoltà degli enti locali non è nata ora, se ne parla ormai da anni, ma sicuramente la scelta fatta pochi mesi fa di abolire l'ICI sull'abitazione principale ha rappresentato un elemento di accelerazione di tali difficoltà; un punto di svolta sostanziale che ha completato una politica di totale svuotamento dell'autonomia impositiva degli enti locali e dei comuni in modo particolare.
Dopo quel provvedimento, siamo ormai tornati pienamente e totalmente alla finanza derivata: si sono eliminati quei pochi spazi di autonomia finanziaria che il sistema dei comuni aveva sviluppato a partire dal 1993-1994, cioè dall'introduzione proprio dell'ICI, che era l'unica imposta dinamica che consentiva una reale scelta da parte degli enti locali. Credo che questo sia un fatto che meriti una riflessione: la merita anche guardando alla discussione che stiamo facendo e su quella che inizierà in quest'Aula oggi sui temi del federalismo fiscale, che parte dall'idea del rafforzamento dell'autonomia e anche, conseguentemente, della responsabilità degli enti territoriali nella gestione delle risorse, dal punto di vista delle entrate.
Bisogna ricordare che, a partire dagli anni 1993-1994, quando appunto si è avviata quell'esperienza che era l'ICI come imposta comunale, se andiamo a vedere i dati, dobbiamo registrare come vi sia stato da allora ad oggi un processo assai sensibile e forte, per non dire drastico, di riduzione dei trasferimenti dello Stato ai comuni, mentre non vi è stato un indebolimento o una riduzione degli spazi di responsabilità e di competenze, anzi sono aumentati, in primis per gli effetti delle cosiddette leggi Bassanini, che hanno continuato Pag. 3a operare in questi anni. Le competenze e le funzioni degli enti locali, e dei comuni in modo particolare, sono aumentate, pur in un contesto di riduzione e di diminuzione dei trasferimenti statali. Ciò significa che l'incremento delle risorse necessarie per far fronte a nuove competenze e a nuovi compiti è avvenuto soprattutto sulla base della capacità degli enti locali di attuare una politica seria e rigorosa sul piano delle entrate e di utilizzare in modo dinamico le opportunità e le possibilità che avevano.
Rammento ciò per dire che il punto di svolta rappresentato dall'abolizione dell'ICI merita proprio questa riflessione, perché si è tornati indietro - e in modo profondamente contraddittorio - con l'esigenza che si ripete e si proclama ogni giorno, quando si discute del federalismo e del federalismo fiscale, di rafforzare i poteri e le autonomie, con le loro responsabilità, nelle scelte che riguardano la gestione dei bilanci e l'uso delle risorse.
Cos'è successo concretamente in questi mesi, con l'abolizione dell'ICI sull'abitazione principale? Innanzitutto che quanto aveva promesso il Governo non è stato finora attuato e mantenuto. Si è detto: si abolisce - vi era un impegno elettorale in proposito - questa imposta, però ai comuni sarà integralmente restituito quanto viene meno da tale soppressione. Teniamo conto che già questa scelta era una scelta limitativa, perché l'ICI per i comuni funzionava da elemento fondamentale di sostegno dei flussi di cassa: era certo che nelle due rate annuali quelle risorse entravano, ogni anno crescevano un po' per effetto della dinamica propria di questo tributo e consentivano ai comuni di gestire quindi il loro bilancio con una certa sicurezza o quantomeno con riferimenti e punti certi.
Venendo meno ciò, sono venuti meno i soldi e i punti certi. Si sono aggravate le situazioni dei flussi di cassa, perché molti si sono trovati più in difficoltà e scoperti rispetto ai passaggi che avevano davanti e sicuramente si troveranno senza quegli incrementi di entrata che venivano dalla natura dinamica di questo tributo.
In questo contesto è ancora più grave il fatto che non vi sia ancora alcuna certezza circa la copertura integrale delle risorse venute meno a seguito di quella abolizione.
Ricordo qui i dati, ma il sottosegretario li conosce molto meglio di me: il bilancio della manovra finanziaria prevede una copertura pari a circa 2,6 miliardi di euro; le stime su questa imposta vanno dai 3,2 miliardi di euro circa dell'ANCI a circa 3,8 miliardi dell'ISTAT e poi a quella calcolata dal servizio bilancio del Senato; pertanto si ondeggia su valori molto superiori. La distanza crea oggi un imbarazzo estremamente forte; è certo che per l'anno 2008 si è registrato un incremento di 200 milioni, ma siamo comunque al di sotto, quindi, se esiste questo divario, si apre una situazione di incertezza su come coprire quel «buco». Relativamente all'anno 2009 siamo ora ad un valore pari a 2,6 miliardi di euro, quindi il divario è ancora più grave. Non capiamo come si possa tirare così a lungo l'incertezza su questo versante, quando i comuni sono chiamati ad approvare i bilanci di previsione per il 2009 in questo periodo, senza ben sapere su quali risorse poter contare. Credo che questo elemento generi un allarme che deve essere affrontato immediatamente e con responsabilità da parte di tutti.
Tra l'altro, la nostra preoccupazione deriva dal fatto che sono state assunte alcune iniziative che sanno un po' di beffa - dobbiamo dirlo con molta sincerità - soprattutto, in questo caso, da parte del Ministero dell'economia nell'interpretare le leggi. Signor sottosegretario, lei dice di no, ma è un fatto che (con riferimento alla circolare emanata in questi giorni) nel decreto-legge n. 112 del 2008 fosse chiaramente previsto, a proposito degli assimilati, che nei regolamenti dei Comuni fossero qualificati come tali; non possiamo scoprire ora, a marzo, che così non è e che i comuni devono andare a cercare alcune tra quelle categorie di cittadini che erano state escluse dal pagamento dell'ICI e dire loro che devono pagare l'imposta per il 2008 e per il 2009; infatti, ciò significa intanto che vogliamo accollarci un lavoro Pag. 4aggiuntivo che rappresenta comunque un costo in più, ma significa anche introdurre un elemento che scarica sui comuni una responsabilità che certamente essi non hanno. Dopo aver detto che si era abolita l'ICI sull'abitazione principale per tutte queste categorie, ora si scopre che una parte di queste non è assimilabile e, quindi, devono essere cercate per dire loro di pagare.
Tutto ciò, tra l'altro, era già accaduto a proposito della vicenda legata all'esclusione del calcolo del patto di stabilità interno rispetto alle risorse dovute ad alienazioni, a vendite di partecipazioni del comune e così via. Anche a tale riguardo nei dispositivi approvati, nelle discussioni svoltesi in quest'Aula e nelle proposte emendative, era emersa l'idea di andare incontro a quei comuni che si dicevano più virtuosi per il fatto di attuare una politica di bilancio capace di valorizzare anche le proprie risorse, anche alienando e recuperando risorse utili. A questo segue, poi, un'interpretazione che, in questo senso, è decisamente punitiva e restrittiva. Non riusciamo a capire le ragioni di tali atteggiamenti così negativi e punitivi rispetto al sistema delle autonomie. Tra l'altro, su questo esistono pronunciamenti dell'ANCI e di varie altre associazioni, esiste, cioè, una discussione aperta che, invece, avrebbe bisogno di trovare delle risposte chiare e certe, anche perché altrimenti si alimenta il sospetto che questa nuova circolare - poiché calcola in 400-450 milioni di euro il gettito che, ipoteticamente, potrebbe derivare dal recupero degli assimilati e poiché questi soldi mancano negli stanziamenti previsti - rappresenti un marchingegno che si è cercato per poter superare la défaillance delle risorse mancanti, scaricandola sui comuni e su una parte di quei cittadini e di quelle famiglie che ritenevano di essere esenti dal pagamento dell'ICI sull'abitazione principale.
Credo che su questo vi debba essere grande chiarezza soprattutto con l'obiettivo, la disponibilità e la volontà di dare risposte certe ad una situazione che riguarda la finanza locale, che oggi è segnata da una grande insicurezza che, di fatto, ogni giorno diventa più insostenibile. Teniamo conto che, comunque, oltre questa incertezza legata alla vicenda della mancanza - ancora - di copertura delle risorse dell'ICI sono andati, invece, avanti tagli importanti che riguardano i trasferimenti e che nei prossimi tre anni produrranno un taglio molto consistente in ordine alle risorse dei comuni e delle province.
Ma la domanda che vogliamo porre al Governo, con questa mozione, è la seguente: come pensate di far fronte, nei prossimi anni, a questa situazione? Qualcuno ha detto che questa è una fase transitoria, che arriverà il federalismo fiscale e così risolveremo il problema. Da quello che si è capito finora, al di là di tutta la discussione sui conti, comunque sia l'attuazione del federalismo fiscale arriverà, se tutto va bene, fra quattro o cinque anni o forse anche di più. Pertanto, come si intende coprire e mettere il sistema degli enti locali in una condizione di certezza, per la propria operatività, nei prossimi anni? Con quale livello di autonomia e di responsabilità? Con quali strumenti le autonomie locali possono sviluppare una politica, sia sul versante di responsabilità delle spese, sia sulla responsabilità delle entrate nel rapporto con le loro comunità locali, per far fronte alle domande e alle esigenze che sono presenti? Questa è la domanda che vogliamo porre perché ad essa, finora, non abbiamo ascoltato né sentito alcuna risposta e riteniamo che questo sia il punto fondamentale del malessere attuale, di prospettiva degli amministratori, ed è quello che abbiamo cercato di interpretare con questa nostra mozione.
Inoltre, l'altra questione che poniamo all'attenzione con grande forza è legata alla necessità di rendere più flessibile il patto di stabilità interno per gli enti locali. È un'esigenza che le autonomie pongono da tempo. Riteniamo che oggi sia un'esigenza forte e fondamentale per il Paese per rispondere alla crisi. È stato calcolato dall'ANCI che i residui passivi nei capitoli di investimento dei comuni siano di circa Pag. 530 miliardi. Più realisticamente, si calcola che un leggero allentamento del patto potrebbe mettere in campo, immediatamente, dai 4 ai 5 miliardi di euro di investimenti in tantissime opere piccole, non grandi, con un massimo di 300 mila euro di investimento, utili a rilanciare l'economia oltre che a rispondere ai bisogni delle comunità locali. Crediamo che a ciò si debba dare una risposta. Ci sembra che anche le sollecitazioni che vengono dalla Confindustria, dall'ANCE (l'associazione dei costruttori edili), oltre che dall'associazione delle autonomie, vadano esattamente in questa direzione. Pensiamo che su questo punto vi debba essere, in un certo senso, una volontà di attuare davvero un cambiamento concreto.
Finora abbiamo sentito tante parole di impegno, anche alcune un po' forti. Ricordo che il leader della Lega Nord, Bossi, ha parlato pochi giorni fa, probabilmente interpretando il malessere dei sindaci del nord, della necessità di sforare e sfondare i limiti del patto, invitando a non rispettarne le regole. È singolare che da un rappresentante così importante della maggioranza e del Governo venga un'affermazione di questo genere. Allo stesso modo in tantissimi comuni del Veneto, di qualsiasi colore politico siano (maggioranze di centrodestra o di centrosinistra), vi è stata un'approvazione, diffusa e unanime, di ordini del giorno perché sia concesso il 20 per cento dell'IRPEF sul territorio a quei comuni. Ciò è sintomatico di un grande malessere che deriva soprattutto da questa grande incertezza, dalla sordità rispetto al non voler ascoltare le richieste, le proposte e le sollecitazioni che vengono dal mondo delle autonomie.
Quindi, quello che vi chiediamo è di cercare di essere meno sordi e di cercare di ragionare su queste cose. Le nostre proposte sono concrete e quelle contenute nella mozione sono estremamente ragionevoli. Non ci sembra nemmeno che si tratti di proposte isolate perché sono molto vicine a quelle di un'associazione come l'ANCI, che è, come sappiamo, rappresentativa di tutte le forze politiche.
Pensiamo, quindi, che si debba dare oggi una risposta. Questa è un'esigenza fondamentale e credo che l'Italia trarrebbe un grande beneficio se riuscissimo a modificare queste indicazioni rendendo più flessibile il Patto. Sicuramente avremmo molti più investimenti, in tempi molto più rapidi rispetto alle grandi opere, che farebbero bene all'economia del Paese e che darebbero anche risposte importanti alle richieste e alle domande delle comunità locali.
In tal senso, con questa mozione chiediamo alla Camera di dare una spinta e un contributo più forti affinché esigenze che già aveva discusso e che già facevano parte di ordini del giorno precedentemente approvati trovino oggi invece risposte concrete nelle scelte e nell'azione del Governo del Paese (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Borghesi, che illustrerà anche la mozione Donadi ed altri n. 1-00134, di cui è cofirmatario.
Ne ha facoltà.

ANTONIO BORGHESI. Signor Presidente, mi si permetta, siccome non mi pare sia stato fatto in quest'Aula, prima di iniziare il mio intervento, di rendere omaggio a chi, 31 anni fa, iniziava nella stessa data di oggi un calvario di 55 giorni e a coloro che nell'adempimento del loro dovere morirono 31 anni fa. Mi riferisco al rapimento di Aldo Moro e all'uccisione dei cinque uomini della scorta avvenuta, per l'appunto, il 16 marzo di 31 anni fa a Roma.
Penso sia doveroso il richiamo, al di là dei giudizi politici che poi si possono dare sulle persone e sulle figure, a chi per il bene comune ha perso la vita. Penso anche a chi è meno noto e meno conosciuto e per questo ne voglio ricordare il nome: Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Cesco (Francesco) Zizzi, Domenico Ricci e Oreste Leonardi, i cinque uomini della scorta che quel giorno, nell'adempimento del loro dovere, persero la vita. Credo sia giusto che in quest'Aula si ricordi anche questo Pag. 6momento drammatico della nostra vita politica. All'epoca non facevo politica e quindi l'ho vissuto da cittadino e l'angoscia di quei giorni credo sia stata l'angoscia di tutti gli italiani. Inoltre, credo anche di poter ricordare che se il terrorismo in Italia fu poi sconfitto ciò avvenne perché ci fu la volontà politica di sconfiggerlo.
Vengo ora al mio intervento; anche l'Italia dei Valori ha ritenuto di presentare una mozione sulla questione degli enti locali perché anche noi nel corso di questa legislatura abbiamo più volte richiamato le problematiche a cui andavano incontro gli enti locali e, in particolare, i comuni via via che si sviluppavano interventi del Governo che alla fine facevano ricadere il peso del taglio della spesa pubblica proprio su questi ultimi.
Lo segnalammo sin dall'inizio, fin dalla sciagurata decisione presa sull'ICI sulla prima casa con tutte le sue conseguenze. Non riesco a capire come, ancora oggi, non ci sia quanto meno il riconoscimento di un errore grave che venne fatto in quel momento e che sta ancora pesando fortemente sulle casse degli enti locali, salvo poi creare, come avviene in questi giorni, effetti che comunque, anche se riporteranno qualche soldo per gli enti locali, avranno costi giganteschi.
Infatti, si dice che il Governo fa marcia indietro sull'ICI: con questa ultima modifica che riguarda le unità immobiliari assimilate alle abitazioni principali sembra ritornare indietro e, quindi, si sostiene che le assimilate non rientrano nelle esenzioni e i comuni intanto incassano dei soldi (si parla di 400 milioni). Tuttavia, ciò ha il solo scopo di evitare allo Stato di dover andare a reperire i soldi necessari per coprire integralmente la perdita di gettito che hanno avuto i comuni.
In realtà, non ci si chiede mai che cosa costerà all'ente pubblico l'aver fatto prima marcia avanti, poi marcia indietro, richiedere nuovamente ai cittadini i soldi, quando qualcuno aveva chiesto il rimborso perché li aveva pagati. Si tratta, cioè, di una situazione di caos indescrivibile. È incredibile e inaccettabile che un Governo, quando prende provvedimenti, non valuti le conseguenze che sono poi costi, a perdere, che finiscono comunque al settore pubblico e alla spesa pubblica. Pertanto, poi si dice che si è risparmiato, ma in realtà i risparmi finiscono con il portare maggiori costi.
Quindi, volevo ricordare che i comuni hanno partecipato più di altri comparti al risanamento della finanza pubblica. Direi che la situazione è critica. Sto prendendo alcuni dati del rapporto IFEL che rivela una progressiva diminuzione di risorse ai comuni: 451 milioni di euro per il 2009 sul contributo ordinario, 800 milioni di ICI non compensata, adesso vediamo se ce ne saranno 400 attraverso questa compensazione indiretta. Inoltre, bisogna capire dove vanno a finire, perché non è che le assimilate ci siano state dappertutto. Ci sono state probabilmente in qualche località turistica, ma non dappertutto. Inoltre, vi si evidenzia una minor corresponsione sul Fondo per le politiche sociali, con tagli del 35 per cento per il 2008 e del 37 per cento per il 2009. Ma mi riferirei soprattutto agli investimenti. C'è stato un taglio di 3 miliardi e mezzo di investimenti per gli enti locali, che erano pronti spesso con interventi cantierabili immediatamente.
Sono stupefatto dalla schizofrenia del nostro Presidente del Consiglio. Lo dico perché faccio riferimento anche ad un mio intervento del mese di novembre, quando il Presidente del Consiglio girava per l'Italia parlando di interventi di 80 miliardi di euro per superare la crisi. Oggi è lui che ammette, rispondendo alla presidente della Confindustria, Marcegaglia, che hanno messo 9 miliardi, ma noi pensiamo che siano ancora di meno. Tuttavia, in novembre parlava di 80 miliardi, adesso, in questa rincorsa alle meraviglie, dice che con la prossima misura efficace della casa farà partire subito 60 miliardi di lavoro.
Siamo ancora ad un'altro strabiliante e probabilmente mediaticamente appagante intervento, poi dovrà venirci a dire magari fra qualche mese - così come fa oggi rispetto agli 80 miliardi di soldi veri - a riconoscere che di «veri» lui ne dice 9, anche se secondo noi sono sempre quei 5 che furono inseriti nel pacchetto delle Pag. 7misure anti-crisi. Infatti, gli altri in realtà c'erano già e sono stati rigirati. Quindi, dire che sono nuovi fa un po' ridere. Eppure - lo ribadisco - il taglio di 3 miliardi e mezzo di euro nel bilancio dello Stato - quindi, in legge finanziaria - sulle infrastrutture e sugli interventi in conto capitale dei comuni è disastroso.
Quelli sì erano interventi capaci di tamponare la situazione di crisi del nostro Paese, perché erano immediatamente spendibili, altro che i 16 miliardi di grandi opere in sei mesi. Fa realmente ridere perché se qualcuno va a prendere e ad analizzare bene i fondi disponibili scopre che per il 2009 c'era circa un miliardo e mezzo di euro e in preallocazione alle Ferrovie dello Stato è stato dato un miliardo e 440 milioni di euro: allora, cosa resta sul 2009? Si è mai visto che si facciano partire delle grandi opere senza un centesimo in tasca?
Allora sarebbe stato meglio invece - e possiamo farlo se il Governo ha la volontà politica di farlo - permettere agli enti locali, naturalmente a quelli virtuosi, di riprendere la strada degli investimenti. Non so se qualcuno ha avuto modo di seguire una certa trasmissione di inchiesta, dove si è andato a guardare cosa è stato fatto a Catania da un sindaco, che per premio oggi siede tra i banchi di questo Parlamento, dopo aver dilapidato 850 milioni di euro per opere mai finite ed inutilizzabili; dopodiché si è dovuto fare un regalo di 140 milioni di euro qualche mese fa. Adesso si parla di altri regali ad altri e certo bisognerebbe che la Lega ci spiegasse alcune questioni, visto che credo sia determinante nel fare questi regali a certi comuni e a certi enti; compreso l'ultimo della settimana scorsa con l'istituzione della città metropolitana di Reggio Calabria, che non si capisce bene a quale scopo sia finalizzata, se non a un atto di prostituzione politica. Ad una città di 180 mila abitanti, che certo non ha da svolgere compiti di area vasta, si regala l'istituzione della città metropolitana, probabilmente con l'intento e l'idea che quando sarà istituita la città metropolitana affluiranno fondi, ed intanto lo Stato continuerà a trasferire fondi alle province, cosa che è nell'ordine delle possibilità, visto che è successo spesso e c'è sempre un «milleproroghe» che permette di tirare avanti. Queste sono altre questioni, ne parleremo a proposito del disegno di legge sul federalismo tra poco e capiremo se Reggio Calabria città metropolitana ha un senso rispetto a questo tipo di problemi, considerando che ci sono almeno una decina di città che avrebbero titolo per avere lo stesso tipo di trattamento di Reggio Calabria. Noi preferiamo abolirle le province e lavoreremo e ci batteremo perché le province siano completamente abolite.
Ma andiamo avanti su questa questione che riguarda soprattutto i comuni. È chiaro che i comuni con la manovra finanziaria per il 2009 hanno visto una richiesta inaudita e insostenibile, perché parliamo complessivamente, tra comuni e province, di 1.650 milioni nel 2009, di 2.900 milioni nel 2010, di 5.140 milioni nel 2011. È quindi evidente che siamo di fronte a delle richieste che non hanno nessuna, dico nessuna, possibilità di essere sostenute, considerato anche che tra il 2004 e il 2007 i comuni sono passati da un deficit di 3.689 milioni ad un avanzo di 325, quindi hanno già avviato un percorso virtuoso.
I comuni lanciano degli appelli e chiedono che sia consentito l'utilizzo immediato, in deroga alle regole del Patto di stabilità interno, dei residui passivi ad esempio per le spese in conto capitale; chiedono che sia consentito l'utilizzo di avanzi di amministrazione per le spese in conto capitale; chiedono di incentivare l'utilizzo del patrimonio immobiliare per sostenere la spesa in conto capitale ed abbattere il debito.
Chiedono altresì la garanzia della stabilità delle entrate comunali, con la compensazione dei tagli ai trasferimenti e della mancata integrale copertura di tagli dell'ICI.
Ora ci troviamo di fronte al fatto che Paesi nostri concorrenti hanno intrapreso una strada opposta alla nostra perché con la legge finanziaria noi abbiamo tagliato 3 miliardi e mezzo di euro per le spese in Pag. 8conto capitale degli enti locali, mentre la Germania ha stanziato prestiti di 4 miliardi ai comuni per il finanziamento di investimenti infrastrutturali, la Spagna ha destinato 10 miliardi per programmi di edilizia popolare e la Francia ha stanziato 10 miliardi per l'ammodernamento di infrastrutture. Noi, invece, abbiamo tolto risorse agli enti locali, però c'è la strabiliante misura annunciata dal Presidente del Consiglio che metterà in movimento 60 miliardi di euro, magari per distruggere qualche parte del nostro territorio, in particolare quella più turistica che già ha sofferto e soffre continuamente. Per quello che mi riguarda, vivendo vicino al Lago di Garda ci sono dei comuni che hanno devastato completamente il territorio, adesso probabilmente a chi ha qualche casa lì si consentirà un'ulteriore devastazione e non credo che i comuni guadagneranno molto da un effetto di questo tipo.
Non mi dilungo oltre, ma vorrei ricordare gli impegni che chiediamo al Governo con la nostra mozione. Innanzitutto, la definizione di un Patto di stabilità territoriale che abbia l'obiettivo di premiare gli enti virtuosi e sostenere gli investimenti; naturalmente, chiediamo che questi interventi siano limitati agli enti virtuosi, non a quelli che hanno fatto e fanno esattamente il contrario, come Catania, con gli 850 milioni di euro sprecati per lavori mai ultimati e inutilizzati.
In secondo luogo, chiediamo una modifica delle regole del Patto di stabilità per permettere agli enti virtuosi di effettuare investimenti e di accelerare i pagamenti delle opere e dei servizi in corso. Non dimentichiamo che pagare i debiti significa permettere alle imprese di sopravvivere di fronte alla crisi, altro che i 60 miliardi di un nuovo sacco edilizio nel nostro Paese! Facciamo in modo che ciò avvenga: noi abbiamo fornito suggerimenti anche su questo, attraverso la Cassa depositi e prestiti, del modo in cui si potrebbe immediatamente consentire ai creditori delle pubbliche amministrazioni, che sono imprese che spesso vedono in quegli importi la loro stessa ragione di sopravvivenza, di salvarsi di fronte alla crisi in atto. Quindi, chiediamo al Governo di modificare le regole del Patto di stabilità, di garantire comunque l'integrale copertura del minor gettito derivante dall'abolizione dell'ICI sulla prima casa e di applicare il comma 8 dell'articolo 77-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 nel senso che le risorse originate dalle cessioni di azioni o quote di società operanti nel settore dei servizi pubblici locali, dalla distribuzione dei dividendi determinati da operazioni straordinarie poste in essere dalle predette società e dalla vendita del patrimonio immobiliare siano escluse solamente dalla base di calcolo del 2007.
Chiediamo altresì di escludere dai saldi utili del Patto di stabilità interno i pagamenti a residui concernenti spese per investimenti effettuati nei limiti delle disponibilità di cassa a fronte di impegni regolarmente assunti ai sensi dell'articolo 183 del Testo unico degli enti locali, consentendo così agli stessi di deliberare il mantenimento degli equilibri di bilancio in sede sia di salvaguardia sia di assestamento per il 2008, rispettando in tal modo il Patto di stabilità e i pagamenti programmati. Infine, chiediamo di adottare iniziative per consentire l'utilizzo degli avanzi di amministrazione per le spese in conto capitale e, in particolare, per i lavori di medio importo realizzabili nel 2009. Invitiamo davvero il Governo ad andare al di là delle dichiarazioni roboanti del Presidente del Consiglio e ad intervenire prima che sia troppo tardi.
Non serve, infatti, mettere la testa nella sabbia e nascondersi dietro ad una crisi che, nel nostro Paese, ancora non ha esplicato gli effetti peggiori. Questi ultimi, infatti, si verificheranno nei prossimi mesi in termini di perdita del posto di lavoro per chi aveva un lavoro regolare e per chi, soprattutto, aveva un lavoro precario e non riceverà alcuna copertura con gli ammortizzatori sociali. A tal proposito, permettetemi di dire che, passare dal 10 al 20 per cento, come ha fatto il Governo l'altro giorno, è una misura che francamente appare del tutto insufficiente ed incapace di fronteggiare una crisi che è Pag. 9davvero grave e che, avvitando sul mercato interno l'incapacità di sostenere le spese dei cittadini e il loro potere di acquisto, rischia di trascinare il Paese in una crisi senza fine.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Tassone, che illustrerà anche la mozione Galletti ed altri n. 1-00135, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

MARIO TASSONE. Signor Presidente, vorrei fare anch'io un riferimento alla giornata di oggi, in quanto trentuno anni fa veniva massacrata la scorta di Aldo Moro e sequestrato lo stesso Aldo Moro. Si è trattato di un momento tragico per la nostra democrazia e ho vividi ricordi di quella giornata in Parlamento. In quel momento, sembrava che tutto fosse messo in discussione: gli equilibri istituzionali e la storia democratica e civile del nostro Paese. Rimane, quindi, un ricordo tragico; si conferma in questo momento la solidarietà alle famiglie delle vittime, ma si deve confermare ancora oggi anche la grande volontà di difendere la democrazia nel nostro Paese.
Ritengo, signor Presidente, che la discussione sulle mozioni presentate non è tecnica e non riguarda il fatto di avere a favore dei comuni qualche elemento in più in termini positivi, o qualche risorsa in meno. Bisogna capire, invece, se l'impegno che anima la nostra azione e soprattutto la nostra volontà è diretto al rafforzamento della democrazia, della partecipazione dei cittadini. Quando si ricordano avvenimenti tragici o positivi del passato non vi è dubbio che il ricordo non è semplicemente un infingimento o un riferimento rituale, ma è un ricordo volto a dare forza e linfa al nostro impegno, al nostro agire nel tempo che ci è dato di vivere.
Quindi, i comuni sono un momento di riferimento importante di questa democrazia e noi lo diciamo con estrema chiarezza. Veniamo da una storia e soprattutto da un agire sul piano politico che trovava e trova nei comuni un momento di riferimento importante, ovvero il dato più immediato e più diretto di collegamento e di raccordo con i cittadini rispetto agli impatti più urgenti e le esigenze più vive e più immediate. Il rapporto con le istituzioni, infatti, avviene attraverso le autonomie locali e ciò rappresenta la grande lezione di Luigi Sturzo e il nostro modo di essere nella storia del nostro Paese.
Quindi, quando chiediamo un riconoscimento nei confronti dei comuni e soprattutto un'agibilità degli stessi, non è semplicemente una rivendicazione occasionale e circostanziata, ma è certamente, per quanto ci riguarda, una scelta politica forte che trova nel Governo, ma prima ancora soprattutto nel Parlamento, un momento di riferimento fondamentale e decisivo.
Signor Presidente, ecco perché noi, in questa nostra mozione, firmata da molti colleghi del mio gruppo, riproponiamo in termini seri il ruolo dei comuni, che si può espandere e realizzare se vi sono risorse e disponibilità per fronteggiare, come dicevo poc'anzi, le esigenze e le richieste più immediate e vere dei cittadini.
Aver attribuito ai comuni ruoli importanti e decisivi, per quanto riguarda la politica del territorio, e la gestione di servizi importanti e fondamentali, deve far capire che i comuni devono essere valorizzati nella misura in cui si esplicita un virtuosismo nell'agire dei comuni stessi.
Signor Presidente, non vogliamo qui sottacere le difficoltà dei comuni, il virtuosismo di moltissimi comuni e il lassismo di altri. La difesa non è generalizzata, acritica: non faremmo politica e giustizia nei confronti dei cittadini destinatari dei servizi. Ecco perché bisogna riprendere ciò che fu, un riferimento di politica relativamente recente in favore dei comuni. Intendo fare riferimento alla legge n. 142 del 1990, che fu innovativa per quanto riguarda la politica dei comuni.
Chi non ricorda la legge n. 142 del 1990 per quanto riguarda i servizi, le unioni di comuni, le associazioni di comuni? È un leitmotiv, che poi è continuato progressivamente anche in tutte le legislazioni e le norme che abbiamo avuto modo di discutere e di approvare. Ritengo che questo sia un dato importante, ma sarebbe Pag. 10una manchevolezza, anche per quanto riguarda la nostra storia, se non capissimo e cogliessimo lo stato di difficoltà dei comuni.
Molte volte, sotto la spinta delle innovazioni, abbiamo dato scarsa attenzione ai comuni, ma abbiamo creato difficoltà per quanto riguarda la gestione degli stessi. Signor Presidente, stiamo parlando di spesa e di risorse a favore dei comuni, di tributi, di risorse venute meno, e ovviamente di buona amministrazione. Non si può discutere una serie di mozioni sulle autonomie locali, senza fare riferimento al passato e alla situazione di difficoltà di molti comuni.
Ho sempre detto - e l'ho ripetuto anche in questa Aula - che ho qualche difficoltà a capire e comprendere e quindi a giustificare l'inesistenza del controllo. Prima nei confronti dei comuni vi erano le Giunte provinciali amministrative, che poi sono state superate e sostituite dai Comitati regionali di controllo (Co.Re.Co.). In seguito, sono stati superati anche i Co.Re.Co. con l'autocontrollo. Credo che questo dato e questo aspetto non venga fuori nelle discussioni, perché parlare di ciò significa creare un restringimento nell'agibilità e nell'autonomia dei comuni. Ritengo che questo aspetto abbia creato difficoltà economiche, ma soprattutto abbia dato scarsa certezza e creato problemi nella gestione e nell'amministrazione dei comuni.
Ritengo che questi temi e questi problemi dovrebbero tornare ad essere discussi e affrontati. Abbiamo agito con civetteria per quanto riguarda i comuni, con la possibilità che essi nominassero i direttori generali, e abbiamo sempre più offuscato, diminuito, contratto e compresso la figura del segretario comunale, struttura ed istituzione terza, che assicurava la legittimità degli atti, ma, soprattutto, rappresentava una garanzia per quanto riguarda gli amministratori.
Mi rivolgo a chi, in quest'Aula, ha ricoperto il ruolo di sindaco o di presidente della provincia: queste cose le dobbiamo dire, perché non vi è dubbio che problemi ci sono stati e ci saranno rispetto al buon agire dei comuni, e mi riferisco alle risorse che sono importanti e fondamentali, ma il problema vero che riguarda i comuni, come tanti altri enti (le province, le regioni, lo Stato), è la buona gestione delle risorse stesse e il loro buon impiego, altrimenti queste mozioni avrebbero il sapore di una pura e semplice rivendicazione. Parliamo, ovviamente, di rivendicazione. Per quanto riguarda l'ICI, il suo venir meno ha sottratto ai comuni la possibilità di muoversi e di agire in ordine ad alcuni servizi fondamentali (lo diciamo con estrema chiarezza). Abbiamo fatto riferimento, in questa mozione, al DPEF, che certamente ha aggravato la situazione anche dei comuni stessi.
Abbiamo parlato del decreto-legge n. 112 del 2008, con questa situazione schizofrenica venuta fuori per quanto riguarda l'articolo 77, che crea un'ulteriore penalizzazione dei comuni, quando, sul Patto di stabilità, non si escludono le dismissioni, gli introiti, i redditi e le rendite da parte di società.
Certo, vi è la difficoltà di capire perché questa differenziazione rispetto al 2007, che aveva anche registrato aspetti positivi nel bilancio per quanto riguarda i comuni, e, invece, una diversa situazione, un diverso atteggiamento e una diversa politica, riferita ai provvedimenti da parte del Governo, per gli anni 2008-2011, sempre con riferimento al Patto di stabilità.
Crediamo che vi sia una situazione veramente di grande difficoltà rispetto ad una legislazione non chiara, che si diversifica volta per volta e crea una commistione tra comuni virtuosi e comuni che hanno agito non in termini oculati e seri.
Oggi pomeriggio discuteremo anche del disegno di legge sul federalismo fiscale e questo argomento, questo tema non può essere scisso e diviso da tutto un contesto di politica generale che riguarda l'assetto istituzionale all'interno del nostro Paese.
Signor Presidente, ritengo che temi e problemi che riguardano questa realtà debbano trovare un qualche riscontro. Capisco cosa possano significare le mozioni, che sono sempre atti di indirizzo parlamentare; certamente, il Governo risponderà Pag. 11e dirà qual è il suo indirizzo e la sua opinione rispetto alle mozioni presentate, compresa la nostra (il collega Vegas lo farà con la sua solita sensibilità), ma questo non è un problema o un tema che riguarda la nostra o un'altra opposizione. Ritengo che questo sia un problema che riguarda tutti quanti, tutte le forze politiche dislocate sul territorio e, soprattutto, in queste Aule parlamentari.
Ritengo che vi sia una volontà da verificare e da registrare, altrimenti parliamo di autonomie, e, soprattutto, attribuiamo ai comuni, molte volte, incombenze e ruoli che non riescono a sostenere e fronteggiare per difficoltà e scarsità di risorse a disposizione.
Signor Presidente, ho cercato di illustrare questa mozione. Vi è poi un dispositivo, che fa riferimento a cose contenute anche nelle altre mozioni presentate dai colleghi. Sono cose che il Governo sa meglio di noi: la questione dell'ICI, dei servizi, del DPEF, della legge di bilancio, della legge finanziaria, di tutti questi provvedimenti che, certamente, non vanno nella direzione di una politica corretta nei confronti dell'amministrazione locale.
Lo ripeto ancora una volta, a costo di passare per ripetitivo: non vogliamo salvare le amministrazioni non virtuose. Questo non è punto su cui ci fissiamo, non è questo il punto! Bisogna però agire, anche con atti politici, con testimonianze e con indirizzi forti, affinché le buone gestioni abbiano un certo riconoscimento. Perché sottrarre al patto di stabilità le dismissioni di immobili, le possibilità di investimento in termini produttivi? Perché sottrarle ai comuni, che hanno la possibilità di fare e di non fare, e quindi livellarle, comprimerle rispetto ad un tetto che era stato per alcuni versi superato, relativamente ad un dibattito parlamentare che poi dovrà essere riaffrontato in seguito ad una rivisitazione delle decisioni da parte del Governo?
E vi è una situazione nei comuni del Mezzogiorno, nei comuni della mia regione, certo drammatica: i problemi sono accompagnati anche dagli ultimi fenomeni meteorologici che hanno piegato e messo in ginocchio molte realtà comunali. Questo dibattito si inserisce nell'attualità, affinché le spese, gli obiettivi siano tranquillamente perseguiti e raggiunti, attraverso una politica forte, ma non una politica di compressione e di diminuzione. Chi fa oggi l'amministratore comunale e il sindaco di un piccolo comune, signor Presidente e signor sottosegretario, si trova a fronteggiare giorno per giorno grandi questioni, e a fare una corsa ad ostacoli. Ho grande stima per i sindaci dei piccoli comuni; i grandi comuni possono risolvere i loro problemi. Si ricordava Catania, ma ritengo che tante altre città potrebbero averne contezza: quando c'è un movimento di risorse, anche elettorali, si risolvono anche quei problemi, ma certamente questo non è un messaggio di serenità che può comprendere e coinvolgere anche i piccoli comuni, a cui si chiedono gravi sacrifici.
Ritengo che il problema della certezza e della giustizia sia insito in questi problemi. Ecco perché ho evitato, signor Presidente, di fare un discorso su un piano tecnicistico, facendo un elenco delle risorse mancanti e delle risorse che i comuni dovrebbero avere.
In questo senso noi desideriamo che questo confronto si svolga, certamente in modo sereno, e che ci venga detto chiaramente, da parte del Governo, qual è la sua posizione. Beninteso (e ho finito, signor Presidente), non è un problema di questo Governo, non è un problema soltanto di questa maggioranza: abbiamo vissuto esperienze in cui ci si riferiva ai comuni in termini un po' vari, modulati, sincopati nella storia di questo Parlamento. Molte volte davamo loro attenzione, e molte altre volte tutto ricadeva e ripiombava nell'oblio e nel dimenticatoio. Ritengo che questa sia invece una politica di democrazia, di partecipazione; e la sfida è quindi dare possibilità agli amministratori di essere se stessi, e di poter sfidare i tempi nuovi: crediamo ai tempi nuovi e alla forza di un impegno forte, che deve nascere sotto la spinta del Parlamento, delle libere istituzioni democratiche, che bisogna rafforzare e non indebolire all'interno nostro Paese.

Pag. 12

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole De Micheli. Ne ha facoltà.

PAOLA DE MICHELI. Signor Presidente, a nome del Partito Democratico ricordo con commozione il 16 marzo 1978. Ero solo una bambina, ma oggi quelli della mia generazione sanno bene che possono vivere in un paese democratico anche e soprattutto per l'eroico sacrificio di Aldo Moro e della sua scorta.
Venendo, invece, ora alla mozione in discussione presentata dal Partito Democratico, oltre al quadro di insieme già presentato dai colleghi che mi hanno preceduto, mi sembra sia necessario riproporre alcuni dati di fondo.
In particolar modo, gli enti locali sono ormai in avanzo di oltre 300 milioni di euro e, se pensiamo alla performance che hanno fatto (partivano da un deficit nel 2004 di oltre 3 miliardi e 600 milioni di euro), negli ultimi anni gli enti locali anche su questo fronte hanno sicuramente dimostrato una grande disponibilità.
Ma ci sono altri indicatori che dimostrano quanto gli enti locali abbiano e stiano contribuendo ai conti pubblici italiani, quale per esempio quello dell'efficienza legata al personale (distinguendosi in questo dal resto del comparto pubblico): dal 2004 al 2007 c'è stata una riduzione, da parte dei comuni e delle province, dell'1,2 per cento del personale e questo significativo dato è ulteriormente in incremento per il 2008, mentre le altre amministrazioni dello Stato hanno segnato nello stesso periodo un aumento del 4,1 per cento.
Gli enti locali sono i primi partner nella lotta all'evasione fiscale diretta (quando si tratta ormai di quel poco che il Governo ha lasciato agli enti locali sull'ICI), ma anche indiretta rispetto alle altre amministrazioni dello Stato, con le quali gli enti locali collaborano. Comuni e province rappresentano - ancora nel 2007 - oltre il 50 per cento del totale degli investimenti pubblici, nonostante un significativo calo dell'8 per cento intervenuto dal 2004.
Gli enti locali sono anche - e ancor di più ora, in questo momento di crisi - il primo presidio nella lotta contro la povertà e il progressivo impoverimento del tessuto, soprattutto familiare, nelle nostre città e nei nostri territori.
Quindi quegli 80 miliardi di spesa corrente - che è la cifra imputabile a comuni e province - e gli oltre 18 miliardi di investimenti degli enti locali sono il punto di riferimento economico vero per i cittadini e per gli imprenditori, quella parte dell'economia pubblica che i cittadini toccano con mano tutti i giorni.
Su questi numeri negli ultimi mesi si è scatenato un vero e proprio accanimento: prima il saccheggio dell'ICI, che ci ha riportato ai peggiori meccanismi di finanza derivata, quando tutti in quest'Aula - ed anche fuori, ormai - sappiamo bene che il problema della fiscalità nel nostro Paese risiede all'interno di altre imposte, e non certo sulla tanto vituperata ICI; poi la stesura di un Patto di stabilità cambiato e ricambiato, ogni volta intervenendo in senso sempre più restrittivo.
Mi concentro, quindi, ora su alcuni aspetti. Da un lato, rammento il completo stravolgimento dell'interpretazione del comma 8 dell'articolo 77-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito dalla legge n. 133 del 2008, che particolarmente mi sta a cuore, stravolgimento avvenuto da parte della circolare n. 2 del 27 gennaio 2009 della Ragioneria generale dello Stato.
Il Parlamento, riscrivendo per ben due volte il testo del comma 8, aveva costruito una clausola di salvaguardia per i comuni che nel 2007 (che è l'anno di riferimento del Patto di stabilità) avevano operato azioni virtuose, attraverso alienazioni di beni propri che in questi casi sono andate a coprire, da una parte, i nuovi investimenti già cantierati, spesso già realizzati e, per i più fortunati, in fase di pagamento (ma soprattutto, il ricavato di queste alienazioni aveva abbattuto il debito dei comuni stessi).
La stesura della circolare n. 2, senza entrare naturalmente nei tecnicismi, ha demarcato la linea di una profonda ingiustizia; è come se avesse definito, tra l'altro per circolare e contro il parere di questo Parlamento, che se un comune o una Pag. 13provincia hanno fatto operazioni virtuose e rigorose non vengono premiati, ma vengono mandati fuori dal Patto di stabilità (detto con una battuta, se hai la media dell'otto, io ti boccio).
Infatti la Corte dei conti della Lombardia - rispondendo ad una precisa richiesta di un sindaco che non può essere certo definito un pericoloso sovversivo (visto che è un sindaco che rappresenta la maggioranza che attualmente governa e che ha fama di essere un ottimo sindaco) e rispondendo alla richiesta di interpretazione del comma 8 - ha dato ragione al Parlamento e alla Commissione che ancora prima si era occupata di questo argomento.
Ricordo, ancora, lo scandaloso blocco, di fatto, dei pagamenti prima, e dei nuovi investimenti poi, anche con la possibilità di utilizzo degli avanzi di amministrazione. Da settembre ad oggi, abbiamo elaborato, non solo come opposizione, tante proposte per risolvere entrambi i problemi per due ragioni fondamentali. La prima, perché gli enti locali vogliono pagare i loro debiti, perché hanno i soldi in cassa, e perché ciò è dirimente per il sistema delle imprese italiane. Ma in quale Paese civile lo Stato impedisce ai suoi enti locali di pagare i propri debiti?
La seconda ragione, riguarda gli investimenti. Lo abbiamo detto, ribadito, e non mi stancherò mai di ripeterlo, vivendolo quotidianamente nella mia attività di assessore: gli enti locali sono il vero motore del movimento anticiclico del Paese, perché affrontano investimenti necessari, utili e immediati. O il Governo capisce che la copertura per lo sblocco dei residui passivi, degli avanzi di amministrazione e dei nuovi investimenti degli enti locali aiutano i due indicatori critici del bilancio pubblico in questa stagione, o si è completamente fuori strada. Infatti, liberare gli enti locali da queste catene consentirà principalmente di muovere il prodotto interno lordo e le entrate pubbliche, che sono le voci fondamentali del nostro bilancio, che in questa stagione di crisi, sono in caduta libera.
Dopo tanto battagliare su questi principi, a partire dal giugno del 2008, anche importanti attori dell'economia nazionale riconoscono la strategicità di questa posizione: la Confindustria, gli artigiani, l'ANCI.
Ancora alcune considerazioni finali, signor Presidente. Perché mettete le mani nelle tasche degli enti locali che hanno già dato, e lo dimostrano i numeri particolarmente eloquenti, e non intervenite, invece, con un po' di coraggio, sulla spesa corrente del resto della pubblica amministrazione che ha molti più problemi; forse perché ci vuole troppo coraggio?
La revisione della spesa pubblica, come gli enti locali hanno già fatto per la loro spesa corrente negli ultimi quattro anni, è la prima chiave di volta per dare una copertura finanziaria alle nostre richieste.
In secondo luogo, questa non è solo una difesa degli enti locali, ma è una difesa del meglio del sistema Italia sul quale voi stessi, a parole - il Governo, la maggioranza - dite di volere investire attraverso le norme del federalismo fiscale. Bene, allora, questa è una grande occasione che si presenta e non ci si può certo nascondere solo dietro al rigore dei conti, perché tanto più si lasceranno gli enti locali liberi di operare sui fronti dei pagamenti e degli investimenti, tanto più il bilancio pubblico, avrà un ritorno in termini di entrate e di prodotto interno lordo, per il bene dei cittadini e degli imprenditori che sono la spina dorsale dell'Italia.
Diamoci un po' di serenità, smettetela di dare i numeri, e fate convergere risorse vere, risparmi veri della spesa pubblica, sugli enti locali e su quella miriade di imprese che con il loro faticoso e quotidiano lavoro garantiscono ancora, anche in questi momenti difficili, lo sviluppo del Paese (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Reguzzoni. Ne ha facoltà.

MARCO GIOVANNI REGUZZONI. Signor Presidente, intervengo per dire che vi Pag. 14sono elementi di questa mozione che sono condivisibili, così come ve ne sono altri assolutamente non condivisibili e, per quanto ci riguarda, non accettabili.
È ovvio che condividiamo che si preveda che il patto di stabilità per gli enti locali debba essere, in qualche modo, rimodulato a favore di questi ultimi.
È, altresì, ovvio che condividiamo lo spirito dell'atteggiamento del Governo allorché consenta e favorisca gli investimenti a livello locale, proprio perché gli enti locali che hanno capacità di spesa sono quelli su cui mediamente la crisi economica che attraversa in questo momento il Paese si fa sentire di più; lo condivideremmo, quindi, anche come elemento di calmiere rispetto alla crisi attuale.
Quello che non condividiamo - e che i primi interventi di questa mattina dimostrano essere uno degli obiettivi più importanti della mozione in esame - è la volontà di reintrodurre l'ICI. L'ICI per noi suona come un'imposta ingiusta e sbagliata, che fu pensata proprio per punire il sistema delle autonomie locali e per diffondere nell'opinione pubblica l'idea di un'imposta ingiusta a favore dei comuni. Noi, invece, siamo convinti della positività dell'abolizione dell'ICI sulla prima casa.
Ribadendo quanto dicevo prima, noi abbiamo la volontà di procedere ad una revisione del patto di stabilità, ma pensando ad altri tipi di finanza. La nostra risposta principale non è una mozione, atto che peraltro stiamo pensando di presentare in modo da avere una nostra posizione chiara sull'argomento, che sarà espressa con l'inizio, alle ore 14, del dibattito sulla riforma federalista. È questa la nostra proposta e non si tratta semplicemente di una mozione o di una dichiarazione di principio; si tratta di una revisione importante e sostanziale della finanza pubblica. All'interno della riforma federalista del fisco dovrà poi trovare spazio questa istanza di rimodulazione del patto di stabilità a favore degli enti locali.
Il patto di stabilità - è bene ricordarlo - ha lo scopo di coordinare la finanza degli enti locali con quella dello Stato. Quindi, la parte di stabilità che tocca gli enti locali è residuale rispetto alle decisioni prese a livello centrale, perché il problema non è certamente il deficit del singolo comune, perché è il deficit pubblico che non deve essere superiore al 3 per cento, mentre il debito pubblico dovrebbe essere al sotto al 60 per cento del PIL (obiettivo che il nostro Paese si è prefissato in sede comunitaria).
Su questo aspetto, sottosegretario, Ministro Tremonti, la Lega invita il Governo ad effettuare una riflessione, anche a fronte delle disponibilità che emergono in sede comunitaria per affrontare in maniera diversa la situazione attuale di crisi. Infatti, entrando nei dettagli di ciò l'Unione europea potrebbe concedere, si può pensare di rimodulare il patto di stabilità a favore degli enti locali, certamente senza toccare gli equilibri di bilancio - perché la politica di rigore impostata dal Governo ci trova assolutamente favorevoli -, ma utilizzando le possibilità che l'Unione europea in questa fase potrebbe accordare per eliminare certe anomalie che consentono oggi ai comuni meno virtuosi di spendere di più.
Quindi, noi chiediamo che vi sia una riflessione su questo aspetto. Non posso non rivolgere questo appello al Governo, ma la nostra risposta è che questa riflessione debba avvenire nell'ambito del dibattito ben più importante che si svilupperà tra qualche ora proprio in quest'Aula, il dibattito che mira a rivedere tutto il sistema fiscale attraverso la creazione del federalismo.
Certamente noi non abbiamo gradito una serie di passaggi che sono stati qui ricordati. È chiaro che non fa piacere un trattamento diverso nei confronti del comune di Roma; non fa piacere un ripiano selettivo dei disavanzi pregressi nel settore sanitario di talune regioni del sud; non ci fa piacere l'intervento a Catania; ma questi interventi non ci fanno piacere non perché si tratta di ragioni del Mezzogiorno o del centro Italia, bensì perché premiano atteggiamenti sbagliati di cattiva gestione. Ovviamente non ritengo simpatico sentire parlare di cattiva gestione da chi ha espresso il sindaco del comune di Roma Pag. 15che ha portato ad una situazione di disastro le finanze del comune della capitale. Anche chi continua a fare «il leghista» non si preoccupi, lo rassicuriamo: sappiamo fare noi gli interessi dei nostri territori e da questo punto di vista i voti ci premiano. Quindi, non accettiamo lezioni né di federalismo né di integrità da parte di nessuno.
Riteniamo invece importante, ad esempio, l'azione portata avanti dal sindaco della città di Varese, che, interpellando la Corte dei conti, ha fatto scuola in questo senso, e sempre nella direzione della richiesta di un'applicazione più attenta rispetto alla possibilità di spesa dei comuni virtuosi. Su questo punto chiediamo una riflessione del Governo.
Ritengo che sia giusto che il Governo reperisca le sufficienti risorse finanziarie, anche eventualmente - ripeto l'appello - ripensando la posizione a livello di Unione europea per consentire deroghe ai vincoli del patto di stabilità a favore degli enti locali con bilancio in equilibrio finanziario o in avanzo e che abbiano risorse da destinare alla realizzazione di nuovi investimenti.
Chi vi parla è stato presidente di provincia per molti anni e amministratore per decenni. È comprensibile lo stato di profonda frustrazione di un amministratore che si ritrova ad avere un bilancio a posto, ad aver operato i tagli, ad avere reperito risorse - ad esempio, attraverso il taglio delle auto blu - e poi non può spendere questi soldi, perché lo Stato gli impone di non spenderli perché altri hanno sforato il patto di stabilità e perché altrimenti il sistema complessivo non regge e non funziona. Chiunque si ritrovi ad essere presidente di provincia o sindaco in queste condizioni, è ovvio che dice: signori, sono gli altri che devono tagliare!
È, inoltre, giusto e doveroso che chi ricopre responsabilità di Governo o responsabilità legislative, come noi, imposti un'azione di Governo del territorio affinché appaia chiaro a tutti che chi sbaglia paga e che i comuni virtuosi devono essere premiati.
Ritengo che il Governo in questo senso ascolterà sicuramente le nostre istanze e - ripeto - stiamo valutando l'idea di presentare una mozione sul tema del patto di stabilità e della finanza degli enti locali. Tuttavia, la principale risposta che la Lega Nord Padania intende dare a tale istanza è quella che inizia oggi, alle 14, con il dibattito sulla riforma del federalismo fiscale (Applausi dei deputati dei gruppi Lega Nord Padania e Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Lorenzin. Ne ha facoltà.

BEATRICE LORENZIN. Signor Presidente, abbiamo ascoltato questa mattina le tesi presentate dal Partito Democratico e dall'Unione di Centro sulle mozioni concernenti il patto di stabilità.
Da un'analisi attenta di ciò che è stato detto stamani in questa sede, ritengo che alcune delle posizioni presentate non possono non essere condivisibili quanto alla preoccupazione (che, assicuro, è di tutti noi) di garantire ai comuni - che per la storia che rappresentano per il nostro Paese sono il centro della vita cittadina - la possibilità di avere un'agibilità finanziaria e funzionale e di rispondere in primis ai propri cittadini e, quindi, agli utenti. Nessuno di noi disconosce il ruolo degli enti locali nel nostro Paese, ruolo storico, principe, addirittura in periodo anteriore all'unificazione italiana.
Nell'odierna giornata - non è un caso - mentre stamattina stiamo dibattendo delle mozioni sul patto di stabilità, nel pomeriggio inizieremo un'ampia e articolata discussione per quanto riguarda il federalismo fiscale.
Ho ascoltato con attenzione il collega Fontanelli soprattutto nella parte riguardante l'ICI. Ciò che trovo sinceramente non condivisibile della vostra mozione è l'impostazione della premessa. Voi prendete le mosse dall'assioma che una delle cause principali del malessere delle amministrazioni comunali, oggi, nel nostro Paese è dovuto al fatto di aver abolito l'imposta dell'ICI.
Anzi, ritenete che l'abolizione di questa imposta sia stato un passo indietro nella Pag. 16storia delle amministrazioni comunali, un passo indietro anche rispetto all'evoluzione che si è avuta per quanto riguarda l'autonomia dei nostri comuni, dalla legge n. 142 del 1990, citata prima dall'onorevole Tassone, alla legge n. 241 del 1990, quando invece questa imposta non soltanto ingiusta ma odiosa per i cittadini italiani - infatti si trattava di un'imposta che incideva sulla proprietà principe del risparmio italiano, vale a dire la casa: la casa non dei ricchi, non dei signori come è stata definita da molti esponenti della sinistra, ma la casa dei milioni di piccoli risparmiatori, la casa delle famiglie, la casa di proprietà - è stata utilizzata in questi anni per nascondere sotto il tappeto la polvere di una sempre più frequente cattiva gestione e amministrazione dei bilanci dei comuni e degli enti locali.
Se procediamo ad una valutazione comparata tra il nostro Stato e gli enti locali, non è un caso che osserviamo che, mentre negli anni si è attuato un lavoro per comprimere la spesa e i cosiddetti sprechi, tale spesa e tali sprechi sono lievitati in modo esponenziale negli ultimi decenni proprio laddove doveva esserci il virtuosismo primo, cioè negli enti locali, proprio quelli che garantiscono il front office e, quindi, il rapporto con il cittadino utente.
Quest'ultimo ha registrato un crescente malessere, sempre più forte, nei confronti di un'amministrazione pubblica che, a fronte di una spesa spesso incontrollata, non è stata capace di garantire i servizi primari ed essenziali. Questa è una storia che non ha colore politico: è una storia che è avvenuta nei comuni e nelle amministrazioni gestite, da un lato e sempre più spesso, perché i numeri parlano chiaro, dal centrosinistra.
Potrei portare qui la mia esperienza personale: sono stata per dieci anni amministratore del comune di Roma e ho visto, nel giro di un'unica legislatura, il debito pubblico della città di Roma passare da 5 a 9 miliardi di euro, cioè una manovra finanziaria dello Stato. Ciò in base a quali patti di stabilità è avvenuto? In base a nessun patto. Vi è stata un'incapacità di gestire la cosa pubblica, rimandando alle generazioni successive il peso di un debito, che oggi da qualcuno deve essere pagato e che se non stiamo attenti finirà per essere pagato dai nostri figli, in modo insostenibile. Abbiamo salvato più di una volta amministrazioni dal crack finanziario e qui nessuno ha mai pagato.
Non è che vi è un Governo o una maggioranza che non ha a cuore il futuro delle amministrazioni locali anche perché tutti noi viviamo in comuni, province e regioni, ma vi è uno Stato, una maggioranza e un Governo che si sono assunti una responsabilità molto chiara, cioè quella di dover far tenere un sistema. Il sistema doveva tenere non soltanto nel nostro Paese, ma nei confronti anche di una situazione europea e mondiale che ci pone di fronte a scelte spesso complicate, spesso impopolari, ma necessarie. Scelte necessarie per garantire al nostro Paese, l'Italia, di traghettare questa fase con successo e nel modo migliore possibile.
Ritornando al patto di stabilità, sappiamo che abbiamo due impegni: uno il famoso parametro del 3 per cento, e un altro che ci impegna ad avere un debito pubblico al di sotto del 60 per cento del nostro prodotto interno lordo. Come è stato costruito tale patto di stabilità, tra l'altro inserendolo nel decreto-legge 112 del 2008 e non della manovra finanziaria? È stato costruito seguendo esattamente la strada che è stata fatta negli ultimi anni, non da ultimo dal super grande Ministro Padoa Schioppa, che prevedeva che vi fosse un criterio di competenza mista. Quindi, avevamo da una parte la spesa corrente, che si basava sui saldi e in termini di competenza, e dall'altra parte la spesa in conto capitale, che mirava sempre ad avere l'obiettivo dei saldi e della cassa. Questo metodo - che è stato il metodo seguito dal Governo Prodi - ha aumentato la spesa corrente, come dicevo all'inizio, in modo assolutamente esponenziale.
Noi abbiamo deciso di mantenere per adesso - dico per adesso perché questo è un auspicio che rivolgo anche al Governo - di mantenere questo stesso metodo, per Pag. 17il semplice motivo di non stressare ulteriormente e di non creare ulteriore confusione all'interno delle amministrazioni locali, ma, nello stesso momento, abbiamo deciso anche di non aumentare le tasse. Questa sembra una banalità, ma è poi la discriminante principale che sta muovendo l'azione di questo Governo, cioè quella di non aumentare le tasse, di fare i tagli agli sprechi e di utilizzare questi soldi per ripianare il nostro debito, ma anche per fare quella cosiddetta cassa che ci è servita per gli ammortizzatori sociali da una parte, per il piano casa dall'altra, per la tenuta della situazione bancaria in un'altra fase ancora e per fare in modo che la nostra finanza sia in grado di reggere alla competizione globale.
Per quanto riguarda l'analisi del decreto-legge n. 112 del 2008, crediamo che sicuramente questo provvedimento sul patto di stabilità sia stato molto stretto; ma perché non è stato possibile fare quello che tutti quanti noi vorremmo, cioè che, ad esempio, i comuni che sono stati virtuosi fino adesso e che avevano liquidità, non possano rimettere tale liquidità sul mercato?
Per un semplice motivo che deriva da come è costruita la struttura stessa del patto di stabilità, non soltanto interno, ma anche esterno, e non per la paura, nel momento in cui si presentasse una spesa ulteriore, delle sanzioni che potrebbero essere comminate dall'Europa. Si tratta di un timore legittimo, per carità, ma forse saremmo stati anche pronti ad affrontare delle sanzioni pur di immettere liquidità nelle nostre casse.

PRESIDENTE. Onorevole Lorenzin, la prego di concludere.

BEATRICE LORENZIN. Mi avvio a concludere, signor Presidente. Soprattutto, tutto questo ci faceva correre il rischio, proveniente dalla sanzione, molto più pratico, molto più operativo e molto più cogente derivante dai mercati. Accade che tutte le settimane il nostro Governo va a chiedere titoli per il debito pubblico; oggi ci sono nuovi forti debitori, che sono la Spagna, gli Stati Uniti e la Germania, debitori che fino a ieri non c'erano. La cautela, allora, consiste nel riuscire a mantenerci in grado di prevenire un rischio - lato, vago, che però esiste - di un'ipotesi di default. Questo è il buonsenso che ha guidato fino ad oggi l'azione del nostro Governo.
Mi avvio a concludere dicendo che non siamo in presenza di un Governo cattivo di fronte a comuni buoni, ma esiste un Paese nel quale tutti insieme dobbiamo affrontare la necessità di rivedere il sistema di spesa pubblica, perché altrimenti non saremo in grado di affrontare in modo serio e preciso questa crisi; è un Paese che non può continuamente demandare ad altre istituzioni la risoluzione dei problemi in casa propria. Abbiamo tre sistemi in atto: il primo, è quello del federalismo fiscale che ci avviamo ad approvare nei prossimi giorni e che risponde al principio di responsabilità degli enti locali e a un principio di virtuosismo; il secondo, è la cosiddetta legge Brunetta che ci ha permesso di reinserire il controllo di gestione, quindi di sancire un elemento importantissimo all'interno del nostro sistema di spesa e del modo in cui pubblicamente spendiamo i nostri soldi; infine, abbiamo il patto di stabilità che rimane il nostro parametro.
Ci auguriamo anche noi di poter arrivare tutti insieme ad una mozione condivisa che ci permetta di trovare nuove soluzioni di fronte a problemi così strettamente connessi a questioni reali e poco risolvibili con voli di fantasia.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Misiani. Ne ha facoltà per dieci minuti.

ANTONIO MISIANI. Signor Presidente, la mozione presentata dal Partito Democratico parte da un dato di fatto che credo sia incontrovertibile. Veniamo da mesi di politica del Governo federalista a parole e centralista nei fatti che ha messo i comuni e le province in una condizione di grandissima difficoltà dal punto di vista finanziario. Ciò ha una conseguenza precisa: gli enti locali oggi non sono minimamente in Pag. 18grado di fare la propria parte contro la drammatica crisi economica e sociale che attraversa il nostro Paese.
È un elenco veramente lungo quello dei provvedimenti che dall'inizio della legislatura ad oggi hanno sistematicamente picconato l'autonomia finanziaria dei comuni e delle province: il decreto-legge n. 93 del 2008 ha abolito completamente l'ICI sulla prima casa e ha previsto una compensazione insufficiente del minor gettito dei comuni. La conseguenza è che per il 2009 il bilancio dello Stato stanzia 2,6 miliardi di euro per compensare il minor gettito ICI, ma i comuni avranno minori entrate per circa 3,5 miliardi: mancano all'appello almeno 900 milioni. Il decreto-legge n. 112 del 2008 ha imposto agli enti locali una manovra di rientro molto pesante nel 2009, ma che diventa addirittura insostenibile dal 2010 in avanti, tutto questo nonostante il fatto - ricordato anche dai colleghi che mi hanno preceduto - che i comuni sono in avanzo dal 2007 e le province hanno migliorato sensibilmente i loro indicatori di finanza pubblica. Oltre a questo, il decreto-legge n. 112 del 2008 ha fatto dell'altro, perché ha bloccato completamente l'autonomia impositiva degli enti locali, che pertanto non potranno toccare le loro aliquote (alla faccia del federalismo fiscale!), e ha tagliato ulteriormente, in una notte di Commissione bilancio, i trasferimenti erariali ai comuni e alle province. Andiamo avanti: il decreto-legge n. 154 del 2008 ha legittimato, purtroppo, la finanza ad municipium in questo Paese: 500 milioni di euro regalati al comune di Roma e 140 milioni di euro - è un peccato che non siano presenti i colleghi della Lega - regalati al comune di Catania, nonostante i disastri che ieri ci sono stati raccontati ancora una volta dalla trasmissione Report di RAI 3, che consiglio ai membri della maggioranza e del Governo di andarsi a vedere. Inoltre, la legge finanziaria per il 2009 da una parte ha ratificato quella insostenibile manovra d'estate e dall'altra ha tagliato i fondi per le politiche sociali.
Ma come è possibile? I comuni sono la prima frontiera e la prima istituzione a cui si rivolgono le famiglie che perdono il lavoro e che non hanno reddito e sono in difficoltà e, ciononostante, avete tagliato del 20-30 per cento i fondi per le politiche sociali. Ma che politica anticrisi è questa messa in campo dalla legge finanziaria?
Il decreto-legge n. 185 del 2008 ha completato l'introduzione, in questo Paese, della finanza locale per gli amici degli amici, esentando il comune di Roma dal rispetto del patto di stabilità per il 2009 e il 2010, il tutto con l'aperta complicità della Lega Nord, che è un partito, un movimento che sul territorio, compreso il territorio da cui provengo, si batte o finge di battersi in nome dell'autonomia degli enti locali, dei comuni e delle province, ma a Roma si è sistematicamente accodato di fronte a queste scelte che sono tutto fuorché federaliste. Ma si potrebbe ricordare anche il cosiddetto decreto-legge «milleproroghe», con i soldi erogati al comune di Palermo per tentare di risanare i conti della propria azienda municipalizzata e, dulcis in fundo se così si può dire, ricordo le esternazione della Ragioneria generale dello Stato, ossia del Ministero dell'economia e delle finanze, tra cui la circolare del 27 gennaio 2009 sul patto di stabilità e la risoluzione del 4 marzo 2009 per quanto riguarda l'ICI sulla prima casa. Sono due esternazioni molto pesanti per le conseguenze che provocano alla finanza locale.
La circolare ha dato un'interpretazione iperrestrittiva del comma 8 dell'articolo 77-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, disponendo una norma veramente fuori dal mondo perché in base a questa interpretazione i comuni e le province, dal 2009 in avanti, non potranno conteggiare, ai fini del patto di stabilità interno, le entrate per finanziare gli investimenti derivanti da alienazioni e dividendi straordinari. In altre parole, la manovra di bilancio più virtuosa, che non impatta sull'indebitamento e che non pesa sulla finanza pubblica, ossia il finanziamento degli investimenti con alienazioni patrimoniali, per effetto di questa interpretazione, non ha valore ai fini del patto di stabilità. Dico che siamo alla follia dal punto di Pag. 19vista della corretta gestione degli enti locali, e simile è stata la reazione di migliaia di amministratori locali, di tutti i colori politici, che in queste settimane stanno manifestando. Gli amministratori del Piemonte, nelle prossime ore, arriveranno a manifestare davanti alla prefettura di Torino, incatenandosi. Vi è un movimento di protesta trasversale degli enti locali di cui non si può non tenere conto per effetto di norme che vanno ben al di là dell'obiettivo legittimo di contenere i saldi di finanza pubblica e incidono pesantemente e in modo irrazionale - credo - su quelli che sono gli spazi di autonomia di bilancio degli enti locali.
Questa interpretazione, data dalla Ragioneria generale dello Stato, è un ceffone alla volontà espressa dai legislatori in questa Aula, prima ancora che in Commissione bilancio, durante la discussione della legge finanziaria. Infatti, se andiamo a leggere i resoconti le parole espresse sul comma 8 dell'articolo 77-bis dai deputati di maggioranza e di opposizione sono molto chiare e sono in totale difformità rispetto a quella che è stata poi l'interpretazione del comma 8. Inoltre, la sezione regionale della Corte dei conti per la Lombardia, proprio riprendendo questa volontà manifestata dai legislatori e dai rappresentante del popolo in modo molto chiaro, ha dato infatti ragione al Parlamento (vivaddio) e ha contraddetto l'interpretazione data dalla Ragioneria generale dello Stato alla circolare n. 2 del 27 gennaio 2009.
Fatto sta che in assenza - ed è questo il senso della mozione del Partito Democratico - di un intervento esplicito e formale da parte del Governo il rischio di tutte queste misure, che ho tentato di mettere in fila, è uno solo: gli enti locali, i comuni e le province, per rispettare il patto di stabilità, interno saranno costretti a tagliare pesantemente le spese e le prime ad essere tagliate saranno quelle in conto capitale, ossia gli investimenti. Si deve fare attenzione, perché i comuni e le province, nel 2007, hanno realizzato il 51 per cento degli investimenti pubblici di questo Paese. Stiamo costringendo a tagliare spese in conto capitale a soggetti che sono il cuore della politica degli investimenti pubblici di questo Paese che, infatti, crolleranno. Essi rischiano di crollare se questa politica non cambierà rapidamente. E se le cose rimangono così voi farete esattamente il contrario di quello che sarebbe necessario in una fase di crisi economica, perché il Paese ha bisogno di opere pubbliche immediatamente cantierabili. Non mi riferisco al ponte di Messina, che chissà quando inizierà a diventare un cantiere, ma opere pubbliche piccole, medie, quelle delle aziende dei comuni, denaro fresco nelle casse delle piccole e medie imprese del settore delle costruzioni, che sta vivendo una crisi drammatica.
Gli investimenti dei comuni e delle province sono la risposta più efficace da questo punto di vista, ed è per questo che questa interpretazione del Patto di stabilità e più in generale, questa politica, sono assolutamente controproducenti per il rilancio della nostra economia.
Voi state facendo, in materia di investimenti degli enti locali, esattamente il contrario di quello che stanno facendo gli altri Paesi europei. Ricordo tre esempi: la Spagna, nell'ambito del piano di rilancio dell'economia, ha varato un fondo di 8 miliardi di euro (si tratta del Fondo estatal de inversión local) per aumentare gli investimenti degli enti locali; la Francia due miliardi e mezzo per gli investimenti dei comuni; la Germania, nel secondo pacchetto di stimolo, dieci miliardi di euro per accrescere, e non diminuire, gli investimenti e gli enti locali. L'Italia sta facendo esattamente il contrario: secondo le stime dell'ANCI il combinato disposto della riduzione delle entrate, del blocco dell'autonomia impositiva e di questa interpretazione restrittiva del comma 8, dell'articolo 77-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, provocheranno una riduzione di oltre tre miliardi di euro degli investimenti locali. Spagna: più 8 miliardi; Germania più 10 miliardi; Francia più 2 miliardi e mezzo; Italia: meno 3 miliardi.
Capisco tutte le considerazioni che sono state fatte dai colleghi della maggioranza che mi hanno preceduto per quanto Pag. 20riguarda gli equilibri della finanza pubblica in una fase di crisi, ma mi sembra che questi numeri descrivano una politica assolutamente controproducente anche per gli equilibri di finanza pubblica perché conta il numeratore (il deficit), ma conta anche il denominatore, ossia il prodotto interno lordo che peggiorerà la sua tendenza per effetto di questa politica. Per questi motivi chiediamo al Governo di cambiare rotta.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

ANTONIO MISIANI. Concludo, signor Presidente. Le proposte sono state richiamate dall'onorevole Fontanelli e dall'onorevole De Micheli per quanto riguarda il comma 8, la restituzione integrale dell'ICI, i residui e quant'altro. Chiediamo queste modifiche e questo cambio di rotta per due motivi: il primo, è il federalismo fiscale che iniziamo a discutere alle 14. Discutiamo un disegno di legge a cui sia la maggioranza, sia l'opposizione, hanno dato il loro contributo in uno spirito positivo che riconosciamo volentieri, ma quel disegno di legge rimane un pezzo di carta se non cambia qui e ora la finanza locale. Gli enti locali arrivano morti all'appuntamento con il federalismo fiscale nel 2016-2017, se tutto va bene e le cose non cambiano da subito.

PRESIDENTE. Deve concludere.

ANTONIO MISIANI. Chiediamo di cambiare rotta - è questo il secondo e non certo ultimo motivo in ordine di importanza - in nome della crisi economica. Le risposte di questo Governo alla crisi sono come i carri armati di Mussolini: sono sempre gli stessi che si spostano alla bisogna a beneficio dell'opinione pubblica.
Così non va: bisogna mettere risorse vere (per citare la presidente Marcegaglia) innanzitutto sul terreno degli investimenti degli enti locali, perché la ripresa in questo Paese non può che ripartire dal territorio, dall'Italia delle piccole e medie imprese, dall'Italia dei comuni e delle province che fanno fatica per far quadrare i conti, ma realizzano la gran parte degli investimenti pubblici di questo Paese: opere di manutenzione urbana, per l'ambiente, di infrastrutturazione, edilizia scolastica, un volano vero per la ripresa dell'economia.
Per questo motivi vi chiediamo coraggio, di cambiare passo e di accogliere le nostre proposte (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Saluto gli studenti della scuola elementare Istituto comprensivo di Pratola Peligna in provincia di L'Aquila, che stanno assistendo ai nostri lavori dalle tribune (Applausi).
Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.
Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Nel trentunesimo anniversario del sequestro dell'onorevole Aldo Moro e dell'uccisione degli agenti della sua scorta (ore 12,38).

PRESIDENTE. Molti colleghi hanno ricordato il 16 marzo del 1978: trentuno anni fa il rapimento dell'onorevole Aldo Moro, uno dei più importanti e autorevoli uomini politici che la storia della nostra Repubblica abbia mai avuto e l'assassinio di cinque uomini della scorta.
Voglio anch'io ricordare qui, a nome della Presidenza della Camera, i loro nomi: Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, uomini che al servizio del loro Paese facevano, lontano dalla ribalta, con dedizione e in silenzio, il loro lavoro di servitori dello Stato, vittime della violenza di un'ideologia cieca. A loro e alle loro famiglie va il ricordo della Camera di deputati.
Il loro sacrificio ci ricorda ancora oggi tutti coloro che quotidianamente nel silenzio, con professionalità e passione, garantiscono Pag. 21la nostra sicurezza. Chiedo ai colleghi presenti di osservare un minuto di silenzio (Il Presidente si leva in piedi e, con lui, l'intera Assemblea ed il rappresentante del Governo - L'Assemblea osserva un minuto di silenzio - Generali applausi).

Sull'ordine dei lavori.

ROBERTO GIACHETTI. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ROBERTO GIACHETTI. Signor Presidente, volevo parlare per fatto personale. Non so se questo è il momento nel quale posso approfittare o se debbo aspettare altre sue comunicazioni.

PRESIDENTE. No, onorevole Giachetti, stavo per a sospendere la seduta...

ROBERTO GIACHETTI. Sarò rapidissimo. Volevo parlare a titolo personale perché mi sono sentito chiamato in causa dall'intervento dell'onorevole Lorenzin, che ovviamente, come è noto, stimo ed apprezzo, in quanto io, signor Presidente, ho fatto parte di una maggioranza che ha appoggiato il precedente Governo. La collega Lorenzin, nella parte centrale del suo intervento, ha spiegato che una delle ragioni della nostra ostilità nei confronti del Governo sarebbe perché questo Esecutivo ha abrogato l'ICI.
Vorrei tranquillizzare l'onorevole Lorenzin e riportare un po' di verità dentro quest'Aula, ricordando che l'ICI l'ha abrogata il Governo Prodi per i redditi più bassi. Quello che ha fatto il Governo Berlusconi - gliene va assolutamente dato atto, è quello che fa ormai da anni - è stato togliere l'ICI anche per le fasce più alte, quelle dei più ricchi, continuando in assoluta continuità e coerenza una strada che è stata portata avanti per parecchi anni. Quindi, siccome è qualcosa che abbiamo fatto noi e sembra quasi che ci venga scippata, ho approfittato della sua gentilezza per segnalare la realtà dei fatti e cioè che l'ICI per i redditi più bassi l'ha tolta il Governo Prodi, quella per i redditi più alti l'ha tolta il Governo Berlusconi.

PRESIDENTE. Le abbiamo concesso in maniera molto larga questo «fatto personale».

BEATRICE LORENZIN. È un'interpretazione estensiva!

PRESIDENTE. Mi sembra che le sue dichiarazioni abbiano una forte sottolineatura, ovviamente legittima, di tipo politico.

SIMONE BALDELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SIMONE BALDELLI. Signor Presidente, lei ha sottolineato, mi sembra in maniera abbastanza consapevole, il fatto che la dichiarazione dell'onorevole Giachetti non era affatto a titolo personale. Spesso partecipo alle discussioni sulle linee generali. L'onorevole Lorenzin, come spesso anche altri, svolge considerazioni di natura politica in rappresentanza del suo gruppo o a titolo personale come crede, ma in questo caso, peraltro, anche in rappresentanza del proprio gruppo.
Dopodiché, l'onorevole Giachetti ci illumina della verità in quest'Aula ad ogni fine seduta sul titolo personale o sull'ordine dei lavori. Peraltro, già nell'ultimo intervento sull'ordine dei lavori, su cui pure c'era stato oggetto di contesa di natura personale tra me e l'onorevole Giachetti, c'era stato un ulteriore richiamo, seppure molto gentile e velato, da parte del Presidente Buttiglione sul fatto che non si trattasse proprio di ordine dei lavori. L'onorevole Giachetti ha facoltà, come tutti quanti i colleghi di quest'Aula, di iscriversi nelle discussioni sulle linee generali e di intervenire per dare la propria opinione, ma non può intervenire a titolo personale per illuminare l'aula della sua verità - ammesso che sia tale - sotto forma di titolo personale.
Questo lo trovo scorretto e non credo che si debba avere l'abitudine quest'Aula, Pag. 22a titolo personale o meno, di chiosare su interventi politici delle discussioni sulle linee generali di chicchessia, a meno che, signor Presidente, non ci siano effettivamente degli elementi effettivi di titolo personale per i quali una persona si senta, o si possa sentire, chiamata in prima persona, lesa nella propria dignità o per far presente alla Presidenza che c'è stato un atteggiamento che lo abbia danneggiato.

ROBERTO GIACHETTI. Presidente, vedo che le sta dando lezioni su come si presiede l'Assemblea. Si candida a sostituirla!

SIMONE BALDELLI. Quindi, signor Presidente, faccio capo alla Presidenza su questo affinché venga rispettato, in questo senso il Regolamento.

PRESIDENTE. Comunico, in relazione agli episodi avvenuti nel corso della seduta dell'Assemblea del 12 marzo 2009, in occasione dei quali gli onorevoli Guido Dussin e Carmelo Lo Monte hanno espresso il voto in sostituzione di altri due colleghi, che il Presidente della Camera ha indirizzato una lettera ai due deputati sopra citati deplorando il comportamento tenuto, che risulta contrario ai principi costituzionali e regolamentari che disciplinano il corretto esercizio del mandato parlamentare ed appare altresì fortemente lesivo della dignità dell'istituzione parlamentare nel suo complesso.
Sospendo ora la seduta, che riprenderà alle ore 14,30 con la discussione generale del disegno di legge in materia di federalismo fiscale.

La seduta, sospesa alle 12,50, è ripresa alle 14,35.

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Fassino e Leone sono in missione a decorrere dalla ripresa pomeridiana della seduta.
Pertanto i deputati in missione sono complessivamente quarantanove, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Discussione del disegno di legge S. 1117: Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione (Approvato dal Senato) (2105-A) e delle abbinate proposte di legge: Ria; d'iniziativa del consiglio regionale della Lombardia; Paniz (452-692-748) (ore 14,35).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge, già approvato dal Senato: Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione; e delle abbinate proposte di legge d'iniziativa del deputato Ria; del consiglio regionale della Lombardia; del deputato Paniz.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali - A.C. 2105-A)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari Italia del Valori e Partito Democratico ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
Avverto, altresì, che le Commissioni Bilancio (V) e Finanze (VI) si intendono autorizzate a riferire oralmente.
Il relatore per la Commissione finanze, onorevole Antonio Pepe, ha facoltà di svolgere la relazione.

ANTONIO PEPE, Relatore per la VI Commissione. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, colleghi, desidero innanzitutto segnalare l'importanza Pag. 23della nostra discussione: la Camera si appresta a dare finalmente attuazione all'articolo 119 della Costituzione, completando in tal modo un processo di riforma della disciplina finanziaria delle regioni e degli enti locali avviato, sia pure timidamente, circa venti anni fa e che ora si appresta a vivere un passo in avanti fondamentale.
Sebbene sia certamente legittimo leggere il provvedimento al nostro esame in termini di rottura rispetto a molte pratiche del passato, ritengo al tempo stesso opportuno considerare tale intervento legislativo come un elemento di continuità della nostra tradizione repubblicana, come la realizzazione un altro tassello del mosaico costituzionale pensato più di sessant'anni fa dai nostri costituenti. Sottolineo, infatti, come il compimento della riforma che oggi discutiamo, a dispetto di tutte le infauste analisi e delle critiche, spesso dettate solo da motivazioni politico-elettorali, che ci hanno accompagnato in questi mesi, segnali la vitalità dei processi democratici del nostro Paese. Processi che hanno consentito, da un lato, di riassorbire le spinte, talvolta scomposte ed irrazionali, verso una maggiore non corretta autonomia degli enti territoriali, dall'altro, di favorire, come con il provvedimento in esame, un assetto di federalismo fiscale che coniughi i principi di autonomia di spesa e di entrata, di responsabilizzazione degli amministratori di fronte agli elettori, di unitarietà della Repubblica, di omogeneità nell'erogazione dei servizi pubblici e delle prestazioni essenziali, di sussidiarietà e di solidarietà nei confronti delle aree più deboli della nazione.
Vi era un timore, evidenziato anche da alcuni commissari durante la discussione nelle Commissioni, che il decentramento fiscale, il federalismo fiscale, potesse significare anche la sostituzione di un centralismo regionale ad un centralismo statale, con conseguente indebolimento dello Stato centrale, ovvero che il tutto potesse portare ad uno Stato più lontano dai diritti e dai doveri dei cittadini, dalle politiche sociali, dai bisogni e dalle necessità della gente, specialmente delle fasce più deboli, più lontano e meno attento ai territori più poveri e comunque a quello che viene definito uno «Stato minimo». Questo timore è stato scongiurato con il provvedimento in esame: la riforma federalista diventa uno strumento per rendere più efficienti i poteri pubblici, avvicinandoli maggiormente ai cittadini; contribuisce al rilancio dell'economia nazionale in un quadro articolato di principi e criteri direttivi che ne assicurano un solido ancoraggio con i principi costituzionali nell'ambito più generale dei vincoli sanciti dal Patto di stabilità europeo.
In linea generale, il disegno di legge punta a responsabilizzare maggiormente le regioni e gli enti locali, nonché a contemperare l'autonomia finanziaria e la flessibilità fiscale per i livelli di governo decentrati con l'esigenza di rispettare i principi di capacità contributiva, di territorialità dei tributi locali, di esclusione della doppia imposizione, di neutralità dell'imposizione stessa. Il testo sottolinea, inoltre, la necessità di rispettare e valorizzare il principio di solidarietà e le esigenze di perequazione territoriale anche di carattere infrastrutturale, nonché i profili di collaborazione interistituzionale tra i diversi livelli di governo. In questo senso si inquadra la scelta compiuta all'interno del disegno di legge di adottare un sistema di perequazione verticale.
Un ulteriore elemento cardine del provvedimento è costituito dal passaggio dal sistema dei trasferimenti fondato sulla spesa storica, un sistema che finisce col premiare chi più spende, a quello dell'attribuzione di risorse basate sulla individuazione dei fabbisogni standard necessari a garantire sull'intero territorio nazionale il finanziamento integrale dei servizi e dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, nonché delle funzioni fondamentali degli enti locali.
Si ipotizza, inoltre, un doppio canale perequativo valido per tutti i livelli di governo in base al quale sarà garantita una perequazione integrale dei fabbisogni, valutati a costi standard per ciò che attiene i livelli essenziali delle prestazioni, e le funzioni fondamentali degli enti locali. Pag. 24Le altre funzioni o tipologie di spesa decentrate, invece, saranno finanziate secondo un modello di perequazione che dovrebbe concretizzarsi in un tendenziale livellamento delle differenti capacità fiscali pro capite dei diversi territori.
Mi piace anche sottolineare in particolare come il provvedimento legislativo contribuisca ad inverare nel nostro ordinamento il principio di sussidiarietà che acquista concretezza nell'aspetto finanziario dell'allocazione delle funzioni. L'effettività del riparto di competenze tra i vari livelli territoriali di governo è infatti subordinata all'effettivo finanziamento delle stesse competenze per far sì che esse possano essere certificate dagli organi competenti. In questa prospettiva, si coglie il senso dell'affermazione di Costantino Mortati, il quale, parlando dello Stato regionale, ne individuava nell'autonomia finanziaria un'imprescindibile pietra angolare.
L'attuazione del federalismo fiscale consente di dare applicazione concreta nel nostro ordinamento, con riguardo all'aspetto finanziario e fiscale, al principio di sussidiarietà, il quale mira a far sì che le decisioni siano adottate il più vicino possibile al cittadino, verificando se l'azione da intraprendere a livello centrale sia giustificata rispetto alle possibilità offerte dall'azione a livello regionale e locale. Il disegno di legge in esame si iscrive proprio entro le coordinate tipiche che connotano l'esplicarsi della sussidiarietà: l'intervento dell'identità di livello superiore deve essere temporaneo e teso a restituire l'autonomia d'azione all'entità di livello inferiore; l'intervento pubblico deve essere attuato nel modo più vicino possibile al cittadino, dovendo assicurare che vi sia prossimità del livello decisionale con il livello di attuazione delle decisioni stesse, pur nella consapevolezza che occorre preservare un nucleo di funzioni inderogabili che i poteri pubblici non possono delegare.
La riforma del federalismo fiscale si appalesa oggi necessaria anche per riscrivere il patto fiscale che lega lo Stato ai suoi cittadini quale fondamento del diritto pubblico statale. Con l'approvazione del disegno di legge in esame, il patto fiscale sarà rinsaldato e potrà ricevere un'attuazione più conforme alle aspettative dei cittadini, i quali, come affermava Luigi Einaudi, desiderano sapere perché pagano le imposte.
Il principio di territorialità costituisce al riguardo un requisito fondamentale, postulando che le risorse vengano imputate ai territori secondo i gettiti che lì si realizzano. A fronte dell'attuazione di tale principio, tuttavia, diventa indispensabile, onde garantire l'unità della Repubblica e le pari opportunità a tutti i suoi cittadini (indipendentemente dal territorio nel quale essi vivono) e in attuazione del disposto dell'articolo 3 della Costituzione, che il meccanismo di perequazione sia realmente efficace e che superi, sia nella fase transitoria di attuazione della riforma, sia a regime, i divari economici e infrastrutturali che gravano su determinati territori. Ciò in un'ottica che deve essere, tuttavia, sempre responsabilizzante, giammai assistenzialistica e colmi quindi la differenza tra Mezzogiorno e il resto del Paese nella qualità dei servizi pubblici prestati.
È bene chiarire che questa è una riforma che non va contro gli interessi del Mezzogiorno, ma che anzi rappresenta un'opportunità per una maggiore responsabilizzazione degli amministratori locali meridionali mediante l'attribuzione di una più ampia autonomia.
Federalismo fiscale, quindi, come già avviene da anni in altri ordinamenti ed i principali modelli di federalismo fiscale che si rinvengono all'estero (sia in Germania che in Spagna) testimoniano tutti l'esigenza di pervenire ad un equilibrato bilanciamento tra il potere centrale dello Stato e il conferimento di autonomia finanziaria agli enti territoriali mediante la previsione di opportuni meccanismi perequativi per i territori economicamente più deboli.
Esaminando più nel dettaglio il provvedimento (mi riporto alla relazione svolta in Commissione) evidenzio come il testo del disegno di legge, così come risultante dalle modifiche apportate in sede emendativa Pag. 25nel corso dell'esame presso le Commissioni riunite bilancio e finanze, risponde all'esigenza di pervenire ad un equilibrato bilanciamento tra potere centrale dello Stato e conferimento di una più ampia autonomia finanziaria agli enti territoriali, anche mediante la previsione di opportuni meccanismi perequativi per i territori economicamente più deboli che caratterizza i sistemi più avanzati di federalismo fiscale.
Le proposte emendative approvate nel corso dell'esame in sede referente hanno contribuito a migliorare ulteriormente il testo originario del disegno di legge, rendendolo più idoneo al conseguimento degli obiettivi che si propone, soprattutto con riferimento alle modificazioni e specificazioni che sono state apportate in sede di autonomia tributaria degli enti territoriali, di meccanismi di perequazione, anche di tipo infrastrutturale, di interventi a favore delle aree sottoutilizzate.
Certamente, il disegno di legge, avente carattere di delega, non potrà necessariamente esaurire tutte le numerose problematiche connesse con l'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione, molte delle quali dovranno essere risolte durante l'arco temporale di esercizio della delega. Tuttavia, penso che si consegni al Paese uno strumento assai valido ed efficace. Nella specie, con riguardo ai principi e criteri direttivi relativi ai tributi delle regioni e alle compartecipazioni al gettito dei tributi erariali recati dall'articolo 7, laddove si prevede che le regioni dispongono di tributi di compartecipazione al gettito dei tributi erariali, in grado di finanziare le spese derivanti dall'esercizio delle funzioni nelle materie che la Costituzione attribuisce alla loro competenza residuale e concorrente, si è specificato che, nell'ambito delle compartecipazioni al gettito di tributi erariali, si farà ricorso in via prioritaria a quello dell'imposta sul valore aggiunto.
Si è voluto così evitare il rischio, paventato da molti colleghi, anche nel corso dell'esame istruttorio del provvedimento, di una frammentazione dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, quale principale tributo presente sul territorio nazionale. Si è poi chiarito che, per tributi regionali, si intendono le addizionali sulle basi imponibili di tributi erariali e che, per una parte dei tributi propri e derivati, istituiti e regolati da leggi statali, il cui gettito è attribuito alle regioni, queste, con propria legge, possano modificare le aliquote e disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni nei limiti e secondo i criteri fissati dalla legislazione statale, nel rispetto della normativa comunitaria.
Per una parte delle addizionali sulle basi imponibili di tributi erariali, le regioni, con propria legge, possono introdurre variazioni percentuali delle aliquote delle addizionali e possono disporre detrazioni entro i limiti fissati dalla legislazione statale.
A seguito dell'approvazione di un'altra proposta emendativa, è stato precisato all'articolo 7 che le regioni disporranno di tributi di compartecipazione al gettito dei tributi erariali, in grado di finanziare non solo le spese derivanti dall'esercizio delle funzioni nelle materie che la Costituzione attribuisce alla loro competenza residuale e concorrente, ma anche le spese relative a materie di competenza esclusiva statale, in relazione alle quali le regioni esercitano competenze amministrative.
Si è, quindi, specificato all'articolo 8 che, nell'ambito della definizione delle modalità per cui le spese riconducibili al vincolo dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione sono determinate nel rispetto dei costi standard associati ai livelli essenziali delle prestazioni, questi ultimi siano sì fissati da legge statale, ma in piena collaborazione con regione ed enti locali.
È stato poi eliminato il principio di delega, che prevedeva una tendenziale limitazione dell'utilizzo delle compartecipazioni ai soli casi in cui occorre garantire il finanziamento integrale della spesa. Nelle spese riconducibili al vincolo dell'articolo 117, secondo comma, lettera m) della Costituzione, sono state espressamente comprese quelle per la sanità, l'assistenza e, per quanto riguarda l'istruzione, Pag. 26le spese per lo svolgimento delle funzioni amministrative attribuite alle regioni dalle norme vigenti.
Con riguardo agli interventi speciali, di cui al quinto comma dell'articolo 119 della Costituzione, l'articolo 15 prevedeva il principio di delega dell'individuazione di interventi diretti a promuovere lo sviluppo economico, la coesione delle aree sottoutilizzate del Paese e la solidarietà sociale, a rimuovere gli squilibri economici e sociali e a favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona.
A seguito delle modifiche intervenute, è stato introdotto nel testo l'ulteriore principio di delega per cui l'azione per la rimozione degli squilibri strutturali di natura economica e sociale, a sostegno delle aree sottoutilizzate, si dovrà attuare attraverso interventi speciali, organizzati in piani organici, finanziati con risorse pluriennali, vincolate nella destinazione. Sempre all'articolo 15, è stata introdotta una previsione secondo cui la considerazione delle specifiche realtà territoriali dovrà avere particolare riguardo, tra l'altro, all'esigenza di tutela del patrimonio storico ed artistico, ai fini della promozione dello sviluppo economico e sociale.
Rilevanti modifiche sono state, inoltre, apportate in tema di perequazione. Si è innanzitutto eliminato il principio di delega per cui per il trasporto pubblico locale l'attribuzione delle quote del fondo perequativo era subordinata al rispetto di un livello di servizio minimo, fissato a livello nazionale, condizione questa che penalizzava le aree più povere.
Di particolare rilevanza è anche la modifica apportata al comma 1, lettera a) dell'articolo 13, laddove si è specificato che il fondo perequativo dello Stato ivi previsto debba essere alimentato dalla fiscalità generale. Tale modifica ha consentito di chiarire ulteriormente che il meccanismo perequativo ha carattere verticale e non infraregionale, essendo alimentato con risorse provenienti direttamente dallo Stato.
In tema di perequazione infrastrutturale, prevista dall'articolo 21, in sede di prima applicazione si dà mandato al Ministro dell'economia e delle finanze, d'intesa con il Ministro per le riforme per il federalismo, il Ministro per la semplificazione normativa, il Ministro per i rapporti con le regioni e altri ministri competenti per materia, di predisporre una ricognizione degli interventi infrastrutturali riguardanti la rete stradale, autostradale e ferroviaria, la rete fognaria, la rete idrica, elettrica e di trasporto e distribuzione del gas, le strutture portuali e aeroportuali.
A seguito delle modifiche introdotte nel corso dell'esame in Commissione, tali interventi infrastrutturali non si intendono più ricondotti nell'ambito degli interventi di cui all'articolo 119, comma 5, della Costituzione, e, tra i criteri da prendere in considerazione per effettuare la ricognizione, dovranno valutarsi anche i deficit di sviluppo ed infrastrutturali.
Inoltre, nel novero degli interventi infrastrutturali sono state ricomprese le strutture sanitarie, assistenziali e scolastiche. Di questo intervento integrativo appare beneficiare soprattutto il Mezzogiorno, dove queste strutture sono più carenti. In concreto, pertanto, dovrà prima provvedersi a colmare il divario infrastrutturale che caratterizza il Meridione d'Italia rispetto alle altre zone più evolute del Paese, per poi applicarvi i nuovi principi e strumenti del federalismo fiscale che si va così configurando.
Nella fase transitoria, inoltre, l'individuazione di interventi finalizzati agli obiettivi di cui all'articolo 119, comma 5, della Costituzione, che tengano conto anche della virtuosità degli enti nell'adeguamento al processo di convergenza ai costi o al fabbisogno standard, sarà finalizzata non solo al recupero del deficit infrastrutturale, ma anche del deficit di sviluppo, e detti interventi andranno a realizzarsi prioritariamente nelle aree sottoutilizzate.
Tra le modifiche apportate nel corso dell'esame in Commissione acquista particolare rilievo l'attenzione che è stata dedicata al tema della lotta all'evasione fiscale. Dopo aver chiarito che vi saranno adeguate forme di collaborazione delle regioni e degli enti locali con il Ministero dell'economia e delle finanze e con l'Agenzia delle entrate, al fine di utilizzare le Pag. 27direzioni regionali delle entrate, è stato inserito un apposito articolo, il 24-bis, in materia di contrasto all'evasione fiscale.
Si prevede che nei decreti legislativi di attuazione della riforma, con riguardo al sistema gestionale dei tributi e delle compartecipazioni, nel rispetto dell'autonomia organizzativa di regioni ed enti locali nella scelta delle forme di organizzazione delle attività di gestione e di riscossione, siano previste, innanzitutto, adeguate forme di reciproca integrazione delle basi informative di cui dispongono le regioni, gli enti locali e lo Stato per le attività di contrasto all'evasione dei tributi erariali, regionali e degli enti locali, nonché di diretta collaborazione, al fine di fornire dati ed elementi utili ai fini dell'accertamento dei tributi stessi.
Nei decreti di attuazione dovranno inoltre essere previste a favore delle regioni e degli enti locali che abbiano ottenuto risultati positivi in termini di emersione di maggior gettito attraverso l'azione di contrasto all'evasione e all'elusione fiscale adeguate forme premiali. Mi piace, infine, segnalare che dal lavoro in Commissione esce anche rafforzato il ruolo della Commissione bicamerale, come previsto nel provvedimento, e quindi del Parlamento.
Onorevoli colleghi, certamente, in uno con l'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione, occorrerà anche una serie di interventi di riassetto istituzionale ed amministrativo. Penso non solo al Codice delle autonomie, il cui disegno di legge il Governo si appresta a licenziare, ma anche al tema di un miglior chiarimento del quadro delle competenze legislative e funzionali svolte dai diversi livelli di Governo, viste le incertezze sorte con riferimento al titolo V della Costituzione.
Sicuramente, però, approvando questo provvedimento facciamo un passo in avanti, nella convinzione che la piena attuazione dell'articolo 119 della Costituzione ci consegnerà un'Italia più equilibrata da nord a sud.
In conclusione, colleghi, mi piace sottolineare come la maggioranza e il Governo, pur rivendicando la validità dell'assetto complessivo del provvedimento, abbiano dimostrato, anche attraverso l'accoglimento di 82 proposte emendative, di cui 35 avanzate dai gruppi di opposizione, la loro disponibilità ad apportare al testo una serie di miglioramenti, valorizzando tutti gli apporti costruttivi forniti nel corso dell'esame in sede referente. In tale contesto, ritengo che a tale profilo di collaborazione abbia notevolmente contribuito la presenza costante e qualificata dei Ministri Bossi, Fitto e Calderoli ai lavori della Commissione.
Credo, infatti, che il contributo del Governo sia risultato fondamentale per orientare positivamente i lavori in sede referente.
Considero, inoltre, doveroso rivolgere il mio ringraziamento a tutti i colleghi intervenuti in Commissione ed a tutti i gruppi politici per la qualità degli elementi forniti al dibattito.
In questo contesto, desidero in particolare segnalare come i gruppi di opposizione, pur nella diversità delle posizioni su diversi aspetti del testo, abbiano saputo fornire un apporto molto costruttivo, sia con contributi dialettici sia attraverso la presentazione di proposte emendative.
Credo, quindi, che l'esperienza compiuta nel corso dell'esame in sede referente costituisca una testimonianza importante di come la politica non sia solo dividersi e litigare, ma sappia anche dialogare, confrontandosi intelligentemente, per individuare soluzioni ispirate all'interesse del Paese. È importante avere la capacità di trasmettere ai cittadini questi risultati.
Condivido, quindi, pienamente il ragionamento svolto in Commissione dal collega Causi, il quale ha sottolineato l'esigenza di dedicare particolare attenzione al contesto di comunicazione politica nel quale si inseriscono i lavori parlamentari. Occorre, infatti, evidenziare nei confronti dell'opinione pubblica come il disegno di legge non costituisca uno strumento per colpire determinate aree del Paese, ma intenda invece costituire uno strumento importante a disposizione di tutti i cittadini, di Pag. 28tutte le categorie produttive e di tutti i livelli di Governo, per giungere a quella che il collega Duilio...

PRESIDENTE. La invito a concludere.

ANTONIO PEPE, Relatore per la VI Commissione. Ho quasi finito, signor Presidente. Uno strumento, come dicevo, per giungere a quella che il collega Duilio ha definito come una «statualità più adulta», che valorizzi, come hanno ricordato i colleghi Pugliese e Leo, le autonomie sociali e territoriali, elimini le sacche di inefficienza e di parassitismo, incrementi il livello di responsabilizzazione delle classi dirigenti favorisca una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e aiuti il Paese a crescere.
Da ultimo, desidero richiamare a suggello finale di queste mie riflessioni le parole di Luigi Einaudi, il quale scrisse, fin dal 1959, che, se gli enti locali vivono di proventi ricevuti oppure rinunciati dallo Stato, manca l'orgoglio del vivere del proprio sacrificio e sorge la psicologia del vivere a spese altrui.
Tali considerazioni esprimono con chiarezza quale sia il filo conduttore del provvedimento al nostro esame e quale sia lo spirito con cui esso dovrà essere attuato: risvegliare pienamente le energie del Paese, di tutto il Paese, ed aiutarlo a rispondere alle sfide che l'attuale momento storico pone a tutti noi.
Mi auguro che questo spirito possa continuare ad informare anche la discussione che ci attende in Assemblea, nonché soprattutto le scelte complesse e delicate che porrà la fase di attuazione della delega.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo...

GIANCARLO GIORGETTI, Presidente della V Commissione. Signor Presidente, c'è anche la relazione della Commissione bilancio! Brunetta vi ha consigliato di sopprimere la Commissione bilancio?

PRESIDENTE. Assolutamente no, ci mancherebbe altro! La Presidenza non era stata avvisata che l'onorevole Leone sarebbe stato sostituito dal presidente della Commissione bilancio. Tuttavia, è un piacere ascoltarla, presidente Giorgetti, ha facoltà di svolgere la relazione per la V Commissione.

GIANCARLO GIORGETTI, Presidente della V Commissione. Possiamo anche fare in modo di non ascoltare il presidente della Commissione, perché l'onorevole Leone, che purtroppo è assente, ha prodotto un ponderoso documento, una relazione che mi ha pregato di rappresentare all'Assemblea, che posso leggere oppure posso consegnare gli atti: non c'è nessun tipo di problema. Però il contributo, soprattutto per gli aspetti di competenza della Commissione bilancio...

PRESIDENTE. Decida lei.

GIANCARLO GIORGETTI, Presidente della V Commissione. Leggo.

PRESIDENTE. Il ponderoso documento?

GIANCARLO GIORGETTI, Presidente della V Commissione. Ometto la premessa, però penso che, siccome la relazione spiega il lavoro svolto in Commissione, se ha un senso la discussione sulle linee generali in cui interverranno poi i colleghi, non si possa tranquillamente evitare di rappresentare soprattutto le novità introdotte dalle Commissioni riunite.
Ometto, quindi, tutta la parte che in qualche modo rappresenta un'opzione di principio, e mi evita anche qualche imbarazzo, perché poi sarei naturalmente scivolato su considerazioni di carattere parziale che non si addicono al presidente e al relatore.
Per quanto riguarda le novità introdotte, già il collega Antonio Pepe ha ricordato che nell'ambito delle Commissioni riunite il contributo dato da tutti i gruppi, e in particolare da quelli dell'opposizione, con la collaborazione del Governo, ha rappresentato sicuramente un punto in avanti rispetto al testo arrivato dal Senato. Pag. 29
In primo luogo, per quanto concerne la valorizzazione del ruolo del Parlamento, le disposizioni di cui agli articoli da 3 a 5 del disegno di legge istituiscono un sistema di nuovi organi ai quali viene attribuito il compito di presiedere, sia a livello tecnico-operativo sia consultivo-politico, al processo di attuazione della delega.
Già nel corso dell'esame al Senato l'esigenza, unanimemente condivisa dalle forze di maggioranza e di opposizione, di rafforzare il ruolo delle Camere nel processo di attuazione della delega si è tradotta nella previsione dell'istituzione di una apposita Commissione bicamerale, nonché nella definizione di una procedura di doppio parere da attivare qualora il Governo non intenda conformarsi alle prime indicazioni parlamentari.
Nel corso dell'esame delle Commissioni riunite è stata introdotta una modifica in base alla quale il Governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, oltre a dover ritrasmettere i testi alle Camere con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni, è chiamato a rendere comunicazioni davanti a ciascuna Camera.
In tale fattispecie non si prevede più, pertanto, l'espressione di un secondo parere parlamentare, bensì si investe direttamente l'Assemblea di ciascuna Camera ai fini delle conseguenti deliberazioni, che potrebbero concretizzarsi, verosimilmente, nell'adozione di uno specifico atto di indirizzo al Governo, fermo restando che, decorsi trenta giorni dalla data della nuova trasmissione dei testi, i decreti legislativi potranno comunque essere adottati in via definitiva.
È chiaro come, nonostante non sia stata accolta la proposta avanzata dai gruppi di minoranza di introdurre un parere parlamentare vincolante sugli schemi di decreto, la fattispecie qui delineata, pur non impedendo formalmente l'adozione dei decreti in caso di disaccordo con le Camere, configuri comunque un vincolo di carattere politico assai stringente, cui il Governo non potrebbe, nell'ipotesi, sottrarsi, pena il venir meno del rapporto fiduciario con la maggioranza parlamentare.
Di converso, l'introduzione di una forma di parere vincolante - la cui legittimità costituzionale sarebbe stata peraltro tutta da verificare - avrebbe potuto avere esiziali effetti paralizzanti o quanto meno indesiderati sulla procedura nel caso di eventuali veti ed opposizioni provenienti da una minoranza parlamentare.
Sempre sul piano istituzionale occorre segnalare una modifica relativa alla modalità di nomina del presidente della Commissione bicamerale per l'attuazione del federalismo fiscale di cui all'articolo 3, in base alla quale si prevede che esso sia nominato dal Presidente del Senato della Repubblica e dal Presidente della Camera dei deputati, anziché essere eletto tra i componenti della Commissione medesima.
Anche in tal caso, la nomina congiunta del presidente ad opera dei Presidenti dei due rami del Parlamento intende sottolineare il carattere istituzionale e la particolare rilevanza e specificità della Commissione in oggetto, chiamata a svolgere un fondamentale ruolo di raccordo con le autonomie territoriali e di monitoraggio e controllo nell'attuazione della delega.
Segnalo, infine, come nel corso dell'esame in sede referente sia stato soppresso il nuovo criterio applicativo - introdotto al Senato - del principio di proporzionalità della rappresentanza parlamentare ai fini della nomina dei componenti della Commissione, disponendosi, in modo ordinario, che essi siano nominati da parte dei Presidenti delle Camere su designazione dei gruppi ed in modo da rispecchiarne la proporzione.
Altro aspetto evidentemente di grande rilevanza per la V Commissione - ma anche oggetto di dibattito politico - è la salvaguardia degli equilibri di bilancio.
Sul punto, accogliendo anche in tal caso proposte emendative provenienti dai gruppi di minoranza, è stata introdotta una esplicita clausola di invarianza degli effetti finanziari, ai sensi della quale dall'attuazione della delega e da ciascuno dei Pag. 30decreti legislativi di cui all'articolo 2 non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Si tratta, com'è evidente, di una modifica sostanziale che, assieme alla previsione - anch'essa introdotta nel corso dell'esame nelle Commissioni riunite - in base alla quale ciascuno schema di decreto dovrà essere corredato da relazione tecnica volta ad evidenziare gli effetti delle disposizioni sul saldo netto da finanziare, sull'indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni e sul fabbisogno del settore pubblico, dovrebbe fugare ogni preoccupazione in ordine agli effetti finanziari del disegno di legge e alla tenuta complessiva del nuovo sistema, ciò anche alla luce del fatto che rimane fermo, al comma 1 dell'articolo 26, il riferimento al rispetto del Patto di stabilità e crescita.
L'attuazione della delega dovrà pertanto non solo rispettare rigorosamente il precetto di cui all'articolo 81, quarto comma, della Costituzione, ma anche armonizzarsi con gli impegni assunti in sede comunitaria in ordine al percorso di riduzione del rapporto deficit/PIL e dello stock di debito. Tra le modifiche introdotte dalle Commissioni riunite a presidio della complessiva tenuta finanziaria del nuovo sistema, occorre segnalare anche la previsione di un termine entro il quale regioni ed enti locali devono comunicare al Governo i propri bilanci preventivi e consuntivi e la previsione di sanzioni in caso di mancato rispetto di tale termine, nonché in caso di mancata o tardiva comunicazione dei dati ai fini del coordinamento della finanza pubblica.
In risposta all'esigenza, da più parti sollevata, di approfondire nel dettaglio le grandezze economiche e i profili finanziari derivanti dall'attuazione della delega, ricordo inoltre che è rimasta ferma la previsione di cui all'articolo 2, comma 6, ai sensi della quale il Governo, in allegato al primo schema di decreto legislativo, da adottare entro dodici mesi dall'entrata in vigore della legge, dovrà trasmettere alle Camere una relazione concernente il quadro generale di finanziamento degli enti territoriali ed ipotesi di definizione su base quantitativa della struttura fondamentale dei rapporti finanziari tra lo Stato, le regioni e gli enti locali, con l'indicazione delle possibili distribuzioni delle risorse.
Ai fini della valutazione degli effetti finanziari della delega ricordo, infine, come tra i criteri direttivi di carattere generale di cui all'articolo 26 figuri un vincolo in base al quale al trasferimento delle funzioni deve corrispondere un trasferimento del personale, evidentemente diretto a garantire una simmetria tra la riallocazione delle funzioni e la dotazione del relativo capitale umano e finanziario, e pertanto finalizzato ad evitare una possibile duplicazione di funzioni e dunque di costi a carico della finanza pubblica, duplicazione che nella letteratura economica costituisce una delle possibili e più insidiose esternalità negative di un assetto decentrato (è un tema più volte richiamato da contributi politici ed anche nel dibattito apparso sui media con riferimento al federalismo).
L'armonizzazione dei bilanci pubblici è un altro tema di diretta specificità e riconducibile alla Commissione bilancio.
Tra le altre modifiche di rilievo introdotte nel corso dell'esame in sede referente va segnalata la previsione, anch'essa sollecitata da alcuni gruppi di minoranza, ai sensi della quale il primo decreto legislativo da adottare entro 12 mesi dall'approvazione della legge delega dovrà introdurre i principi fondamentali in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici.
Tra le novità in tale ambito vi è anche la previsione dell'individuazione dei principi fondamentali per la redazione, entro un determinato termine, dei bilanci consolidati delle regioni e degli enti locali, al fine di assicurare le informazioni concernenti i servizi esternalizzati, con relative sanzioni a carico degli enti in caso di mancato rispetto del termine.
Si tratta di innovazioni importanti sia sotto il profilo del metodo, sia del merito. Quanto al primo aspetto, è evidente come l'armonizzazione dei bilanci costituisca un presupposto imprescindibile per l'attuazione del federalismo fiscale e debba pertanto precedere ogni ulteriore passo in tal Pag. 31senso (sono, quindi, estremamente importanti i tempi con cui questa armonizzazione verrà attuata).
Il tema dell'armonizzazione contabile appare, inoltre, strettamente connesso con quello della trasparenza nella produzione e nella conoscibilità dei dati della finanza pubblica e della loro tempestiva disponibilità, che rappresenta anch'esso una condizione preliminare ai fini della costruzione di un nuovo sistema di raccordi istituzionali organizzati e finanziati tra i vari livelli di Governo.
Sotto il profilo del merito, il proliferare negli ultimi anni di esternalizzazioni attraverso la costituzione di aziende partecipate dagli enti territoriali pone il problema - che la delega intende risolvere - della costruzione di un bilancio consolidato per gli enti territoriali nel quale possano essere ricondotti ad un unico risultato i bilanci degli enti locali in senso stretto e delle loro società ed aziende partecipate, stante la rilevanza delle spese di queste ultime, anche al fine di appurare la qualificazione giuridica di tali aziende con riferimento ai principi contabili comunitari di discriminazione tra aziende pubbliche market e non market (è presente in Aula il Ministro Fitto che sul punto sappiamo che, in questo momento, sta proprio lavorando a una delega del Parlamento).
Un altro punto rilevante riguarda i costi standard e gli obiettivi di servizio. Per quanto concerne uno degli aspetti innovativi e tecnicamente più complessi del nuovo assetto dei rapporti economico-finanziari tra lo Stato e le autonomie territoriali (ossia il graduale passaggio dal sistema dei trasferimenti fondato sulla spesa storica a quello dell'attribuzione di risorse basate sull'individuazione dei costi e dei fabbisogni standard necessari a garantire sull'intero territorio nazionale il finanziamento integrale dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali degli enti locali), segnalo come nel corso dell'esame delle Commissioni riunite si sia provveduto, in accoglimento anche in tal caso di una proposta emendativa dell'opposizione, alla riscrittura dell'articolo 2, comma 2, lettera f), al fine di riformulare la nozione del costo e del fabbisogno standard (definito quale: «costo e fabbisogno che, valorizzando l'efficienza e l'efficacia, costituisce l'indicatore rispetto al quale comparare e valutare l'azione pubblica»), espungendo, in quanto ritenuto parziale e non esaustivo, il riferimento al rapporto tra il numero dei dipendenti degli enti territoriali e il numero dei residenti.
In secondo luogo, si è voluto precisare che gli obiettivi di servizio, cui devono tendere le amministrazione regionali e locali, debbono essere riferiti all'esercizio delle funzioni riconducibili ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, o alle funzioni fondamentali di cui l'articolo 117, secondo comma, lettere m) e p) della Costituzione.
In proposito, rilevo come ai fini dell'individuazione dei costi standard occorrerà esercitare una delicata funzione di raccolta ed elaborazione delle informazioni che, oltre che nella sanità, dovrà essere sperimentata in settori fondamentali quali l'istruzione, l'assistenza e i trasporti pubblici. Il superamento per tutti i livelli istituzionali del criterio della spesa storica implicherà, pertanto, la necessità di fare riferimento non ad un modello teorico, bensì ai costi delle prestazioni effettivamente sostenuti a livello territoriale.
Il richiamo ai criteri dell'efficienza e dell'efficacia sembrerebbe, inoltre, supporre che debbano essere presi come base di riferimento i costi reali delle gestioni migliori, al fine di costruire un sistema di in finanziamento in grado di eliminare le sacche di inefficienza e promuovere comportamenti virtuosi garantendo nel contempo i livelli e la qualità dei servizi resi ai cittadini.
Un altro punto riguarda il coordinamento della finanza pubblica. Per quanto concerne il coordinamento della finanza pubblica, esso assume un ruolo centrale nel nuovo assetto dei rapporti finanziari tra lo Stato e le autonomie territoriali.
Una riforma in senso federale di funzioni e risorse deve, infatti, necessariamente Pag. 32garantire un'efficiente articolazione della politica economica tra i diversi attori istituzionali dotati di autonomia finanziaria, sia sul versante del consolidamento dei conti pubblici, sia sul piano dello svolgimento delle singole politiche di settore.
Al riguardo, i criteri direttivi in tema di coordinamento e disciplina fiscale dei diversi livelli di governo prevedono, in primo luogo, il concorso di tutti i livelli di governo al conseguimento degli obiettivi della politica di bilancio nazionale in coerenza con i vincoli posti dall'Unione europea e dai Trattati internazionali.
In tale prospettiva il Patto di stabilità interno sinora adottato per definire l'entità del concorso dei diversi enti territoriali agli obiettivi della politica di bilancio dovrebbe essere integrato da un nuovo « patto di convergenza » (il riferimento è all'articolo 17), ossia da un insieme di regole per il coordinamento dinamico della finanza pubblica che il Governo è chiamato a definire annualmente nell'ambito della legge finanziaria previo confronto con gli enti territoriali in sede di Conferenza unificata.
Un altro punto - salto alcune parti perché credo che questi siano gli aspetti essenziali - è quello relativo al rafforzamento della lotta all'evasione. Uno dei cardini del disegno di legge in esame, che costituisce una precisa opzione strategica di politica economica, è la previsione del concorso degli enti territoriali alla lotta all'evasione e all'elusione fiscale, fenomeni che - come è noto - hanno assunto nel nostro Paese dimensioni elevate.
Al fine di rafforzare ulteriormente tale prospettiva - che rappresenta nei fatti, assieme alla razionalizzazione della spesa, la strada maestra per poter ridurre nel medio periodo il livello della pressione fiscale - nel corso dell'esame in sede referente è stato approvato un articolo aggiuntivo ad hoc diretto a rendere possibile l'integrazione delle banche dati dei diversi livelli territoriali.
In particolare il nuovo articolo 24-bis è volto a definire forme di reciproca integrazione delle basi informative di cui dispongono le regioni, gli enti locali e lo Stato per le attività di contrasto all'evasione dei tributi erariali, regionali e degli enti locali, nonché forme di diretta collaborazione volta a fornire dati ed elementi utili al fine dell'accertamento dei predetti tributi.
Al fine di cointeressare le regioni e gli enti locali nell'attività di contrasto all'evasione l'articolo prevede, infine, l'introduzione di specifiche forme premiali a favore degli enti che abbiano ottenuto risultati concreti e positivi in termini di emersione di maggior gettito.
Svolgo alcune rapide considerazioni conclusive. Nel concludere la presente relazione introduttiva ritengo utile segnalare talune questioni - evidenziate nel parere sul disegno di legge reso dalla I Commissione (Affari costituzionali) - che potrebbero esser oggetto di ulteriori approfondimenti nel corso dell'esame in Assemblea.
Mi riferisco, in primo luogo, alla necessità di individuare con maggiore chiarezza le modalità, i principi e i limiti secondo i quali la riforma in oggetto si applica alle regioni a statuto speciale, posto che l'articolo 1, comma 2, del disegno di legge dispone l'applicabilità alle regioni a statuto speciale e alle province autonome conformemente agli statuti, esclusivamente dell'articolo 14, relativo al finanziamento delle città metropolitane, dell'articolo 21, concernente la perequazione infrastrutturale, e dell'articolo 25, che detta la disciplina generale per il coordinamento della finanza delle regioni a statuto speciale e delle province autonome, rinviando l'applicazione alle norme di attuazione dei rispettivi statuti.
A seguito di un emendamento approvato nel corso dell'esame in sede referente è stato, inoltre, aggiunto un inciso che esclude dall'ambito di applicazione del comma gli enti locali ricadenti nel territorio delle regioni a statuto speciale e delle province autonome. Sul punto occorrerà svolgere un approfondimento, valutando del caso anche la presentazione di un eventuale ordine del giorno.
Concludo qui e credo di aver rappresentato - ovviamente di concerto con il relatore, onorevole Leone - i punti fondamentali, Pag. 33alcuni dei quali basilari, e in particolare di aver risposto ai dubbi più volte richiamati in merito alla tenuta complessiva per la finanza pubblica dell'introduzione della riforma federale.
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale della relazione.

PRESIDENTE. Presidente Giorgetti, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire in sede di replica.
È iscritto a parlare l'onorevole Reguzzoni. Ne ha facoltà.

MARCO GIOVANNI REGUZZONI. Signor Presidente, per me è una grande emozione, anche a livello personale, intervenire oggi aprendo la discussione sul federalismo in quest'Aula.
Il primo pensiero consiste in un ringraziamento, non di maniera ma di sostanza, ai Ministri Bossi e Calderoli. Al primo, per tutta la sua vita, perché ha voluto dedicarla al raggiungimento della nostra libertà. Ad entrambi per la pazienza, la costanza e la tenacia nell'ascoltare, nel recepire e nello spiegare a tutti le ragioni del federalismo (Commenti del deputato La Malfa). L'onorevole La Malfa avrà tempo e modo, con cortesia, di esporre il suo pensiero, se lo riterrà.

PRESIDENTE. Onorevole La Malfa...
Prego, onorevole Reguzzoni.

MARCO GIOVANNI REGUZZONI. Le ragioni del federalismo sono ragioni di libertà e di giustizia. Questo provvedimento è l'atto più importante politicamente e credo sarà il più rilevante di tutta la legislatura.
Ci sono milioni di persone che guardano a questa proposta del Governo come a una delle ultime possibilità di cambiamento, e sono decenni che combattiamo per la nostra libertà. Mi riferisco alla libertà di fare, di intraprendere, di muoversi a livello economico, senza il peso di una enorme macchina statale che opprime e che schiaccia.
Libertà di insegnare ai nostri figli la nostra storia, la nostra tradizione, senza programmi che uniformano e sviliscono le nostre peculiarità. Libertà di organizzarci come vogliamo, senza regole centralistiche uguali per tutti, dalla Sicilia alla Valle d'Aosta. Ma combattiamo anche per la giustizia, non soltanto per la libertà, perché il federalismo è giustizia insieme a ideali come la libertà. La giustizia deve portare alla fine dell'obbligo di mantenere generazioni di persone indolenti e incapaci, alla fine dell'obbligo di provvedere a politiche di assistenzialismo in nome di un'inesistente solidarietà.
Tale assistenzialismo diviene poi malaffare, intreccio di interessi tra eletto ed elettore, scambio di voti: in una sola parola, diventa mafia. Qui subentra il senso di giustizia che è insito in uno Stato federale e che costituisce l'altro problema del nostro Paese, forse il principale. Infatti non è giusto che vengano premiati i peggiori, non è giusto che meno si lavora, più si ha diritto a ricevere. Non so se vi siete resi conto della crisi economica presente nel nostro Paese. La gallina dalle uova d'oro ha finito di fare le sue nuova. Ma se anche riprenderà a farle, un po' vorrà tenerne per sé.
Ci ha mossi e ci muove, dunque, il senso di giustizia e la voglia di libertà, sia dentro sia fuori l'economia: nella scuola, nell'amministrare i nostri comuni e gli enti locali, nell'organizzare le forme di solidarietà e i nostri spazi culturali. Gli alleati di Governo sembrano aver capito le nostre ragioni e voglio ringraziarli per il sostegno: ringrazio il Ministro Fitto, presente in aula, e anche il Ministro Vito. Ringrazio i relatori Antonio Pepe e Leone per l'importante lavoro svolto in sede di Commissioni e per le relazioni svolte poc'anzi.
Spero anche che gli alleati, la sinistra e, più in generale, il sistema capisca le nostre ragioni: la sinistra perché il movimento federalista ha profonde radici nei fondatori del socialismo. Abbiamo sempre detto che non è possibile nessun accordo con Pag. 34questa sinistra statalista perché lo statalismo ancora la caratterizza in gran parte. Probabilmente è frutto della storia del nostro Paese, che è una storia di consociativismo, una peculiarità storica che auspichiamo venga superata.
Centralismo e statalismo sono sinonimo della destra e dei conservatori in molte parti del mondo. Potrà avvenire che, anche nel nostro Paese, autonomia e federalismo divengano patrimonio delle forze riformiste? John Lennon, che è una vostra icona, cantava: immaginiamo che non vi siano Paesi. Il socialista Proudhon scriveva: l'Italia è federale per la costituzione del suo territorio, per la diversità dei suoi abitanti, la natura del suo genio, i suoi costumi, la sua storia. È federale in tutto il suo essere e lo è stata dall'eternità.
Anche da noi la sinistra finirà di difendere le forze stataliste e centraliste e riscoprirà le autonomie locali? Si affermerà la sinistra dei sindaci e del territorio? Vedremo anche da noi una sinistra federalista? Sinceramente me lo auguro. Significherebbe che la sinistra avrà scoperto parte dei più deboli, ma vorrebbe dire che una parte importante di questo sistema politico avrà capito la necessità di una riforma autenticamente federale.
Il sistema certamente infatti deve capire la necessità di andare verso il federalismo. Definirei un sistema come l'insieme di uomini, istituzioni e linee di pensiero che regge le sorti della Repubblica. Abbiamo bisogno che il sistema capisca le nostre ragioni, che sono le ragioni del federalismo, e che questo sistema politico capisca che è necessario arrivare allo Stato federale. Il nostro è un sistema capace di annacquare, stravolgere e bloccare: è gattopardesco per definizione. Ne siamo consapevoli. Si possono trovare cento o mille modi per bloccare quanto di positivo oggi è proposto dal Governo e dal Ministro Bossi. Per tale ragione è importante non il contenuto, ma il principio. Per tale ragione è importante il ragionamento. Bisogna convincere: per questo motivo la Lega oggi ha un atteggiamento non di forma, ma di reale attenzione, e vuole non solo tenere, ma anche convincere.
Non entro nel merito del provvedimento: quest'ultimo ovviamente ha carattere politico. In questo momento deve prevalere la logica dell'ascolto e della ragione. Si tratta di un'occasione per il cambiamento, un'occasione offerta al sistema per cambiare. Certo non sta a me dire se sarà l'ultima occasione. Certamente faremo di tutto per renderla reale e lo facciamo con logica e la convinzione dei forti e di chi sa di aver ragione.
Giungiamo a questo dopo un percorso di tanti anni, che, per chi parla, è durato tutta la vita. In questo momento, su questo provvedimento, non parlano i singoli deputati della Lega. Ognuno di noi ha dietro di sé un percorso lungo di anni, compiuto da centinaia, migliaia di persone che hanno creduto e credono nella speranza di cambiamento. Insieme siamo milioni.
Potrei terminare qui, anche perché non c'è bisogno di dire molto altro. Ho utilizzato molto meno della metà del tempo a mia disposizione. Tuttavia le parole spesso sono superflue se il concetto è incisivo. Ma vorrei ricordare qui le persone che credono nel cambiamento. Certamente non posso menzionarle tutte, non posso fare il nome dei milioni di persone che ci hanno dato e ci danno il loro consenso, ma voglio dare il senso che il nostro non è un pensiero isolato.
Io parlo - indegnamente - a nome di quelli che ci hanno sostenuto e votato, di quelli che, seguendo Bossi, hanno sostenuto la Lega. Parlo a nome dei Longoni, dei Dino Macchi, dei Borgo, dei Gambini e degli Albè. Parlo di quelli che sono vent'anni che combattono, come Gadda, gli Anzini, Modesto, la Lela, Zanesco e Unfer, o come quelli che hanno aperto la strada, come Nenetta e Buzzi, Diego Gallarate, la Maffioli e il Marelli. Parlo di «cervelli» che sono usciti dal nostro Paese per non sentirsi sviliti, come Dado e Lele Marcora, o come quelli che hanno vissuto la Lega dall'inizio e sono ancora lì, come l'Ernani, il Tovaglieri, il Pavan, il Fiore. Pag. 35
Vi sono decine di migliaia di persone disposte a sacrifici importanti, che dedicano alla nostra causa decine e decine di giorni all'anno di lavoro gratuito, come Milo, Matteo Sommaruga, Arianna e Graziano, Gorini, Pinella, Ferrario, Giusy. Loro sono lì, sono sempre lì e sono ancora lì. Altri magari guardano o aspettano un segno per riprendere il cammino verso il federalismo. Altri ancora, dopo anni, alla domenica, con acqua e pioggia, sono in piazza per spiegare alla gente le ragioni per cui conviene vivere liberi.
A nome loro vogliamo parlare: a nome dei giovani come Bruno e Fabio Betti, i Roby, i Macca, Renzo, Alessio, Valentino, Massimo, Jessica e tutti i ragazzi delle ultime elezioni, ma anche agli ex ragazzi come Simone Isella, Caprice, Ilic; come Ivo, Giampi, Girola, il Bertagnon, il Mariani; amici come Claudia, Graziella, Bruno, Alberto Ferrari, la signora Silvana, la Giusy; e anche per quelli che non ci sono più, come Piatti, Aldizio e la Monfrini. Gente che non ha mai fatto il sindaco, che non farà mai il consigliere regionale o il parlamentare; gente che non ha mai vissuto di politica, ma oggi qui ci sono anche loro.
Ovviamente i sottosegretari presenti - Molgora e Brancher - conoscono bene la Lega, la Lega degli Stefano, Mario e Mariangela Cavallin, di Mauro Carabelli, di Ale Magni, di Simone, di Fabio Minonzi, di Bossetti, di Federico Maggi, di Marco Colombo, Gigi Ferrario, la Giulia e tutti gli amici di Novara; la Lega dei Pinti, dei Monti, dei Bordonaro, dei Fabio Binelli, dei Sergio Ghiringhelli, di Carlo Crosti e di tutti gli amici della sezione di Varese, anche quelli a cui non sono simpatico, ma io non sono nessuno. Dietro e a fianco a me non vi sono due colleghi della Lega, ma vi sono migliaia di persone vere, in carne ed ossa, con le nostre speranze e con la voglia di migliorare.
Il sistema deve capire e dire di sì al federalismo. Lo chiediamo con forza e determinazione, ma anche con la sicurezza dei forti a nome di tutti, di tutte le persone che hanno in questi anni creduto e che credono: tutti i Bosatra, i Bolognini, i Landoni, Eugenio ed Enrico Malnati, Taborelli, Marisa e Nicolò di Saronno, Rech e tutti gli amici di Gallarate, e i tantissimi che non ho il tempo e la possibilità di elencare.
Tutti sono qui con noi, oggi, ad aprire il dibattito su quello che è sicuramente il provvedimento più importante della legislatura. Non ci siamo noi: ci sono loro, c'è tutta la Padania. C'è lo spirito di un popolo che vuole la propria libertà. È bene che le istituzioni ne tengano conto (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Borghesi. Ne ha facoltà.

ANTONIO BORGHESI. Signor Presidente, signori Ministri, colleghi, l'intervento del collega Reguzzoni, peraltro molto appassionato, mi dà lo spunto per dire che, se tutto ciò che è contenuto nel provvedimento in esame fosse applicabile domattina, probabilmente egli avrebbe ragione riguardo al tipo di intervento che ha fatto.
Ma la verità, come cercherò di spiegare nel mio intervento, è che invece domattina non cambierà nulla, né per gli abitanti del nord né per quelli del sud, e per molti anni tutto resterà esattamente com'è oggi, in questo momento. Questa è la ragione per la quale probabilmente il provvedimento in esame viene approvato (non so ancora dire se anche con il consenso o comunque con un certo atteggiamento non solo dell'opposizione, ma anche della maggioranza): perché di fatto, per molto tempo, nulla cambierà rispetto a ciò che è oggi.
Vi sarà all'orizzonte qualcosa che però, come cercherò di dimostrare, potrebbe cambiare radicalmente a seconda del colore del Governo che sarà chiamato ad emanare i decreti legislativi.
Vorrei, però, prima di entrare un po' nel dettaglio di queste affermazioni, riprendere una questione che mi sta a cuore al di là dei dissensi che poi vi possono essere sul provvedimento in esame.
Vorrei dare atto che, per la prima volta in questa legislatura, il Parlamento non Pag. 36viene oltraggiato dal Governo e che ci troviamo di fronte ad un rispetto delle procedure, garantite dalla Costituzione, che hanno permesso, nelle varie sedi - nelle Commissioni prima e, ne sono certo, in quest'Aula, poi - un vero confronto di idee, di posizioni ed anche di atteggiamenti e di soluzioni diverse. Questo per me è un fatto molto importante, perché è la prima volta, in questa legislatura, che la Costituzione viene applicata nella sua ragione ideale, che è quella di permettere che i provvedimenti siano realmente dibattuti e discussi e realmente siano il risultato di un confronto, al di là del fatto che vi sia una maggioranza che, poi, può far prevalere il suo punto di vista.
Vorrei dire, altresì, che alcune proposte avanzate dall'opposizione sono state accolte e che, quindi, il testo è sicuramente migliore - almeno per il giudizio che diamo noi dell'Italia dei Valori - di come era al momento in cui è stato trasmesso dal Senato. Naturalmente, resta una serie di riserve importanti, per le quali continueremo, anche in questa sede, a presentare - anzi, abbiamo presentato - proposte emendative. Pertanto, sarà poi l'andamento dei lavori in quest'Aula a consentirci di formulare il nostro giudizio definitivo sul testo in discussione.
Vorrei ricordare che, quando si aprì la discussione generale nelle Commissioni, diedi alcuni giudizi sul testo che ci veniva proposto. Come primo giudizio - lo dico, perché vorrei tracciare un percorso che indichi quale era stato il giudizio dato all'arrivo del testo, fino ad arrivare al giudizio finale - dissi che ci trovavamo di fronte ad un'equazione di sole incognite. Un'equazione di isole incognite, per definizione, ammette risultati infiniti e, quindi, è impossibile da risolvere. È evidente, che l'equazione sarà risolta, poi, dai successivi decreti legislativi e che, quindi, sarà quella la sede in cui si definiranno i parametri che permetteranno di dare un risultato finale al provvedimento.
In quell'occasione, inoltre, ribadii - oggi come oggi lo ribadisco - che condividevo l'idea di un economista che aveva sostenuto che il federalismo fiscale, perlomeno per come appare dalla legge delega, è come l'elettrone, che è potenzialmente dappertutto e la cui funzione d'onda collassa, determinandone la posizione solo quando qualcuno l'osserva. Nel testo in discussione, vi sono talmente tante possibili variazioni - i tributi, le funzioni, gli strumenti di perequazione, i costi ed i fabbisogni standard, e così via - che il risultato potrebbe essere tutto ed il contrario di quel tutto, a seconda del valore che assumeranno quei parametri. Pertanto, come concludeva quell'economista, la legge delega collasserà e, in quel momento, se vi sarà una posizione precisa, il Governo, attraverso i decreti attuativi, darà un'interpretazione delle dozzine, delle decine, delle centinaia di variabili in gioco.
Vorrei parlare, inoltre, delle audizioni. In questo iter, finalmente rispettoso delle procedure costituzionali, abbiamo avuto la possibilità di effettuare numerose audizioni che, peraltro, ci hanno lasciato totalmente in preda di questa indeterminatezza, perché nessuno è in grado di dire qualcosa di più, in termini di risultato finale, rispetto ad un disegno di legge così complesso.
Qualcuno, come l'ufficio studi della Banca d'Italia, ci ha detto qualche cosa su determinati parametri, in particolare nel campo dell'istruzione e dell'assistenza, ma ancora una volta anche l'ufficio studi della Banca d'Italia non è stato in grado di fornirci il risultato finale.
Vi sono, tuttavia, alcune questioni che restano e si tratta di questioni, a mio giudizio, importanti. Avevamo chiesto che prima di addivenire a questo provvedimento, vi fosse la revisione delle funzioni fondamentali degli enti locali e, quindi, che la Carta delle autonomie locali precedesse l'approvazione o l'applicazione del provvedimento in esame. Se si va a guardare bene, esistono almeno una decina di livelli istituzionali che, direttamente o indirettamente, vivono grazie ai soldi che vengono prelevati dalle tasche dei cittadini, partendo dalle circoscrizioni, per passare certamente a comuni, province e regioni, per arrivare alle unioni tra comuni, Pag. 37alle comunità montane, ai consorzi di bonifica, ai bacini imbriferi montani, agli ambiti ottimali della cosiddetta legge Galli. Vi sono tantissime entità e alcune di queste fruiscono addirittura di entrate proprie in qualche modo, perché possono permettersi di fissare tariffe a carico dei cittadini o perché, addirittura, hanno una propria capacità impositiva, come avviene per i consorzi di bonifica previsti da un vecchio decreto-legge degli anni Trenta (non è uno di quelli che il Ministro ha abrogato), oppure come i bacini imbriferi montani, che fruiscono di un'aliquota di una sovrattassa legata all'energia elettrica. Ho tralasciato le città metropolitane, ma su queste parlerò in seguito, con un appunto specifico, visto ciò che è avvenuto nelle Commissioni.
È evidente che di fronte a tanti livelli istituzionali il controllo della spesa pubblica diventa fortemente aleatorio e per questo avremmo dovuto stabilire prima quanti, tra tutti questi livelli istituzionali, avevano un senso logico e quanti, invece, non avendolo più, avrebbero dovuto essere riportati alla logica che vuole tali funzioni siano assegnate al comune piuttosto che alla regione (non dico alle province perché noi, come è noto, siamo a favore dell'abolizione delle province e, pertanto, ometto in questo momento di citarle).
Questo è un tema, a nostro avviso, rilevante. Lo riproporremo ancora in questa sede perché riteniamo che vada affrontato. So bene che il Ministro Calderoli è a buon punto nella definizione della Carta delle autonomie locali; tuttavia, avremmo dovuto, a mio giudizio, approvare prima tale documento.
Inoltre, vi è la questione dei costi e dei fabbisogni standard per il finanziamento dei livelli essenziali. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la determinazione dei costi, in ambito aziendale, sa bene quanto sia difficile calcolare i costi di produzione di un bene. Questo perché vi è un elemento in grado di modificare completamente il calcolo finale, ossia l'attribuzione dei costi fissi. A seconda del criterio in base al quale attribuisco a un prodotto, piuttosto che ad un altro, i costi fissi, cambia completamente il risultato finale.
Ciò diventa ancora più difficile nel campo dei servizi, perché almeno nel campo della produzione dei beni solidi, dei beni concreti e dei prodotti vi è una logica che mi permette di seguire il flusso dei costi fissi in relazione a ciò che materialmente eseguo. Nel campo dei servizi spesso questo elemento non è presente e ciò rende ancora più difficile il calcolo. Pertanto, forse sarebbe stato più giusto dire che più di un costo standard, si fa riferimento a una sorta di strumento di benchmarking, assumendo un certo parametro, ossia quello della maggiore efficienza.
Ma qui veniamo al nodo della questione. Qual è la più efficiente? Infatti, l'idea e la scelta di fare riferimento a una regione, ancora una volta, pone notevoli problemi anche di natura teorica e tecnico-applicativa. Infatti, se guardiamo alcuni dati che ci ha fornito la Corte dei conti, per esempio, scopriamo, come ho già detto, che la regione che spende meno per l'istruzione - mi riferisco alla spesa pro capite - è la Puglia.
Però, se andiamo a valutare sulla base dei dati dell'ufficio studi della Banca d'Italia chi è più efficace in termini di risultato nel campo dell'istruzione non troviamo sicuramente la Puglia. Pertanto, dovendo prendere un benchmarking, andiamo a prendere quello che spende meno, ma che dà un risultato che non è certamente apprezzabile? Oppure come facciamo? Infatti, si tratta di un aspetto determinante.
Probabilmente se invece di fare riferimento ad una sola regione si facesse riferimento a un panel di regioni si avrebbero risultati medi più interessanti, anche se in tal caso vi sarebbe un rischio molto grave, lo stesso che abbiamo avuto per molto tempo nel settore assicurativo. Infatti, essendo di fissazione politica il prezzo delle polizze di responsabilità civile automobilistica (si trattava di una tariffa determinata dallo Stato), lo Stato si trovava di fronte ad un problema di questo Pag. 38tipo: o prendeva la tariffa del più efficiente, e a questo punto mandava in fallimento tutto il resto dell'industria assicurativa, o, come purtroppo ha fatto in quel periodo, prendeva una tariffa molto più alta per permettere anche alle imprese marginali di sopravvivere, facendo fare molti miliardi di profitto al più efficiente a danno, però, di tutti i cittadini, che pagavano di più per la tariffa assicurativa della responsabilità civile.
Ci sono, come si vede, molte situazioni. Voglio però, prima di concludere, citare un problema. Nelle Commissioni, a proposito delle città metropolitane, si è verificato un fatto a mio giudizio molto grave, che definisco un atto di prostituzione politica e che riguarda l'istituzione della città metropolitana di Reggio Calabria, che non ha nessun senso logico legato all'esigenza di coordinamento di area vasta che è insita nel concetto di città metropolitana. Siamo di fronte ad una vera e propria «marchetta», inaccettabile da parte dell'Italia dei Valori, che ha presentato un emendamento soppressivo. Mi appello soprattutto a chi, come il partito della Lega, in passato si è sempre preoccupato del controllo e della riduzione della spesa pubblica e della riduzione degli sprechi perché, come è noto, Reggio Calabria è una città che ha 180 mila abitanti: è la diciottesima città in Italia, ve ne sono diverse di dimensioni nettamente superiori e con maggiori ragioni di avere un problema di coordinamento di area vasta (ad esempio Padova, Brescia, Verona, ma anche nel Mezzogiorno ve n'è certamente più di una che ha queste caratteristiche).
Trovo che ciò sia inaccettabile. Avremmo acceduto alla proposta, che avevamo accettato di sostenere e che aveva un senso logico, della città metropolitana dello Stretto. Se avessimo immaginato di attribuire questa caratteristica mettendo insieme Messina e Reggio e le loro due province, probabilmente ciò avrebbe avuto un senso logico di coordinamento, ma in questi termini non lo ha assolutamente, e mi auguro che il Governo ci rifletta quando discuteremo il nostro emendamento.
Mi avvio alla conclusione. Abbiamo fatto altre proposte che abbiamo reiterato in questa sede e che riguardano le problematiche, ad esempio, del tentativo di prestabilire un tetto alla pressione fiscale in sede di applicazione del federalismo fiscale, in modo da non trovarci poi di fronte, come nessuno può escludere in questo momento, ad un'esplosione della spesa e, quindi, della finanza locale nel suo complesso.
Abbiamo anche chiesto che si proceda all'armonizzazione dei bilanci. Non è possibile immaginare di fare del federalismo fiscale quando ancora non sono confrontabili i bilanci degli enti locali sui quali dopo dovrebbe essere fondato il controllo del federalismo.
Noi proponiamo, in particolare, lo schema contabile SEC 95, che è quello del sistema europeo dei conti nazionali e regionali, magari con la previsione che debba essere automaticamente seguito nella sua evoluzione.

PRESIDENTE. Onorevole Borghesi, la prego di concludere.

ANTONIO BORGHESI. Concludo, signor Presidente. Avremmo preferito una più precisa e più forte partecipazione da parte del Parlamento, con dei pareri di natura vincolante. Inoltre, ci sono altre proposte che abbiamo presentato e che illustreremo in sede di esame degli emendamenti, ma soprattutto ricordo che il problema vero e proprio è che sarà solo uno dei decreti che fisserà l'orizzonte temporale finale del provvedimento, che comunque non andrà a regime prima di sette anni. Quindi, anche considerando il minor termine possibile, siamo comunque di fronte ad un provvedimento che oggi è un manifesto, è un libro delle buone intenzioni, ma che solo in un futuro assai lontano potrà tradursi in un atto concreto di federalismo fiscale.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Lorenzin. Ne ha facoltà.

BEATRICE LORENZIN. Signor Presidente, onorevoli colleghi, riprendo l'intervento Pag. 39dell'onorevole Borghesi: oggi non ci troviamo di fronte ad un manifesto politico, né al libro delle buone intenzioni, come egli ha dichiarato, ma ad un atto politico concreto ed effettivo, che dà e segna una svolta epocale nel nostro Paese. Egli parlava dei tempi di applicazione. Ricordo quando negli anni Novanta si discuteva di decentramento amministrativo: era il 1990, ero poco più di una ragazzina, e in Italia, in questo stesso Parlamento, si portavano a casa due provvedimenti importanti, le leggi n. 142 e n. 241 del 1990. È passato tanto tempo prima che questi provvedimenti si incardinassero nella vita amministrativa delle nostre città, eppure, se non ci fosse stato quel tempo e quel passaggio, oggi non saremmo qui, dopo una riforma della nostra Costituzione, a parlare del federalismo fiscale e a dargli attuazione.
Nelle Commissioni (ringrazio l'onorevole Lanzillotta, che è qui di fronte a me, nei banchi dell'opposizione, per il contributo molto importante al dibattito che ha dato in Commissione affari costituzionali) c'è stata attenzione anche sui particolari di questa norma, essendo tutti consapevoli che andiamo a riformare la struttura stessa del nostro Stato, e che, quindi, non solo i decreti attuativi sono necessari, ma ci sarà la necessità di una grande attenzione da parte del Parlamento, di tutte le forze politiche, e anche di una collaborazione con gli enti locali e il tavolo delle regioni.
Quindi, se non ci fossero stati questi passaggi, noi oggi non saremmo qui a segnare un cambiamento importantissimo per la nostra amministrazione. Einaudi diceva che il cittadino vuole sapere perché paga le tasse. Ebbene, oggi, forse, con qualche anno di distanza, in Italia glielo stiamo dicendo: deve pagare le tasse per ottenere servizi. Le tasse debbono essere giuste e i servizi percepibili. L'ipotesi che si faceva prima, cioè il fatto che spesso ad una spesa pubblica maggiore corrisponde un servizio migliore, è stata smentita nei fatti: dall'amministrazione di cui ha fatto parte, che ha accumulato 7 miliardi di debito e nella quale i cittadini hanno avuto una serie di disservizi enormi nella loro vita quotidiana; dalla spesa impazzita di alcuni enti locali: penso alla spesa sanitaria di molte regioni, cui non ha fatto seguito una corretta fornitura di un servizio essenziale, come quello della salute pubblica; la stessa cosa potremmo dirla ad esempio per quanto riguarda i trasporti o le spese nel settore ambientale (è di fronte a noi l'esempio della regione Campania). Quindi, anche questo parametro non è concettualmente accettabile, né tanto meno condivisibile.
Ribaltiamo invece il ragionamento, diciamo che cosa fa questo federalismo fiscale di cui tutti parlano e che forse pochi ancora conoscono. Questo federalismo fiscale istituisce realmente nel nostro Paese un vero momento di solidarietà, una solidarietà che si fonda sul principio di responsabilità: per la prima volta - o forse per la prima volta in modo compiuto, perché bisogna dare atto a tutti quegli enti, a quei sindaci e amministratori che hanno lavorato con attenzione alla spesa pubblica - ci si autoresponsabilizza. Le amministrazioni faranno riferimento diretto ai propri cittadini per rendere conto di come spendono i soldi pubblici, soldi che non vengono da uno Stato astratto, ma che vengono dalle tasche di ogni cittadino che abita nelle nostre città, nelle nostre province, nelle nostre regioni.
In questi anni il dibattito è stato - per fortuna ora non lo è più - inquinato da una serie di timori, di grandi timori, di spettri che sono stati agitati per il Paese attraverso i mass media, come capita spessissimo in Italia quando si vuole intervenire con qualsiasi cambiamento. Si diceva che il federalismo fiscale avrebbe creato regioni di serie A e regioni di serie B, si diceva che il federalismo fiscale avrebbe rischiato di aumentare la spesa e la tassazione. Oggi, con questa legge, ci rendiamo conto nei fatti che non è più così, che non è mai stato così, e che anzi questo federalismo non solo determinerà una riduzione della spesa, con una riduzione delle tasse perché a questo punto gli amministratori dovranno rendere conto ai cittadini della loro scelte, ma che nella Pag. 40legge stessa sono previsti dei meccanismi di controllo e di perequazione, cioè di solidarietà tra le regioni.
Questo è un principio importantissimo che ci deve far comprendere come alcune chimere che sono state sbandierate in questi anni ci hanno fatto soltanto perdere tempo. Mi dispiace solo che siamo arrivati a questo importantissimo passaggio della nostra vita costituzionale ed istituzionale avendo perso una grande occasione, quella del referendum del 2006: la grande occasione di costituire anche il Senato delle regioni che sarebbe stato, quello sì, un elemento di compensazione e di chiusura di un passaggio politico, istituzionale ed economico che segnava il cambiamento nel nostro Paese.
In quegli anni - sono solo pochi anni fa ma sembra un decennio, visto il dibattito che per fortuna vi è oggi in questo Parlamento e nelle Commissioni - la discussione è stata inquinata dallo scontro partitico, dal muro contro muro. Oggi su questa legge ciò non sta avvenendo e ne sono profondamente grata, innanzitutto sul piano generazionale, perché il nostro Paese oggi non ha bisogno di questo tipo di scontri, ha bisogno di leggi concrete, ha bisogno di amministratori che si assumano la responsabilità di quello che fanno, ha bisogno di una classe dirigente, di maggioranza e di opposizione, che sappia fare scelte per il futuro del nostro Paese e della nostra nazione, lasciando ogni tanto anche qualche egoismo di parte, qualche egoismo regionale, qualche elemento di appartenenza territoriale.
Per questo dico che questa legge non è la legge della Padania, è la legge dell'Italia, di tutta l'Italia (Applausi del deputato Polledri), in particolare dell'Italia del sud. Con questa legge il nostro sud, il vituperato sud che è stato spremuto e sfruttato, ha la possibilità di autoresponsabilizzare amministratori che devono assumere la consapevolezza delle proprie scelte e non possono rimandare sempre ad uno Stato centrale, ad una Roma lontana, la risoluzione di problemi che loro sono in grado di risolvere oggi, ora e subito. Questo non significa che non ci debba essere solidarietà: ci deve essere, ma con la consapevolezza che è una solidarietà di tutti e condivisa.
Non entrerò nella dinamica del passaggio dalla spesa storica al costo standard, perché molti lo hanno fatto e lo faranno meglio di me. Mi limito a una considerazione conclusiva sulla questione di Roma. Aver capito l'importanza di inserire nell'articolo 23 l'istituzione di Roma capitale è stato un passaggio incredibile, che dà il segno anche al Paese dell'unità tra nord e sud e della capacità di aver costruito, finalmente, come accade in tutti i Paesi europei (e non solo) che hanno grandi capitali, una norma che garantisca a Roma la possibilità di svolgere appieno la sua funzione: quella di essere la città dell'accoglienza, dell'integrazione, delle istituzioni, della politica romana.
La nostra immagine è quella di una città che si deve trasformare non solo nella grande capitale d'Italia, qual è, ma che deve riavere il prestigio, il calibro e la capacità di reggere il confronto con le grandi capitali mondiali, perché Roma è stata per la sua storia ed è oggi per le sue opportunità una grande capitale, una grande città e un segno di sperimentazione. Possiamo, infatti, sperimentare a Roma modelli amministrativi diversi, che per la loro struttura «macro» si possono poi riversare anche in un sistema federale nel resto del nostro Paese (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. Saluto gli studenti dell'istituto comprensivo Alessandro Manzoni di Maracalagonis (Cagliari), che stanno assistendo ai nostri lavori dalle tribune (Applausi).
È iscritta a parlare l'onorevole Lanzillotta. Ne ha facoltà.

LINDA LANZILLOTTA. Signor Presidente, Ministri, colleghi, vorrei ricordare che un'organizzazione della Repubblica basata su un deciso rafforzamento del sistema delle regioni e delle autonomie locali è stata la risposta che le forze politiche del centrosinistra hanno indicato Pag. 41sin dagli inizi degli anni Novanta come l'unica capace di contrastare la crisi profonda che ormai da più di quindici anni attanaglia il nostro Paese: crisi fiscale e finanziaria, crisi delle istituzioni politiche e della democrazia, crisi delle pubbliche amministrazioni. Crisi che hanno minato profondamente il rapporto di fiducia tra cittadini e Stato, la credibilità e l'affidabilità delle istituzioni e, di conseguenza, la capacità, oggi, dell'intero Paese di reagire tempestivamente ed efficacemente ai mutamenti epocali che l'Italia e il mondo stanno vivendo.
Questa idea, questa convinzione, ossia quella di partire dal basso, dai poteri locali, è stata alla base del processo di devoluzione amministrativa attuato a partire dalla legge n. 59 del 1997 e questa stessa idea è stata poi alla base del nuovo Titolo V della Costituzione che ha disegnato, o forse, potremmo dire meglio, ancora oggi, ha sognato, uno Stato più semplice, con un'amministrazione più leggera, più trasparente, più vicina ai cittadini e, quindi, più controllabile, ma che, soprattutto, ha delineato una nuova organizzazione delle funzioni pubbliche tale da consentire al cittadino di tornare a comprendere e, se possibile, ad apprezzare il rapporto tra prelievo fiscale e beneficio della prestazione pubblica, cioè a ridare un senso civico positivo al sacrificio fiscale.
Questo è il senso e la ragione ultima della riorganizzazione delle funzioni pubbliche in chiave federalista, della quale il federalismo fiscale - credo che non lo dobbiamo mai dimenticare - è un corollario, un corollario essenziale, ma non il fine ultimo: rispondere alla rivolta fiscale sempre latente in un Paese fortemente indebitato, e anche per questo con una pressione fiscale tra le più alte in Europa ma con una qualità dei servizi pubblici tra le più basse, e ritrovare le ragioni del patto fiscale sul quale si fonda lo Stato. È un patto che per resistere deve essere sentito equo, sostenibile e vantaggioso non solo in linea di principio e nelle leggi, ma nel senso comune, nella percezione reale delle persone. Quindi, portare le decisioni di spesa e di prelievo quanto più possibile vicino al cittadino è la via per ricostituire la sintonia con lo Stato e per rilegittimare la democrazia, soprattutto laddove, a fronte di una spesa pubblica alta rispetto alla capacità fiscale del territorio, è invece più bassa la qualità delle prestazioni e dei servizi pubblici. Infatti, come soprattutto i cittadini meridionali hanno sperimentato sulla loro pelle, nella loro vita, da molti decenni, non è vero che più spesa pubblica equivale automaticamente a più servizi, a maggiore qualità della vita e a più diritti.
Per questo motivo il Partito Democratico è convinto che il federalismo sia una grande riforma istituzionale e per questo ha speso energie, impegno e proposte per collaborare ad attuarlo nell'interesse del Paese. Ma perché questa riforma non deluda le aspettative, con l'effetto di uccidere definitivamente ogni speranza di riformare il nostro Stato, non basta un nuovo sistema di fiscalità intestato alla responsabilità dei governi locali: è indispensabile che il nuovo sistema fiscale sia al servizio di un'amministrazione riorganizzata e riqualificata secondo i principi indicati proprio dal Titolo V.
A mio parere, invece, è questo il limite strutturale di questo disegno di legge, un limite che rimane anche dopo il lavoro svolto al Senato e alla Camera in sede di Commissione e che rischia di trasformare questo progetto più in una bandiera propagandistica da sventolare nella prossima campagna elettorale che in una vera e incisiva riforma. È, infatti, un limite che sta nella rinuncia alla sfida della riforma dell'amministrazione locale secondo i principi dell'articolo 117 della Costituzione.
Cari Ministri e cara maggioranza, questa è una riforma che costa molta fatica perché mette in discussione rendite di posizione e rendite su cui si fondano gli equilibri politici locali al sud come, e forse ancor più, al nord. Quali saranno, infatti, i mitici costi standard da finanziare con questo federalismo fiscale? Sono forse i costi di un sistema in cui le funzioni sono polverizzate tra più di ottomila comuni che questo testo non costringe ad associarsi Pag. 42tra loro? I costi di un sistema in cui ogni livello potrà continuare ad occuparsi di tutto con la conseguenza che ad ogni livello di governo (regionale, provinciale, comunale, comunità montana, unione di comuni e circoscrizione municipale) continueranno ad esserci assessorati, organismi, enti e società che si occupano tutti della stessa materia? Il risultato sarà quello di dilatare i costi, soprattutto con la conseguenza che i cittadini e le imprese continueranno a non capire chi fa cosa e di chi è la responsabilità di ritardi e disservizi. Forse si tratta dei costi dei servizi gestiti in house da più di 6 mila società per azioni di proprietà degli enti locali, ovvero servizi sulla cui liberalizzazione voi avete messo una pietra tombale con l'articolo 26-bis del decreto-legge n. 112 del 2008.
Temo che questo federalismo fiscale, senza prima la riforma strutturale dell'amministrazione locale, cristallizzerà le inefficienze con il risultato che sarà molto più difficile smontarle. Sarà, inoltre, a rischio l'intero progetto che potrebbe per questo risultare insostenibile sul piano della spesa e della pressione fiscale oppure, per realizzarlo, risulterà necessario procedere ad una riduzione delle prestazioni e quindi il progetto sarà insostenibile sul piano sociale.
Tuttavia, vi sono altri punti critici del provvedimento su cui mi auguro, però, si potrà compiere in Aula (come abbiamo fatto in Commissione) un lavoro di miglioramento del testo per una sua più larga e sincera condivisione. Innanzitutto, sul ruolo del Parlamento si è fatto un grande sforzo e voglio ringraziare il Ministro Calderoli al di là del risultato perché credo che abbia svolto in tutti questi mesi innanzitutto un lavoro di rispetto nei confronti del Parlamento, un lavoro tanto più apprezzabile in questi giorni in cui il Parlamento è fatto segno di atteggiamenti molto diversi anche da parte di autorevoli esponenti del suo Governo. Tuttavia, Ministro, siamo davanti ad un paradosso perché marginalizziamo in termini sostanziali (nonostante la modifica apportata in Commissione) il ruolo del Parlamento in materia di attuazione costituzionale. Molto più forte e vincolante attraverso l'intesa, invece, è il ruolo della Conferenza unificata, ovvero un organismo non previsto dalla Costituzione, ma una sede intergovernativa priva di pubblicità. Credo che ciò non possa essere coerente con l'assetto e la gerarchia dei poteri costituzionali.
Altro punto che lascia perplessi è la manovrabilità che persiste delle basi imponibili dei tributi erariali che dovrebbero, invece, garantire l'unitarietà e la progressività del sistema tributario in ossequio all'articolo 23 della Costituzione. Si tratta di un limite che deriva da un altro aspetto del tutto incoerente, a mio avviso, con il disegno federalista, ovvero l'eccessivo peso delle compartecipazioni ai tributi erariali rispetto ai tributi propri. I tributi propri, infatti, sono il vero nodo della responsabilità del prelievo e del rapporto tra prelievo fiscale e prestazioni a livello territoriale, mentre le compartecipazioni sono dei comodi schemi dietro cui gli enti locali si nascondono per avere un finanziamento dinamico dei loro costi.
Proprio su questo - se posso ancora sottolineare - vi è una contraddittorietà nel comportamento del Governo, che, per quanto attiene ai tributi propri, ha tagliato la leva fondamentale della fiscalità degli enti locali, cioè l'ICI, eliminando uno strumento fondamentale del rapporto tra enti locali e cittadini.
Infine, voglio richiamare un altro punto, che investe la coerenza con un principio fondamentale della Costituzione, ossia il principio di uguaglianza. Infatti, nel testo rimane impregiudicata la questione del finanziamento delle regioni a statuto speciale, per le quali non si afferma, in modo chiaro e semplice, senza ambiguità, che per tutti gli italiani deve valere lo stesso principio: la corrispondenza tra il costo delle funzioni e i compiti che a ciascun governo locale sono attribuiti e la proporzionalità tra le risorse e questi compiti, mentre tutto il resto deve arrivare dallo sforzo fiscale, autonomamente deciso da ciascun territorio, e dalla Pag. 43capacità dei governi locali di gestire in termini di efficienza e di efficacia poteri e risorse.
È questa la sfida del federalismo, che deve essere per tutti allo stesso modo, per regioni ordinarie e speciali, e in prospettiva semispeciali. L'articolo 116, terzo comma, della Costituzione delinea una convergenza del sistema, che deve basarsi sullo stesso metodo e sugli stessi principi. Su questi temi, noi ci auguriamo posizioni più chiare, coerenti e, quando occorre, Ministro Calderoli, più coraggiose, posizioni che noi, come abbiamo fatto fino adesso, valuteremo senza pregiudiziali, perché il sostegno al disegno è forte e non da oggi (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Saluto gli studenti del circolo didattico Sant'Egidio del Monte Albino, della provincia di Salerno, e gli studenti del Coggin College of Business dell'Università del nord della Florida, che stanno assistendo ai nostri lavori dalle tribune (Applausi).
È iscritto a parlare l'onorevole Casini. Ne ha facoltà.

PIER FERDINANDO CASINI. Signor Presidente, mi consenta di iniziare il mio intervento con una battuta, che è molto serena e cordiale, di saluto ai Ministri Bossi e Fitto, ma anche di dire che qui, in quest'Aula, oggi il vero «apprendista stregone» è il Ministro Calderoli, il quale ha fatto un miracolo (diciamo la verità), perché è riuscito a far credere a gran parte del mondo politico italiano, a partire dal Partito Democratico, che la sfida del federalismo viene affrontata con efficacia e con efficienza, quando invece, come per la verità ha dimostrato in questo intervento l'onorevole Lanzillotta, la questione va vista in termini esattamente inversi. In quest'Aula, in questo momento, all'inizio del dibattito, non ci si può dividere tra federalisti e antifederalisti, così come non accetto la divisione di chi in quest'Aula si presume faccia, di volta in volta, l'avvocato difensore del nord o del sud.
Qui non c'è una contestazione al federalismo, che proviene in nome del Mezzogiorno rispetto al nord, ma l'idea che questo federalismo, che ci apprestiamo a discutere in quest'Aula, sia in realtà uno spot elettorale confezionato, per legittime ambizioni di carattere politico, dalla Lega, e non l'occasione che il nostro Paese aspettava, per affrontare seriamente il tema del nuovo assetto dello Stato. Siamo in una situazione drammatica sotto il profilo dell'economia. Siamo in una crisi sociale ed economica enorme. Eppure, in questo disegno di legge, si perde l'occasione principale, quella di intervenire, di disboscare, di avere il coraggio anche di tagliare. Penso al tema delle province, ampiamente evocato in campagna elettorale ed oggi dimenticato in questo disegno di legge. Non poteva che essere così. Questo disegno di legge non poteva che dimenticare le province, come l'azione del Governo non poteva non dimenticare la liberalizzazione dei servizi pubblici locali, per la quale si assiste a un ritorno indietro, non solo e non tanto rispetto al disegno di legge del Ministro Lanzillotta della scorsa legislatura, ma anche nei confronti dello stesso disegno di legge emendato da Rifondazione Comunista.
Perché non poteva essere che così? Perché, in realtà, abbiamo piegato questo momento così importante della vita parlamentare alla convenienza politica di una parte di questa coalizione di Governo, che si vuole presentare con uno spot: vuole dire, alle elezioni europee, che si è fatto il federalismo; vuole, sostanzialmente, fissare dei principi che astrattamente potrebbero essere anche, alcuni di questi, giusti e condivisibili (pensiamo al superamento del criterio della spesa storica e al costo standard), ma che, fuori da una cornice organica, finiscono per essere affermazioni di principio che rischiano di produrre un grande disastro per lo Stato, una moltiplicazione dei centri di spesa e una maggiore pressione fiscale. Ciò, nonostante si sia acceduto, nel corso della discussione in Commissione, ad inserire, in termini generici, la clausola di invarianza nel testo del disegno di legge.
Pur tuttavia - mi rivolgo ai rappresentanti del Governo - ci presentiamo con Pag. 44spirito costruttivo, perché questa sfida va accettata; certamente, siamo del tutto indifferenti alle «scomuniche» nei confronti di presunti antifederalisti, che non esistono in quest'Aula, perché nessuno è depositario del federalismo vero, anche se la Lega, storicamente, su questo ha condotto una grande battaglia, che, purtroppo, per così dire, ha partorito un topolino, perché questo è un topolino, con tante contraddizioni e incertezze che rischiano di pesare nei prossimi anni sul nostro Stato e sul nostro Paese.
Siamo consapevoli del fatto che non si possa procrastinare all'infinito l'attuazione dei principi del federalismo fiscale previsti dalla Costituzione, anche se riteniamo che sarebbe stato meglio effettuare prima le modifiche costituzionali necessarie a governare il sistema delle autonomie, cominciando dal Senato delle regioni. Siamo contrari a questo federalismo fiscale, che, così com'è, non serve a contenere e a razionalizzare la spesa; anzi, rischia di aumentarla e di produrre conseguenze negative.
Fino ad oggi il testo è stato migliorato nella forma, ma non nella sostanza; ci auguriamo che in questo passaggio si possa passare dalla forma alla sostanza. L'inserimento, come dicevo, all'ultima ora della clausola di invarianza, di cui avevamo denunciato l'assenza, riduce, ma non elimina, i profili di incostituzionalità.
L'impossibilità di calcolare i costi e i rischi di oneri aggiuntivi per lo Stato e per i cittadini non sono eliminati, in quanto manca una sostanziale garanzia sugli effetti che l'attuazione del disegno di legge avrà nel tempo sul prelievo fiscale.
La discussione nel merito del provvedimento consentirà di tornare su questi argomenti, ma, nel complesso, voglio rimarcare che il testo uscito dall'esame presso le Commissioni non supera le riserve che avevamo espresso e che riproporremo, come è nostra abitudine, con emendamenti in questa fase del dibattito.
In questo contesto, giova ribadire che solo dopo aver definito con chiarezza chi fa cosa, quanto deve essere fatto e quanto costa farlo è possibile immaginare un nuovo modello di finanziamento di regioni ed enti locali e, più in generale, una nuova regolamentazione dei rapporti finanziari tra Stato, regioni ed enti locali, in ossequio a quanto previsto dall'articolo 119 della Costituzione.
Per questa semplice ragione l'attuazione dell'articolo 119 può realizzarsi solo dopo che saranno definiti chiaramente i livelli essenziali delle prestazioni che lo Stato deve garantire a tutti i cittadini, le funzioni fondamentali degli enti locali e il livello di decentramento necessario ad assicurare l'esercizio unitario delle funzioni sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza secondo quanto previsto dagli articoli 117 e 118 della Costituzione.
È necessario, dunque, far precedere l'esame del disegno di legge sul federalismo fiscale dall'esame e dall'approvazione del progetto di legge relativo alla Carta delle autonomie, in quanto, per le ragioni esposte, l'aspetto istituzionale risulta, senza dubbio, logicamente precedere e prevalere sugli aspetti finanziari.
Avremmo voluto, inoltre, che si evitasse la delega legislativa, il cui contenuto è nelle mani del Governo. Un percorso tanto complesso non basta realizzarlo con un ossequio formale verso il Parlamento, perché da questo punto di vista il Ministro Calderoli e tutti voi siete state ineccepibili: un percorso tanto complesso si deve realizzare con legge ordinaria, approvata dopo approfondita discussione dei due rami del Parlamento. Non è stato possibile, e si è chiesto di procedere con delega, ma non ci si può chiedere di sottoscrivere una delega in bianco.
Si propone un congegno ad alta complessità istituzionale: così lo ha definito il Ministro Tremonti al Senato, quando ha spiegato di non poter calcolare gli effetti del provvedimento, e quindi gli oneri. Circa dodici tributi in gioco, cinque soggetti istituzionali per l'attuazione, due fondi di solidarietà previsti dalla Costituzione, ventinove principi e criteri direttivi generali e circa ottantanove specifici, fino a diciotto decreti delegati al netto delle modifiche ed integrazioni (il numero non Pag. 45è indicato, ma sono ipotizzabili sulla base della materia). Una delega che viene conferita per il periodo, è bene sottolinearlo, coincidente con questa legislatura: due anni per i decreti delegati e due anni per eventuali correzioni. Ma perché? Perché si vuole rendere subalterno il percorso ad una logica politica interna alla coalizione, che non può in alcun modo interessare chi siede in questo Parlamento e soprattutto chi svolge la funzione di forza di opposizione. In questo modo il Parlamento non delega, ma trasferisce le proprie competenze affidategli dalla Costituzione, e i dubbi sulla costituzionalità di tale soluzione si accompagnano a quelli - lo ripeto - sulla sostenibilità del percorso.
Con le deleghe previste il Parlamento resta fuori da aspetti molto importanti nella definizione del federalismo fiscale, ed è escluso nei fatti dalla cabina di regia dell'attuazione della riforma: Parlamento e Conferenze Stato-autonomie locali continuano a viaggiare su corsie separate, mentre la riforma del Titolo V aveva aperto la possibilità di integrare la Commissione per le questioni regionali, l'unica prevista dalla Costituzione, con rappresentanti delle regioni e degli enti locali. L'istituzione di una Commissione parlamentare bicamerale va incontro all'esigenza manifestata dall'Unione di Centro al Senato, ma opera a tempo indeterminato; in ogni caso, non si valorizza la Commissione per le questioni regionali. Sulla questione del controllo parlamentare non è stata nemmeno seguita la proposta, sostenuta dal Partito Democratico e da noi, di introdurre la previsione di pareri vincolanti, sugli schemi di decreto legislativo, della Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale. I forti dubbi di costituzionalità formulati dalla maggioranza hanno contribuito a mettere da parte anche altre proposte alternative coerenti con la Costituzione, che meritano attenzione: mi riferisco alla nostra proposta di rafforzare la funzione di controllo con pareri da adottarsi a maggioranza qualificata, obbligatori ma non vincolanti. In un contesto del genere francamente riteniamo che sarebbero ben altri i profili di costituzionalità su cui il relatore e la maggioranza dovrebbero riflettere; e non si vuole fare polemica, ma ribadire una preoccupazione forte e sentita che si stia forzando il sistema, illudendo i cittadini.
La tempistica dell'emanazione dei decreti delegati non consente di affrontare i nodi che sono emersi con evidenza nelle audizioni dinanzi alle Commissioni riunite. Sono di dubbia efficacia le misure per risolvere il problema della disomogeneità dei dati contabili degli enti locali, le carenze del quadro conoscitivo dei dati di bilancio degli enti locali (anche per via delle cosiddette esternalizzazioni, che nei «consolidati» non consentono di conoscere con precisione il livello della spesa pubblica), la necessità di classificazione, di definizione delle specifiche attività amministrative da ricondurre alle funzione delle regioni e degli enti locali. Ambigua ed evasiva la questione delle autonomie speciali: non essendo possibile con legge ordinaria prevedere l'introduzione dei principi e delle regole previste per il federalismo fiscale, il tema è trattato con compromessi, in modo da non scontentare nessuno; soluzione peraltro criticabile sul piano della tenuta costituzionale, proprio per la fonte utilizzata.
Siamo preoccupati che per la fretta si vada verso un federalismo fiscale incompleto e iniquo; in particolare non ci convince la genericità con cui si inquadra la futura determinazione del costo standard.
È ampiamente condivisibile l'abbandono di uno schema di finanziamento basato sulla finanza derivata, con l'attribuzione di entrate proprie e compartecipate in sostituzione dei trasferimenti, e il passaggio dal criterio della spesa storica ad una valutazione dei fabbisogni finanziari basata sulla valutazione del costo standard, inteso come costo di riferimento della produzione di un bene o di un servizio in condizione di efficienza produttiva. Mancano però i parametri, e tra questi riteniamo debba essere esplicito l'obbligo di tenere conto delle differenze territoriali: le condizioni economiche ed infrastrutturali del territorio incidono Pag. 46obiettivamente sui costi sopportati dalle imprese e dalla pubblica amministrazione.
Siamo quindi preoccupati che la differenza tra il costo standard coperto per le funzioni fondamentali e per i livelli essenziali delle prestazioni - quando capiremo quali sono - e il costo reale - cioè il costo sostenuto realmente dalle pubbliche amministrazioni nelle diverse aree del Paese - sia caricato sui cittadini che, a prescindere dal reddito, saranno costretti a pagare più tasse nelle aree svantaggiate.
Onorevoli colleghi, il dibattito ci consentirà di approfondire le singole questioni e mi auguro che nell'interesse del Paese si riesca a rivedere alcune scelte, lasciando da parte obiettivi particolari e contingenti.
Oltre agli emendamenti che saranno ripresentati, per contribuire a rendere più chiaro il testo e a garantire unitarietà, solidarietà e pari opportunità tra tutti i cittadini per noi sono fondamentali i seguenti emendamenti: primo, il complesso di emendamenti all'articolo 2, che definiscono un processo di attuazione del federalismo fiscale rispettoso delle autonomie territoriali e di carattere progressivo, da articolare nei ventiquattro mesi in fasi successive, nell'ambito delle quali ogni decreto legislativo deve essere sottoposto al parere parlamentare vincolante e rafforzato della Commissione bicamerale; secondo, gli emendamenti che stabiliscono che l'emanazione dei decreti delegati è subordinata all'introduzione della Carta delle autonomie; terzo, gli emendamenti che inseriscono esplicitamente il criterio per cui il calcolo del costo standard per il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazione e delle funzioni fondamentali dei comuni deve tenere conto della diversità economica, territoriale e infrastrutturale; quarto, l'emendamento in base al quale i pareri sono affidati alla Commissione parlamentare per le questioni regionali prevista dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, recante Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione, debitamente integrata con i rappresentanti di regioni, province ed enti locali; quinto, l'emendamento che prevede la maggioranza dei due terzi dei componenti per l'approvazione dei pareri da parte della Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale; sesto, infine, l'emendamento per sostituire nei criteri direttivi previsti dalla norma di salvaguardia il riferimento all'obiettivo di non aumento della pressione fiscale, con l'inserimento tra i criteri direttivi generali dell'obiettivo di ridurre la spesa corrente e il livello complessivo della pressione fiscale.
Onorevoli Ministri, cari colleghi, noi crediamo che al Parlamento e all'Italia non servano nuovi spot! All'Italia, in un momento così drammatico in cui serve coesione sociale e politica tra maggioranza e opposizione, non serve la propaganda; serve un profondo cambiamento del nostro Stato, serve il coraggio di abolire le province, di procedere sulla liberalizzazione dei servizi pubblici locali, di attuare una Carta delle autonomie che ci spieghi - prima di ogni altro provvedimento fiscale - le competenze e come a queste competenze adempiere.
Non sono - mi rendo conto - osservazioni facilmente risolvibili, eppure noi ci apprestiamo, con la solita costruttività, al lavoro comune di questi giorni in Parlamento (Applausi dei deputati dei gruppi Unione di Centro e Misto-Liberal Democratici-Repubblicani - Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Leo. Ne ha facoltà.

MAURIZIO LEO. Signor Presidente, possiamo senza tema di smentita affermare che lo Stato italiano non ha una configurazione centralista.
Nel corso del tempo, con la legge Bassanini, prima, nel 1998 e con la riforma del Titolo V, poi, abbiamo assistito ad un decentramento di funzioni dallo Stato alla periferia ma, contestualmente, non abbiamo assistito ad un decentramento di risorse. Lo Stato raccoglie le risorse, gli enti locali spendono: per questo era necessario dare attuazione all'articolo 119 della Costituzione e creare una simmetria tra entrate e spese; per questo il federalismo o è fiscale o non è e, dunque, per questo occorre intervenire per evitare che Pag. 47i centri di spesa agiscano in modo disomogeneo rispetto a quelli che sono i centri di raccolta, e in particolare le entrate che vengono reperite dallo Stato.
In questi ultimi tempi, gli enti locali hanno vissuto un po' della psicologia del vivere a spese altrui (come diceva Einaudi); gli enti locali spendevano, lo Stato raccoglieva le risorse. Si è, quindi, avvertita, questa asimmetria, questo scompenso, che viene ad essere colmato dal provvedimento al nostro esame.
Si tratta di un provvedimento che razionalizza l'assetto e che interviene, innanzitutto, nell'individuare esattamente quali sono le funzioni centrali, come i servizi essenziali previsti dall'articolo 117, lettera m), della Costituzione, e gli altri servizi non essenziali, un provvedimento che interviene in modo razionale per procacciare i mezzi finanziari per far fronte a questi servizi e a queste spese.
In sede di dibattito nelle Commissioni di merito è stato razionalizzato anche il sistema della raccolta delle risorse. Precedentemente, avevamo dei tributi propri che si distinguevano in tributi propri istituiti dallo Stato, ma il cui gettito era devoluto agli enti locali, tributi propri che potevano essere istituiti dagli enti locali, e un'ulteriore fonte di finanziamento prevista sulla base delle cosiddette aliquote riservate. Su quest'ultimo aspetto, è stato meritorio, ed apprezzabile, l'intervento adottato dai relatori, in comunanza con il Governo, volto ad eliminare il riferimento alle aliquote riservate, per porre maggiore attenzione sulle addizionali. È un intervento di semplificazione, perché oggi abbiamo un sistema che è costruito sulle stesse basi imponibili (non bisogna pensare a basi imponibili differenziate per le addizionali rispetto al tributo erariale). È tutto molto più semplice, vi sarà la possibilità per l'ente locale di modulare le detrazioni di imposta, ma sempre in una cornice definita dalle leggi dello Stato. Il sistema è, quindi, sicuramente più razionale ed efficiente.
Anche per quanto riguarda le compartecipazioni si è dato maggiore risalto alla compartecipazione all'IVA. È anche questo un intervento sicuramente apprezzabile, perché l'IVA è un tributo più compatto, più omogeneo, dato che il consumo non si differenzia, se non per i volumi, a livello territoriale; abbandonare la strada dell'IRPEF, per concentrarci con maggiore attenzione sulle compartecipazioni all'IVA è uno sforzo apprezzabile.
Vi è poi un aspetto che va sicuramente segnalato, e che può rappresentare una svolta nel nostro sistema tributario, ed è la graduale eliminazione dell'IRAP. È stato detto a chiare note - questo è un provvedimento che aspettiamo dal 1997 - che gradualmente si eliminerà l'IRAP. Sappiamo che oggi l'IRAP è il tributo che finanzia la spesa sanitaria, ma negli obiettivi del Governo vi è quello di eliminare questo tributo che ha creato solo scompensi nel sistema; basti ricordare che proprio in virtù della base imponibile di questo tributo si è creato il fenomeno della delocalizzazione.
Non è pensabile che un tributo incentrato sul valore della produzione non consenta la deduzione dei due principali fattori della produzione: il costo del lavoro e gli oneri finanziari. Non è pensabile, inoltre, che un soggetto che produce ricchezza non possa portare in diminuzione dalla propria base imponibile un fattore che è assolutamente essenziale. Tutto ciò ha portato alla delocalizzazione. Molte imprese hanno portato le loro strutture imprenditoriali all'estero e poi hanno riacquistato la merce in Italia.
L'IRAP verrà gradualmente eliminata e, in questo modo, si realizzerà un intervento di razionalizzazione del sistema. È un tributo che, nonostante tutto, assicura forti entrate agli enti locali, ma che dovrà essere sostituito (vedremo poi se verrà sostituito con addizionali o con altri meccanismi) perché sicuramente presenterebbe delle difficoltà anche in questa fase (non dimentichiamoci che nel 2008 la legge finanziaria ha rivisto il sistema di tassazione IRAP, creando un meccanismo di collegamento con il dato di bilancio), una fase di crisi e di recessione, per cui potremmo avere dei risultati molto negativi per quanto riguarda l'IRAP. Pag. 48
Per questo è apprezzabile lo sforzo del Governo e della maggioranza di intravedere una ristrutturazione del sistema fiscale, eliminando gradualmente questo tributo. Si tratta di un tributo che - come dicevo - creerà difficoltà al sistema Paese anche per quanto riguarda le imprese di maggiori dimensioni. Basti pensare al fatto che le imprese quotate nei mercati regolamentati, le banche, applicano l'IRAP anche esse sulla base dei principi contabili internazionali.
Una delle peggiori iatture che possano esistere in questa fase economica è rappresentata appunto dagli IAS, i principi contabili internazionali, che opportunamente il Ministro Tremonti ha definito come regole scritte da Bin Laden. Sicuramente sono meccanismi che non aiutano il sistema Paese, sono meccanismi che creano difficoltà alle imprese e ai conti pubblici. È per questo che il Governo si sta orientando verso una rivisitazione del sistema dei principi contabili internazionali, con ricadute e con conseguenze anche sul gettito erariale. Quindi, la strada intrapresa di razionalizzare e gradualmente eliminare l'IRAP, contenuta nel provvedimento sul federalismo fiscale, è da salutare con grande favore.
Anche la disciplina dei costi standard in sostituzione della spesa storica è un passo notevole in avanti. La spesa storica non è nient'altro che la sommatoria delle inefficienze e dei costi effettivi. Si va a depurare dalla spesa reale quello che è il fattore inefficienza. Anche qui si dovrà stabilire - ma mi sembra che con i decreti legislativi lo si potrà fare in modo attento e oculato - quali saranno i criteri da assumere per i costi standard. Saranno criteri di tipo analitico oppure di tipo politico monetario? La strada sicuramente percorribile è quella di tipo politico monetario, vale a dire individuando i livelli essenziali di assistenza. Occorrerà ricalibrare i costi standard al livello centrale e poi riproporzionarli su tutto il territorio nazionale, tenendo anche conto delle specificità di certe regioni. Basti pensare alla Liguria dove la spesa sanitaria è più alta anche se il numero degli abitanti è inferiore, perché, per ragioni climatiche, tanti cittadini si spostano da altre realtà territoriali in Liguria e lievita la spesa sanitaria. Quindi la ricalibratura dei costi standard dovrà tener conto anche di questi fattori. Ma in questa direzione penso che sicuramente si muoveranno coloro i quali porranno mano ai decreti legislativi per razionalizzare il sistema.
Infine, vorrei richiamare un aspetto fondamentale che è stato approfondito in sede di dibattito dinanzi alle Commissioni. È il problema della lotta all'evasione, che viene affrontata in modo razionale con l'articolo 24-bis, introdotto in sede di esame parlamentare. Oggi sappiamo che il flagello del sistema Paese è l'evasione fiscale. Qualche tempo fa il direttore del Dipartimento delle finanze ha fatto conoscere i dati dell'evasione sui quali stanno lavorando in modo molto efficace l'Agenzia delle entrate e la Guardia di finanza. Sappiamo che l'evasione oscilla, come valore lordo sottratto a tassazione, tra i 230 e i 250 miliardi di euro l'anno.
Come si combatte questo fenomeno? Non si può combattere con il solo impegno dell'amministrazione finanziaria, seppur lodevole. Bisogna dar vita alle banche dati. Bisogna che si integrino le banche dati degli enti locali e dell'amministrazione centrale. In questa direzione va l'articolo 24-bis, in questa direzione si fa in modo che anche l'ente locale partecipi attivamente al processo di accertamento tributario. Si completa un percorso già indicato con il decreto-legge n. 203 del 2005.
In quel senso il famoso 30 per cento che viene dato agli enti locali trova completamento. L'ente locale deve muoversi, l'ente locale deve partecipare attivamente all'accertamento, deve razionalizzare le banche dati, le deve mettere in collegamento con quelle dell'amministrazione finanziaria. Più elementi l'amministrazione finanziaria conosce dei contribuenti e più si può fare lotta all'evasione fiscale, e non penalizzando le piccole e medie. Anzi il sistema degli studi di settore va rivisto, va messo da una parte, perché il sistema degli studi di settore non risponde in questa fase a quella che è l'economia reale. I Pag. 49ricavi congrui previsti da Gerico non sono i ricavi effettivi che le imprese conseguono in questa fase.
È necessario lavorare su un altro settore, è necessario colpire coloro i quali hanno un elevato tenore di vita ma hanno redditi bassi, coloro i quali dichiarano diecimila euro mentre fanno vacanze nelle isole tropicali che, in termini di spesa, sono di gran lunga superiori al ricavo e al reddito dichiarato.
Dunque, signor Presidente, concludendo, è necessario attuare il federalismo. Oggi lo si deve e lo si può fare. Il federalismo fiscale è una riforma di cui il Paese ha bisogno.

PRESIDENTE. La invito a concludere, onorevole Leo.

MAURIZIO LEO. Non è un modo per accontentare una parte del Paese o, peggio ancora, una parte della coalizione, ma è una necessità. Fare il federalismo significa razionalizzare lo Stato, evitare che si perpetui il sistema di finanziamento agli enti locali che non è errato definire come un incentivo all'inefficienza. Oggi, infatti, abbiamo uno Stato fortemente decentrato quanto a capacità di spesa e fortemente centralizzato quanto a capacità di prelievo.

PRESIDENTE. Deve concludere, onorevole Leo.

MAURIZIO LEO. Tale situazione non può reggere a lungo. Non possiamo avere regioni ed enti locali che spendono ma che non chiedono ai propri cittadini e che, quindi, non rendono conto di quanto spendono e perché lo fanno. È un errore pensare che il federalismo possa ampliare i centri di spesa: ciò purtroppo già avviene. Al contrario il federalismo serve proprio a razionalizzare i centri di spesa che oggi già esistono. In ultima analisi il federalismo fiscale costituirà un tassello fondamentale per dar vita ad uno Stato più moderno, più responsabile e più vicino alle esigenze del Paese (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Polledri. Ne ha facoltà.

MASSIMO POLLEDRI. Signor Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, membri del Governo, che lingua parlerà il federalismo? Parlerà, forse, il pugliese del Ministro Fitto, il veneto del Ministro Brancher, il bergamasco, il bresciano? Parlerà anche il calabrese delle regioni gestite dal centrosinistra? Noi immaginiamo una libertà fatta di tante diversità, come diceva il Papa venendo in questa sede. Il Papa affermò che le diversità di questo Paese non possono essere ridotte ad uniformità. Immaginiamo i colori del Trentino, il colore del mare della Sicilia, immaginiamo i cento sapori che ci fanno innamorare, anche gli occhi di tante ragazze.
Pensiamo ad un nuovo patto, a riportare in quest'Aula una fiducia che, di fatto, non c'è mai stata. Il nodo della questione federale è tuttora aperto. Dalla terza alla quarta legislatura, sconfitti i «vari Cattaneo», il nord si ritira dalla politica. Parleremo in seguito anche del sud, dal momento che il Risorgimento è stato una iattura anche per il sud. La classe politica si ritira dallo Stato, la guarda con diffidenza: Crispi parlava con diffidenza dello Stato di Milano e di un possibile atteggiamento antinazionale (allora non c'erano i leghisti). Ma arrivarono le cannonate di Stato di Bava Beccaris. Una occhiuta spoliazione del tessuto associativo delle comunità locali: nasce allora una frattura con il Paese reale. Le élite del nord si ritirano dalla politica: il nano politico, gigante economico. Bene il traforo del Sempione, bene la manifestazione internazionale. Qualcuno prendeva i partiti come dei taxi - ce lo ricordiamo -, li utilizzava. Il sistema era incentrato sull'est e sull'ovest: quella era la preoccupazione. Ma qualcosa scricchiolava, anche al nord. Piero Bassetti, il primo del giornalismo, qualcosa ha fatto.
Cade il muro e inizia a porsi la questione del nord e la questione del sud. Incomincia anche Craxi. È sufficiente andare a vedere gli scritti di Albertoni oppure la parte democristiana: Marcora e Pag. 50Bisaglia in Veneto. Purtroppo Marcora e Bisaglia muoiono, ma si vanno a rileggere gli interventi di Don Sturzo e gli attacchi al centralismo, gli attacchi alle partecipazioni statali. Avrei voluto che il Presidente Casini si ricordasse di questa parte della Democrazia Cristiana.
Come giustamente anche il collega prima diceva, noi abbiamo patito un giogo: certo, ma c'è un rapporto molto importante tra fascismo e centralismo. Prezzolini diceva che il fascismo era l'apice e il compimento del Risorgimento. La quarta guerra risorgimentale è stata la prima guerra mondiale. Al ritorno, buona parte di questi ha consegnato gli ideali della libertà per sposare centralismo e statalismo.
Ricordiamo che al nord questo fatto non ha attecchito: ricordiamo nel 1924, nell'ultima elezione in cui vi era ancora il pluripartitismo, il partito fascista registrò le percentuali peggiori a Monza, dove prese il 19 per cento (al contrario di quanto accadde nella mia Emilia, dove portò a casa il 70 per cento).
Questo «nano politico», dunque, è poi stato umiliato anche dalla riforma fiscale di Visentini e dall'accordo Lama-Agnelli sulla contingenza del 1975 e poi nel 1977, con i «decreti Stammati», che ripianavano i debiti sulla finanza locale. Allora, quando si dice che la Lega rivendica in qualche modo qualcosa, vi dico solo due numeri: comune di Milano, pressione tributaria locale 2.082 euro; comune di Caltanissetta, pressione tributaria locale 656 euro.
Quindi vi è una differenza, non è vero che tutti siamo uguali: non siamo uguali di fronte alla legge e non siamo uguali di fronte al fisco. Ci ricordiamo dell'evasione fiscale e soprattutto del lavoro nero. Allora intervengo sul sud, per dire che il sud ci ha perso pesantemente con l'unità e con il Risorgimento. Ricordiamoci che il primo a consegnare Napoli alla camorra fu Giuseppe Garibaldi, se è vero che fino agli anni Venti il «pizzino» veniva considerato la roba di zio Peppino (lo dico per ricordare).
Ci ricordiamo delle migliaia - 50.000 o 60.000 - di fucilati, cosiddetti briganti. Non erano tutti briganti: erano legalitari, che magari sostenevano la regina, l'eroina di Gaeta, e che sostenevano anche le ragioni dell'economia (ricordiamoci le espropriazioni delle varie aziende del tesoro).
Basta ricordarsi quale fosse il rapporto tra reddito del sud e reddito del nord: all'inizio dell'unità d'Italia eravamo 100 a 80; dopo cento anni di statalismo, di retorica nazionalistica e di Roma in qualche modo centrale siamo arrivati a 59 a 100 (dobbiamo correggere tale dato con l'evasione fiscale). Allora invito quegli amici che agitano la questione settentrionale come qualcosa che vorrebbe dividere, a leggere anche alcune pubblicazioni che sostengono che solamente con federalismo il sud potrà rinascere, solamente con un processo di efficienza e solamente con un nuovo patto tra cittadino e Stato, con un nuovo contratto, in cui il cittadino finalmente, in base anche a un'etica liberale, possa finalmente contare sul fatto di poter portare a casa qualcosa, non solo in termini economici, ma anche in termini di libertà.
Il voto di scambio: forse c'è una parte della politica che vuole tale voto di scambio.
Mi dispiace - lo ripeto - che una parte cattolica oggi non abbia ricordato i discorsi di Sturzo, ma forse vale la pena ricordare la profezia di Gramsci, che diceva: «Il movimento cattolico organizza, vivifica e poi si suicida». Oggi, di fatto, mentre la sinistra ricorda i Lussu della propria storia partigiana, ma anche della propria storia della Val d'Ossola, una parte cattolica in qualche modo ribadisce la sua subalternità pusillanime - scusatemi - ad un'egemonia culturale della sinistra.
Oggi siamo chiamati a una grande responsabilità: siamo chiamati a gestire una grande fortuna, quella di vivere un grande momento di generosità.
Oggi vi sono le condizioni perché il centro, finalmente, deleghi alla periferia una parte di potere e inizi a togliere la Pag. 51fabbrica dello stipendio, cioè quello «stipendificio» che, ormai, è rimasto lo Stato. Uno Stato dove tutto non funziona: dove vi sono 3,6 milioni di dipendenti pubblici e dove, tra il 2001 e il 2007, si è registrato un aumento delle spese per il personale pari al 24 per cento e un aumento delle spese proprie pari al 20 per cento. Uno Stato in cui si buttano soldi, come, ad esempio, nel comune di Roma, per un delegato per l'abbronzatura. Siamo riusciti ad avere anche il delegato per l'abbronzatura: 25 mila euro all'anno per produrre un decalogo per una tintarella sicura. Per non citare, inoltre, le solite ambasciate realizzate in giro da Bassolino. C'è n'è anche per il comune di Milano, perché gli sprechi vi sono anche al nord: per partecipare ai festeggiamenti del 450o anniversario dalla fondazione di San Paolo del Brasile, siamo riusciti ad impegnare 300 mila euro.
Quindi, questo regime di sprechi (che riguarda, a dire il vero, molto di più il sud) è qualcosa che deve finire. Allo stesso modo, deve finire la centralità del costo degli stipendi per la macchina centrale dello Stato. Oggi lo Stato centrale, che gestisce il 24 per cento delle risorse, dispone del 56 per cento del personale e tutte le volte che viene effettuato qualche taglio ai Ministeri, si invocano tutti i possibili disastri e tutte le possibili prefiche del mondo a preannunciare disgrazie prossime e venture.
Quindi, si tratta di un grande momento, in cui il vento del nord, in qualche modo, possa unirsi alla speranza di riscatto del sud. Un momento di generosità, in cui per la prima volta, forse, il potere centrale romano taglierà le catene della periferia e darà più poteri e più soldi. Certo, ci vorrà tempo: questa è una rivoluzione democratica possibile e noi siamo onorati di poter sedere in Parlamento in questa giornata (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Causi. Ne ha facoltà.

MARCO CAUSI. Signor Presidente, le chiedo fin da subito il permesso di consegnare agli atti il testo del mio intervento scritto, perché so già che è troppo lungo per i dieci minuti che mi sono concessi.

PRESIDENTE. Onorevole Causi, potrà consegnare il suo intervento, ci mancherebbe altro.
Saluto gli studenti della scuola elementare di Corbara, in provincia di Salerno, che stanno assistendo ai nostri lavori dalle tribune (Applausi).
Prego, onorevole Causi.

MARCO CAUSI. Per il Partito Democratico l'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione costituisce un tassello importante di una più generale riforma dello Stato. Per noi, infatti, è di assoluta evidenza che la sola parte fiscale e tributaria della riforma è monca ed incompleta se non accompagnata da una profonda riforma amministrativa - chi fa cosa nel nostro barocco sistema pubblico multilivello - e da una riforma del Parlamento, con il superamento del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero dei parlamentari e l'istituzione del Senato delle regioni e delle autonomie.
Il Governo Berlusconi e la sua maggioranza hanno deciso diversamente e hanno messo l'acceleratore sul solo federalismo fiscale. È vero che, incalzato dalle opposizioni, il Governo ha successivamente varato una proposta di riforma del sistema delle autonomie, che oggi è all'esame delle Conferenze, ma è altrettanto vero che il legame temporale fra i due processi resta ancora molto labile. Eppure, chiunque capisce che sarà impossibile definire l'entità delle risorse finanziarie da assegnare a ciascuno se prima non vengono fissati i perimetri dei servizi da finanziare e, soprattutto, all'interno di questi perimetri, quelli relativi ai servizi cosiddetti essenziali. Questi ultimi, a loro volta, vanno ancorati a nuove previsioni legislative sui livelli essenziali delle prestazioni connessi ai diritti civili e sociali fondamentali, che la Repubblica tutela in modo uniforme sull'intero territorio nazionale.
Anche in questo caso, va eliminata ogni possibile forma di ipocrisia. Come si potranno Pag. 52calcolare i fabbisogni standard, se non si sono stabiliti i livelli essenziali delle prestazioni?
Penso soprattutto al settore dell'assistenza, ma anche ad altri settori di intervento connessi alle funzioni fondamentali di comuni e province.
In tanti hanno parlato giustamente, in questi giorni, di una vera e propria road map che sarebbe da scrivere per stabilire un cronoprogramma credibile e impegnativo per l'attuazione della riforma: definizione delle cornici legislative per i livelli essenziali; approvazione della Carta delle autonomie; definizione parallela dei decreti attuativi su Carta delle autonomie e federalismo.
Finora Governo e maggioranza hanno soltanto approvato una proposta emendativa delle opposizioni che fissa in dodici mesi il limite temporale per l'emanazione del primo decreto di attuazione del presente provvedimento e dove si precisa che in questo primo decreto dovranno essere introdotti i nuovi principi fondamentali in materia di armonizzazione dei sistemi contabili pubblici. Va bene, Ministro, ma non basta! Non basta a sfatare la suggestione che qualcuno, nella maggioranza e nel Governo, consideri questa provvedimento un puro manifesto a scopi elettorali, dando già per scontato la non attuazione della legge stessa, anche alla luce della crisi economica in corso. Se davvero si vuole andare avanti in questa riforma, questa possibile ipocrisia va eliminata con opportune modifiche nel testo e con precisi impegni che il Governo assuma di fronte al Parlamento.
Ma insieme a questa ipocrisia vanno superate alcune palesi distorsioni che la discussione pubblica ha assunto sull'argomento. Credo che il contesto di comunicazione politica all'interno del quale avverrà, in quest'Aula, la discussione del provvedimento sarà altrettanto importante della valutazione di merito delle nostre proposte emendative per orientare la decisione di voto da parte del Partito Democratico.
Voglio fare tre soli esempi di queste distorsioni. Aver concentrato la discussione sul solo federalismo fiscale ha portato il Parlamento ad affrontare una discussione molto tecnica, che ha quasi un sapore esoterico. Pensiamo ad una famiglia che debba trovare un posto in asilo nido per suo figlio, oppure che debba trovare un aiuto di assistenza domiciliare per un parente anziano non autosufficiente. Credete che questa famiglia sia in qualche modo interessata a sapere come l'ente locale a cui si rivolgono ottiene i suoi finanziamenti, con quale mix avrà riserve di aliquota, compartecipazioni, addizionali, tributi propri, derivati, fondi perequativi basati sui fabbisogni standard ovvero sulla capacità fiscale? La famiglia che prima immaginavo è interessata a sapere se nel suo territorio il servizio è erogato, con quale livello di qualità e di affidabilità, con quale copertura, con quale efficienza e con quali costi tariffari a carico dell'utente. Ed è qui il cuore del processo di riforma a cui tiene il Partito Democratico. Ed è qui che prendo atto dell'accoglimento, da parte di Governo e maggioranza, di alcune nostre proposte che hanno modificato, prima al Senato e poi nel lavoro delle Commissioni alla Camera, l'originario testo del Governo. Penso all'introduzione di un processo di coordinamento dinamico della finanza pubblica e del cosiddetto piano per la convergenza, in cui è chiaro che puntiamo, in questa riforma, a far convergere tutti i territori italiani verso livelli uniformi, sia dei costi, sia dei tassi di copertura e della qualità dei servizi. L'introduzione del concetto di obiettivo di servizio rende chiaro che dobbiamo impegnare le amministrazioni locali e regionali italiane in un doppio processo di convergenza, verso costi più efficienti e verso i livelli essenziali delle prestazioni.
Una seconda distorsione è quella di tendere a comunicare il processo che si sta aprendo come un processo che determina la territorializzazione delle imposte. Non è così, e rivolgo, in questa sede, un pressante invito a chi indica ciò ai propri elettori e ai propri sindaci a correggere la comunicazione e ad evitare di creare aspettative che rischiano, poi, di andare disilluse. La Costituzione non introduce alcun principio Pag. 53di territorialità delle imposte erariali che contraddica il sovraordinato principio di capacità contributiva. Tanto questo è vero che già l'originario testo emanato dal Governo si allontanava di molto dal progetto del consiglio regionale della Lombardia. Adesso, dopo le modifiche introdotte nelle Commissioni, Governo e maggioranza hanno accettato numerosi emendamenti delle opposizioni che chiariscono come il principio di territorialità vada riferito al testo dell'articolo 119 della Costituzione.
È stata anche accettata la nostra richiesta di sopprimere la riserva di aliquota per le regioni.
È stato chiarito in tre casi su quattro che i fondi perequativi sono verticali e attingono alla fiscalità generale. Resta privo di questo riferimento il solo fondo per i servizi «non lettera m)» delle regioni. Spero che l'Aula vorrà intervenire su questa che ormai è una contraddizione logica e formale all'interno del testo.
Una terza distorsione è data dal fatto che il contesto di comunicazione politica si è caratterizzato, nel corso del tempo, per la lettura sostanzialmente antimeridionalista del processo di riforma, in dispregio di dati di fatto e di numeri che sono chiarissimi e che sono emersi con grande evidenza nel corso delle audizioni parlamentari.
Allora, vale ancora una volta la pena di ricordare che la spesa pubblica per abitante è più alta nel centro-nord rispetto al sud: nel 2006, 12.963 euro contro 10.124 euro. Questo serve a ricordarci che in tante zone del sud il livello di copertura e di qualità dei servizi essenziali di prossimità è ben lontano da quello che dovrà, invece, essere raggiunto grazie all'applicazione della riforma che stiamo discutendo.
Vale ancora ricordare che la finanza comunale è storicamente più eterogenea e sperequata di quella regionale, ma anche qui, una volta ancora, su direttrici geografiche della sperequazione molto complesse. Ad esempio, nel nord emerge una sperequazione a danno dei comuni del Veneto, mentre nel sud a danno dei comuni della Puglia ed è per questo che il Partito Democratico ha insistito sia al Senato, sia nelle Commissioni alla Camera, per garantire il finanziamento integrale e l'integrale sostituzione degli attuali trasferimenti, oltre che specificare con più precisione i meccanismi di funzionamento dei fondi perequativi dei comuni. Su questo ultimo elemento, ancora non accolto, confidiamo in un cambiamento di giudizio del Governo e della maggioranza.
In questa direzione, tuttavia, il lavoro svolto nelle Commissioni alla Camera ha dato risultati positivi, introducendo elementi di garanzia per il Mezzogiorno in precedenza non previsti.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

MARCO CAUSI. Penso, in particolare, alla salvaguardia del fondo ex lege n. 549 del 1995 e alla nuova formulazione dell'articolo 15. Certo, noi avremmo preferito un'impostazione diversa dell'intero processo anche all'interno delle scelte tecniche in merito ai meccanismi finanziari. Il progetto di legge presentato dal Partito Democratico in Senato metteva al centro dei meccanismi di calcolo dei fabbisogni e della perequazione non già gli enti, ma i territori e le comunità regionali. Nella nostra proposta c'è un'attenzione maggiore all'autonomia tributaria degli enti decentrati, perché ci sembra una chiara contraddizione fare il federalismo mentre si riduce il ruolo dell'ICI e si afferma che in futuro dovrà essere superata l'Irap. Infatti, al cuore di un buon Governo di prossimità ci deve essere anche la responsabilità fiscale e ci sembra evidente che l'attuale testo da questo punto di vista contenga alcune ipocrisie.
Ma nonostante la nostra insoddisfazione per l'impianto del provvedimento, ci siamo confrontati nel merito e continueremo a farlo provando a correggere le distorsioni e gli errori che a noi sembrano più rischiosi per l'avvio di una riforma così importante. Ed è positivo il rafforzamento delle garanzie del Parlamento, che speriamo possa essere ulteriormente riempito di contenuto dall'Aula anche in termini di capacità di indirizzo e di proposta oltre che di maggiori garanzie. Confidiamo, Pag. 54inoltre, in una positiva soluzione della vicenda delle regioni a Statuto speciale.

PRESIDENTE. Deve concludere.

MARCO CAUSI. Ho finito, signor Presidente. Ci sembra importante che i meccanismi di garanzia dei cittadini contenuti nei principi di fabbisogni standard e dei livelli essenziali possano essere favorevoli anche a vantaggio della popolazione residente delle regioni a Statuto speciale. Sarebbe strano, infatti, che la specialità, che storicamente è stata definita per determinare un vantaggio di quei territori, si dovesse trasformare in un elemento di svantaggio.
A questa sfida partecipiamo con un contributo di idee e di bagaglio politico che ci porterà ad incalzare costantemente maggioranza e Governo affinché vengano superati gli errori ancora contenuti nel testo e venga data un'attuazione trasparente e veloce al processo di riforma (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Causi, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritto a parlare l'onorevole Tassone. Ne ha facoltà. Siamo ad ascoltarla.

MARIO TASSONE. Signor Presidente, la ringrazio anche per la sua gentilezza e la sua attenzione che non è mai mancata, per cui questo è un dato reiterato di cui prendo atto.

PRESIDENTE. Non ne dubiti.

MARIO TASSONE. Signor Presidente, signor Ministro Calderoli, signor sottosegretario Brancher, farò qualche valutazione anche in seguito a ciò che ha detto in quest'aula poco fa l'onorevole Casini.
Il problema del federalismo fiscale nasce un po' da lontano. Chi ha memoria ricorda quale è stato il fenomeno dell'ingresso della Lega Nord, qui nell'Aula di Montecitorio e anche in quella di Palazzo Madama. Sin da allora si parlava di un diverso assetto, anche ordinamentale, del nostro Paese, e fu sempre portata avanti un'azione politica che faceva riferimento agli squilibri di trattamento territoriali.
C'erano qualche elemento, qualche suggestione e qualche venatura di antimeridionalismo: regioni del nord che producevano, che andavano avanti, e poi c'era il contrappeso, questa palla al piede rappresentata dalle regioni del Mezzogiorno, che ne rallentavano i processi di avanzamento e di sviluppo economico. I processi, quindi, sono andati avanti, anche nel dibattito e nel confronto politico. Ci furono anche momenti in cui si sconfinò verso un obbiettivo che fu considerato secessionista. Oggi abbiamo di fronte a noi un provvedimento che ci porta ad un confronto più sereno rispetto al passato, ma che certamente desta qualche elemento di perplessità, anche per le criticità che avvertiamo e che abbiamo più volte registrato.
Non diciamo e non abbiamo mai affermato che questo provvedimento, questo tentativo di dare sempre più forza all'autonomia impositiva degli enti locali debba essere buttato via o eliminato. Ritengo che il dato su cui nasce venga ad essere accompagnato da tutte le buone intenzioni. Non possiamo denunciare equivoci oppure riserve mentali. Ma c'è un aspetto su cui intendiamo richiamare l'attenzione: non c'è un Paese che produce e una parte del Paese che, invece, non produce e che è un elemento di turbativa. Ho visto riecheggiare questo assioma anche in questo dibattito, quando qualcuno ha parlato di pesi, di cattive gestioni, di malgoverni e così via. Infatti, per dare delle risposte dovremmo fare tutta la storia dall'unità in poi per capire, forse per la prima volta, come si sia avvantaggiata una certa area a discapito anche dell'area meridionale.
Ritengo che ci siano stati dei fenomeni che dobbiamo leggere, per capire quali sono stati gli interventi e le situazioni Pag. 55all'interno del nostro Paese. Voglio anche fare giustizia di tante vicende, come ad esempio l'intervento straordinario, che ha certamente avuto qualche elemento apprezzabile per le regioni del Mezzogiorno, ma dall'intervento straordinario è risultata avvantaggiata soprattutto un'area già forte come quella del nord. Però tutto questo deve lasciare il posto ad una valutazione molto più serena, puntando sulla solidarietà, sull'unità non fittizia e non formale che vede questo nostro Paese impegnato a dare senso e significato alla realtà delle autonomie.
Ho parlato di autonomia impositiva: chi ha forza deve gestire e rispondere pienamente alle esigenze delle realtà locali e delle popolazioni, nelle attese più giuste e più vere, facendo riferimento ai livelli essenziali di intervento, con un'autonomia, quindi, impositiva da parte delle regioni e poi, via via, anche per quanto riguarda i ruoli e le esigenze di prossimità delle autonomie locali. Però credo che manchi una concretizzazione di quello che fu un disegno più volte coltivato anche in Parlamento.
Quando nacque la Commissione bicamerale - ritengo che questo aspetto non sia stato evidenziato - si disse chiaramente - anche ponendo i problemi delle autonomie impositive e delle autonomie di gestione - in quel momento storico della vita del nostro Paese che dovevamo articolare, decentrare e definire il processo delle autonomie. Quindi si è parlato tranquillamente della differenza di rapporto e dei ruoli all'interno del Parlamento, tra Camera dei deputati e Senato della Repubblica, e del ruolo delle regioni, che doveva essere individuato e specificato. Qui il ruolo delle regioni rimane in ombra, o perlomeno rimane in ombra quella differenziazione tra regioni a statuto speciale e regioni a statuto ordinario che doveva essere, a mio avviso, superata. Questo provvedimento si fa senza una definizione della carta dei comuni che avrebbe dovuto dare delle risposte forti, perché dobbiamo capire i comuni come vanno, quali sono i loro ruoli, quali sono i loro compiti, quali sono i loro obiettivi, le loro risorse, le loro strutture.
Ma c'è un dato, signor Presidente (ecco perché ho voluto richiamare l'attenzione anche dei colleghi che stanno al Governo): come è possibile immaginare un diverso assetto istituzionale all'interno del nostro Paese senza porre in essere alcune riforme sostanziali, per le quali mi sono sempre battuto e la cui necessità voglio sottolineare anche in questa occasione? È possibile che nel momento in cui diamo più potere ai comuni, più potere alle province (che dovrebbero essere eliminate, secondo le indicazioni e i programmi che hanno visto uniti sia il Partito Democratico sia il Popolo della libertà), non ci siamo posti il problema del sistema elettorale, ad esempio, dei comuni o delle province, oppure delle regioni stesse, dove i consigli regionali servono da orpello e sono soprattutto dei consigli del principe, e non hanno un ruolo effettivo sul piano del controllo e sul piano decisionale? È possibile che questo aspetto sia ininfluente o estraneo rispetto alla materia di cui stiamo parlando?
Se vogliamo compiere questo fatto rivoluzionario, come qualcuno lo ha definito, esso si deve accompagnare a delle certezze, ma soprattutto deve comprendere un rafforzamento dell'area della democrazia e della partecipazione, dove non può esserci semplicemente il solo capo dell'amministrazione. Non nego la validità del voto diretto, ma bisogna prevedere anche la possibilità di una sfiducia costruttiva e quindi un ruolo di controllo molto più pregnante.
Signor Presidente, come diceva l'onorevole Casini poc'anzi, noi presenteremo delle proposte emendative: il nostro è un contributo molto forte, lontano da una posizione pregiudiziale. Noi ci auguriamo che i decreti delegati possano corrispondere allo spirito della norma stessa, ma l'assetto istituzionale viene ad essere lasciato in ombra e attraverso un escamotage, quello della politica fiscale, si pone mano ad una riforma generale sul piano istituzionale. Questo non va, signor Presidente, questo lascia dubbi e perplessità, Pag. 56ma soprattutto lascia degli equivoci che non sono forieri di fatti nuovi e rivoluzionari che riguardano e investono gli interessi dei cittadini (Applausi dei deputati del gruppo Unione di Centro).

PRESIDENTE. Saluto gli studenti dell'istituto comprensivo statale Paquale Antonibon di Nove (Vicenza), che stanno assistendo ai nostri lavori dalle tribune (Applausi).
È iscritto a parlare l'onorevole Pili. Ne ha facoltà.

MAURO PILI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, inizia oggi alla Camera dei deputati l'esame di uno dei provvedimenti cardine della legislatura, quello del federalismo fiscale.
Qualche attento osservatore, lo hanno fatto qui anche i colleghi dell'opposizione, ha fatto puntualmente rilevare che iniziamo dalla coda piuttosto che dalla testa, ovvero esaminiamo la parte conclusiva ma, permettetemi, anche sostanziale dell'assetto federale dello Stato. È vero, l'approccio più corretto e lineare sarebbe stato un altro: per intenderci, quello proposto nella legislatura 2001-2006, con una strutturale rivisitazione dell'assetto istituzionale del nostro Paese. Mi permetto di ricordarlo a me stesso. La riforma sarebbe dovuta partire dall'assetto istituzionale non con l'attuale bicameralismo perfetto, ma con una Camera che legifera sulle materie di pertinenza dello Stato e un Senato federale che governa il rapporto tra lo Stato e le regioni, il tutto nel quadro di un forte presidenzialismo, sinonimo di piena assunzione di responsabilità. Non dunque, colleghi, un assetto «Statocentrico», ma un equilibrio funzionale al nuovo rapporto paritetico Stato-regioni-enti locali sancito dalla Costituzione.
Quell'esperienza riformatrice, proficua e feconda sul piano parlamentare, naufragò dinanzi allo scoglio referendario, segnando un chiaro e netto distacco dell'opinione pubblica dai temi rilevanti della riforma del Paese. Il disegno costituzionale dello Stato allora proposto fu percepito dall'opinione pubblica non come una nuova e moderna opportunità, ma semmai come un limite, erroneamente e maldestramente rappresentato come una frammentazione e divisione istituzionale, foriera, secondo i più retrivi, di un vero e proprio attentato all'unità nazionale. Fu, insomma, un referendum sulla percezione, non sulla sostanza della riforma e del federalismo.
Oggi il Governo e la maggioranza scelgono, invece, la strada lungimirante di non guadare l'impervio fiume della percezione, ma di perseguire davvero un sostanziale ponte capace di superare le ostilità delle correnti conservatrici e dei mille rivoli della paventata frammentazione, per unire le sponde tra lo Stato e le regioni. È opera ardita, colleghi, rappresentanti autorevoli del Governo, e perché anche ciò non possa apparire apparire ai più arduo e impossibile, perché ciò possa compiersi, occorre posare i piloni della riforma su roccia stabile e calcoli certi. Oggi che siamo chiamati a progettare queste solide fondazioni e robusti pilastri abbiamo il compito di evitare qualsiasi cedimento verso retaggi antichi e anche anacronistici, che pure si affacciano.
Per questo motivo la strada che ai più appare lunga e tortuosa è forse l'unica possibile per costruire di pari passo sostanza e positiva percezione della riforma federale che, altrimenti, resterebbe una mera, irraggiungibile chimera. Sta a noi, colleghi, rendere meno onerosa e più proficua quella che appare una strada faticosa e comunque in salita; la sfida è alta, culturale e politica, economica e sociale.
È una sfida che deve avere ben chiari gli obiettivi e altrettanto definiti i soggetti protagonisti, con tre fondamentali principi: quelli della responsabilità, della virtuosità e dell'equità. È fin troppo evidente che l'obiettivo non può e non potrà essere ideologico, ma dovrà fondarsi su un moderno approccio che introduca ai vari livelli istituzionali, da quello statale a quello degli enti locali, passando per le regioni, il principio forte della responsabilità. Responsabilità significa equilibrato e razionale governo delle entrate e delle uscite, rappresenta l'orizzonte del buon Pag. 57governo capace di razionalizzare e migliorare i servizi, azzerando privilegi e assistenzialismo, ma nel contempo salvaguardando reciproci diritti e doveri.
Colleghi, oggi più che mai, dunque, non servono asserzioni dogmatiche, secondo le quali il federalismo porterebbe all'esplosione della spesa pubblica. A tal proposito ho ascoltato autorevoli colleghi, anche chi è stato Ministro nel passato, sostenere questa tesi; in realtà, oggi è possibile creare le condizioni affinché non ci sia nemmeno l'assunto opposto, cioè che il federalismo genera risparmio ed economia. Occorre un punto di equilibrio nella valutazione e nella concretezza dell'attuazione di questo processo federale.
Occorre cioè il giusto equilibrio di un percorso che parte dal principio della responsabilità in capo allo Stato, alle regioni e agli enti locali. Il federalismo fiscale oggi deve essere letto come un'opportunità in grado di generare un virtuoso sistema economico e finanziario nel nostro Paese. Sino ad oggi, per consuetudine e qualche volta per malcostume, si è perpetrato un sistema finanziario che ha ben distinto il prelievo fiscale dalla spesa: colui che incassava le tasse è sempre stato all'oscuro di ciò che faceva chi spendeva gli incassi. Non vi è stato quel processo di omogeneizzazione e di reciproco controllo dei due momenti, anzi l'imposizione fiscale ha continuato ad alimentare senza regole il mare magnum della spesa.
Colleghi, il risultato è stato emblematico, figlio di un sistema perverso ed inarrestabile, che ha portato al ripiano acefalo e incontrastato dell'ormai incontrollata spesa pubblica. Un centro di costo dilapidava risorse e un centro di prelievo ripianava: una sorta di sistema perverso di vasi comunicanti senza alcuna regolazione, capace di produrre disavanzi e nuove imposizioni. La spesa arbitraria in un attimo è stata trasformata in spesa storica: tutto ciò che era stato speso in un esercizio finanziario precedente diventava diritto acquisito e funzionale alla scalata irrefrenabile verso nuovi debiti e nuove tasse. Il sistema così perpetuato premiava i meno virtuosi e puniva coloro che virtuosi lo erano per davvero. Nasce così il Patto di stabilità, strumento di primo soccorso capace però solo di limitare il principio consolidato e anacronistico della spesa storica senza incidere strutturalmente sul sistema delle entrate e delle spese.
Ora serve passare, colleghi, dal primo soccorso ad una cura strutturale, capace di incidere in profondità sul sistema dei vasi comunicanti, della spesa e del prelievo. Occorre, dunque, affiancare al principio della responsabilità quello della virtuosità. In sostanza, si tratta di un principio edonistico, che persegua il massimo utile con la minima spesa: efficienza, razionalità, qualità e controllo sono tutti elementi decisivi in questa sfida federalista.
Colleghi, rappresentanti del Governo, è questa la missione culturale che ci attende, raccogliendo un comune sentire ma anche ribaltando l'atavica e comoda equazione che meno spesa significa minor servizio e minor qualità. Questa è la frontiera della moderna visione del federalismo: razionalizzare deve significare ottimizzare e migliorare. Taglio per migliorare, per rendere efficiente, per cancellare le file, per accelerare i tempi e per rendere il servizio di qualità. Non si tratta semplicemente di spostare il centro di costo e di spesa dallo Stato alle regioni e dalle regioni all'ente locale, o di unificare esclusivamente il processo dell'imposizione fiscale con la spesa. Si tratta, invece, di rendere più efficiente il cuore pulsante dello Stato, delle regioni e dei comuni, ovvero il servizio al cittadino: questo è il vero cardine della riforma che noi affrontiamo. Non si tratta di una riforma funzionale a se stessa, ma funzionale a rendere più efficiente il servizio al cittadino. Occorre misurare la virtuosità innanzitutto con la qualità del servizio, e guai se il parametro della riforma si fermasse al solo aspetto finanziario e contabile. Occorre, invece, contemperare qualità e costo e rendere questi elementi un solo ed unico obiettivo.
A tal proposito vorrei ricordare, non solo a me stesso, che il processo innovatore deve essere funzionale al cittadino e Pag. 58non alle istituzioni. Abbiamo il sacrosanto dovere di non compiere una riforma ad esclusiva pertinenza istituzionale, ma dobbiamo coltivare l'ambizione di rendere protagonista il primo attore della società, ovvero il cittadino. Non si tratta di una riforma verticistica, e bene hanno fatto i Ministri (dal Ministro Calderoli al Ministro Fitto) che hanno autorevolmente gestito questa partita insieme al Presidente Berlusconi, individuando davvero come primo elemento il servizio al cittadino. La virtuosità della riforma nasce anche da quello spirito positivamente emulativo che occorre far scattare tra i diversi livelli istituzionali. Non si tratta della sfida a chi spende di più sulle spalle di altri, ma a chi sa rendere meglio il servizio con la massima efficienza e efficacia e il minor costo possibile.
In questo assunto si inserisce una delle questioni dirimenti e che ha sino ad oggi maggiormente condizionato la riforma federalista: l'atavica e molto spesso artificiosa contrapposizione fra la percezione di un nord efficiente e un sud spendaccione.
Se questa fosse la base di partenza del federalismo fiscale, non avrei difficoltà ad affermare che l'alba della riforma coinciderebbe molto presto con il suo tramonto. Non è un caso che il terzo pilastro della riforma sia proprio l'equità, intesa come l'obiettivo di ripartire le risorse perequative sul territorio nazionale, riconoscendo come principio quello equo dei costi standard, ma nel contempo fotografando lo status quo, per determinare il gap di partenza e il piano di riallineamento tra le varie realtà nazionali e regionali.
Questo, colleghi, è il vero snodo della nostra riforma: costi standard da una parte e piano di riallineamento dall'altra. Chiunque pensasse ad un'algebrica definizione dei costi standard, senza definire il piano di riallineamento, rischierebbe di far naufragare il virtuoso processo federalista. Il dogma di questa riforma è abbandonare la spesa storica, contenitore di sacrosanti diritti, ma anche di deprecabili sprechi, per affrontare la definizione puntuale degli standard sia sul piano qualitativo che quantitativo.
L'abbandono della spesa storica appare l'obiettivo che meglio sintetizza la ricerca della qualità della spesa, ma d'altra parte costituisce nel subconscio il pericolo maggiormente percepito a tutti i livelli istituzionali. La spesa storica, colleghi, è sempre apparsa come l'attracco più sicuro nel porto della finanza pubblica, ma in realtà non si trattava di un approdo, ma di una secca, rappresentando il limite più evidente allo sviluppo equilibrato e dinamico del Paese.
Per questa ragione, occorre mettere in campo un progetto federalista, che sappia pianificare l'uscita del nostro sistema dalle secche economiche e istituzionali, con una rotta certa e ben definita, sicura e non azzardata, proprio come sta facendo il Governo su questa grande riforma istituzionale e che sappia scongiurare la percezione di una traversata in mare aperto, senza alcun porto sicuro all'orizzonte. Colleghi, il disegno di legge alla nostra attenzione ha questa ambizione. La gradualità della traversata riformatrice ed il costante monitoraggio della rotta federalista mirano a garantire tutti i soggetti protagonisti per un approdo condiviso e sicuro.
Due sono le questioni rilevanti che il Governo ha il compito di tradurre in atti conseguenti: la definizione degli standard e l'individuazione del riparto finanziario. Mi permetto di soffermarmi solo un attimo su queste due questioni. Per quanto riguarda la definizione degli standard, partiamo da un presupposto: l'Italia è un Paese articolato territorialmente e socialmente e una riforma federalista deve mettere in campo tutti quegli strumenti di riequilibrio fondamentali per disparità e squilibri. Se la sanità rappresenta uno dei temi cardine della spesa storica, occorre certamente immaginare parametri nazionali, ma anche correttivi legati alle diverse connotazioni territoriali. L'indice demografico e l'articolazione territoriale devono costituire elementi imprescindibili, seppur parametrati e verificabili, per individuare un corretto standard di spesa. Se vi è, invece, in una determinata area un gap infrastrutturale, che incide sul sistema complessivo dell'economia e delle pubbliche Pag. 59amministrazioni, appare evidente che tale elemento debba essere valutato e parametrato proprio in virtù della ripercussione sulla spesa.
Signor Presidente, mi avvio alla conclusione. È proprio per questo motivo che va affiancato al costo standard delle prestazioni erogate il piano di riallineamento, che va definito con obiettivi e tempi certi. La sfida del Governo, dunque, si fonda sugli obiettivi di medio e lungo termine, facendo di flessibilità e gradualità il metodo fondante della riforma. Allora, colleghi, si tratta di semplificare le procedure, di ridurre gli adempimenti, di tradurre le entrate in spese utili al sistema dei servizi e delle opportunità. Deve esserci un'articolazione fiscale chiara e non sovrapponibile sui diversi livelli istituzionali, individuata con parametri certi, mantenendo ben chiaro l'obiettivo strategico e non contingente della riforma federale. Il Governo ha recepito una questione posta da me e indicata quale condizione del parere favorevole della Commissione bicamerale per le questioni regionali relativamente al principio dell'insularità. Voglio qui pubblicamente ringraziare il Presidente del Consiglio e i Ministri Calderoli e Fitto, che hanno voluto accogliere questa indicazione già al Senato. È un fatto storico, sul quale è indispensabile avviare un serrato confronto, per la definizione di parametri e risorse di riequilibrio strutturale e infrastrutturale.
Se questi saranno i presupposti, onorevoli colleghi, onorevoli Ministri, questa imponente azione riformatrice...

PRESIDENTE. La prego di concludere.

MAURO PILI. ...che oggi prende avvio in questo ramo del Parlamento ci porterà verso un compiuto, moderno ed efficiente processo federalista nell'interesse del nostro Paese, delle nostre regioni, dei nostri comuni e, soprattutto, dei nostri cittadini.
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Pili, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritto a parlare l'onorevole Fugatti. Ne ha facoltà.

MAURIZIO FUGATTI. Signor Presidente, oggi inizia la discussione sulle linee generali su questo importantissimo provvedimento di riforma federale, che avrà ripercussioni importanti sulla vita di tutti i cittadini e sull'organizzazione di questo Paese e di questo Stato.
Questo Parlamento sta facendo un lavoro importante, richiesto da molto tempo da tanti cittadini e da gran parte del Paese; è un lavoro che - lo voglio sottolineare - già all'interno delle Commissioni, per quanto esso sia importante, ha potuto avere questo avvio.
All'interno delle Commissioni una riforma così importante ha visto un dialogo, che crediamo possa essere definito costruttivo, tra maggioranza e opposizione (dialogo che già si era avuto nel passaggio al Senato).
Al Senato, come sappiamo, solo un gruppo politico aveva votato contro questo provvedimento, l'UdC; altri gruppi politici di opposizione si astennero. Oggi, all'interno delle Commissioni competenti, qui, alla Camera dei deputati, abbiamo visto continuare questo dialogo costruttivo. Crediamo che questo sia dovuto al fatto che vi è una presa di coscienza da parte dei rappresentanti del popolo e di gran parte del Paese che la riforma federale è una riforma necessaria per questo Paese.
Se qualche anno fa, qualche tempo fa, lo chiedeva con forza una forza politica, che oggi rappresentiamo, abbiamo visto che, nel tempo, tutti noi abbiamo fatto sintesi comune su un punto principale, che è quello di giungere alla riforma federale di questo Paese. Crediamo che dobbiamo anche rendere omaggio e dar di conto a chi, all'interno delle Commissioni, ha permesso il lavoro puntuale e preciso dal primo all'ultimo articolo di questo provvedimento.
Alcune misure che le opposizioni hanno chiesto sono state accettate da Pag. 60parte del Governo e da parte della maggioranza, perché si sono dimostrate di buonsenso, proprio perché la riforma federale non è una riforma di qualcuno o di parte, ma è una riforma di cui necessita tutto il Paese. Questo è lo spirito con cui oggi ci accingiamo ad affrontare questo lavoro all'interno di quest'Aula parlamentare.
Certo, è una svolta epocale, perché il federalismo è una riforma organica e completa dell'organizzazione di questo Stato. È richiesta da molto tempo da gran parte del paese; oggi arriviamo a discuterla. Dobbiamo riconoscere la serietà di questo Governo, per come si è rappresentato all'interno di quest'Aula oggi, ma anche all'interno delle Commissioni, sempre con la presenza di Ministri competenti e di sottosegretari, cosa che raramente accade nell'esame dei provvedimenti.
Questo dimostra che nel Governo c'è una conoscenza reale di quanto importante sia questo provvedimento. Qualcuno ha detto che serviranno cinque, sette anni per portare a compimento, con i decreti attuativi, la riforma completa del federalismo. Certo, ci vorranno cinque o sette anni: abbiamo aspettato 150 anni e crediamo che sia importante anche solo poter dire che, da qui a tre, cinque o sette anni, ci sarà il compimento di questa riforma federale.
È chiaro che si tratta non di una legge qualsiasi, ma di una legge importante, di revisione complessiva della struttura organizzativa dello Stato; è chiaro, quindi, che non la si può varare dalla mattina alla sera. Qualcuno ha detto che il federalismo è uno spot per la Lega: la Lega avrà i suoi meriti storici (questo, credo lo si possa dire senza presunzione), ma crediamo che il federalismo, alla fine, sia uno spot per il Paese, perché il Paese ha bisogno del federalismo e senza il federalismo - lo diciamo da destra a sinistra - difficilmente riuscirà a dare quei servizi e quelle risposte che i cittadini aspettano.
Questo non è, quindi, lo spot della Lega; certo, la Lega ha i suoi meriti, ma crediamo sia un una riforma necessaria per tutto il Paese. Una riforma difficile, perché procediamo in modo opposto all'origine più frequente del federalismo che di solito si realizza tramite l'associazione di realtà di per sé autonome, che decidono di mettere in comune l'esercizio di alcune funzioni, in alcuni settori, per gestirle unitariamente. In questo caso, invece, dobbiamo fare un passaggio a ritroso: si passa da uno Stato centralista, che ha avuto dei momenti in cui lentamente si è decentrato, ad una forma di federalismo. Si introduce il meccanismo opposto, e quindi ovviamente è una riforma più difficile rispetto ad altri percorsi; è però una riforma che il Paese ha in parte già intrapreso, e che oggi si avvia alla sua fase di completamento.
Tecnicamente, vi è il passaggio dai trasferimenti dallo Stato alle regioni, agli enti locali, da una finanza derivata, ad un'autonomia impositiva. Ciò porterà nel tempo, quando i decreti attuativi avranno spiegato i loro effetti, quando tutto si sarà esplicato nel modo opportuno, ad una maggiore responsabilizzazione degli enti locali, porterà ad una maggiore trasparenza nell'utilizzo dei fondi pubblici, e quindi dei soldi dei cittadini; porterà ad un maggiore controllo sugli eletti da parte dei cittadini: saranno infatti i cittadini, con l'autonomia impositiva, a finanziare parte delle funzioni degli enti locali, e quindi chi spenderà i soldi dei cittadini sarà maggiormente responsabilizzato nel doverli gestire, e lo stesso cittadino si sentirà maggiormente responsabilizzato nel dover controllare chi spende i soldi che, tramite le imposte locali, egli verserà.
Si passa da una valutazione dei fabbisogni sulla base della spesa storica al criterio basato sulla definizione di costi standard. Il costo standard è un po' l'elemento focale del provvedimento in esame: all'interno delle Commissioni competenti abbiamo visto che molti colleghi, sia di maggioranza sia di opposizione, si sono soffermati su quanto potrà essere valutato e definito come costo standard. Ci sono ovviamente posizioni diverse su questo punto, però nessuno ha messo in dubbio il punto focale del provvedimento: deve essere operata una valutazione del costo Pag. 61standard per arrivare al risultato dianzi detto, una maggiore responsabilizzazione, una maggiore efficienza della spesa pubblica, minori sprechi, e alla fine, con il tempo, a nostro avviso anche minori imposte e minori tasse per i cittadini. Il criterio del costo standard viene applicato a partire da settori importanti, dalla sanità, dall'assistenza e dall'istruzione, in quanto sappiamo che la spesa storica ha portato a sprechi ed inefficienze. Il passaggio dalla spesa storica al meccanismo del costo standard - certo non immediato, perché ciò non sarebbe oggettivamente possibile - porterà ad una maggiore equità ed una maggiore efficienza nella spesa dei soldi dei cittadini.
Gli stessi rappresentanti della Corte dei conti auditi informalmente dinanzi alle Commissioni riunite, hanno evidenziato, tramite una propria ricerca, come con l'applicazione del criterio del costo standard, ad esempio nel settore della sanità, gli sprechi verrebbero a diminuire. Cosa si è visto tramite l'elaborazione della Corte dei conti? Che le regioni che oggi sono in deficit, che hanno problemi nel settore della sanità, e sappiamo quali sono, sono quelle in cui vi è una maggiore inefficacia nella gestione dei soldi dei cittadini. Ecco che quindi il costo standard viene ad essere spiegato come l'elemento essenziale ed importante per arrivare a costruire un sistema di federalismo fiscale.
Certo occorrerà tener conto nel tempo dei dati sull'evasione: ricordiamo i dati dell'Agenzia delle entrate sull'evasione IRAP, che testimoniano come in alcune parti del Paese l'IRAP si paghi in misura maggiore che in altre parti. Questi saranno aspetti dei quali occorrerà tener conto.
È stato introdotto il meccanismo premiale per quelle realtà e per quegli enti locali che nel tempo si metteranno a regime con queste nuove regole ed avranno beneficio da tale riforma; però, crediamo che nel tempo il federalismo fiscale porterà alla fine, per i cittadini che oggi si trovano in una situazione economica difficile a causa della crisi che stanno vivendo i mercati finanziari e reali, ad una diminuzione della pressione fiscale, perché la maggiore responsabilizzazione ed il superamento delle inefficienze e degli sprechi porterà nel tempo ad una diminuzione della pressione fiscale.
Quando sarà a regime, i cittadini, le imprese, le famiglie e i pensionati avranno beneficio da questa riforma, così come riteniamo che probabilmente, se il federalismo ci fosse stato prima - ma, ahinoi, non c'è stato - non saremmo arrivati ad essere il Paese che ha il terzo debito pubblico al mondo (e probabilmente - anzi sicuramente - con il federalismo riusciremo ad evitare anche questi ulteriori rischi).
Essendo io un parlamentare che proviene da una provincia a statuto speciale, concludo con una riflessione sulle specialità dell'autonomia: riteniamo che il comportamento del Governo nei confronti delle autonomie sia stato costruttivo ed equilibrato, e gli ultimi fatti, proprio di queste ultime ore, testimoniano come un accordo importante sia stato trovato.
Riteniamo che, se vi sono privilegi all'interno delle autonomie, questi debbono finire; tuttavia, se esistono dei vincoli costituzionali che disciplinano le autonomie, possono essere modificati solo con legge costituzionale. Tuttavia ci pare che da parte di questa maggioranza, a quanto abbiamo sempre sentito, non vi è un interesse per una scelta di questo tipo (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Duilio. Ne ha facoltà.

LINO DUILIO. Signor Presidente, chiedendole la cortesia di autorizzarmi a consegnare il testo del mio intervento, cercherò di restare nei minuti assegnatimi per dire a lei, signor Presidente, ed ai colleghi che sul tema che stiamo discutendo - più che in altre circostanze che abbiamo vissuto nella solennità di quest'Aula - mi preme preliminarmente osservare che il giudizio su questo disegno di legge e l'orientamento verso il miglioramento dei suoi contenuti muovono entrambi, non da oggi, per quanto ci riguarda, Pag. 62dalla convinzione di doversi cimentare (auspicabilmente insieme, lo abbiamo detto anche quando eravamo maggioranza) nell'impresa di una migliore organizzazione del nostro Stato, perseguendo l'obiettivo di quella che in sede di Commissioni riunite ho definito essere la meta di una fase più adulta della nostra statualità.
Dico ciò anche a beneficio di quanti sostengono - è certamente una teoria - che l'opposizione debba comunque «giocare allo sfascio» e dire sempre di «no», a prescindere da quelli che sono i contenuti; la nostra cultura istituzionale ci porta invece a dire che ci vogliamo misurare sui testi che vengono portati in Parlamento e che presiedono poi a quelle che sono le auspicabili riforme che debbono informare un miglior futuro della nostra realtà nazionale.
Prima di entrare nel merito del disegno di legge in discussione e indipendentemente dal suo contenuto specifico, è bene ribadire peraltro, se ve ne fosse bisogno, che ogni discussione sulla riorganizzazione dello Stato, dei suoi poteri e delle sue risorse deve essere, a nostro avviso, inscritta dentro il principio irrinunciabile di una unica comunità nazionale, il cui valore, peraltro, oggi può essere ulteriormente ribadito attraverso un'adeguata ed opportuna valorizzazione del dettato del nuovo articolo 114 della Costituzione che recita, al comma 1, che la Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato, e cioè da una pluralità di istituzioni che hanno, per così dire, una pari dignità costituzionale tutta da declinare al positivo. L'architettura che evidentemente ne deriva rinvia di conseguenza alla necessità di realizzare una redistribuzione di compiti e di funzioni tra i diversi livelli istituzionali richiamati, all'insegna del principio di sussidiarietà su cui personalmente ritengo si possa inscrivere anche questo tentativo affidato al disegno di legge che stiamo esaminando.
Per quanto mi riguarda, sul piano più culturale, l'orizzonte ideale e politico nel quale si colloca un simile disegno è costituito dalla costruzione dello «Stato delle autonomie» di cui parlava Vittorio Bachelet, dal protagonismo municipale teorizzato da don Luigi Sturzo, dal superamento delle incrostazioni che si sono accumulate in circa quarant'anni di centralismo nazionale e - ahimè - anche regionale, dopo le speranze suscitate dalla felice intuizione regionalista degli anni Settanta. La meta, insomma, resta quella di una statualità caratterizzata da un autentico pluralismo sociale, politico ed istituzionale nella già richiamata cornice unitaria di un unico Stato nazionale, in coerenza con la tradizione culturale popolare e cattolico-democratica che - vorrei ricordarlo - ha visto i cattolici occuparsi di politica, sin dall'origine, innanzitutto con riferimento alla costruzione dello Stato democratico.
Un'ulteriore annotazione di premessa conduce a riconoscere, per onestà intellettuale, alla Lega Nord - l'ho fatto anche nelle Commissioni - il merito di avere portato avanti con caparbietà e determinazione il tema del federalismo, fino ad imporlo come centrale nell'agenda politica del Paese. Il riconoscimento di questo merito non può essere dissociato, peraltro, dall'annotazione, politicamente rilevante per la genesi del fenomeno leghista e per le relative, almeno potenziali, implicazioni, di una sua caratterizzazione originaria ispirata più ad una pulsione destruens - io la chiamo così - dello Stato unitario, che non al principio unitivo tipico delle esperienze federaliste conosciute (una qualche eco l'ho trovata anche in qualche intervento precedente che si affidava alle gratificazioni di metafore tipo gallina dalle uova d'oro e consimili). Quella pulsione traeva alimento, certo, dalle numerose distorsioni che si erano accumulate, insieme ad indubbi meriti, in decenni di storia repubblicana, ma non vi è dubbio che contenesse il rischio, non del tutto scomparso, di assecondare generici istinti primitivi, che alle paure della modernità oppongono i geni propri di un egoismo territoriale segnato dai vincoli del sangue, del suolo e dei valori.
Molta acqua, però, è passata sotto i ponti da quegli anni. Noi siamo ottimisti, Pag. 63per cui il nostro orientamento all'ottimismo ci induce oggi a confidare nella prevalenza della pars construens del progetto, concretamente da verificare, non in discussioni astratte, nella dialettica politica e, più in specifico oggi, in riferimento ai contenuti peculiari del disegno di legge sottoposto al nostro esame.
Il confronto sul testo del federalismo fiscale va inserito nel discorso, ben più ampio, della riorganizzazione in senso federale dello Stato, con il quale un po' genericamente il primo viene tout court confuso. Ora, una volta detto sui meriti da riconoscere alla Lega per la ritrovata centralità politica del tema, va osservato che, diversamente da quanto la vulgata lascia intendere, numerosi sono stati nel nostro Paese gli interventi normativi in passato su questa materia, a sentire qualche studioso, addirittura, sin dalla nascita dello Stato unitario. Interventi frastagliati, non interni ad una cornice unitaria, spesso non univoci, se non contraddittori, ma che non si può certo negare non abbiano lasciato segni profondi nei rapporti funzionali e finanziari tra lo Stato centrale ed i livelli istituzionali sub-statuali.
La cifra sintetica di questo «fiume carsico» federale che viene da lontano è fornita dall'evidenza della suddivisione della spesa della pubblica amministrazione strettamente intesa (al netto cioè della spesa per interessi e per pensioni), e dal confronto con il volume e la distribuzione delle entrate, al netto dei contributi sociali. Se si esaminano, ad esempio, i dati del 2007, per la spesa pubblica risulta una ripartizione per poco più della metà a carico del livello centrale e per poco meno della metà per il livello periferico dell'amministrazione: su circa 431 miliardi di euro, 230 miliardi, vale a dire il 53 per cento, vanno al centro e 202 miliardi, il 47 per cento, vanno alla periferia. Considerando invece le entrate, depurate dai contributi sociali destinati al finanziamento delle pensioni, risulta che l'82 per cento viene raccolto dal centro ed appena il 18 per cento dalla periferia.
Il sistema di decentramento finora realizzato mette in mostra, cioè, una profonda discrasia tra le performance della voce spesa e quelle della voce entrate. Le realtà istituzionali locali svolgono funzioni ed hanno competenza per un volume di spesa quasi uguale al 50 per cento della spesa complessiva, ma hanno un'autonomia di entrate che non arriva nemmeno al 20 per cento. La situazione è dunque nettamente sbilanciata! È da qui, anche da qui, che credo che occorra prendere le mosse per correggere le distorsioni che si sono accumulate e per dare un senso più compiuto alle modifiche costituzionali che sono intervenute, ad esempio con la già richiamata modifica dell'articolo 114 della Costituzione.
La più puntuale attuazione di questo articolo comporta evidentemente: l'esigenza di costruire un sistema di finanza pubblica, o più correttamente della Repubblica, fondato su principi di autonomia, trasparenza e responsabilità; la necessità di instaurare un'effettiva e sostanziale relazione, per le funzioni di competenza, tra volume e decisioni di spesa e relative fonti di finanziamento, superando il criterio della cosiddetta spesa storica che ha caratterizzato la storia della finanza locale nel periodo repubblicano. Annotando ciò che non ha funzionato nel percorso sinora realizzato, facendo tesoro delle insufficienze, degli sprechi e delle distorsioni accumulati, è forse possibile, insomma, ritentare la tessitura di una tela più organica, volta alla modernizzazione del nostro Stato, che rappresenta, per così dire, la madre di tutte le riforme.
Ora, pur avendo le migliori intenzioni, non bisogna dimenticare che si tratta comunque di un processo sicuramente intrigante ma lungo e complesso, che richiede, nella sua compiutezza: una correzione del Titolo V della Costituzione per alcune sue parti; la stesura ed approvazione della Carta delle autonomie (come hanno detto alcuni colleghi che mi hanno preceduto); la creazione del cosiddetto Senato federale; la riforma della finanza locale e dunque la realizzazione del federalismo fiscale.
Con la discussione di questo disegno di legge noi cominciamo «dalla coda». In Pag. 64particolare, si comincia senza sapere esattamente chi fa cosa, dal che deriva la prima condizione che, a nostro parere, deve essere assicurata, cioè dire di più sulla Carta della autonomie, assicurando una maggiore contestualità sul disegno di attribuzione delle funzioni tra i diversi livelli istituzionali di cui al richiamato articolo 114 della Costituzione.
Inoltre, si comincia senza conoscere, almeno in via approssimativa, qual è l'impatto finanziario del disegno di legge presentato. L'ho già detto nelle Commissioni e lo testimoniano le dichiarazioni del Ministro dell'economia e delle finanze, Giulio Tremonti, al Senato, il quale ha avuto modo di affermare che quell'impatto è del tutto incerto «a questa altezza di tempo» (è quanto ha detto il Ministro con il suo dire poetico o filosofico, a seconda dei punti di vista). Il Ministro ha poi aggiunto che abbiamo molti elementi che non consentirebbero oggi questa quantificazione per cui «non può dare i numeri».
Ma, a parte il Ministro, su questa problematicità di quantificazione hanno parlato anche il Ragioniere generale dello Stato, la Corte dei Conti, l'ISAE ed altri soggetti auditi. Dovendomi avviare alla conclusione credo che si debba migliorare ulteriormente il progetto, riconoscendo peraltro che, forse, erano già un poco ingenerose le critiche rivolte al testo, definito come un semplice manifesto di tipo elettorale, quando è uscito dal Senato. Bisogna oggi riconoscere che si sono fatti ulteriori passi in avanti, ma qualche sforzo in più si può fare per sciogliere ulteriori nodi.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

LINO DUILIO. Concludo dicendo che questi elementi che abbiamo migliorato sono stati già riepilogati e li affido al testo scritto. Rimangono alcune questioni che cito per titoli: trasporto pubblico locale, regioni a statuto speciale (che è un tema già affrontato in queste ore dal Ministro), la certezza dei rimborsi da attribuire agli enti locali affinché non arrivino «morti» all'appuntamento finale di realizzazione di questo progetto, la definizione della Carta delle autonomie, e l'indicazione calendarizzata del percorso da realizzare.
Ancor più sullo sfondo - mi consenta una battuta, signor Presidente - andranno poi affrontate questioni un poco più sofisticate, quali la prefigurazione di differenze di prestazioni al di sopra di una certa soglia (cioè se lo Stato si debba occupare anche della perequazione tra ricchi o solamente della perequazione tra i ricchi e i poveri lasciando le differenze tra ricchi all'imposizione di tributi meramente locali). Mi riferisco altresì all'approfondimento della questione se lo Stato si debba preoccupare di perequare, a prescindere da quelle che sono le sostanziali differenze che esistono in alcune realtà più ricche nel Paese.

PRESIDENTE. Deve concludere.

LINO DUILIO. Chiudo con una battuta Presidente, dicendo che l'atteggiamento che noi terremo nei riguardi di questo provvedimento evidentemente l'affideremo - tenuto conto del lavoro che abbiamo fatto nelle Commissioni - alla discussione del nostro gruppo. Certamente mi auguro che anche attraverso questo progetto si possa costruire un mosaico che migliori l'organizzazione del nostro Stato. In questo senso il testo del disegno di legge può costituire un prezioso tassello.
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Duilio, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritto a parlare l'onorevole La Malfa. Ne ha facoltà.

GIORGIO LA MALFA. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, esaminare oggi un disegno di legge di questa portata in una situazione economica internazionale e italiana come quella che noi ci troviamo ad affrontare e non collocare questa nostra discussione in quel Pag. 65quadro, è già di per sé un po' sorprendente. Lo diventa ancora di più, onorevoli colleghi, nel momento nel quale ricordiamo il punto fondamentale della coalizione di Governo, a cui il Partito repubblicano ha dato e ha confermato la sua adesione da molti anni. Quando si è costituita - per quanto ci riguarda nel 2001 - l'alleanza di cui facevamo parte, il punto fondamentale di tale nostra intesa riguardò il far uscire l'Italia da una condizione di sostanziale stagnazione dello sviluppo che si prolunga da molti anni.
L'analisi sulla quale vi fu convergenza tra noi, il Presidente del Consiglio, ma credo anche gli esponenti della Lega, di Alleanza Nazionale e gli altri, era che la prima condizione per consentire all'Italia di riprendere il cammino dello sviluppo fosse una riduzione dell'incidenza della spesa pubblica sull'economia a qualsiasi livello, dal livello locale a quello nazionale. La pressione fiscale era identificata ed è da me identificata come l'elemento che frena la ripresa dello sviluppo economico del Paese. Pertanto, qualunque disegno di legge, Ministro Calderoli, non può che essere giudicato, in primo luogo e soprattutto in una condizione di crisi drammatica come quella che noi viviamo, da questo punto di vista. In un certo senso il rappresentante del Governo dovrebbe essere idealmente il Ministro dell'economia e delle finanze, ancor prima che il Ministro per le riforme: infatti è ben sì vero che siamo di fronte ad una riforma istituzionale ma ad una riforma istituzionale di una tale portata sulle condizioni della finanza pubblica, che può valere soltanto la garanzia assoluta del Ministro dell'economia e delle finanze, secondo la quale i conti sono tali da consentire di sorreggere in queste condizioni una riforma di questo genere.
Ha detto il mio giovane collega, l'onorevole Fugatti, che tutta questa riforma, quando sarà completata tre sei o sette anni, porterà ad una riduzione della pressione fiscale. Me lo auguro, onorevole Calderoli. Vorrei esserne certo ma non possiamo esprimere una speranza, perché siamo legislatori e dobbiamo partire dalla conoscenza delle conseguenze e dei meccanismi che adottiamo, non delle speranze e di ciò che risulta.
Dunque, da questo punto di vista, cosa garantisce che questa nostra grande riforma, questa vostra grande riforma possa determinare quell'alleviamento della pressione fiscale sui cittadini, che è la condizione affinché il sistema italiano possa riprendere, il sistema del nord, del centro e del sud, le imprese e gli artigiani? Qual è tale condizione? Il fatto che tutto questo sistema non costi di più. È vero, come qualcuno dice, che per un partito autonomista come il Partito repubblicano è meglio dire che coincidono i livelli delle responsabilità della spesa con i livelli di responsabilità delle entrate: è una bella musica che suona alle nostre orecchie. Ma ci interessa soprattutto sapere che il carico, il basto che l'Italia porta sulle sue spalle non debba crescere. Quali garanzie vi sono dentro questo disegno di legge? Quali garanzie ci può dare il Governo su questo progetto di legge?
Nell'articolo 26 si legge questa deliziosa formula giuridica, signor Presidente della Camera: l'attuazione della presente legge deve essere compatibile con gli impegni finanziari europei. Cosa significa deve essere compatibile? O lo è o non lo è. Se noi scriviamo un testo, non possiamo scriverlo affermando che lo realizzeremo nella misura in cui sia possibile. Infatti, una legge è obbligatoria e quando abbiamo chiesto al Ministro dell'economia e delle finanze di quantificare - lo diceva poc'anzi l'onorevole Duilio, ma i miei colleghi del Partito Democratico non ne traggono le conseguenze necessarie -, quando è stato chiesto all'onorevole Tremonti quanto costava questa impostazione, egli ha risposto con grande lealtà: non lo possiamo dire. Ma se non lo possiamo dire, noi non possiamo legiferare, onorevoli colleghi!
In una condizione finanziaria così difficile possiamo legiferare nella misura in cui sappiamo che la nostra legislazione allevia il carico fiscale sugli italiani e migliora le condizioni dell'efficienza della finanza pubblica ma, in primo luogo, allevia il carico fiscale sugli italiani. Se tale Pag. 66garanzia non c'è, se questa garanzia non è data in premessa rispetto all'impostazione di questa legge, un partito che ha la tradizione del Partito repubblicano non potrà mai associarsi all'approvazione di una legge di cui non si conoscano le conseguenze sulla finanza pubblica.
Il bilancio dell'Italia riformata col sistema del federalismo delle autonomie locali - come preferisco chiamarlo io - che viene oggi prospettato, è alla base di questa decisione e non può essere affidato ai decreti delegati. Perché affidarlo ai decreti delegati? Dovremo fare i decreti delegati sulla base di una legge che parla con chiarezza. Allora vi sono dei test di questo.
Qualche collega diceva che in passato la spesa pubblica è cresciuta molto. Sapete quando è cresciuta moltissimo? Quando sono state fatte le regioni. Dovevamo fare le regioni? Sì, dovevamo farle, è scritto nella Costituzione e noi siamo un partito regionalista, ma in quel momento noi chiedemmo di fare una legge che abolisse le province, perché si creava un nuovo organismo che poteva organizzare meglio la vita del Paese e bisognava semplificare. Abbiamo chiesto insistentemente: perché non abolire le province, perché mantenere tutti gli elementi? Nel momento in cui rafforziamo finanziariamente i comuni e le regioni, togliamo di mezzo le comunità montane o le provincie, che non servono a nulla. Su quella spesa, se noi avessimo avuto un impegno o se domani il Ministro potesse dirci che questo è un impegno vero del Governo - era nel programma elettorale di Berlusconi - saremmo più tranquilli.
Infatti, non abbiamo molta fiducia: chi ci garantisce? Onorevole Calderoli, chi ci garantisce? Qui c'è l'onorevole Fitto: ci preoccupa anche molto il modo in cui - e concludo, signor Presidente - nella sua abilità il Ministro Calderoli ha trattato il problema del Mezzogiorno. Infatti, se le regioni del nord avranno più risorse e le regioni del Mezzogiorno ne avranno meno, allora o lo Stato ne avrà meno (e bisognerebbe sapere quali, dove e lo dovreste dire) oppure lo Stato aumenterà la sua spesa pubblica, non il deficit, che è bloccato dall'Europa, ma la spesa e l'entrata fiscale.
In altre parole, non abbiamo garanzia - e lo sapete benissimo, onorevoli colleghi - che il grande provvedimento di legge in esame sia un provvedimento che alla lunga aiuterà l'Italia a volare più liberamente e ad avere uno sviluppo economico più forte. Questa è la ragione per la quale di fronte a questi dubbi, se il Governo non sarà in condizioni di dare una risposta convincente, signor Presidente, noi non potremo certamente votare a favore del provvedimento in esame.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Capitanio Santolini. Ne ha facoltà.

LUISA CAPITANIO SANTOLINI. Signor Presidente, Signor Ministro e colleghi, siamo giunti ad un momento importante nella storia di questa legislatura e alla discussione in aula di una riforma che sicuramente inciderà molto sulla vita degli italiani nei prossimi anni.
Una prima osservazione, mi si consenta, riguarda una sorta di mancata discussione, nel Paese, di una riforma che sicuramente è molto importante, una sorta di accettazione acritica di un provvedimento che, nel bene o nel male, potrà cambiare la storia di questo Paese.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ROSY BINDI (ore 17,55)

LUISA CAPITANIO SANTOLINI. Noi vorremmo sottolineare alcune ombre che ci preoccupano molto, al di là del fatto che non siamo pregiudizialmente contrari al federalismo, anzi, sappiamo bene che è un passo che bisogna compiere e che è scritto nella Costituzione, quindi nulla di pregiudiziale, ma non possiamo non sottolineare alcune cose che ci preoccupano molto.
Quanto sta avvenendo in quest'aula, da adesso ai prossimi giorni, è molto serio e credo che ognuno di noi se ne debba assumere fino in fondo la responsabilità Pag. 67davanti al Paese, perché dalla stesura del provvedimento in esame e da quello che succederà nei prossimi anni l'Italia uscirà diversa, nel bene o nel male (e noi vorremmo che ne uscisse diversa nel bene).
Dunque, come dicevo, non siamo contrari in maniera pregiudiziale a questo federalismo, ma non si può condividere, come diceva prima il collega La Malfa, quello che è scritto, perché è un federalismo che in realtà è un annuncio senza concretezza, una scatola vuota tutta da riempire, una delega in bianco al Governo, un salto nel buio che non ci possiamo permettere.
Infatti, non è possibile condividere un provvedimento di questa portata senza che se ne conoscano i costi complessivi, così come ha detto, più di una volta, il Ministro Tremonti.
Il senso dello Stato che certamente tutti abbiamo ci obbliga a fare alcune domande, che, per ora, sono rimaste senza risposte. Chi si accollerà il debito pubblico dell'Italia, visto che è uno dei più alti al mondo? Chi pagherà gli interessi di questo debito pubblico? Le regioni? E con quale meccanismo si prevede di ovviare a questo problema? È equo quello che sta accadendo con le regioni a statuto speciale che godono, come è noto, di privilegi che saranno negati, invece, alle altre regioni? Come si fa a pensare che i meccanismi perequativi tra le regioni siano stabiliti dalle regioni stesse e non da uno Stato centrale, che garantisca giustizia ed equità? Infine, con una delega così ampia, quale sarà il ruolo del Parlamento, che già ora è spesso mortificato, nella sua funzione, dallo strapotere di un Governo che decide l'agenda dei lavori e non concede neanche il tempo necessario per studiare un provvedimento e migliorarlo, che ricorre spessissimo al voto di fiducia o alla decretazione d'urgenza, anche quando non ve ne sarebbe bisogno? Evidentemente vengono premiate le logiche di blindatura di un testo e non quelle di apertura e di dialogo, di confronto sereno in vista del bene comune e non dell'affermazione di parte del proprio potere di Governo.
Siamo rammaricati perché l'UdC ha presentato numerosi emendamenti in queste direzioni che sono stati tutti respinti, salvo alcuni, non di sostanza, accettati dalla maggioranza. Respingere i nostri emendamenti è stato un atto, a modo mio e secondo il mio pensiero, politicamente sbagliato.
Veniamo a una questione che mi interessa particolarmente e che interessa tutto il mio partito. Ministro Calderoli, si tratta della questione dei carichi familiari. Lei è stato contattato per portare avanti un emendamento che era stato proposto anche dal Forum delle associazioni familiari e, tuttavia, lei si è detto contrario. Noi lo abbiamo ripresentato e abbiamo visto che effettivamente lei era contrario, tanto è vero che il nostro emendamento è stato respinto. Siamo molto preoccupati perché non vi è traccia di questo aspetto nel disegno di legge proposto e non basta affermare che tutto è implicito e sottinteso.
La questione dei carichi familiari è cruciale in un Paese che vanta il più basso tasso di natalità nel mondo e che ha il maggiore indice di invecchiamento e che, come pubblicavano alcuni giornali pochi giorni fa, «non è un Paese per giovani», perché vive un declino annunciato, troppo marcato e rapido per mancanza di ricambio generazionale e foriero di gravi problemi per la società e l'economia italiana, soprattutto in una situazione comparativa internazionale.
L'Italia, in altre parole, ha il più elevato rapporto al mondo fra anziani inattivi e forze di lavoro. Lei sa, Ministro Calderoli, che siamo al 48 per cento e si tratta del dato più drammatico al mondo. Sono dati dell'OECD factbook 2008. Non basta, dunque, parlare di generiche introduzioni e agevolazioni, come viene stabilito al comma 1, lettera h), dell'articolo 12 del provvedimento in esame e non è possibile affermare solo che le regioni possono modificare le aliquote e disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni secondo i criteri fissati dalla legislazione statale e nel rispetto della normativa comunitaria, come è scritto nella al comma 1, lettera c), Pag. 68dell'articolo 7. Non basta, Ministro, perché è troppo generico e proprio perché la normativa statale di riferimento non parla esplicitamente dei carichi familiari e delle deduzioni.
Inoltre, nulla è stato fatto, finora dal Governo e dalla maggioranze che si sono succedute, per introdurre i carichi familiari quale criterio vincolante in materia fiscale. Cosa può dire la Lega su questo tema? Avevamo chiesto, con due emendamenti specifici, di introdurre il riconoscimento dei carichi familiari, che non avrebbe comportato assolutamente nulla di diverso, salvo il riconoscimento, per chi fa un figlio, di rendere un servizio al Paese.
Perché questi emendamenti sono stati respinti? Quali logiche guidano questa maggioranza e il Governo?
Cosa c'era di errato, Ministro, viste le dichiarazioni di attenzione alla famiglia che vengono fatte un giorno sì e l'altro pure da Ministri e da sottosegretari (Lega Nord in testa)?
La verità, signor Ministro, è che l'universo famiglia è e resterà negletto nel nostro Paese e demandare alle regioni questo compito significherà o l'oblio negli anni a venire o un esito a macchia di leopardo, con regioni attente e sensibili ai temi della famiglia ed altre regioni, ideologicamente collocate, ben felici di mettere la famiglia nel dimenticatoio, con tutto il carico di sofferenze e di ingiustizie che questo comporterà.
Noi chiedevamo di tenere conto dei carichi familiari. Il Partito Democratico fa lo stesso errore perché continua a dire che dai 120 mila a euro in su bisogna dare un contributo alle persone che sono più deboli. È giusto, ma noi continuiamo a dire che questo discorso va rapportato a chi ha figli e a quanti figli ha, perché non credo che 120 mila euro per una persona con dieci figli siano una cifra molto grande rispetto a una persona che ha un figlio o non ne ha nessuno.
Pertanto, credo che non avremo risposta dal Governo, perché questi emendamenti sono stati respinti, ma ho fiducia che avremo il sostegno di quelle famiglie che da anni aspettano un segnale di riconoscimento del servizio che erogano al Paese anche semplicemente mettendo al mondo un figlio. Ricordo a quanti lo avessero dimenticato che su questo tema il forum delle associazioni familiari, Ministro Calderoli, ha accolto un anno fa più di un milione e mezzo di firme (sono tante) e nessuna risposta, nemmeno abbozzata, è venuta da nessun membro di questo Governo.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

LUISA CAPITANIO SANTOLINI. Allora, domando agli amici della maggioranza che siedono nei due rami del Parlamento e agli amici del Governo con i quali ho condiviso tante battaglie: possibile che non abbiate nessun sussulto davanti a queste ingiustizie? Possibile che non abbiate la possibilità di difendere davanti al Paese le vostre posizioni riguardo alla famiglia e alla tutela dei carichi familiari? Fate sentire, colleghi della maggioranza, la vostra voce perché siete numerosi e forse tutti insieme potremo convincere chi di dovere ad accettare nel testo poche parole che metterebbero tranquille molte famiglie e farebbero ben sperare per il futuro. Alle nostre voci, sono certa si uniranno quelle delle associazioni familiari che da anni attendono un segnale positivo in questa direzione, con le speranze che questo Governo e questa maggioranza aveva suscitato.
I tempi sono difficili - lo sappiamo - e far passare un provvedimento che poteva benissimo aspettare è già complicato. Se poi questo provvedimento non risponde alle esigenze di milioni di famiglie, la situazione diventa grave. Per questo, esprimiamo tutto il nostro dissenso a questo disegno di legge e tutto il nostro rammarico per un'ennesima occasione perduta a favore del futuro e delle generazioni che verranno.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Stracquadanio. Ne ha facoltà.

GIORGIO CLELIO STRACQUADANIO. Signor Presidente, le chiedo la cortesia di Pag. 69avvisarmi a due minuti dalla fine del tempo. Credo di avere dieci minuti a mia disposizione, vero?

PRESIDENTE. Sì, ha dieci minuti.

GIORGIO CLELIO STRACQUADANIO. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, signor Ministro, colleghi, ci troviamo qui per una importante e direi fondamentale riforma istituzionale che, insieme alla riforma della pubblica amministrazione che abbiamo approvato poche settimane fa, rappresenta la prima tranche di riforme che il Governo ha messo in campo e che dovrebbero contribuire al rilancio strutturale del Paese, per consentirgli non solo di uscire dalla crisi economica in cui rischiamo di andare anche se il nostro Paese è in condizioni migliori di altri concorrenti, ma anche per uscire dai sui limiti storici uno dei quali è, per l'appunto, l'assetto della questione fiscale.
Il problema che affrontiamo con il federalismo fiscale è in realtà il problema del debito pubblico. Infatti, a differenza di quello che vuole la vulgata giornalistica comune, che fa risalire l'esplosione del debito pubblico italiano (oggi il terzo del mondo in presenza di un'economia che non è la terza al mondo per capacità produttiva) alla politica dello Stato degli anni Ottanta, la realtà è che il debito pubblico si va a determinare nelle riforme fiscali e regionali degli anni Settanta.
Infatti, in quella fase, come ha descritto il Ministro Tremonti (che credo sia il principale teorico italiano del federalismo fiscale con un suo libro del 1994 scritto assieme al professor Vitaletti), con la riforma fiscale degli anni Settanta si portò al centro tutto l'onere fiscale e in periferia, con la nascita delle regioni, tutto l'onore della spesa. Si determinò in quel momento un divorzio tra chi spende i soldi dei cittadini e chi ha l'onere di raccoglierli. Si è trattato di un divorzio tale per cui, in assenza della responsabilità di raccogliere le tasse per le spese che si compiono, si è provveduto a indicare in altri l'ufficiale pagatore (lo Stato centrale), il quale ha ovviato al problema semplicemente caricando il debito sulle spalle delle generazioni future.
In questo meccanismo perverso, dove c'è stata separazione tra responsabilità della spesa e della tassazione, si è aperta la grande voragine del debito italiano. Dunque, il federalismo fiscale dovrebbe ricongiungere e riunire dopo questo divorzio ed è su questo che voglio lanciare alcuni warning, alcuni aspetti che mi sembrano importanti da sottolineare per evitare che il rimedio sia equivalente al male o non sia un rimedio.
Sono turbato personalmente dal punto di vista politico quando sento, signor Ministro, che ci dobbiamo preoccupare di quanto costa il federalismo fiscale. Infatti, in realtà non dovrebbe costare. Se la visione è quella per cui dobbiamo migliorare la spesa e la sua qualità e restituire responsabilità a chi impone le tasse, in realtà il federalismo fiscale dovrebbe essere la prima arma per la riduzione della pressione fiscale. Infatti, non ci troviamo solo a che fare con un debito pubblico di grandi dimensioni nel pianeta, ma anche con un livello di tassazione così elevato sulla famiglia e sulle imprese tale da rappresentare - soprattutto nelle zone più sviluppate del Paese, dove maggiore è la spinta al federalismo fiscale - una palla al piede dello sviluppo e della crescita delle imprese.
Quindi, quando sento dire che mancano i conti su quanto «costerà» questa riforma, vorrei chiedere invece i conti opposti, vorrei cioè sapere quali sono i conti del dividendo fiscale che la riforma ci deve portare. Credo che l'impianto delle norme che dobbiamo approvare debba prevedere non semplicemente l'invarianza del gettito in termini percentuali sul PIL, ma probabilmente un percorso di discesa della pressione dello Stato e di liberazione sul cammino della sussidiarietà degli attori economici, delle famiglie e delle imprese, tale per cui una riforma federale ha il senso di ridurre il ruolo dello Stato centrale, ma questo non deve essere supplito e trasferito al ruolo degli enti locali. Uno spostamento di tassazione dall'uno all'altro non cambia nulla per i cittadini. A me Pag. 70non interessa sapere se pago molte tasse allo Stato o se ne pago altrettante al comune, perché in realtà il mio livello di controllo è equivalente. A me interessa sapere che chi ha la responsabilità di un compito lo svolga e abbia le risorse per poterlo fare e che, quindi, ci sia una simmetria e un'aderenza sussidiaria tra il compito da svolgere e la tassa da imporre perché quel compito sia svolto.
Solo in questo modo la tassazione e la fiscalità sono trasparenti. Infatti, se so quanto costa fare una certa cose e quale tassa serve, posso determinare se la voglio fare, se la voglio fare in quel modo o se preferisco scegliere un amministratore che mi proponga di non farla affatto o diversamente.
Ed è per questo, per esempio, che dovremmo evitare - e purtroppo il disegno di legge non mi pare che lo faccia in maniera adeguata - tutta la tassazione addizionale: infatti, tutta la tassazione addizionale destinata al gettito locale è tassazione opaca, perché nasconde nella tassazione principale (che è quella statale, l'IRPEF) un elemento che viene riversato poi agli enti locali ma che in realtà viene esatto dal solito ufficiale pagatore centrale, cioè lo Stato centrale. Da questo punto di vista, quindi, la tassazione addizionale è profondamente antifederalista.
Così come trovo antifederalista il mantenere l'assetto delle province. Dal punto di vista dei poteri e delle competenze non c'è nulla che oggi fanno le province che non possa essere meglio e più utilmente devoluto o a livello della regione o a livello del comune: nessuna delle funzioni esercitate dalla provincia è adeguata al livello. Quindi la provincia, come ente territoriale, non trova un suo significato, ma non solo: non lo trova a maggior ragione nel momento in cui i sistemi ed i servizi a rete, che sono la più parte delle attività dei beni e dei servizi pubblici sovracomunali, vengono in realtà gestiti secondo diverse forme di organizzazione della sussidiarietà, per cui nascono i consorzi intercomunali, i bacini imbriferi e una serie di altre attività di carattere negoziale tra i comuni.

PRESIDENTE. Onorevole, ha ancora due minuti.

GIORGIO CLELIO STRACQUADANIO. Allora la provincia appare da questo punto di vista addirittura un ente ipercentralista. Non è un caso che nasca nello Stato napoleonico per disarticolare territori che potrebbero prendere una maggiore capacità di negoziazione con il potere centrale, e non è un caso che nel nostro ordinamento la provincia è la sede del questore e del prefetto, cioè le espressioni più dirette ed in qualche misura «poliziesche» dello Stato centrale, del controllo del territorio da parte del Governo rispetto al controllo del territorio da parte dell'ente locale.
Signor Ministro, signor Presidente, se questi sono gli orizzonti che dobbiamo perseguire, credo che il testo che abbiamo di fronte necessiti e meriti ulteriori e approfondite migliorie e che noi si debba lavorare anche in vista di quelle riforme di federalismo istituzionale - prima tra tutte l'abolizione delle province, e di converso la creazione di un Senato federale - nelle quali un meccanismo solo di spostamento della tassazione esistente non diventerà una riforma istituzionale, ma semplicemente un aggiustamento fiscale i cui benefici non si sa bene da chi saranno avvertiti, forse saranno avvertiti dai poteri locali, dalla politica locale, ma non certamente dai cittadini (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Misiani. Ne ha facoltà.

ANTONIO MISIANI. Signor Presidente, l'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione, che è l'oggetto di questo disegno di legge delega, è sicuramente una delle riforme prioritarie per il futuro del Paese. Nella seconda metà degli anni Novanta abbiamo conosciuto un processo di trasformazione in senso federalista dell'assetto della Repubblica molto significativo, che ha portato nel 1997 e nel 1998 all'approvazione delle leggi Bassanini a Costituzione invariata, nel 1999 all'introduzione Pag. 71dell'elezione diretta dei presidenti di regione, nel 2000 al nuovo Titolo V della Costituzione.
Questo processo di riforma è rimasto in mezzo al guado, questo è il punto, e uno dei nodi più critici tuttora aperti è il nuovo ordinamento finanziario delle regioni e degli enti locali disegnato dal nuovo articolo 119 della Costituzione, ma mai attuato dalla legislazione ordinaria. Non siamo all'anno zero, intendiamoci, per quanto riguarda l'autonomia finanziaria degli enti locali, perché dal 1990 al 2007 la spesa delle amministrazioni locali in percentuale sul totale della spesa pubblica è passata dal 27 al 31 per cento, quindi c'è stato un processo di decentramento della spesa. Le entrate tributarie riscosse al livello locale sono passate dall'8 al 22 per cento.
Infatti, in quegli anni i comuni hanno avuto l'ICI, le province l'imposta sulle trascrizioni, le regioni l'IRAP, i comuni e le regioni l'addizionale IRPEF. Tuttavia, nonostante questo passo in avanti dal punto di vista dell'autonomia finanziaria, il peso della finanza derivata, cioè dei trasferimenti dal centro verso la periferia, è rimasto molto forte: oggi, infatti, i trasferimenti rappresentano il 37 per cento delle entrate dei comuni, il 41 per cento di quelle delle province e il 48 per cento per quanto riguarda le regioni.
Quell'autonomia finanziaria faticosamente costruita nel corso degli anni si è rivelata molto fragile, come dimostrano - lasciatemelo dire - dieci mesi di attività di questo Governo, che ha completamente abolito l'ICI sulla prima casa, ossia un pezzo importante di una delle poche imposte realmente federaliste presenti nell'ordinamento, senza compensare integralmente i comuni. Il Governo, inoltre, ha tagliato i trasferimenti erariali, ha bloccato la manovrabilità dei tributi locali degli enti, ha imposto una manovra di riequilibrio spropositata se pensiamo al miglioramento che i comuni, le province e le regioni hanno conseguito in questi anni dal punto di vista degli indicatori di finanza pubblica. Il Governo, per effetto dell'interpretazione restrittiva data con il comma 8 dell'articolo 77-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 al nuovo Patto di stabilità, rischia di paralizzare gli investimenti degli enti locali, che rappresentano il 51 per cento degli investimenti pubblici.
Certo, sarebbe ingeneroso attribuire all'attuale Governo tutti i problemi della finanza locale italiana, che si trascinano da parecchi anni. Noi abbiamo un sistema solidaristico opaco: nessuno sa in questo Paese a quanto ammontano esattamente e con quali criteri sono organizzati i flussi perequativi che sono diretti agli enti territoriali con minore capacità fiscale; nessuno è in grado di valutare i risultati di questa perequazione implicita, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, in riferimento all'offerta dei servizi, perché oggi il livello delle entrate e delle spese rimane comunque molto difforme tra le varie aree del Paese e la qualità dei servizi essenziali o fondamentali erogati a livello locale è tutto tranne che uniforme.
In questi anni si sono rivelati deboli ed inefficaci i meccanismi di responsabilizzazione nella gestione a livello locale delle risorse pubbliche; basta guardare la cronaca: l'enorme debito sanitario accumulato da alcune regioni, i costi spropositati dell'emergenza rifiuti in Campania, il collasso finanziario, vero o presunto, di molti enti locali importanti. È sufficiente considerare cosa ci ha raccontato la trasmissione di RAI3 Report, ieri sera, per capire a quali disastri può condurre l'irresponsabilità finanziaria degli enti locali. Ora tutto questo deve cambiare; credo che ciò sia condiviso unanimemente dalle forze politiche presenti in quest'Aula, ed è per questo che l'attuazione dell'articolo 119 rappresenta un tassello fondamentale delle riforme istituzionali di questo Paese.
La Lega e il PdL in campagna elettorale avevano proposto un modello preciso, quello del consiglio regionale della Lombardia, che per molti motivi era inaccettabile come base di partenza per questa riforma. Quel modello aveva infatti due difetti fondamentali: il primo è che partiva dalle entrate e non dalle spese nella ripartizione delle fonti di finanziamento; il secondo è che si tratta di un modello Pag. 72molto penalizzante nei confronti degli enti più deboli, con minore capacità fiscale. Il disegno di legge del Governo, già nella sua versione iniziale, si era oggettivamente allontanato dal modello sposato dalla Lega e dal PdL in campagna elettorale, ma rimaneva molto un manifesto programmatico, generico, vago, e in alcune parti anche molto discutibile dal punto di vista dell'architettura finanziaria che disegnava.
Va dato atto che dopo il dibattito al Senato e la discussione che si è svolta nelle Commissioni riunite bilancio e finanze della Camera quel testo è sostanzialmente migliorato perché l'architettura definita dal disegno di legge, di cui oggi abbiamo la discussione in Aula, è sostanzialmente coerente con il dettato dell'articolo 119 della Costituzione e lo è - lasciatemelo dire - perché si avvicina molto alle proposte dell'Alta Commissione per il federalismo fiscale del Governo Prodi dell'estate del 2007 e della Conferenza delle regioni. Siamo, dunque, nell'alveo dell'articolo 119 perché raccogliamo il meglio dell'attività di elaborazione che nel corso degli anni ha animato il dibattito sull'attuazione di tale articolo.
Infatti, questo disegno di legge sancisce il passaggio dalla spesa storica ai costi standard per quanto riguarda i livelli essenziali delle prestazioni. Vi è lo spazio per un aumento dell'autonomia tributaria degli enti territoriali e vi è la sostituzione dei trasferimenti erariali con compartecipazioni ai grandi tributi nazionali. Inoltre, si introduce esplicitamente il fondo perequativo previsto dalla Costituzione, integrale per le funzioni essenziali e fondamentali e parziale per le altre, e si definiscono i meccanismi premiali e sanzionatori: insomma, si inizia a declinare concretamente il dettato e l'orizzonte definiti dall'articolo 119 della Costituzione.
Le modifiche introdotte nel corso della discussione parlamentare hanno sicuramente reso più chiaro e più serio il testo del disegno di legge in esame, anche attraverso l'accoglimento di molte proposte presentate dal Partito Democratico che oggi sono parte del testo in discussione. Il patto di convergenza sui servizi essenziali è una proposta del Partito Democratico accolta, che allarga l'orizzonte di questo disegno di legge da una dimensione puramente finanziaria ad un obiettivo di convergenza dei servizi essenziali e fondamentali erogati ai cittadini nei diversi territori di questo Paese. Oggi, grazie alle propose del PD vi è maggiore chiarezza sulla natura del fondo di perequazione previsto dal disegno di legge e vi sono garanzie più forti per le aree con minore capacità fiscale.
Il PD ha spinto molto sulla certezza dei tempi di attuazione del federalismo fiscale. La versione iniziale, infatti, parlava genericamente di un periodo di tempo sostenibile per il passaggio dalla spesa storica ai costi standard. Oggi, invece, questo periodo di tempo è definito in cinque anni, che si sommano ai due per la definizione dei decreti attuativi. Vi è un minimo di precisione nell'orizzonte temporale di attuazione della riforma, anche se ci sarebbe piaciuto un percorso a tappe più preciso e più stringente dal punto di vista della definizione concreta degli aspetti della riforma.
Grazie agli emendamenti del Partito Democratico è stato salvaguardato il carattere nazionale e progressivo dell'IRPEF, che concorrerà al finanziamento degli enti territoriali, ma è e deve rimanere il cardine del sistema tributario nazionale, informato a progressività ai sensi dell'articolo 53 della Costituzione. Grazie alle proposte del Partito Democratico il ruolo del Parlamento nella fase decisiva di discussione dei decreti delegati oggi è più forte.
In Parlamento è stato svolto un buon lavoro, e al Governo devono essere riconosciute l'apertura e la disponibilità al confronto di merito con l'opposizione. Rimane aperta, tuttavia, una serie di nodi che non dobbiamo sottovalutare. Il disegno di legge è tuttora generico sul punto di equilibrio tra autonomia tributaria e compartecipazioni, le fonti di finanziamento degli enti territoriali; inoltre, non è quantificato l'impatto di questa riforma: teoricamente dovrebbe produrre risparmi, ma ciò non è scontato nella fase transitoria. Pag. 73È una riforma che mette in gioco tantissimi soggetti e tantissime variabili, e il rischio che si inceppi è molto alto, come tutte le riforme ambiziose che vogliono cambiare in profondità il Paese.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

ANTONIO MISIANI. In conclusione, signor Presidente, riteniamo che l'Italia abbia bisogno di un federalismo responsabile per governare la complessità di un Paese segnato da profonde differenze. Inoltre, riteniamo che il federalismo - ovvero l'articolazione sul territorio del potere pubblico - sia il migliore antidoto alla degenerazione, costantemente presente nel nostro Paese, populista e plebiscitaria della democrazia. Il federalismo fiscale può dare sostanza al federalismo italiano, ma l'attuazione sarà lunga e non facile. Bisognerà procedere con attenzione evitando scompensi e penalizzazioni ingiustificate e fin da subito bisognerà cambiare rotta sulla finanza locale, come abbiamo chiesto oggi con la mozione presentata dal Partito Democratico.
Abbiamo dimostrato di raccogliere la sfida di questa riforma con le nostre proposte e il nostro contributo. Diamo atto al Governo e alla maggioranza dell'atteggiamento positivo con cui è stata impostata la discussione. Ora, però, è tempo di passare dalle parole ai fatti, e sarà su questo obiettivo (l'attuazione concreta dei principi che avete enunciato in questo disegno di legge) che noi incalzeremo il Governo e la maggioranza un minuto dopo che questo disegno di legge sarà definitivamente approvato dal Parlamento (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mario Pepe (PD). Ne ha facoltà.

MARIO PEPE (PD). Signor Presidente, sarò breve, anche perché devo rispettare il limite di cinque minuti. Vorrei richiamare - mi sia consentito, salutando i signori del Governo e gli autorevoli relatori - la relazione dell'onorevole Antonio Pepe, non per una difesa «genealogica», ma per un fatto di sostanziale sobrietà politica nel porgere ai parlamentari i temi fondamentali del federalismo fiscale.
Ho sentito molte amenità di carattere storiografico, legate ad una storiografia basata sull'oralità, non sui testi scritti. Il primo tema riguarda il fatto che il federalismo non ha una nascita improvvisa. Ha una tematizzazione da qualche anno, ma è geneticamente legato alla storia delle istituzioni del nostro Paese. Non lo dico io, ma già Minghetti e Sturzo e tutte le esperienze del popolarismo erano orientate a ribadire il valore del cosiddetto «discentramento», del decentramento, che è stato motivato e chiarito bene nell'articolo 5 della Costituzione.
Oggi c'è un idem sentire su questo tema - lo abbiamo avvertito nelle varie Commissioni - da parte delle regioni, degli enti locali e del sistema delle autonomie territoriali. Non c'è un rifiuto, né una reazione verso una logica federalistica in senso economico-finanziario e istituzionale. Ciò vuol dire che il tema è nell'agenda politica e nella tematizzazione culturale del nostro Paese. Mi pare un punto fondamentale. Esso quindi è una sfida istituzionale. Ci rendiamo tutti conto che questo provvedimento dovrà fare un cammino progressivo. Lo dovremo verificare. Tutti ci siamo posti una domanda: quanto costa questa riforma, questo disegno di legge delega? Non lo sappiamo, non ci viene detto. È come se si volesse attraversare il deserto con la macchina, senza sapere quanta benzina occorra per effettuare l'attraversamento. Nel testo del disegno di legge è presente un vulnus profondo.
Condivido la centralità delle autonomie territoriali. I comuni, dopo la legge n. 142 del 1990, e le province - anche se qui c'è una logica ad excludendum, ma hanno un loro significato come enti di area vasta - hanno recuperato una maggiore sovranità e determinazione e, se mi è consentito, un'equa istituzionalità rispetto allo Stato ed anche al sistema delle regioni. Pag. 74
L'altro argomento che vorrei sottolineare, che è stato sollevato dal relatore Antonio Pepe, è che, all'interno del testo del disegno di legge, è stato accolto il tema che avevo messo in evidenza in un emendamento: dobbiamo affrontare il tema del Mezzogiorno senza spirito di sudditanza, con grande dignità, perché il Mezzogiorno, al di là delle difficoltà legate al dualismo economico e sociale, ha le risorse per accettare la sfida. Il Mezzogiorno non rifiuta questa sfida, perché si tratta di acquisire una responsabilità coraggiosa, di adeguare le politiche ai territori, di spendere bene le risorse. Signor Presidente, perché è stato proposto questo disegno di legge? Perché c'è bisogno di una maggiore democrazia partecipata all'interno delle nostre comunità e c'è una forte volontà di recuperare le finanze pubbliche ad una dignitosa amministrazione. Non possiamo consentire disastri paurosi del bilancio dello Stato. Da questo clima è nata la legge delega. Noi la sosteniamo, se c'è una forte volontà ad accogliere ulteriori emendamenti del Partito Democratico.
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Mario Pepe, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritto a parlare l'onorevole Pizzetti. Ne ha facoltà.

LUCIANO PIZZETTI. Signor Presidente, è del tutto evidente che il federalismo fiscale sorregga un'idea di Stato basato molto sul tema dell'autonomia e della sussidiarietà, dunque è sostanza.
Dico al Governo che nessun federalismo può nascere e prendere l'avvio con la mortificazione degli attori principali, regioni ed enti locali. La crisi morde e gli enti locali sono uno dei fronti principali.
O divengono corpo attivo nell'affrontarlo o sarà più difficile davvero per tutti reagire a questa crisi: sul tema delle politiche di welfare, per affrontare il disagio; sul tema delle politiche per quanto riguarda gli investimenti, in particolare per le opere cantierabili già da subito; sulle politiche per le infrastrutture strategiche.
Nei vari pacchetti anticrisi, da luglio ad oggi, le costanti da parte del Governo e della maggioranza sono state tre: eclettismo programmatico, cioè scarsa percezione della crisi e un mutamento in corso d'opera dei provvedimenti, sicché il successivo modificava costantemente il precedente; la marginalizzazione degli enti locali; la negazione, in sostanza, del federalismo (il tema dell'abolizione totale dell'ICI; la rigidità del Patto di stabilità, un poco ottuso, peraltro).
Così non va; vi è un fare che contrasta con il dire. Il Governo - mi si passi questo termine - è una sorta di Penelope, che, peraltro, confonde il giorno con la notte; è, dunque, essenziale che il Governo recuperi in volontà politica e in coerenza.
Regioni ed enti locali sono uno strumento essenziale nel governo delle società complesse. Occorre davvero assumerli come perno di politiche concrete e non solo di un futuro eventuale. In questo senso insisto, rivolgendomi alla maggioranza e al Governo, perché si assumano i contenuti presenti nella mozione a prima firma dell'onorevole Dario Franceschini.
Siamo federalisti e pensiamo che siamo giunti ad un momento importante di compimento di un lungo processo storico. Il federalismo istituzionale e fiscale non è una concessione alle pulsioni della Lega; serve al Paese, è utile al nord e al sud.
È un binomio importante, responsabilità ed efficienza. La responsabilità genera efficienza; è attraverso questo presupposto che può muovere l'idea di cambiamento e di modernizzazione dello Stato per promuovere uguali opportunità e diritti di cittadinanza, non autosufficienza territoriale nell'uso delle risorse (quelle opportunità che, sin qui, lo Stato centralista non ha saputo garantire).
Peraltro, voglio dire agli scettici che, se non si parte, non si arriva; è, dunque, importante partire. Dopo un percorso tortuoso, possiamo approdare ad un risultato importante. La riforma del Titolo V della Pag. 75Costituzione l'abbiamo voluta e non ne siamo affatto pentiti; il disegno di legge del precedente Governo ne è evidente testimonianza.
Non stiamo sofferenti sulla poltrona del dentista nell'affrontare questo tema; stiamo dando corpo ad un'idea di Stato che abbiamo voluto: il federalismo come strumento per riformare lo Stato. Dicevo che non è una concessione alla Lega, anche se mi sembra onesto dire che alla Lega va riconosciuto di aver sollevato e sollecitato l'attenzione sul tema in tempi lontani, seppur con evocazioni sbagliate: la secessione, la devolution, la territorialità pressoché esclusiva delle risorse, ma adesso siamo davvero ad una chiave di volta. Dal trattenimento di risorse all'estensione delle opportunità: questo è il punto cardine del processo che prende corpo.
Il progetto che stiamo discutendo è totalmente un'altra cosa rispetto agli intendimenti iniziali della maggioranza. È cambiato molto dal suo ingresso in Parlamento: è molto migliorato, presuppone davvero un'idea di Stato condivisibile. Il confronto vi è stato ed è stato utile e positivo. Non voglio ringraziare i Ministri, perché ritengo sia un loro dovere, ma voglio dire ai Ministri, in particolare al Ministro Calderoli, che abbiamo molto apprezzato il suo rispetto e la sua attenzione verso il Parlamento e verso la costruzione di un processo, per quanto possibile, comune.
Lo dico anche perché non è usuale da parte di Ministri di questo Governo comportarsi in tal modo e con tale rispetto verso il Parlamento.
Molte misure significative si sono ottenute nella discussione svolta in sede di Commissioni riunite: la progressività dell'imposizione fiscale, principio irrinunciabile di ogni democrazia moderna; il ruolo del Parlamento, da rafforzare ancora, ulteriormente, signor Ministro, nei poteri di indirizzo della costituenda bicamerale e nel far sì che la Commissione parlamentare per le questioni regionali svolga pienamente la propria funzione; il concorso, nella logica premiale, alla lotta all'evasione fiscale; i LEP come prodotto dell'iniziativa parlamentare, in grado di tutelare meglio l'eguaglianza delle persone, rifiutando l'idea dello Stato minimo; il tema della perequazione a costi standard, per estendere e migliorare i diritti di cittadinanza; e poi, caro a me che vengo dalla Lombardia, il tema dell'articolo 116 della Costituzione, del federalismo differenziato come ulteriore acquisizione. Voglio dire che non c'è il federalismo di chi corre e di chi resta indietro, ma quello che fa crescere insieme il Paese, lo modernizza per renderlo più eguale, più competitivo, e responsabilizza le sue classi dirigenti.
Vi sono punti di criticità, signor Ministro. È già stato detto, si parte dalla coda anziché dalla testa, dalle risorse anziché dalle funzioni: riagguantiamo allora il più rapidamente possibile questa testa, si affronti davvero, rapidamente, il tema del codice delle autonomie, lo si accompagni al processo che stiamo definendo ora già entro l'adozione del primo decreto attuativo. C'è il federalismo fiscale, ma manca quello istituzionale, e quello istituzionale è egualmente e forse più importante. Si è detto della spesa storica e dei costi standard, ma questi non sono l'attributo del federalismo: tutti gli Stati efficienti muovono dall'idea del costo standard. Il vero tema è caso mai associarlo alla questione della sussidiarietà, e che è affrontabile solo se si affronta il tema dell'ordinamento. Occorre procedere rapidamente, hanno detto altri colleghi, al superamento del bicameralismo perfetto: signor Ministro, noi non abbiamo bisogno di raccolte di firme, siamo già pronti ad affrontare il tema di una revisione costituzionale che introduca il Senato delle autonomie, la riduzione dei parlamentari e l'efficacia del sistema legislativo.
C'è, a mio giudizio, qualche concessione di troppo alle furbizie e alle intese sottotraccia: la vicenda di Roma, l'inserimento di Reggio Calabria tra le città metropolitane; perché non estrapolare e inserire le parti ordinamentali nel provvedimento sul codice delle autonomie? C'è reticenza, più che sui conti, sui tempi: il tema della road map è importante, perché la lentezza genera Pag. 76spesso confusione e incertezze. C'è il tema del concorso delle regioni a statuto speciale: assicurare eguali diritti di cittadinanza ed eguale concorso al risanamento del bilancio pubblico. Sarà tanto più facile se il federalismo fiscale si inserirà in un contesto di riforme dello Stato che acquisisce una cultura compiuta dell'unità del Paese superando una fase della nostra storia nazionale.

PRESIDENTE. La invito a concludere.

LUCIANO PIZZETTI. Mi avvio alla conclusione, Presidente. Su questi ed altri temi affrontati ripresenteremo in Aula alcuni emendamenti: ci batteremmo e ci attendiamo risposte anche sulla base delle considerazioni svolte in sede di Commissioni riunite dal relatore e dal Ministro.
Quella del federalismo fiscale è la premessa ad una sfida: cambiare lo Stato. È la nostra sfida, è la sfida dei riformisti, dunque non ci sottrarremo; anzi incalzeremo con convinzione e determinazione, non vi consentiremo di limitarvi ad agitare la bandiera, secondo il più italico spirito gattopardesco. Dalla legge delega ai decreti attuativi c'è di mezzo un tempo di crisi che genera sofferenze, paure ed incertezze. Il Governo nazionale deve far leva sul concorso dei governi territoriali.
Signor Ministro, il federalismo non si fa coi fichi secchi, né innestandolo su rami ormai privi di linfa come possono essere, potrebbero essere gli enti locali al termine della vostra cura centralista. Voi agitate la bandiera del federalismo ma state segando il pennone che la potrà sorreggere: una bandiera senza pennone è una bandiera ammainata. Dopo la festa, viene il lavoro: noi siamo pronti per questo lavoro, noi saremo parte di questo lavoro, senza partecipare né ai baccanali né alle geremiadi. Noi ci siamo e ci saremo; speriamo di incontrarvi dopo la festa, per il bene dell'Italia, per affrontare i temi che ancora rimangono inaffrontati e che debbono accompagnare il disegno di legge in esame (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Giovanelli. Ne ha facoltà.

ORIANO GIOVANELLI. Signor Presidente, il dibattito che stiamo affrontando - e non nascondo anche una certa emozione - si inserisce nella lunga storia, nella lunga battaglia che il nostro Paese ha conosciuto per l'affermazione delle autonomie locali, per la loro effettiva autonomia funzionale, per la capacità - da garantire loro - di risorse necessarie per far fronte non tanto agli obiettivi imposti o posti dallo Stato centrale, ma alle domande che salgono da parte dei cittadini, della società civile.
A molti, nomi come Luigi Ferraris (sindaco di Foligno), Caldara (sindaco di Milano), Zanardi (sindaco di Bologna), Andrea Costa (il primo parlamentare socialista), Salvemini (che si firmava con uno pseudonimo, il «federalista»), Sturzo, forse diranno qualcosa, ma non tutto. Conosciamo tutti, ad esempio, Matteotti per essere stato vittima del fascismo, ma non tanti conoscono Matteotti sindaco, Matteotti consigliere comunale di Fratta Polesine, Matteotti che si batte per l'autonomia finanziaria dei comuni. È da lì che viene questa lunga storia, una storia dove le radici del riformismo socialista e di quello popolare si sono a lungo toccate prima di essere soffocate dal nazionalismo, dal totalitarismo, dalle ideologie stataliste.
Chi si stupisce del nostro impegno e della nostra partecipazione attiva al miglioramento del testo in esame non conosce questa storia e non sa che dentro questa storia c'è una delle radici fondanti di questo nostro nuovo Partito Democratico; non ha chiaro neanche un punto, e cioè che l'implodere della Repubblica, sotto la spinta della nascita e dell'affermarsi dell'Europa e sotto la spinta della globalizzazione, ha rilanciato negli anni Novanta con forza la centralità delle autonomie, dei sistemi regionali, dei sistemi delle autonomie locali.
E soltanto una classe dirigente irresponsabile può lasciare in una lunga indeterminata transizione questi poteri che Pag. 77sono diventati costituzionalmente equiordinati allo Stato centrale e che assieme formano la Repubblica!
Ecco un altro punto che giustifica il nostro impegno concreto e serio attorno a questo disegno di legge: non possiamo permetterci di lasciare ancora nella transizione un sistema istituzionale così come lo abbiamo scritto nella Costituzione, è pericoloso per il Paese, è pericoloso per la stessa democrazia.
La stessa Corte costituzionale, dal 2001 ad oggi, tante volte intervenendo ha sottolineato quanto fosse importante e urgente dare attuazione all'articolo 119, proprio per evitare che si desse luogo ad una sorta di federalismo impazzito, dove ogni soggetto istituzionale si inventava qualcosa pur di cercare di far fronte alle proprie funzioni.
Ora siamo di fronte ad un'ipotesi di lavoro, ad un lavoro che potrebbe rappresentare una svolta, se si va fino in fondo rispetto all'impostazione cui abbiamo cercato di contribuire, affinché si affermasse in un testo di legge che nelle sue mosse originarie, quando eravamo ancora in campagna elettorale, si paventava assolutamente inaccettabile.
Abbiamo lavorato perché questi miglioramenti si realizzassero e diamo atto anche al Ministro Calderoli e al Governo di aver mantenuto un dialogo costruttivo, ma non possiamo nemmeno nascondere i punti che rimangono per noi ancora incerti e che non sono irrilevanti.
Con qualche ragione abbiamo sentito dire da più parti che una riforma come l'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione non poteva essere portata avanti senza completare il disegno riformatore.
Non abbiamo sposato questa tesi, perché inserire il tema dell'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione all'interno di ulteriori riforme costituzionali avrebbe significato allungare ancora quella pericolosa transizione. Non abbiamo accettato queste tesi, pur se fondate, per senso di responsabilità nei confronti del nostro amato Paese, ma il tema rimane. Mi auguro che dal dibattito che nei prossimi giorni, nelle prossimi ore, si svolgerà in quest'Aula, il tema del completamento della riforma istituzionale venga riportato in auge in modo tale che vi sia un impegno solenne, e comune, ad andare avanti verso il superamento del bicameralismo, la riduzione del numero dei parlamentari, l'attuazione del Senato federale. Pensiamo che ciò sia doveroso, nel momento in cui, con la stessa serietà con la quale abbiamo affrontato il tema dell'articolo 119 della Costituzione, ci facciamo carico del complessivo funzionamento del sistema, perché questo rimane un punto centrale. In questo modo mettiamo da parte definitivamente anche tutte le incertezze, e i ripensamenti, che vi sono stati rispetto alla riforma del Titolo V della Costituzione, non perché quella modifica sia stata perfetta, ma perché riteniamo che quello sia il disegno di repubblica che corrisponde al Paese che cambia, il disegno di repubblica che corrisponde ad un Paese che deve stare dentro un mondo che cambia.
Non possiamo non rilevare criticamente che vi è un grande ritardo nel portare avanti il dibattito attorno alla nuova Carta delle autonomie locali. Qualsiasi persona, anche non addetta ai lavori, nel momento in cui discutiamo di risorse, e di fiscalità, si potrebbe alzare in piedi e dire: ma per fare che cosa? Quali sono le funzioni che volete finanziare, e attribuire, ai comuni e alle province? Qual è l'assetto delle competenze? Come si fa a fare in modo che il federalismo fiscale, insieme alla nuova Carta delle autonomie locali, sia l'occasione perché questo Paese funzioni meglio, perché si superino duplicazioni di funzione, perché si superi la frammentazione istituzionale, perché in qualche modo si vada nella direzione di un Paese più semplice, più facile ad essere interpellato da parte dei cittadini, più efficace nell'intervento nei confronti dei problemi delle imprese, della società e delle famiglie? In questo senso, non è stato positivo aver voluto introdurre parti ordinamentali all'interno di questo disegno di legge. Capisco che proprio la simmetria con la quale si è lavorato ha spinto verso questa soluzione, ma non è una bella soluzione. Avremmo dovuto mantenere, Pag. 78come avevamo cercato di fare con il Governo Prodi, quel parallelismo fin dall'impostazione.
Ci preoccupa, inoltre, anche lo spacchettamento in quattro pezzi della Carta delle autonomie locali. Il nostro timore è che si perda una visione d'insieme, un'organicità che va mantenuta nel momento in cui si ragiona di istituzioni. In questo senso è stato fin troppo marginalizzato il contributo che poteva essere apportato dalla Commissione affari costituzionali a questo dibattito. Proprio perché la questione del federalismo fiscale è stata schiacciata sul tecnicismo, si è persa la visione all'interno della quale il federalismo fiscale può svolgere - anzi, noi ci auguriamo debba svolgere - la propria efficace funzione.
Un'ultima considerazione riguarda il sud. Se noi vogliamo una cartina di tornasole sulla bontà, e sulla serietà, delle misure che stiamo realizzando, è dal sud che dobbiamo guardare il federalismo fiscale. Non vi è dubbio che vi sono due impostazioni (e se non vi sono ufficialmente, ci sono, comunque, ufficiosamente).
C'è una parte del nord che sostanzialmente vede il federalismo fiscale e anche le politiche perequative come una sorta di tassa da pagare ad una situazione che rimane fotografata così come è. E così come è, questo Paese è diviso, così come è, questo Paese fotografa il fallimento del lavoro teso ad unificarlo.
Non c'è bisogno di scrivere la secessione sui testi, si realizza di fatto nel momento in cui un bambino che nasce a Palermo non ha le stesse opportunità di un bambino che nasce a Bologna, o un'impresa che vuole lavorare in Campania non ha le stesse opportunità di un'impresa che nasce in Veneto. Il secessionismo si realizza di fatto. Allora dobbiamo guardare dal sud il federalismo, perché può essere un carta, l'ulteriore o forse l'ultima, da giocare per ottenere l'obiettivo della reale unità di fatto di questo Paese, che è fatta di pari opportunità.
Il contributo che abbiamo dato - concludo davvero Presidente - per impostare le politiche perequative in funzione di un patto di convergenza fa in modo che esse corrispondano anche culturalmente a questo obiettivo, e noi ovviamente - approvato questo disegno di legge - ci metteremo al lavoro e sfideremo anche il Governo perché effettivamente questo sia il federalismo fiscale, e non una bandierina da sbandierare in una campagna elettorale in qualche vallata del nord (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fontanelli. Ne ha facoltà per cinque minuti.

PAOLO FONTANELLI. Signor Presidente, in cinque minuti cercherò di concentrarmi su alcune considerazioni - vista anche la presenza del Ministro - che ritengo siano utili in questa fase di discussione che ci investe con grande responsabilità, su una riforma di grande importanza e di grande rilievo per il Paese.
Noi ci siamo posti in modo estremamente costruttivo in questa discussione sul federalismo fiscale, sia per quanto riguarda il dibattito al Senato, sia per quanto riguarda il lavoro fatto alla Camera, e dobbiamo dire anche di aver apprezzato la possibilità di concretizzare in modo operativo e costruttivo un confronto che ha prodotto molti emendamenti e molti cambiamenti.
Indubbiamente il testo che oggi abbiamo di fronte in questa sede è molto diverso da quello che all'inizio era arrivato al Senato, dove ha già subito cambiamenti, e ulteriori miglioramenti riteniamo siano stati attuati nel lavoro delle Commissioni alla Camera. Con questo non diciamo e non vogliamo dire che siamo soddisfatti pienamente. Pensiamo che vi sia ancora del lavoro da fare e delle cose da definire in modo più chiaro.
In modo particolare mi riferisco ad un aspetto del problema del rapporto tra il federalismo fiscale e la riforma federalista più complessiva. Io condivido gli interventi svolti finora, in particolare quelli immediatamente precedenti (dei colleghi Giovanelli e Pizzetti), e su questo aspetto dobbiamo Pag. 79fare uno sforzo ulteriore. Ho sentito recentemente il signor Ministro parlare, alla presentazione di un volume sul federalismo, in modo molto sincero e riconoscere che in effetti il federalismo fiscale, così com'è, oggi è monco se non si fa anche il resto. Credo sia stata un'affermazione corretta e giusta. Conseguentemente allora bisogna porsi il problema di come fare «il resto», di come farlo e di individuare un percorso, i tempi e i modi, per cui abbia un avvenire, non sappiamo quando, e non sia un avvenire rapido, ma scoordinato rispetto a questa discussione.
Infatti noi poniamo la necessità di avvicinare e contestualizzare il più possibile gli altri pezzi di riforma con l'articolo 119 della Costituzione. In modo particolare mi riferisco alla questione che riguarda il Codice delle autonomie. Lo diciamo perché nel testo finora presentato, su cui ci siamo confrontati correttamente, non ci sfuggono alcuni elementi di enorme incoerenza. L'aver inserito in questo testo il tema delle città metropolitane o quello di Roma capitale quando si dice che bisogna realizzare il riordino del sistema delle autonomie con il Codice è un'incongruenza, è un errore, perché si inseriscono elementi - che devono stare da un'altra parte - in un testo che non dovrebbe contenerli.
Dico questo perché sappiamo che vi è un compromesso per cui prevedere una disposizione per Roma capitale significa salvaguardare una parte della maggioranza e per altre ragioni che comprendiamo. Tuttavia su questo bisogna essere chiari; non vogliamo trovarci di fronte a giochi che abbiamo visto e non ci sono sembrati molto giusti. Lo dico perché tra i disegni di legge che il Governo ha presentato in Conferenza unificata, sono compresi il Codice delle autonomie, presentato il 20 febbraio scorso, e quelli riguardanti le città metropolitane, i piccoli comuni, Roma capitale.
Abbiamo assistito, ad esempio, sui piccoli comuni - porto un esempio banale che c'entra poco ma per dare un'idea - ad una discussione che prevedeva la possibilità di inserire norme per le prossime elezioni o il terzo mandato per i sindaci nei comuni sotto i cinquemila abitanti. Siamo anche stati interpellati su questo aspetto e avevamo offerto la nostra disponibilità: la maggioranza non era d'accordo, il Governo non si è pronunciato però, poi, troviamo questa misura all'interno della proposta di riforma dei piccoli comuni. Poiché i tempi della politica hanno anche un valore in quanto, quando i tempi sono rapportati a scadenze, rivestono anche dei significati, questo atteggiamento scopre un gioco che non è il massimo della limpidezza del comportamento in un confronto di questo genere.
Dunque usando l'esempio, ciò che vogliamo dire è questo: poiché siamo ad un passaggio importante e, per quanto ci riguarda, dobbiamo ancora definire il nostro atteggiamento e la nostra valutazione finale in un contesto di confronto che consideriamo positivo - così come non possiamo che apprezzare la presenza, l'atteggiamento e l'attenzione che viene da parte del Ministro in questo senso - abbiamo tutti interesse al fatto che il contesto sia unico sul problema delle garanzie del controllo del Parlamento, su cui sono stati fatti passi avanti ma qualcos'altro ancora si può fare, sul tema dell'avvicinare il più possibile e quindi individuare il percorso affinché, accanto al federalismo fiscale, si approvi anche il Codice delle autonomie, cioè si affronti anche il problema della riforma, che peraltro è anche utile al ragionamento sugli enormi interrogativi che vi sono sui costi dell'applicazione del federalismo fiscale. Se non si razionalizza la pubblica amministrazione sarà difficile trovare i margini per rendere efficiente ed efficace il federalismo fiscale.
Tuttavia su questi punti - che noi abbiamo chiamato una road map - i passaggi e la loro effettuabilità in modo integrato sono per noi fondamentali nella discussione che avremo in particolare in Assemblea.
Concludo ricordando che noi porremo attenzione anche rispetto alla sensibilità che si dovrà dimostrare verso lo stato di malessere e di difficoltà del sistema delle Pag. 80autonomie. È un tema che c'entra meno in quanto fa parte della mozione che stiamo discutendo sull'emergenza della finanza locale. Tuttavia noi, insieme all'approvazione del federalismo fiscale, vorremmo sapere che cosa si dice ai sindaci e alle comunità locali sull'autonomia, la responsabilità, la reale disponibilità di risorse nel periodo che trascorrerà da ora all'attuazione concreta del federalismo fiscale.

PRESIDENTE. La invito a concludere, onorevole Fontanelli.

PAOLO FONTANELLI. I comuni, un domani, potranno morire. Nel 2010, se le norme non cambieranno, se non inventeremo qualcosa, nessun comune sarà in grado di approvare il bilancio a meno che non decidano di chiudere e tagliare i servizi. Questa emergenza sussiste e pensiamo che debba trovare risposte unitamente a questa riforma tanto importante (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Constato che l'onorevole Barbato, che era iscritto a parlare, non è in Aula.
È iscritto a parlare l'onorevole Cesare Marini. Ne ha facoltà.

CESARE MARINI. Signor Presidente, l'esigenza di disegnare una maggiore autonomia sia delle assemblee elettive locali, affidata agli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione, attraverso la statuizione di tributi ed entrate propri ha ispirato il disegno di legge sul federalismo ora all'esame del Parlamento. Mi ritrovo negli articoli e nell'opportunità di aumentare il potere delle autonomie locali.
I contenuti del disegno di legge in esame, però, suscitano perplessità per come vengono affrontati i temi della compartecipazione dell'IRPEF, della perequazione, dei livelli essenziali delle prestazioni e per la mancata attuazione di una reale autonomia impositiva.
Ho purtroppo non pochi dubbi per le cose non dette: mi riferisco al silenzio su questioni vitali per il futuro del Paese. Avere la pretesa di riformare il sistema delle entrate prevedendo una nuova architettura della distribuzione delle risorse erariali, senza una visione generale dello sviluppo del Paese, è miope ed ha il fiato corto. Aver voluto tacere l'esistenza di una questione meridionale che merita di essere affrontata e risolta nell'interesse generale del Paese, dimostra la debolezza dell'impianto legislativo che si vuole approvare. Perché rifiutare di sottolineare il principio del superamento del dualismo economico, quale interesse primario nazionale? Dietro a questo rifiuto si nasconde forse l'idea di un'Italia strutturalmente e definitivamente duale?
La mancanza poi di indicazione sul costo del federalismo è di gravità assoluta, da rendere il provvedimento, una volta approvato, di dubbia legittimità costituzionale. È utile oggi introdurre una riforma di ampia dimensione e dal costo non quantificabile, in un momento caratterizzato da una grave crisi economica e finanziaria drammatica e dagli esiti imprevedibili? Dinanzi all'insufficienza di risorse finanziarie per fronteggiare la recessione e l'aumento del disagio sociale, la via da seguire era una sola: indirizzare tutte le risorse finanziarie esistenti per contrastare la crisi e di certo non per saldare i debiti contratti nella fase di nascita della coalizione di centrodestra.
Capisco la posizione dei miei colleghi di gruppo, anzi la apprezzo pure, perché portano avanti coerentemente un disegno. Mi scuso con il mio gruppo se stavolta ho un'opinione diversa, che poi si incontra con quella di tanti elettori meridionali che, in questi giorni, sono fortemente critici verso l'impianto della legge.
Il collega Giovanelli ha ricordato anche i nostri antenati nobili lungo questa strada, che è stata molto lunga, del rafforzamento delle autonomie locali e quindi anche dell'indebolimento dello Stato centralista (vorrei aggiungere, collega Giovanelli, tutto il movimento democratico cattolico, il movimento politico sturziano, che su questa strada ha scritto pagine importanti e fondamentali della storia del Paese). Pag. 81
Però, purtroppo, la mia decisione è dettata da una riflessione lunga, anche tormentata per questa mia posizione, che non collima con quella del mio gruppo.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Ria. Ne ha facoltà, per dieci minuti.

LORENZO RIA. Signor Presidente, pochissime volte un disegno di legge delega ha avuto un percorso tanto complesso, articolato e denso di approfondimenti. In questo percorso vi è la consapevolezza delle complessità di ordine costituzionale e istituzionale, di ordine politico e sociale, di ordine pratico e applicativo che il disegno di legge in esame affronta. Ciò su cui discutiamo oggi in quest'aula è cosa affatto diversa non solo da ciò che si discuteva in campagna elettorale, non solo dal testo licenziato dal Governo, ma anche dal buon testo approvato dal Senato. Per tale ragione, con un aforisma brillante, il Ministro Calderoli ha potuto affermare che questo strumento legislativo si qualifica sempre meno come delega e sempre più come legge.
Cos'è successo, sostanzialmente, in quest'ultimo anno? È successo che ci siamo resi conto che la legge è un mezzo empirico imperfetto, migliorabile. Ci siamo resi conto che le complesse questioni che il federalismo fiscale pone non sono risolvibili con posizioni ideologiche. Anche la scienza, per pervenire alle regole e ai principi oggettivamente validi, procede per gradi, per esperimenti, per approssimazioni, anche per errori. Ecco, anche noi, che abbiamo la consapevolezza di stare su un terreno diverso dalla scienza, sulla questione in esame ci siamo mossi con logica scientifica.
Ci stiamo limitando, per ora, ad affermare principi noti, obiettivi chiari e condivisi, risultati auspicabili ma razionalmente perseguibili pur con il ricorso, in molti territori, a qualche sacrificio e a molte innovazioni.
Stiamo, inoltre, inserendo una serie di cautele, di logiche progressive, di freni e di air-bag per evitare che questa grande novità ci sfugga di mano e produca danni non voluti.
Ecco la ragione per cui oggi non ha senso chiedere i costi del federalismo. Anche questa, come quella della crisi finanziaria mondiale, è terra incognita. Sappiamo, sin da ora, cosa vogliamo che il federalismo sia. Conosciamo gli obiettivi che perseguiamo e gli effetti che intendiamo realizzare, ma oggi ci sono aspetti che ancora sfuggono, ci sono variabili che possono modificare o condizionare il corso delle cose e, per tali ragioni, dobbiamo avanzare con prudenza. Ovviamente, mentre in questa sede svolgiamo il nostro lavoro vi sono molti luoghi - gli uffici ministeriali, i centri studi, le università, gli ordini professionali - che, a mano a mano che evolvono i testi legislativi, aggiornano le proiezioni e le simulazioni degli effetti e dei costi del federalismo. Proprio oggi, ad esempio, è in corso un'importante iniziativa della facoltà di economia e commercio dell'università degli studi del Salento, che abbiamo aiutato e sostenuto insieme, parlamentari di maggioranza e di opposizione, che ha sciorinato una serie impressionante di dati, di prospettive e di previsioni. Proprio tutto questo movimento afferma che il percorso resta complesso e che oggettivamente molte questioni - e occorre dire che nel federalismo sono ugualmente importanti le questioni di principio quanto quelle pratiche - debbono necessariamente essere risolte in laboratorio, essere cioè sottoposte ad infiniti esperimenti prima di trasformarsi in decreti applicativi.
Ma, nonostante il buon lavoro fatto sinora, proprio sul terreno dei principi e delle regole occorre fare qualche passo in più. Se il federalismo deve essere lo strumento delle varie opportunità non si capisce perché, dopo la sua introduzione, debbano ancora esistere le regioni a statuto speciale. Proprio perché consapevole dell'assurdo logico di questa situazione nel momento in cui ho, all'inizio di legislatura, presentato una proposta di legge per l'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione ho, simultaneamente, presentato una proposta di legge costituzionale di soppressione Pag. 82delle regioni a statuto speciale. Oltretutto, sono convinto che se questo tema non verrà affrontato subito, il tema delle regioni a statuto speciale sarà la spina nel fianco che ci accompagnerà in tutte le fasi più complicate e difficili di attuazione del federalismo.
Inoltre, il nuovo assetto dell'autonomia fiscale, così come tratteggiato nel testo in discussione, è collocato in un impianto istituzionale di autonomie locali superato, pieno di sovrapposizioni e incongruenze. Ciò, a mio avviso, indebolisce la capacità di innovazione della riforma, rafforzando le spinte alla conservazione, che pure sono fortemente presenti nell'organizzazione politica e burocratica dello Stato e degli enti locali. Intendo dire che le scelte vere e serie in tema di disegno istituzionale delle autonomie locali andrebbero fatte qui, nello strumento cioè che raffigura ed assegna la responsabilità di spesa. Se il ruolo e la funzione delle province non viene ridisegnato qui, non lo sarà certamente nell'emanando codice delle autonomie locali.
Per questa ragione sollecito ed insisto perché si affronti finalmente e definitivamente una questione, signor Ministro, ormai matura e che, se non affrontata, proprio l'introduzione e l'applicazione del federalismo fiscale renderà esplicita in tutte le sue contraddizioni.
Mi rendo conto, infine, di un rischio che corriamo: il rischio che, nonostante gli importanti e significativi cambiamenti che questo testo ha recepito lungo tutto il suo percorso in direzione della unificazione nazionale e della riduzione delle sperequazioni tra i territori vi sia uno o tanti che, in qualche parte d'Italia, si metta a gridare «Al lupo! al lupo!» (pensavo alla presenza del vicepresidente Lupi quando ho scritto queste riflessioni).
Ma parlo a ragion veduta, signor Presidente, atteso che nella mia regione è addirittura qualche parlamentare della maggioranza che chiama il popolo in piazza per contrastare il rischio di questo federalismo. Credo, perciò, che non vadano dati alibi a nessuno. Per togliere gli alibi a chicchessia è opportuno dar prova di un supplemento di responsabilità. Il disegno di legge in discussione, coerentemente con il dettato costituzionale, opera una distinzione fondamentale tra spese riconducibili al vincolo dell'articolo 117, secondo comma, lettera m) della Costituzione e spese non riconducibili al vincolo sopra citato.
Per le prime, il disegno di legge prevede che ad ogni regione siano garantite l'integrale copertura delle spese corrispondenti al fabbisogno standard per i livelli essenziali delle prestazioni; per le seconde, le spese non riconducibili all'articolo 117, secondo comma, lettera m), il disegno di legge non prevede una garanzia di copertura dei fabbisogni, ma solo una perequazione parziale del gettito fiscale pro capite.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

LORENZO RIA. Ho concluso, signor Presidente. Allora, su questo terreno occorre intervenire con saggezza e lungimiranza politico-sociale per avviare un federalismo che responsabilizzi chi vuole essere responsabilizzato, ma che non presti spazi di ambiguità e pretesti a chi non intende cambiare nulla.
Signor presidente, onorevoli colleghi, il federalismo fiscale è la prima vera occasione che il Parlamento in questa legislatura ha avuto di svolgere pienamente e liberamente la propria funzione. I risultati acquisiti ci dicono che se questo metodo fosse adottato più spesso ne verrebbero più intensi vantaggi per l'agibilità parlamentare e per gli interessi del Paese (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Ventucci. Ne ha facoltà.

COSIMO VENTUCCI. Signor Presidente, l'annosa discussione sul federalismo ha origine fin dall'inizio del nostro Stato con apporti e contributi di tutte le componenti politiche che si sono succedute nel Parlamento. Da Cattaneo ai giorni nostri si è snodato un dibattito sull'elemento teleologico che non riguarda l'aggregazione di Pag. 83ordinamenti statuali preesistenti, essendo composto il nostro territorio di antiche gestioni comunali, ma è teso a coagulare una società, una cultura, una lingua, un modo di vita quale presupposto per partecipare a un rapporto sempre più stretto con l'istituzione dell'Europa.
Tuttavia, ci pare doveroso ricordare che il principio del federalismo fiscale entra nella nostra Costituzione nel 2001, con quattro voti di maggioranza della sola sinistra al Governo, ponendo in atto una forzatura di grande valenza politica, determinata più dallo scopo di allargare la propria maggioranza in vista delle elezioni che non dalla mera volontà di modificare l'assetto organizzativo costituzionale in così larga misura.
Si completava, a livello costituzionale, quanto predisposto con il federalismo amministrativo delle cosiddette leggi Bassanini, rivisitate dall'attuale Governo nella parte che regola lo status del personale del pubblico impiego. Allora non si crearono le condizioni per un dialogo sereno, un confronto costruttivo, che sulle regole rappresenta un principio incontestabile in un Paese democratico.
È certo che nella dialettica politica sussistano più posizioni rispettabili; tuttavia oggi, al di là delle disquisizioni tecnico-ragionieristiche, riscontriamo che sulle regole generali del federalismo fiscale si è giunti ad un giudizio non negativo, forse correlato anche alle esperienze federaliste di altri Stati dove la democrazia è ampiamente testata.
L'opposizione ha, infatti, fornito un contributo fattuale, prima al Senato incidendo sul testo originario, poi alla Camera durante il dibattito nelle Commissioni V e VI, dove la presenza del Governo con tre Ministri dei comparti principalmente interessati e i relativi sottosegretari non è stata solo formale, ma fondata sul presupposto di ascoltare le proposte soprattutto dell'opposizione, con la disponibilità a fare propri e ad accogliere gli emendamenti migliorativi del testo come quelli approvati in Commissione. Fra questi, si segnala il subemendamento a prima firma Sereni che per la determinazione del costo del fabbisogno standard elimina il riferimento al rapporto tra il numero dei dipendenti e quello dei residenti dell'ente locale e prevede la definizione statuale degli obiettivi di servizio locale (prestazioni essenziali e fondamentali), anziché considerarli quale parametro indicativo per la valutazione dell'attività finalizzata alla determinazione del costo, affermando una visione veristica dell'autonomia finanziaria ed organizzativa degli enti locali.
Il provvedimento in esame disciplina l'articolo 119 della Costituzione e richiede un preliminare giudizio circa il significato da attribuire alla richiesta di delega legislativa per introdurre norme sostanziali di realizzazione di un assetto di finanza pubblica allargata, basata sul principio cardine della responsabilità dell'entrata-spesa di moneta propria, abbandonando quello sino ad ora seguito di responsabilità della spesa-entrata di moneta altrui. Si concorda ora che la concezione di finanza derivata contiene in sé la deresponsabilizzazione dell'impiego dei mezzi finanziari spesi e che il controllo del debito pubblico allargato non può più essere conseguito ex post, ma deve ottenersi ex ante nel momento della richiesta delle risorse economiche da spendere.
Si tratta, quindi, di capovolgere l'attuale sistema di finanza pubblica allargata e di introdurre norme sostanziali che imputino agli amministratori statali pubblici la diretta responsabilità della decisione dell'entrata da spendere ed agli elettori amministrati il giudizio politico sui costi e i benefici conseguiti, il cui risultato deve rappresentarsi nei bilanci degli enti territoriali in modo da non consentire confusione di responsabilità dei vari centri di entrata-spesa.
Appare allora evidente che la richiesta di delega legislativa non è dettata dalla volontà della maggioranza parlamentare di decidere in solitudine qualità, quantità e tipo di federalismo fiscale, ma è imposta dalla necessità di graduarne l'introduzione, come del resto denunciano le stesse parole «sostituire gradualmente» dell'articolo 1 del disegno di legge, in modo da Pag. 84correlare l'individuazione del rapporto costi-bisogni standard all'andamento della propria finanza territoriale.
Il controllo del Parlamento riguarda l'idoneità ed esaustività dei principi e criteri direttivi di delega legislativa, in relazione soprattutto alla verifica della congruità dei meccanismi proposti a tutela del proprio diritto-dovere di esprimere motivato dissenso sullo schema delle singole norme sostanziali attuative del federalismo fiscale. Sotto tale profilo, non può non riconoscersi che la normativa delegante si preoccupa di raccogliere sullo schema di norma delegata il massimo apporto critico degli enti territoriali interessati, la previa intesa della Conferenza unificata e di condizioni per singola proposta, garantito dalla previsione di un parere motivato di una Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale, che interviene sulla base di elementi conoscitivi per la predisposizione dei contenuti della singola norma delegata, raccolti ed analizzati da altra Commissione tecnica pariteticamente composta.
In altri termini, la norma delegata può essere emanata soltanto al termine positivo e collaborativo di una procedura che poteva apparire persino complessa e farraginosa rispetto al normale iter del solo esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari. Tuttavia, in una materia così delicata e che innova profondamente le radici dello stare insieme può procedersi soltanto coagulando le ragioni dei singoli componenti intorno ad un progetto di finanza pubblica allargata, articolato sul principio della sussidiarietà orizzontale e verticale degli enti territoriali, del resto già nel testo della Carta costituzionale all'articolo 119. In tal senso, in un emendamento approvato si è ribadita la centralità del Parlamento nel processo di elaborazione dei decreti attuativi ed in caso di pareri difformi di Commissione bilaterali si prevede una relazione ai Presidenti delle Camere, che verrà discussa in Assemblea, dove potranno essere votate delle risoluzioni.
Va, inoltre, sottolineato che il provvedimento introduce il federalismo fiscale, ma è evidente che la materia trattata incide profondamente di riflesso anche sui modelli di gestione organizzativa delle autonomie locali e dello stesso ente statuale, per cui le relative strutturazioni dovranno necessariamente formare oggetto di successivi interventi legislativi di modifica e adeguamento, compresa la predisposizione di un disegno di legge costituzionale del federalismo fiscale e di un confronto a breve sul cosiddetto Codice delle autonomie, che dovrebbe essere emanato in concomitanza con il primo decreto legislativo previsto ed entro 12 mesi dall'approvazione del presente disegno di legge.
Nel merito del provvedimento si evidenzia che esso tende ad attuare nell'ordinamento interno il principio, invero inscindibile e nell'ordinamento comunitario, della sussidiarietà orizzontale e verticale, nella parte in cui configura l'ampiezza della potestà istitutiva di tributi propri di ciascun ente o comunità locale secondo una scala di graduazioni correlata alla struttura dimensionale macro-media-micro delle autonomie locali, quindi del tutto aderente al criterio della maggiore vigilanza di intervento dell'ente più piccolo ai bisogni particolari degli amministrati.
Nel contesto, con un emendamento approvato nelle Commissioni, si abolisce l'aliquota IRPEF riservata alle regioni, sostituita con partecipazioni ai tributi erariali e alla stessa IVA. Né va sottaciuto l'inserimento nell'ordinamento federativo fiscale dell'altro principio comunitario di applicazione dell'imposta sui consumi dal luogo di origine a quello di destinazione. Tale principio, invero già codificato nell'ordinamento interno per l'IVA intracomunitaria afferente alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi rese da soggetti fiscalmente residenti in Stati diversi aderenti alla Comunità europea, si consolida ora a livello di territorio regionale mediante la previsione dell'articolo 7 dell'attribuzione alle regioni del gettito di tributi regionali istituiti con legge statuale e secondo il criterio quantitativo del luogo di consumo.
Un rilievo fondamentale assume anche il previsto sistema sanzionatorio dei comportamenti Pag. 85gestionali degli enti locali in contrasto con l'equilibrio economico finanziario generale, laddove se ne prevede l'applicazione anche nel caso di mancata adozione dei criteri uniformi di redazione dei bilanci armonizzati secondo criteri predefiniti ed uniformi. È questa un'anticipazione nell'ordinamento interno di maggiori regole di trasparenza e controllo della dinamica di creazione ed impiego dei mezzi finanziari, la cui esigenza è stata già fatta propria dai Ministri economici comunitari per formare oggetto di discussione ed approvazione, per quanto riguarda la metodologia, nella prossima riunione dei G20.
Inoltre, il provvedimento intende risolvere gli squilibri economico-produttivi delle aree territoriali svantaggiate, assicurando l'uniformità dei servizi resi a livello nazionale agli amministrati, attraverso la previsione di un apposito fondo perequativo, le cui modalità di intervento finanziario tengano conto della capacità fiscale per abitante regionale.
Un altro elemento fondamentale del disegno federalista lo troviamo all'articolo 17 dove è stabilito che nell'ambito della legge annuale di stabilità della finanza pubblica, secondo gli obiettivi e gli interventi individuati nel Documento di programmazione economico-finanziaria, il Governo deve proporre, previo confronto con la Conferenza unificata, norme di coordinamento dinamico della finanza pubblica volte a realizzare l'obiettivo della convergenza dei costi e dei fabbisogni standard per ciascun livello territoriale.
Da ultimo, riscontriamo una fugace attenzione a Roma capitale, il cui assetto dovrà essere oggetto di un più approfondito provvedimento, atteso che si tratta di un comune di più di due milioni e 700 mila abitanti che con la provincia raggiunge più di tre milioni 800 mila abitanti su una regione di circa 5 milioni 300 mila abitanti.
Probabilmente, infine, non è questo il federalismo di cui parlava Cattaneo, ma siamo nel terzo millennio, ammorbato nell'attuale contingenza da una crisi finanziaria che rileva come anche le regole invecchino e abbisognino di rinnovamento. Colgo l'occasione per concludere con una riflessione di Lucio Colletti, già ricordata nelle Commissioni, il quale diceva che la nostra è una società imperfetta, ma che si può e si deve continuamente revisionare e correggere, proprio come il motore di un'auto, avendo ben chiaro che ogni riforma che si introduce determina scompensi da un'altra parte, così da rendere necessaria una riforma della riforma, sintetizzata da Karl Popper con il nome di «ingegneria a spizzico», ben sapendo che nessuna riforma è la panacea definitiva e che, in un mondo che cambia di ora in ora, il riformismo è un lavoro senza fine.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche dei relatori e del Governo - A.C. 2105-A)

PRESIDENTE. Prendo atto che l'onorevole Antonio Pepe, relatore per la VI Commissione, e l'onorevole Giancarlo Giorgetti, presidente della V Commissione, in sostituzione del relatore, rinunziano alla replica.
Prendo atto altresì che il rappresentante del Governo rinuncia alla replica.

GIORGIO LA MALFA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIORGIO LA MALFA. Signor Presidente, non so se sia lecito fare questa osservazione dal punto di vista regolamentare, ma trovo straordinario che il Governo, di fronte ad un dibattito di questa importanza, faccia un cenno di saluto e non replichi. Non so se questa è una notazione regolamentare o politica, veda Pag. 86lei Presidente, nella sua cortesia, come accoglierla. Trovo inaudito che il Governo non voglia dire niente.

PRESIDENTE. Come lei sa, onorevole La Malfa, è nella facoltà del Governo.

ROBERTO CALDEROLI, Ministro per la semplificazione normativa. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ROBERTO CALDEROLI, Ministro per la semplificazione normativa. Signor Presidente, il Governo intende mantenere il comportamento che ha tenuto nelle Commissioni. Ritiene molto più opportuno, invece di un intervento in un'Aula affaticata e sguarnita, replicare sulla base dei singoli emendamenti e sui singoli passaggi, per dare un contenuto a una discussione che in questo momento francamente non ne avrebbe.

GIORGIO LA MALFA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIORGIO LA MALFA. Signor Presidente, trovo che l'affermazione del Governo sia ancora più sconcertante. Il fatto che i parlamentari possano parlare ad un Aula sguarnita e siano stati tutto il giorno ad aspettare le dichiarazioni del Governo e che il Governo dica che parla solo con l'Aula guarnita è ancora più straordinario. Trovo che il Ministro delle istituzioni dovrebbe avere anche il ministero della cortesia istituzionale, oltre che delle istituzioni. La ringrazio, signor Presidente.

ROBERTO GIACHETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ROBERTO GIACHETTI. Signor Presidente, non voglio prendere le difese del Ministro, me ne guardo bene, però ho interpretato la scelta del Ministro - spero di averlo fatto bene e mi auguro che ciò accada davvero nelle prossime giornate - nel senso di intervenire sul merito delle singole proposte emendative, magari per fornire chiarimenti più nello specifico e per pronunciarsi nel merito. Se questo accadrà sarà un fatto positivo perché credo di unirmi al giudizio espresso da tutti i colleghi del mio gruppo intervenuti nella discussione nell'affermare che, senza dubbio, raramente ci siamo trovati con il Governo così attento ad un dibattito ed anche disponibile ad ascoltare la posizione di coloro che sono intervenuti, a prescindere dal giudizio che avevano su questo provvedimento.
Signor Presidente, le chiedo di poter intervenire a titolo personale e in riferimento all'articolo 8, nonché all'articolo 42, in particolare al comma 2, del Regolamento.

PRESIDENTE. Onorevole Giachetti, le darò la parola successivamente.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Sull'ordine dei lavori (ore 19,30).

PRESIDENTE. Prego, onorevole Giachetti, ha facoltà di parlare.

ROBERTO GIACHETTI. Signor Presidente, chiedo di intervenire a titolo personale e in riferimento all'articolo 8, nonché all'articolo 42, in particolare al comma 2, del Regolamento.
Questa mattina a fine seduta antimeridiana, forzando leggermente - lo so perfettamente, signor Presidente - l'interpretazione dell'articolo 42 del Regolamento, ho cercato di andare per analogia lì dove, nel comma 2, si prevede che possono intervenire per fatto personale, in qualunque occasione siano discussi provvedimenti adottati dai precedenti Governi, i deputati che sono stati Ministri o che hanno avuto dei ruoli all'interno del Governo per spiegare le loro ragioni. So perfettamente, signor Presidente, che non ho fatto parte - e questo va a beneficio del Pag. 87Governo che ci ha preceduto - del Governo Prodi, però, dal momento che si discuteva su un'iniziativa e su un provvedimento del Governo Prodi ho provato ad utilizzare questo comma, lo ripeto, per analogia, non secondo una perfetta applicazione del Regolamento. Devo dire che con grande duttilità il Presidente di turno Lupi mi ha comunque concesso di parlare per esprimere un mio giudizio. Ovviamente era nella piena facoltà del Presidente decidere se farmi parlare o meno.
Il collega Baldelli è intervenuto ed ha pronunciato la seguente frase: «Giachetti ha facoltà, come tutti quanti i colleghi di quest'Aula» - è lui, quindi, che mi attribuisce la facoltà - «di iscriversi nelle discussioni sulle linee generali e di intervenire per dare la propria opinione, ma non può» - stabilisce il collega Baldelli - «intervenire a titolo personale per illuminare l'Aula della sua verità - ammesso che sia tale - sotto forma di titolo personale» e prosegue su questa china.
Signor Presidente, le chiedo la parola a fine seduta, perché a me interessa semplicemente che ciò rimanga agli atti, come spesso è importante che accada, perché se adesso, dopo tante interpretazioni del modo in cui ci si deve comportare in Aula e di qual è il ruolo dei parlamentari e di ciascuno di noi, passiamo dal fatto che qualcuno auspica che ci sia il capogruppo che vota per tutti a taluno che addirittura pensa, magari perché è delegato di un gruppo, che stabilisce lui chi è tenuto a far rispettare il Regolamento in quest'Aula, ci sbilanciamo un pochino e usciamo fuori dai cardini.
Siccome è del tutto evidente, anche richiamando l'articolo 8 del Regolamento, che l'unico soggetto in quest'Aula che è tenuto ed ha la facoltà e anche il dovere di far rispettare il Regolamento è il Presidente di turno della Camera, penso che sarebbe utile - il collega Baldelli è giovane e farà esperienza - lasciare che questo tipo di responsabilità sia garantita da un Presidente che è il Presidente di tutti in quel momento e che ovviamente rappresenta tutti. Peraltro, io mi sento assolutamente rappresentato da lei ora, come questa mattina dal collega Lupi, anche perché ci sono decine e decine di precedenti, signor Presidente.
È chiaro che il Presidente, essendo seduto lì, deve avere anche la possibilità di interpretare il Regolamento e in ipotesi di concedere, in funzione dell'economia della seduta, anche facoltà borderline rispetto all'applicazione del Regolamento.
Signor Presidente, è successo soltanto qualche giorno fa (lo dico perché così concludo il mio intervento), il 12 marzo, mentre presiedeva il collega Buttiglione, in un contesto molto più restrittivo di quello dell'intervento a titolo personale. Stava intervenendo il mio collega di partito Laratta, nell'ambito dello svolgimento di interpellanze, ambito nel quale palesemente vi è un rapporto diretto tra l'interpellante e il rappresentante del Governo che risponde.
In quel momento, ha iniziato a interrompere il discorso del collega l'onorevole Stracquadanio, che ha poi chiesto la parola. Il Presidente Buttiglione, utilizzando la facoltà di interpretare il Regolamento, ha affermato testualmente: onorevole Stracquadanio, il momento attuale prevede un'interlocuzione in qualche modo esclusiva tra il Governo e l'interpellante, tuttavia, in via eccezionale, le do la parola per un minuto. Il collega Stracquadanio ha parlato, esattamente come è avvenuto oggi, quando, pur non essendo io perfettamente in linea con quell'articolo del Regolamento, il Presidente Lupi - credo in modo opportuno - mi ha fatto concludere il ragionamento a fine seduta.
Peraltro, signor Presidente, rimanga chiaro a me, a lei ed a tutti colleghi che sono in quest'Aula, che qui chi fa rispettare il Regolamento non è chi si alza da una parte o dall'altra, ma il Presidente di turno. Io sono convinto e sicuro che la capacità e la professionalità di tutti i Presidenti - oltre che del Presidente della Camera, dei vicepresidenti che lo sostituiscono - sia garanzia per tutti ed anche del mio diritto di ottenere che, se violo il Regolamento, me lo dica il Presidente e non qualche collega.

Pag. 88

Ordine del giorno della seduta di domani.

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.

Martedì 17 marzo 2009, alle 14:

1. - Seguito della discussione delle mozioni Franceschini ed altri n. 1-00123, Donadi ed altri n. 1-00134, Galletti ed altri n. 1-00135 e Cicchitto, Cota, Lo Monte ed altri n. 1-00138 concernenti iniziative in merito alla situazione economico-finanziaria degli enti locali.

2. - Seguito della discussione del disegno di legge (previo esame e votazione della questione pregiudiziale presentata):
S. 1117 - Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione (Approvato dal Senato) (2105-A)

e delle abbinate proposte di legge: RIA; D'INIZIATIVA DEL CONSIGLIO REGIONALE DELLA LOMBARDIA; PANIZ (452-692-748).
- Relatori: Leone, per la V Commissione; Antonio Pepe, per la VI Commissione.

La seduta termina alle 19,30.

TESTO INTEGRALE DELLA RELAZIONE DEL DEPUTATO GIANCARLO GIORGETTI IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DEL DISEGNO DI LEGGE N. 2105-A

GIANCARLO GIORGETTI, Presidente della V Commissione. Onorevoli colleghi, l'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione costituisce uno dei temi centrali della XVI legislatura: il tema del federalismo fiscale attraversa infatti trasversalmente le principali politiche pubbliche - economiche, tributarie, sociali e infrastrutturali - e riassume in sé i diversi profili - ordinamentali, amministrativi e finanziari - che condizionano lo stesso modo di essere e di atteggiarsi del sistema integrato Stato, Autonomie ed Unione europea.
Il federalismo fiscale riflette tutta la complessità di un assetto istituzionale policentrico e multilivello e rappresenta - è forse il caso di ricordarlo - una compiuta e sofisticata attuazione del principio di sussidiarietà, posto che tra i suoi scopi principali, come scriveva Musgrave nel lontano 1958, vi è quello « di consentire ai diversi gruppi che vivono nei diversi stati di esprimere le loro preferenze per i servizi pubblici».
In tale prospettiva, il disegno di legge delega, da oggi all'esame dell'Assemblea della Camera dei deputati, costituisce l'esito finale di un lunga trasformazione politica ed istituzionale, nel corso della quale l'esercizio dei poteri pubblici si è progressivamente avvicinato ai cittadini, secondo un processo che ha visto il graduale passaggio da una rigida centralizzazione amministrativa, fondata su una relazione gerarchica con le collettività locali, al riconoscimento di forme di autonoma rilevanza politica agli organismi esponenziali delle realtà territoriali, sino alla compiuta valorizzazione e responsabilizzazione del sistema delle autonomie, quale quella delineata dal nuovo titolo V, della Parte seconda, della Costituzione.
Il disegno di legge in esame rappresenta, in tal senso, l'approdo finale di un complesso processo di transizione del nostro ordinamento verso forme più moderne ed efficienti di esercizio della sovranità popolare, ed è il frutto di un intenso lavoro istruttorio, portato avanti con determinazione e tenacia dal Governo, in stretta collaborazione con le autonomie territoriali, e perfezionato dal Parlamento, con il prezioso e costruttivo concorso di tutte le forze politiche.
Le differenti posizioni e i diversi accenti e sensibilità di carattere istituzionale manifestatisi nel corso del dibattito svoltosi presso le Commissioni riunite Bilancio e Finanze hanno senz'altro contribuito ad alimentare un confronto serio ed approfondito Pag. 89nel merito delle questioni, testimoniato anche dall'elevato numero di proposte emendative presentate e vagliate in sede referente.
Il risultato di tale lavoro è un testo perfezionato nella forma e nella sostanza, che coniuga in modo inedito i principi di autonomia e responsabilità degli enti territoriali con quelli di solidarietà e coesione sociale sottesi al nostro ordinamento costituzionale.
L'unità giuridica ed economica della Repubblica trova ora nuova linfa in un assetto dei rapporti economici e finanziari tra lo Stato e gli enti territoriali che pone al centro dell'attenzione della politica, centrale e locale, il livello delle prestazioni essenziali concernenti i diritti civili e sociali, e dunque la quantità, la qualità e l'uniformità sul territorio nazionale dei servizi pubblici offerti a cittadini ed imprese.
Il federalismo fiscale disegnato nei principi e nei criteri di delega del disegno di legge in esame è un federalismo solidale e cooperativo, fondato sulla sussidiarietà e la leale collaborazione tra i livelli di governo e diretto a modernizzare l'intero apparato pubblico, responsabilizzando i governi e le classi dirigenti locali nella cura e nella tutela dei diritti fondamentali e degli interessi collettivi.
È un federalismo equo, che non intende effettuare surrettiziamente politiche di tipo redistributivo, riallocando risorse dal sud al nord del Paese, né offuscare il tema del Mezzogiorno e del dualismo territoriale, quanto piuttosto delineare un assetto dei rapporti finanziari tra i vari livelli di governo che consenta di affrontare tale tema in modo nuovo, secondo un approccio di progressiva convergenza del livello dei servizi pubblici volto a rinsaldare il patto fiscale.
È un federalismo intelligente, che intende favorire il riassorbimento degli sprechi e migliorare significativamente l'efficienza del processo di allocazione delle risorse pubbliche, attraverso il graduale passaggio dal criterio della spesa storica a quello dei costi e dei fabbisogni standard per il finanziamento delle funzioni attribuite agli enti territoriali.
È un federalismo prudente, che pur ampliando significativamente, in armonia con il dettato costituzionale, l'autonomia di entrata e di spesa degli enti territoriali, mantiene in capo allo Stato un forte ruolo di regia e di coordinamento, che non si limita al complesso ambito del sistema tributario e della finanza pubblica, ma si estende all'esercizio effettivo delle singole politiche pubbliche, con la definizione di specifici obiettivi di servizio per l'esercizio delle funzioni decentrate.
È un federalismo premiale, che intende migliorare la qualità dell'azione amministrativa, riqualificando nel contempo la spesa pubblica secondo principi di trasparenza, efficienza e responsabilità, definendo a tal fine appositi meccanismi atti ad incentivare i comportamenti virtuosi da parte degli enti - in termini di equilibri di bilancio, qualità dei servizi pubblici, livello della pressione fiscale, lotta all'evasione ed incremento dell'occupazione - ovvero a sanzionare gli enti che non rispettino gli obiettivi di finanza pubblica, anche attraverso l'individuazione dei casi di ineleggibilità nei confronti degli amministratori responsabili di stati di dissesto finanziario.
È, infine, un federalismo che guarda all'Europa, in quanto tende ad armonizzare le regole di bilancio e i sistemi contabili dei diversi livelli di governo - fondati prevalentemente su una contabilità di tipo finanziario - con il sistema dei conti di origine comunitaria, incentrato su una contabilità economica e di tipo funzionale, coordinando - nell'ottica del rigoroso rispetto sia dei vincoli costituzionali (articolo 81 Costituzione), sia di quelli dei derivanti dal Patto di stabilità e crescita - le regole e gli schemi di rappresentazione contabile di un sistema complesso articolato su molteplici livelli di governo e imperniato su una pluralità di attori istituzionali.
Quello oggi all'esame dell'Assemblea è, in definitiva, un federalismo ambizioso, la cui coerente e compiuta attuazione appare in grado di ricomporre, sotto una rinnovata Pag. 90e più moderna veste, l'unità nazionale, diffondendo le migliori pratiche e stimolando processi virtuosi di competizione tra gli amministratori pubblici, salvaguardando nel contempo i principi di solidarietà e di riequilibrio territoriale immanenti nel nostro sistema costituzionale.
Le principali novità introdotte dalle Commissioni riunite.
Fatte queste premesse, nella presente relazione mi soffermerò su alcune delle principali novità introdotte dalle Commissioni riunite V e VI nel corso dell'esame in sede referente - e in particolare sui profili procedurali e su quelli di carattere finanziario di più stretta competenza della V Commissione - rinviando alla relazione introduttiva svolta in Commissione e alla documentazione prodotta dagli uffici gli approfondimenti di carattere più analitico.
Il collega relatore per la VI Commissione dovrebbe invece soffermarsi sulle principali modifiche relative ai profili dell'autonomia tributaria e della perequazione e agli interventi speciali ex articolo 119, quinto comma, della Costituzione.
Preliminarmente, occorre rilevare come larga parte delle modifiche introdotte durante l'esame in sede referente siano state finalizzate all'accoglimento di istanze manifestate anche dai gruppi di minoranza, con i quali è stato svolto un confronto serrato ed approfondito, per il quale ritengo opportuno esprimere un caloroso ringraziamento.
Nel merito, ricordo come nel corso dell'esame siano state introdotte una serie di modifiche - di cui darà conto il relatore per la VI Commissione - che hanno meglio specificato il paniere di tributi e compartecipazioni da assegnare alle Regioni, dettagliato il meccanismo di perequazione, con particolare riferimento al trasporto pubblico locale, nonché delimitato l'ambito delle funzioni destinate ad essere finanziate integralmente, con particolare riferimento all'istruzione.
Le novità introdotte dalle Commissioni riunite, pur non alterando l'impianto originario del provvedimento, ne hanno specificato ed integrato i criteri e principi direttivi su molti aspetti qualificanti; tra di esse, vanno anzitutto annoverati la valorizzazione del ruolo del Parlamento nel processo di attuazione della delega e il rafforzamento dei meccanismi di salvaguardia degli equilibri di bilancio.
La valorizzazione del ruolo del Parlamento.
Quanto al primo aspetto, ricordo che le disposizioni di cui agli articoli da 3 a 5 del disegno di legge istituiscono un sistema di nuovi organi ai quali viene attribuito il compito di presiedere, sia a livello tecnico-operativo, sia consultivo - politico, al processo di attuazione della delega.
Già nel corso dell'esame al Senato l'esigenza, ivi unanimemente condivisa dalle forze di maggioranza e di opposizione, di rafforzare il ruolo delle Camere nel processo di attuazione della delega, si è tradotta nella previsione della istituzione di una apposita Commissione bicamerale, nonché nella definizione di una procedura di «doppio parere» da attivare qualora il Governo non intenda conformarsi alle prime indicazioni parlamentari.
Nel corso dell'esame nelle Commissioni riunite, è stata introdotta una modifica in base alla quale il Governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, oltre a dover ritrasmettere i testi alle Camere con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni, è chiamato a rendere «comunicazioni davanti a ciascuna Camera» (confronta articolo 2, comma 4).
In tale fattispecie non si prevede più, pertanto, l'espressione di un secondo parere parlamentare, bensì si investe direttamente l'Assemblea di ciascuna Camera ai fini delle conseguenti deliberazioni, che potrebbero concretizzarsi, verosimilmente, nell'adozione di uno specifico atto di indirizzo al Governo, fermo restando che decorsi trenta giorni dalla data della nuova trasmissione dei testi, i decreti legislativi potranno comunque essere adottati in via definitiva.
È chiaro come nonostante non sia stata accolta la proposta, avanzata dai gruppi di minoranza, di introdurre un parere parlamentare vincolante sugli schemi di decreto, la fattispecie qui delineata, pur non Pag. 91impedendo formalmente l'adozione dei decreti in caso di disaccordo con le Camere, configuri comunque un vincolo di carattere politico assai stringente, cui il Governo non potrebbe, nell'ipotesi, sottrarsi, pena il venir meno del rapporto fiduciario con la maggioranza parlamentare.
Di converso, l'introduzione di una forma di parere vincolante - la cui legittimità costituzionale sarebbe stata peraltro tutta da verificare - avrebbe potuto avere esiziali effetti paralizzanti o quantomeno indesiderati sulla procedura nel caso di eventuali veti ed opposizioni provenienti da una minoranza parlamentare.
Sempre sul piano istituzionale occorre segnalare una modifica relativa alle modalità di nomina del Presidente della Commissione bicamerale per l'attuazione del federalismo fiscale di cui all'articolo 3, in base alla quale si prevede che esso sia nominato dal Presidente del Senato della Repubblica e dal Presidente della Camera dei deputati, anziché essere eletto tra i componenti della Commissione medesima. Anche in tal caso, la nomina congiunta del Presidente ad opera dei Presidenti dei due rami del Parlamento intende sottolineare il carattere istituzionale e la particolare rilevanza e specificità della Commissione in oggetto, chiamata a svolgere un fondamentale ruolo di raccordo con le autonomie territoriali e di monitoraggio e controllo nell'attuazione della delega.
Segnalo, infine, come nel corso dell'esame in sede referente sia stato soppresso il nuovo criterio applicativo - introdotto al Senato - del principio di proporzionalità della rappresentanza parlamentare ai fini della nomina dei componenti della Commissione (che prevedeva il permanere della proporzione tra i Gruppi parlamentari nella composizione della Commissione anche dopo la sua costituzione), disponendosi, in modo ordinario, che essi siano nominati da parte dei Presidenti delle Camere su designazione dei Gruppi ed in modo da rispecchiarne la proporzione.
La salvaguardia degli equilibri di bilancio.
Il secondo profilo di particolare rilevanza oggetto di modifiche nel corso dell'esame in sede referente concerne la salvaguardia degli equilibri di bilancio. Sul punto, accogliendo anche in tal caso proposte emendative provenienti dai gruppi di minoranza, è stata introdotta una esplicita clausola di invarianza degli effetti finanziari, ai sensi della quale dall'attuazione della delega e da ciascuno dei decreti legislativi di cui all'articolo 2 non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica (confronta articolo 26, comma 3).
Si tratta, com'è evidente, di una modifica sostanziale, che assieme alla previsione - anch'essa introdotta nel corso dell'esame nelle Commissioni riunite - in base alla quale ciascuno schema di decreto dovrà essere corredato da relazione tecnica volta ad evidenziare gli effetti delle disposizioni sul saldo netto da finanziare, sull'indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche e sul fabbisogno del settore pubblico - dovrebbe fugare ogni preoccupazione in ordine agli effetti finanziari del disegno di legge e alla tenuta complessiva del nuovo sistema, ciò anche alla luce del fatto che rimane fermo, al comma 1 dell'articolo 26, il riferimento al rispetto del Patto di stabilità e crescita.
L'attuazione della delega dovrà, pertanto, non solo rispettare rigorosamente il precetto di cui all'articolo 81, quarto comma, della Costituzione, ma anche armonizzarsi con gli impegni assunti in sede comunitaria in ordine al percorso di riduzione del rapporto deficit/PIL e dello stock di debito.
Tra le modifiche introdotte dalle Commissioni riunite a presidio della complessiva tenuta finanziaria del nuovo sistema, occorre segnalare anche la previsione di un termine entro il quale regioni ed enti locali devono comunicare al Governo i propri bilanci preventivi e consuntivi e la previsione di sanzioni in caso di mancato rispetto di tale termine, nonché in caso di mancata o tardiva comunicazione dei dati ai fini del coordinamento della finanza pubblica (confronta articolo 2, comma 2, lettere h) e v)). Pag. 92
In risposta all'esigenza, da più parti sollevata, di approfondire nel dettaglio le grandezze economiche e i profili finanziari derivanti dall'attuazione delle delega, ricordo, inoltre, che è rimasta ferma la previsione di cui all'articolo 2, comma 6, ai sensi della quale il Governo, in allegato al primo schema di decreto legislativo - da adottare entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge - dovrà trasmettere alle Camere una relazione concernente il quadro generale di finanziamento degli enti territoriali ed ipotesi di definizione su base quantitativa della struttura fondamentale dei rapporti finanziari tra lo Stato, le regioni e gli enti locali, con l'indicazione delle possibili distribuzioni delle risorse.
Ai fini della valutazione degli effetti finanziari della delega ricordo, infine, come tra i criteri direttivi di carattere generale di cui all'articolo 26 figuri un vincolo in base al quale al trasferimento delle funzioni deve corrispondere un trasferimento del personale, evidentemente diretto a garantire una simmetria tra la riallocazione delle funzioni e la dotazione del relativo capitale umano e finanziario e pertanto finalizzato ad evitare una possibile duplicazione di funzioni e dunque di costi a carico della finanza pubblica, duplicazione che nella letteratura economica costituisce una delle possibili e più insidiose esternalità negative di un assetto decentrato.
L'armonizzazione dei bilanci pubblici.
Tra le altre modifiche di rilievo introdotte nel corso dell'esame in sede referente, va segnalata la previsione, anch'essa sollecitata da alcuni gruppi di minoranza, ai sensi della quale il primo decreto legislativo, da adottare entro dodici mesi dall'approvazione della legge delega, dovrà introdurre i principi fondamentali in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici; tra le novità, in tale ambito, anche la previsione della individuazione dei principi fondamentali per la redazione, entro un determinato termine, dei bilanci consolidati delle regioni e degli enti locali, al fine di assicurare le informazioni concernenti i servizi esternalizzati, con relative sanzioni a carico dell'ente in caso di mancato rispetto del termine (confronta articolo 2, comma 2, lettera h)).
Si tratta di innovazioni importanti sia sotto il profilo del metodo, che nel merito.
Quanto al primo aspetto, è evidente come l'armonizzazione dei bilanci costituisca un presupposto imprescindibile per l'attuazione del federalismo fiscale e debba pertanto precedere ogni ulteriore passo in tal senso; il tema dell'armonizzazione contabile appare inoltre strettamente connesso con quello della trasparenza nella produzione e nella conoscibilità dei dati di finanza pubblica e della loro tempestiva disponibilità, che rappresenta anch'esso una condizione preliminare ai fini della costruzione di un nuovo sistema di raccordi istituzionali, organizzativi e finanziari tra i vari livelli di governo.
Sotto il profilo del merito, il proliferare, negli ultimi anni, di esternalizzazioni attraverso la costituzione di aziende partecipate dagli enti territoriali pone il problema - che la delega intende risolvere - della costruzione di un bilancio consolidato per gli enti territoriali nel quale possano essere ricondotti ad un unico risultato i bilanci degli enti locali in senso stretto e delle loro società ed aziende partecipate, stante la rilevanza delle spese di queste ultime, anche al fine di appurare la qualificazione giuridica di tali aziende con riferimento ai principi contabili comunitari di discriminazione tra aziende pubbliche market e non market (queste ultime da ricomprendere nel perimetro della pubblica amministrazione a prescindere dalla loro veste giuridica privatistica).
Costi standard e obiettivi di servizio.
Per quanto concerne uno degli aspetti innovativi e tecnicamente più complessi del nuovo assetto dei rapporti economico-finanziari tra lo Stato e le autonomie territoriali - ossia il graduale passaggio dal sistema dei trasferimenti fondato sulla spesa storica a quello dell'attribuzione di risorse basate sull'individuazione dei costi e dei fabbisogni standard necessari a garantire sull'intero territorio nazionale il finanziamento integrale dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni Pag. 93fondamentali degli enti locali - segnalo come nel corso dell'esame nelle Commissioni riunite si sia provveduto - in accoglimento anche in tal caso di una proposta emendativa dell'opposizione - alla riscrittura dell'articolo 2, comma 2, lettera f), al fine di: riformulare la nozione del costo e del fabbisogno standard (definito quale «costo e fabbisogno che, valorizzando l'efficienza e l'efficacia, costituisce l'indicatore rispetto al quale comparare e valutare l'azione pubblica»), espungendo, in quanto ritenuto parziale e non esaustivo, il riferimento al rapporto tra il numero dei dipendenti dell'ente territoriale e il numero dei residenti; precisare che gli «obiettivi di servizio» cui devono tendere le amministrazioni regionali e locali debbono essere riferiti all'esercizio delle funzioni riconducibili ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali o alle funzioni fondamentali di cui all'articolo 117, secondo comma, lettere m) e p), della Costituzione.
In proposito, rilevo come ai fini dell'individuazione dei costi standard occorrerà esercitare una delicata funzione di raccolta ed elaborazione delle informazioni di benchmarking, che oltre alla sanità dovrà essere sperimentata in settori fondamentali quali l'istruzione, l'assistenza, i trasporti pubblici.
Il superamento, per tutti i livelli istituzionali, del criterio della spesa storica, implicherà, pertanto, la necessità di fare riferimento non ad un modello teorico bensì ai costi delle prestazioni effettivamente sostenuti a livello territoriale; il richiamo ai criteri dell'efficienza e dell'efficacia sembrerebbe, inoltre, supporre che debbano essere presi come base di riferimento i costi reali delle gestioni migliori, al fine di costruire un sistema di finanziamento in grado di eliminare le sacche di inefficienza e promuovere i comportamenti virtuosi, garantendo nel contempo i livelli e la qualità dei servizi resi ai cittadini.
Il coordinamento della finanza pubblica.
Per quanto concerne il coordinamento della finanza pubblica, esso assume un ruolo centrale nel nuovo assetto dei rapporti finanziari tra lo Stato e le autonomie territoriali.
Una riforma in senso federale di funzioni e risorse deve infatti necessariamente garantire una efficiente articolazione della politica economica tra i diversi attori istituzionali dotati di autonomia finanziaria, sia sul versante del consolidamento dei conti pubblici, sia sul piano dello svolgimento delle singole politiche di settore.
Al riguardo, i criteri direttivi in tema di coordinamento e disciplina fiscale dei diversi livelli di governo prevedono, in primo luogo, il concorso di tutti i livelli di governo al conseguimento degli obiettivi della politica di bilancio nazionale, in coerenza con i vincoli posti dall'Unione europea e dai Trattati internazionali.
Com'è noto, tale concorso è stato sinora assicurato con il Patto di stabilità interno, istituto più volte modificato nell'ambito delle manovre finanziarie adottate nell'ultimo decennio e divenuto il principale strumento di controllo della crescita della spesa degli enti decentrati.
Nel nuovo assetto delle relazioni economico-finanziarie tra lo Stato e le autonomie territoriali, il coordinamento della finanza pubblica viene inteso in senso ampio, affiancando a meccanismi di monitoraggio e controllo della spesa e dei saldi degli enti decentrati anche meccanismi premiali e sanzionatori afferenti sia il rispetto degli equilibri di bilancio, sia i livelli, i costi e la qualità dei servizi pubblici.
In tale prospettiva, il Patto di stabilità interno, sinora adottato per definire l'entità del concorso dei diversi enti territoriali agli obiettivi della politica di bilancio, dovrebbe essere integrato da un nuovo «Patto di convergenza» (confronta articolo 17), ossia da un insieme di regole per il coordinamento dinamico della finanza pubblica che il Governo è chiamato a definire annualmente nell'ambito della legge finanziaria previo confronto con gli enti territoriali in sede di Conferenza unificata.
Tale istituto è finalizzato, in particolare, a realizzare l'obiettivo della convergenza Pag. 94dei costi e dei fabbisogni standard dei vari livelli di governo, ossia ad agevolare il graduale passaggio dal criterio della spesa storica a quello dei costi standard, che costituisce uno degli elementi distintivi dell'impianto del disegno di legge, nonché un percorso di convergenza degli obiettivi di servizio ai livelli essenziali delle prestazioni e alle funzioni fondamentali degli enti locali. Il Patto di convergenza dovrà, inoltre, stabilire, per ciascun comparto, il livello programmato dei saldi da rispettare, l'obiettivo programmato della pressione fiscale complessiva, nonché, come specificato nel corso dell'esame in sede referente, «le modalità» (e non più i livelli) di ricorso al debito.
In questo quadro, i principi e criteri direttivi previsti dal disegno di legge attribuiscono alle regioni uno specifico ruolo di coordinamento a garanzia del raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, in base al quale esse, previa concertazione con gli enti locali ricadenti nel proprio territorio regionale, possono adattare le regole e i vincoli posti dal legislatore nazionale, differenziando le regole di evoluzione dei flussi finanziari dei singoli enti in relazione alla diversità delle situazioni finanziarie esistenti in ciascuna regione.
Si prevede, inoltre, l'individuazione di indicatori di efficienza e di adeguatezza volti a garantire obiettivi qualitativi dei servizi regionali e locali, funzionali a loro volta all'introduzione di un sistema premiante per gli enti che assicurino una più elevata qualità dei servizi associata ad un livello di pressione fiscale inferiore alla media. L'attivazione di meccanismi premiali è prevista altresì per gli enti che partecipano a progetti strategici nell'interesse della collettività nazionale o che incentivano l'occupazione e l'imprenditorialità femminile.
Nei confronti degli enti meno virtuosi rispetto agli obiettivi di finanza pubblica e che non adottano le misure correttive necessarie, incluso l'utilizzo dei margini disponibili di incremento del prelievo, è prevista invece la definizione di un sistema sanzionatorio, che contempla il divieto di procedere alla copertura di posti di ruolo vacanti nelle piante organiche e di iscrivere in bilancio spese per attività discrezionali.
Meccanismi sanzionatori di carattere automatico sono inoltre previsti a carico degli organi di governo e amministrativi nel caso di mancato rispetto degli equilibri e degli obiettivi economico-finanziari assegnati alla regione e agli enti locali, con l'individuazione dei casi di ineleggibilità nei confronti degli amministratori responsabili degli enti locali per i quali sia stato dichiarato lo stato di dissesto finanziario, oltre che dei casi di interdizione dalle cariche in enti vigilati o partecipati da enti pubblici. Tra i casi di grave violazione di legge di cui all'articolo 126, primo comma, della Costituzione - che comportano lo scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della Giunta - vengono annoverate le attività che abbiano causato un grave dissesto nelle finanze regionali.
Il disegno di legge richiama, infine, la necessità di assicurare la trasparenza delle diverse capacità fiscali e delle risorse complessive per abitante prima e dopo la perequazione, in modo da salvaguardare il principio dell'ordine della graduatoria delle capacità fiscali e la sua eventuale modifica a seguito dell'evoluzione del quadro economico territoriale.
Qualora l'attività di monitoraggio del Patto di convergenza rilevi che uno o più enti non abbiano raggiunto gli obiettivi loro assegnati, lo Stato è chiamato ad attivare - previa intesa in sede di Conferenza unificata e limitatamente agli enti che presentano i maggiori scostamenti nei costi per abitante - un procedimento denominato «Piano per il conseguimento degli obiettivi di convergenza», volto ad accertare le cause degli scostamenti e a stabilire le azioni correttive che devono essere intraprese per ridurre ed eliminare gli scostamenti, anche fornendo agli enti la necessaria assistenza tecnica.
Nel corso dell'esame in sede referente è stato specificato che la suddetta attività di monitoraggio debba essere effettuata in sede di Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica, di Pag. 95cui all'articolo 5, ossia nell'organo, al quale partecipano i rappresentanti dei diversi livelli istituzionali di governo, deputato a concorrere alla definizione degli obiettivi di finanza pubblica per ciascun comparto e a vigilare sul loro conseguimento, nonché a verificare periodicamente la realizzazione del percorso di convergenza ai costi e ai fabbisogni standard.
A seguito di una modifica introdotta dalle Commissioni riunite, ricordo che la Conferenza è tenuta a mettere a disposizione della Camera dei deputati, del Senato della Repubblica, dei Consigli regionali e di quelli delle Province autonome tutti gli elementi informativi raccolti.
Il rafforzamento della lotta all'evasione.
Uno dei cardini del disegno di legge in esame, che costituisce una precisa opzione strategica di politica economica, è la previsione del concorso degli enti territoriali alla lotta all'evasione e all'elusione fiscale, fenomeni che, com'è noto, hanno assunto nel nostro Paese dimensioni esorbitanti.
Al fine di rafforzare ulteriormente tale prospettiva - che rappresenta nei fatti, assieme alla razionalizzazione della spesa, la strada maestra per poter ridurre nel medio periodo il livello della pressione fiscale (secondo il motto del «pagare tutti per pagare meno») - nel corso dell'esame in sede referente è stato approvato un articolo aggiuntivo ad hoc, diretto a rendere possibile l'integrazione delle banche dati dei diversi livelli territoriali. In particolare, il nuovo articolo 24-bis è volto a definire forme di reciproca integrazione delle basi informative di cui dispongono le regioni, gli enti locali e lo Stato per le attività di contrasto alla evasione dei tributi erariali, regionali e degli enti locali, nonché forme di diretta collaborazione volta a fornire dati ed elementi utili ai fini dell'accertamento dei predetti tributi.
Al fine di cointeressare le regioni e gli enti locali nelle attività di contrasto all'evasione l'articolo prevede infine l'introduzione di specifiche forme premiali a favore degli enti che abbiano ottenuto risultati concreti e positivi in termini di emersione di maggior gettito.
Considerazioni conclusive.
Nel concludere la presente relazione introduttiva, ritengo utile segnalare talune questioni - evidenziate anche nel parere sul disegno di legge reso dalla I Commissione Affari costituzionali - che potrebbero essere oggetto di ulteriori approfondimenti nel corso dell'esame in Assemblea.
Mi riferisco, in primo luogo, alla necessità di individuare con maggiore chiarezza le modalità, i principi e i limiti secondo i quali la riforma in oggetto si applica alle Regioni a statuto speciale, posto che l'articolo 1, comma 2, del disegno di legge dispone l'applicabilità alle Regioni a statuto speciale e alle province autonome, conformemente agli statuti, esclusivamente dell'articolo 14, relativo al finanziamento delle città metropolitane, dell'articolo 21, concernente la perequazione infrastrutturale, e dell'articolo 25, che detta la disciplina generale per il coordinamento della finanza delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome, rinviando l'applicazione alle norme di attuazione dei rispettivi statuti.
A seguito di un emendamento approvato nel corso dell'esame in sede referente è stato inoltre aggiunto un inciso che esclude dall'ambito di applicazione del comma gli enti locali ricadenti nel territorio delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome. L'effetto della modifica apportata nel corso dell'esame in sede referente potrebbe generare dubbi interpretativi, posto che in base ad un'interpretazione strettamente letterale, da essa sembrerebbe discendere l'applicabilità agli enti locali ricadenti nel territorio delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome dell'intera disciplina recata dal disegno di legge in esame; viceversa, un'interpretazione meno letterale porterebbe a ritenere che agli enti locali ricadenti nel territorio delle Regioni a statuto speciale non si applichi nessuna delle disposizioni recate dal disegno di legge in esame, neanche quelle applicabili alle Regioni a statuto speciale e alle province autonome in forza del medesimo comma 2, dovendosi in tal caso valutare la coerenza di tale interpretazione con la Pag. 96disciplina complessivamente applicabile alle Regioni a statuto speciale sulla base degli articoli 14, 21 e 25.
Sul punto, occorrerà svolgere un approfondimento, valutando nel caso anche la presentazione di un eventuale ordine del giorno diretto a meglio chiarire la portata della norma.
In linea generale osservo, peraltro, come alla luce del nuovo assetto dei rapporti finanziari tra Stato ed autonomie territoriali delineato dal disegno di legge, l'individuazione di un percorso di «avvicinamento» dell'ordinamento delle regioni a statuto speciale con quello delle regioni a statuto ordinario appare, a mio avviso, come un'esigenza imprescindibile, che dovrà essere affrontata in modo prioritario, eventualmente anche in una prospettiva di riforma costituzionale.
A tale ultimo riguardo, rilevo, conclusivamente, come ai fini di una compiuta e coerente attuazione dell'articolo 119 della Costituzione andrebbero definiti una serie di ulteriori interventi di riassetto istituzionale, amministrativo e contabile, che dovrebbero accompagnare il processo riformatore nella prospettiva di un complessivo aggiornamento dell'architettura istituzionale del Paese.
La riforma costituzionale.
L'approvazione del disegno di legge delega di attuazione dell'articolo 119 della Costituzione dovrebbe, in particolare, saldarsi con una contestuale ripresa del processo di riforma costituzionale, per la quale il progetto elaborato sul finire della scorsa legislatura dalla I Commissione Affari costituzionali potrebbe costituire, con alcune integrazioni, una base di partenza condivisa.
In tale ambito, potrebbero assumere uno specifico rilievo sia la riscrittura dell'articolo 117, volta a meglio definire il quadro delle materie oggetto di legislazione concorrente fra lo Stato e le Regioni, sia, in senso più ampio, il superamento del bicameralismo perfetto in favore di un modello bicamerale diretto ad assicurare una forte rappresentanza delle autonomie territoriali (mi riferisco al cosiddetto «Senato delle Regioni»).
Analogamente, al fine di garantire la necessaria corrispondenza tra funzioni, risorse e responsabilità attribuite ai diversi livelli di governo, occorrerà procedere quanto prima, con legge dello Stato, all'individuazione delle funzioni fondamentali degli Enti locali, attuando il disposto di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione.
La Carta delle autonomie.
Un nuovo assetto dei rapporti economici e finanziari tra Stato ed enti decentrati postula infatti un quadro dettagliato delle competenze e delle funzioni svolte dai diversi livelli di governo. In assenza di una legislazione di attuazione del dettato costituzionale, la questione del finanziamento del fabbisogno delle funzioni di comuni e province è stata risolta considerando in modo forfettario l'80 per cento di esse come fondamentali e il restante 20 per cento come non fondamentali; è evidente come questa sia una soluzione transitoria destinata ad essere superata, posto che rappresenta pur sempre una approssimazione che, in quanto tale, non rispecchia fedelmente i reali fabbisogni dei singoli enti.
Mi associo, pertanto all'auspicio, formulato anche nel parere reso dalla I Commissione, che il Governo presenti al Parlamento quanto prima il disegno di legge per il riordino del sistema delle autonomie locali (la cosiddetta Carta delle autonomie), affinché la delega in esame possa essere esercitata in modo coerente con tale provvedimento.
La riforma della legge di contabilità.
Da ultimo, constatate le strette interrelazioni tra l'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione e il quadro contabile entro il quale dovrà svolgersi il nuovo assetto dei rapporti finanziari tra Stato, autonomie ed Unione europea, rilevo l'esigenza di una complessiva revisione della normativa contabile, volta ad aggiornare sedi, procedure e strumenti di finanza pubblica, al fine di assicurare un più agile ed efficace coordinamento delle politiche di bilancio dei diversi livelli di governo.

Pag. 97

TESTO INTEGRALE DEGLI INTERVENTI DEI DEPUTATI MARCO CAUSI, MAURO PILI, LINO DUILIO E MARIO PEPE (PD) IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DEL DISEGNO DI LEGGE N.2105-A

MARCO CAUSI. Per il Partito Democratico l'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione costituisce un tassello importante di una più generale riforma dello Stato, volta a modernizzare le pubbliche amministrazioni, ad alleggerire e semplificare gli apparati burocratici, ad aumentarne efficienza ed economicità attraverso un maggior controllo da parte dei cittadini. È questa la visione che ispira le riforme di fine anni Novanta (trasferimento di competenze dallo stato alle regioni e agli enti locali, elezione diretta dei presidenti delle regioni, autonomia statutaria, nuovo titolo V della Costituzione). Il tracciato delle riforme si è interrotto fra il 2001 e il 2006. Nei due successivi anni di governo il centrosinistra si è impegnato a riprendere il percorso delle riforme, presentando proposte legislative organiche di attuazione del nuovo titolo V della Costituzione non solo in materia di federalismo fiscale, ma anche di assetto complessivo del sistema delle autonomie locali («carta delle autonomie») e di riforma del Parlamento («bozza Violante»).
Per noi, infatti, è di assoluta evidenza che la sola parte fiscale e tributaria della riforma è monca e incompleta, se non accompagnata da una profonda riforma amministrativa («chi fa cosa» nel nostro barocco sistema pubblico multilivello) e da una riforma del Parlamento, con il superamento del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero di parlamentari e l'istituzione del Senato delle regioni e delle autonomie.
Il Governo Berlusconi e la sua maggioranza hanno deciso diversamente e hanno messo l'acceleratore sul solo federalismo fiscale. È vero che, incalzato dalle opposizioni, il Governo ha varato successivamente una proposta di riforma del sistema delle autonomie, che è oggi all'esame delle Conferenze. Ma è altrettanto vero che il legame temporale fra i due processi di attuazione resta ancora molto labile. Eppure chiunque capisce che sarà impossibile definire l'entità delle risorse finanziarie da assegnare a ciascun ente se prima non vengono fissati i perimetri dei servizi da finanziare.
E soprattutto, dentro questi perimetri, quelli relativi ai servizi cosiddetti essenziali, che a loro volta vanno ancorati a nuove previsioni legislative sui livelli essenziali delle prestazioni connessi ai diritti civili e sociali fondamentali che la Repubblica tutela in modo uniforme sull'intero territorio nazionale. Anche qui va eliminata ogni possibile forma di ipocrisia: come si potranno calcolare i fabbisogni standard se non si sono stabiliti i livelli essenziali delle prestazioni? Penso soprattutto al settore dell'assistenza, ma anche ad altri settori di intervento connessi alle funzioni fondamentali dei comuni e delle province, e quindi a tante importanti prestazioni su cui si basa il sistema del welfare di prossimità nel nostro paese.
In tanti hanno parlato, giustamente, di una vera e propria «road map» che andrebbe scritta per stabilire un cronoprogramma credibile e impegnativo per l'attuazione della riforma: definizione delle cornici legislative per i livelli essenziali delle prestazioni, approvazione della «carta delle autonomie», definizione parallela dei decreti attuativi della carta delle autonomie e del federalismo fiscale. Finora, Governo e maggioranza hanno soltanto approvato una proposta emendativa delle opposizioni che fissa in dodici mesi il limite temporale per l'emanazione del primo decreto di attuazione della presente legge, e precisa che in questo primo decreto dovranno essere introdotti i nuovi principi fondamentali in materia di armonizzazione dei sistemi contabili pubblici.
Va bene, ma non basta.
Non basta a sfatare la suggestione che qualcuno, nella maggioranza e nel Governo, considerino questa legge un puro manifesto a scopi elettorali, dandone già per scontata la non attuazione, anche alla luce della crisi economica in corso. Se davvero si vuole andare avanti in questa Pag. 98riforma, questa possibile ipocrisia va eliminata con opportune modifiche del testo e con precisi impegni che il Governo assume di fronte al Parlamento.
Insieme a questa ipocrisia, vanno superate alcune palesi distorsioni che la discussione pubblica ha assunto sull'argomento. Credo che il contesto di comunicazione politica all'interno del quale avverrà in quest'aula la discussione del provvedimento sarà altrettanto importante della valutazione di merito delle proposte emendative per orientare la decisione di voto da parte del Partito Democratico.
Tre soli esempi di queste distorsioni. Aver concentrato la discussione sul solo federalismo fiscale ha portato il Parlamento ad affrontare una discussione molto tecnica, che ha un sapore quasi esoterico. Pensiamo ad una famiglia che debba trovare un posto in asilo nido per suo figlio, oppure che deve trovare un aiuto di assistenza domiciliare per un anziano non autosufficiente. Credete che siano in qualche modo interessati a sapere come l'ente locale a cui si rivolgono ottiene i suoi finanziamenti, con quale mix fra riserve d'aliquota, compartecipazioni, addizionali, tributi propri e derivati, fondi perequativi basati sui fabbisogni standard, fondi perequativi basati sulla capacità fiscale, ecc. ecc.? Il rischio che la nostra istituzione parlamentare venga considerata lontana dai problemi concreti della vita di tutti i giorni non è mai stato così evidente come in questa discussione sui sistemi di finanziamento dei diversi livelli di governo della Repubblica. La famiglia che prima immaginavo è interessata a sapere se nel suo territorio il servizio è erogato, a quale livello di qualità e di affidabilità, con quale copertura, con quale efficienza, con quali costi tariffari a carico dell'utente. È qui il cuore del processo di riforma a cui tiene il Partito Democratico.
Ed è qui che prendo atto dell'accoglimento da parte di Governo e maggioranza di alcune proposte del Partito Democratico che hanno modificato, prima in Senato e poi nel lavoro di Commissione alla Camera, l'originario testo del Governo. Penso in particolare all'introduzione di un processo di coordinamento dinamico della finanza pubblica e del cosiddetto Patto per la convergenza, in cui è chiaro che il processo di riforma che mettiamo in atto punta, a regime, a far convergere tutti i territori italiani verso livelli uniformi sia dei costi che dei tassi di copertura e della qualità dei servizi. L'introduzione del concetto di obiettivo di servizio rende chiaro che le amministrazioni pubbliche locali e regionali devono essere impegnate in un doppio processo di convergenza: verso i costi più efficienti e verso i livelli essenziali delle prestazioni.
Una seconda distorsione è quella di tendere a comunicare che il processo che si sta aprendo determina la «territorializzazione» delle imposte. Non è così, e rivolgo un pressante invito a chi dice questo ai suoi elettori, ai suoi sindaci, a correggere la comunicazione, a evitare di creare aspettative che rischiano poi di andare disilluse. La Costituzione non introduce alcun principio di territorialità delle imposte erariali che contraddica il principio sovraordinato di capacità contributiva. E tanto questo è vero, che già l'originario testo emanato dal Governo si allontanava di molto dal progetto del Consiglio regionale della Lombardia. E adesso, dopo le modifiche introdotte in Commissione, Governo e maggioranza hanno accettato numerosi emendamenti presentati dal Partito Democratico e dalle altre opposizioni che chiariscono come il «principio di territorialità» vada riferito al testo dell'articolo 119. È stata inoltre accettata la nostra richiesta di sopprimere la riserva d'aliquota per le regioni, uno strumento che avrebbe rischiato di «balcanizzare» la più importante imposta erariale, quella a cui sono legati obiettivi di progressività e di meritorietà sociale che non possono essere spezzettati per 21 regioni. Ed è stato chiarito, in tre casi su quattro, che i fondi perequativi attingono alla fiscalità generale. Resta privo di questo riferimento il solo fondo per i servizi «non lettera m» delle regioni. Spero che l'Aula vorrà intervenire su questa, che è ormai un contraddizione logica e formale all'interno del testo. Pag. 99
Una terza distorsione è data dal fatto che il contesto di comunicazione politica si è caratterizzato per una lettura sostanzialmente antimeridionalistica del processo di riforma. E ciò in dispregio di dati di fatto e di numeri che sono chiarissimi, e che sono emersi con grande evidenza nel corso delle audizioni parlamentari. E allora, vale ancora una volta ricordare che la spesa pubblica per abitante è più alta nel centro-nord rispetto al sud: 12.963 euro contro 10.124 sul dato complessivo del 2006, 11.831 contro 9.865 sulla sola spesa primaria. E questo serve a ricordarci che in tante zone del Sud il livello di copertura e di qualità dei servizi essenziali di prossimità è ben lontano da quello che dovrà invece essere raggiunto grazie all'applicazione della riforma che stiamo discutendo.
E vale ricordare ancora che il costo unitario di fornitura dei servizi è molto variabile all'interno del paese, il che significa che la convergenza verso i costi standard garantirà non solo risparmi, ma soprattutto più efficienti contesti organizzativi. Ma che questa variabilità non emerge affatto sulla direttrice Nord-Sud, tant'è vero che in generale i costi unitari più elevati emergono nelle regioni a statuto speciale del Nord, il che significa in buona sostanza che la sfida dell'efficienza va combattuta in tutto il paese, e non solo in alcune sue parti.
E ancora, vale ricordare che la finanza comunale è storicamente più eterogenea e sperequata di quella regionale, ma che anche qui, una volta ancora, le direttrici geografiche della sperequazione sono molto complesse: ad esempio nel Nord emerge una sperequazione a danno dei Comuni del Veneto, nel Sud a danno dei Comuni della Puglia. È per questo che il Partito Democratico ha insistito sia al Senato sia in Commissione alla Camera per la garanzia del finanziamento integrale e dell'integrale sostituzione degli attuali trasferimenti, oltre che per specificare con più precisione i meccanismi di funzionamento dei fondi perequativi dei Comuni. E su questo ultimo elemento, ancora non accolto, confidiamo in un cambiamento di giudizio del Governo e della maggioranza. È questa la strada maestra per venire incontro alla legittima protesta dei Sindaci veneti, oltre all'accoglimento delle proposte immediate per mettere tutti i Comuni italiani in condizione di non arrivare morti all'appuntamento con la riforma.
E infine, vale ancora ricordare che la pressione fiscale, ove correttamente valutata, e quindi in percentuale sul PIL e non in termini procapite, non appare differenziata in maniera univoca fra i diversi territori del paese: basti ricordare, ad esempio, che è pari al 44,4 per cento in Veneto e al 45 per cento in Campania.
In questa direzione, tuttavia, il lavoro svolto in Commissione alla Camera ha dato risultati positivi, introducendo elementi di garanzia per il Mezzogiorno in precedenza non previsti. Penso in particolare alla salvaguardia del fondo ex legge n. 549 del 1995 e alla nuova formulazione dell'articolo 15, che lega l'azione per la rimozione degli squilibri strutturali delle aree sottoutilizzate a interventi speciali organizzati in piani organici finanziati con risorse pluriennali. Non sono state invece accettate, e noi insistiamo per l'Aula, le nostre proposte relative ai fondi perequativi per i servizi non essenziali, né quelle relative all'inserimento dei trasporti regionali fra i servizi essenziali delle regioni e dei beni culturali fra le funzioni fondamentali dei comuni.
Insomma, il lavoro fin qui svolto va nella giusta direzione. Va affermato adesso con grande forza che il federalismo fiscale non deve essere un mezzo per ridurre l'intervento pubblico a «stato minimo» e abbassare il livello di guardia delle nostre, già insufficienti, politiche di welfare; non deve essere un mezzo per redistribuire in modo distorto e imprevedibile le risorse fra le diverse aree territoriali del paese; per alterare il principio costituzionale della progressività del sistema fiscale; per sostituire al centralismo statale una sorta di neocentralismo delle regioni; per creare le condizioni di un litigio permanente di tutti contro tutti, con effetti negativi sul funzionamento dei servizi pubblici. E mi Pag. 100sembra di poter dire che la versione attuale del testo, così come emendata in Commissione, riduca questi rischi, fatto salvo l'importante e fondamentale punto relativo all'intreccio fra livelli essenziali delle prestazioni, carta delle autonomie e decreti attuativi del federalismo fiscale.
Per il nostro partito, per il Partito Democratico, il federalismo fiscale deve essere un mezzo per: ricostruire un rapporto trasparente fra istituzioni pubbliche e cittadini sulle decisioni in materia di spesa pubblica e di imposte; utilizzare meglio le imposte versate dai cittadini a qualsiasi titolo, obbligando le pubbliche amministrazioni a standard di efficienza verificabili; concentrare l'attenzione della politica e il suo lavoro, in ambito sia nazionale che locale, sui livelli e sulla qualità dei servizi pubblici offerti a cittadini e imprese, che in tante parti del paese sono ancora sottodimensionati e insufficienti; modernizzare l'intero apparato pubblico, centrale e locale, e rafforzare i governi di prossimità nella capacità di curare i beni pubblici e il welfare del territorio; trasferire alle istituzioni più vicine ai cittadini le decisioni di entrata e di spesa in campi fondamentali dell'intervento pubblico senza che venga aumentata la pressione fiscale. Con una completa e moderna riforma in senso federale si deve definire una cornice politico-istituzionale che ci consenta di affrontare il tema del mezzogiorno in modo totalmente nuovo, come già cento anni fa proponevano Gaetano Salvemini e Luigi Sturzo.
Certo, noi avremmo preferito un'impostazione diversa dell'intero processo. Anche all'interno delle scelte tecniche in merito ai meccanismi finanziari, il progetto di legge presentato dal Partito Democratico in Senato metteva al centro dei meccanismi di calcolo dei fabbisogni e della perequazione non già gli enti (i comuni, le province, le regioni), ma i territori, le comunità regionali. Si intende con questo concetto l'insieme di tutti gli enti pubblici che erogano i servizi in un certo territorio, rivolti ad una certa comunità. Questa impostazione muove dal presupposto che ai cittadini interessino la qualità dei servizi e i relativi costi, indipendentemente dall'ente che tali servizi eroga. Nella nostra proposta c'è più attenzione all'autonomia tributaria degli enti decentrati, perché ci sembra una chiara contraddizione fare il federalismo mentre si riduce il ruolo dell'Ici e si afferma che in futuro dovrà essere superata l'Irap.
Al cuore di un buon governo di prossimità ci deve essere anche la responsabilità fiscale, e ci sembra evidente che l'attuale testo contenga in merito qualche ipocrisia, pur essendo aperto ad attuazioni future su basi imponibili che sono state meglio specificate grazie all'accoglimento di nostri emendamenti in Senato. È positivo, peraltro, l'accoglimento delle nostre proposte sulla presentazione di adeguate relazioni tecniche che attestino la neutralità dei decreti attuativi sui saldi di finanza pubblica. Mentre non comprendiamo il motivo per cui siano stati respinti i nostri emendamenti, che ripresentiamo in aula, per chiarire che Comuni e Province potranno fruire anche di compartecipazioni al gettito di tributi regionali. Infatti, l'attuale sistema di trasferimenti dalle regioni alle province e ai comuni andrà anch'esso riformato ai sensi della Costituzione, e trasformato in tributi locali, compartecipazione e perequazione regionale.
Nonostante la nostra insoddisfazione per l'impianto del provvedimento, quindi, ci siamo confrontati nel merito e continueremo a farlo, provando a correggere le distorsioni e gli errori che a noi sembrano più rischiosi per l'avvio di una riforma così importante. È positivo il rafforzamento delle garanzie del Parlamento, che speriamo possa essere ulteriormente riempito di contenuto dall'Aula, anche in termini di capacità di indirizzo e di proposta, oltre che di garanzie ancora maggiori. E confidiamo in una positiva soluzione della vicenda delle Regioni a Statuto Speciale. Ci sembra chiaro che la legge in discussione reca principi fondamentali in materia di riforma economica e sociale, che quindi si estendono anche alle regioni a statuto speciale. Ma soprattutto ci sembra importante che i meccanismi di garanzia dei cittadini contenuti nei principi dei Pag. 101fabbisogni standard, degli obiettivi di servizio e dei livelli essenziali delle prestazioni possano esplicare i loro effetti favorevoli anche a vantaggio della popolazione residente nelle Regioni a Statuto Speciale. Sarebbe ben strano, infatti, che la specialità, definita storicamente per determinare un vantaggio a quei territori, si dovesse trasformare in un oggettivo elemento di svantaggio.
Insomma, per il Partito Democratico il federalismo fiscale è un mezzo per rinnovare l'unità nazionale intorno a uno Stato riformato e a enti territoriali più autonomi e responsabili. Un mezzo per dare più forza alle collettività locali del nostro paese, per renderle più consapevoli e più coinvolte nei processi decisionali, per farle diventare sempre più capaci di affrontare le grandi sfide del tempo presente con una maggiore partecipazione alla gestione della cosa pubblica e ai processi di sviluppo del loro territorio nell'ambito dell'economia nazionale, europea e globale.
È questa la sfida a cui partecipiamo, con un contributo di idee e di bagaglio politico che ci porterà ad incalzare costantemente maggioranza e Governo affinché vengano superati gli errori ancora contenuti nel testo e venga data un'attuazione trasparente e veloce al processo di riforma.

MAURO PILI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, la Camera dei deputati inizia oggi l'esame di uno dei provvedimenti cardine della legislatura, quello del federalismo fiscale.
Qualche attento osservatore delle vicende riformatrici del nostro paese ha puntualmente rilevato che iniziamo dalla coda piuttosto che dalla testa. Ovvero esaminiamo la parte conclusiva, ma anche sostanziale, del riassetto federale dello Stato.
La riforma mancata e il ponte federalista.
È vero. L'approccio più corretto e lineare sarebbe stato un altro. Quello, per intenderci, proposto nella legislatura 2001-2006 con una strutturale rivisitazione dell'assetto istituzionale del Paese.
Mi permetto di ricordarlo a me stesso: la riforma sarebbe dovuta partire dall'assetto istituzionale, non con l'attuale bicameralismo perfetto ma una Camera che legifera sulle materie di pertinenza dello Stato e un Senato federale che governa il rapporto Stato-regioni, il tutto nel quadro di un forte presidenzialismo, sinonimo di piena assunzione di responsabilità.
Non dunque uno Stato-centrico ma un equilibrio funzionale al nuovo rapporto paritetico Stato-Regioni-enti locali sancito dalla Costituzione.
Quell'esperienza riformatrice, proficua e feconda sul piano parlamentare, naufragò dinnanzi allo scoglio referendario, segnando un chiaro e netto distacco dell'opinione pubblica dai terni delle riforme.
Il disegno costituzionale dello Stato allora proposto fu percepito dall'opinione pubblica non come una nuova e moderna opportunità ma semmai come un limite, erroneamente e maldestramente rappresentato come una frammentazione istituzionale. Foriera, secondo i più retrivi, di un vero e proprio attentato all'unità nazionale.
Un referendum sulla percezione e non sulla sostanza del federalismo.
Fu, insomma, un referendum sulla «percezione» e non sulla sostanza del federalismo.
Oggi, il Governo e la maggioranza, scelgono la lungimirante via di non guadare l'impervio fiume della percezione ma di costruire un «sostanziale» ponte, capace di superare le ostilità delle correnti conservatrici e dei mille rivoli della paventata frammentazione, per unire le sponde tra lo Stato e le regioni.
È opera ardita, colleghi. E perché anche ciò che ai più appare arduo e impossibile possa compiersi è indispensabile posare i piloni della riforma su roccia stabile e calcoli certi.
Ed oggi che siamo chiamati a progettare solide fondazioni e robusti pilastri, abbiamo il compito di evitare qualsiasi cedimento verso retaggi antichi e anacronistici.
Per questo motivo la strada che ai più appare lunga e tortuosa è forse l'unica Pag. 102possibile per costruire di pari passo «sostanza» e «positiva percezione» della riforma federale che altrimenti resterebbe una mera irraggiungibile chimera.
Sta a noi, colleghi, rendere meno onerosa e più proficua quella che appare una strada faticosa e in salita.
La sfida è alta, culturale e politica, economica e sociale.
È una sfida che deve aver ben chiari gli obiettivi e altrettanto definiti i soggetti protagonisti.
Con tre fondamentali principi: il principio della responsabilità, della virtuosità, dell'equità.
Il primo principio del federalismo: la responsabilità.
È fin troppo evidente che l'obiettivo non può e non potrà essere ideologico ma dovrà fondarsi su un moderno approccio che introduca ai vari livelli istituzionali, da quello statale a quello degli enti locali, passando per le regioni, il principio della responsabilità.
Responsabilità significa equilibrato e razionale governo delle entrate e delle uscite, rappresenta l'orizzonte del buon governo capace di razionalizzare e migliorare i servizi azzerando privilegi e assistenzialismo ma nel contempo salvaguardando reciproci diritti e doveri.
Oggi più che mai, dunque, non servono asserzioni dogmatiche secondo le quali il federalismo porterebbe all'esplosione della spesa pubblica così come sarebbe improponibile l'assunto opposto di un federalismo che genera risparmi ed economie.
Occorre il giusto equilibrio di un percorso che parte appunto dal principio della responsabilità.
Il federalismo fiscale oggi deve essere letto come un'opportunità in grado di generare un virtuoso sistema economico finanziario nel nostro Paese.
Sino ad oggi, per consuetudine e qualche volta malcostume, si è perpetuato un sistema finanziario che ha ben distinto il prelievo fiscale dalla spesa. Colui che incassava le tasse è sempre stato all'oscuro di ciò che faceva chi spendeva gli incassi. Non vi è stato quel processo di omogeneizzazione e reciproco controllo dei due momenti, anzi, l'imposizione fiscale ha continuato ad alimentare senza regole il mare magnum della spesa.
Il risultato è stato emblematico, figlio di un sistema perverso e inarrestabile che ha portato al ripiano acefalo e incontrastato dell'ormai incontrollata spesa pubblica.
Un centro di costo dilapidava risorse e un centro di prelievo ripianava. Una sorta di sistema perverso di vasi comunicanti senza regolazione alcuna capace di produrre disavanzi e nuove imposizioni.
La spesa arbitraria trasformata in un attimo «spesa storica». Tutto ciò che era stato speso in un esercizio finanziario precedente diventava diritto acquisito, funzionale alla scalata irrefrenabile verso nuovi debiti e nuove tasse.
Il sistema, così perpetuato, premiava i meno virtuosi e puniva coloro che virtuosi lo erano per davvero.
Nacque così il Patto di stabilità, strumento di primo soccorso, capace, però, solo di limitare il principio consolidato e anacronistico della spesa storica senza, però, incidere strutturalmente sul sistema.
Ora serve passare dal primo soccorso ad una cura strutturale capace di incidere in profondità sul sistema dei vasi comunicanti della spesa e del prelievo.
La virtuosità della riforma federalista.
Occorre, dunque, affiancare al principio della responsabilità quello della «virtuosità».
In sostanza un principio edonistico che persegua il massimo utile con la minima spesa.
Efficienza, razionalità, qualità, controllo, sono tutti elementi decisivi nella sfida federalista.
Ed è questa la missione culturale che questo disegno di legge deve inizialmente perseguire, raccogliendo un comune sentire ma anche ribaltando l'atavica e comoda equazione che meno spesa significa minor servizio e minor qualità.
Questa è la frontiera di una moderna visione del federalismo: razionalizzare deve significare ottimizzare. Pag. 103
Taglio per migliorare, per rendere efficiente, per cancellare le file, per accelerare i tempi, per rendere il servizio di qualità.
Il primario obiettivo: il servizio al cittadino.
Non si tratta semplicemente di spostare il centro di costo o di spesa, non si tratta di unificare il processo dell'imposizione fiscale con la spesa, ma si tratta di rendere più efficiente il cuore pulsante dello Stato, delle regioni, dei comuni, ovvero il servizio al cittadino.
Questa è la finalità del processo riformatore: rendere più efficiente il servizio al cittadino.
Virtuosità che occorre misurare, innanzitutto con la qualità del servizio. Guai se il parametro della riforma si fermasse al solo aspetto finanziario contabile, occorre contemperare qualità e costo, rendere questi elementi un solo ed unico obiettivo.
E in questo vorrei ricordare non solo a me stesso che il processo innovatore deve essere funzionale al cittadino e non alle istituzioni, abbiamo il sacrosanto dovere di non compiere una riforma ad esclusiva pertinenza istituzionale ma semmai dobbiamo coltivare l'ambizione di rendere protagonista il primo attore della società: il cittadino.
Non una riforma verticistica ma capace di sviluppare una sussidiarietà verticale e orizzontale, con un potere che si avvicina sempre di più al territorio e al cittadino stesso.
E la virtuosità della riforma nasce anche da quello spirito positivamente emulativo che occorre far scattare tra i diversi livelli istituzionali.
Non la sfida a chi spende di più sulle spalle di altri, ma a chi sa rendere il miglior servizio con la massima efficienza ed efficacia e il minor costo possibile.
In questo assunto si inserisce una delle questioni dirimenti e che ha sino ad oggi maggiormente condizionato la riforma federalista: l'atavica e molto spesso artificiosa contrapposizione tra la percezione di un nord efficiente e un sud spendaccione.
Se questa fosse la base di partenza del federalismo fiscale non avrei difficoltà ad affermare che l'alba della riforma coinciderebbe molto presto con il suo tramonto.
Il terzo pilastro della riforma: l'equità.
Non è un caso che il terzo pilastro della riforma sia proprio l'equità, intesa come l'obiettivo a ripartire le risorse perequative sul territorio nazionale riconoscendo come principio quello equo dei costi standard ma nel contempo fotografando lo status quo per determinare il gap di partenza e il piano di riallineamento tra le varie realtà.
Questo, colleghi, è lo snodo cruciale della riforma.
Costi standard da una parte, piano di riallineamento dall'altra.
Chiunque pensasse ad una algebrica definizione dei costi standard senza definire il piano di riallineamento rischierebbe di far naufragare il virtuoso processo federalista.
Il dogma di questa riforma è abbandonare la spesa storica, contenitore di sacrosanti diritti ma anche di deprecabili sprechi, per affrontare la definizione puntuale degli standard sia sul piano qualitativo che quantitativo.
L'abbandono della spesa storica appare l'obiettivo che meglio sintetizza la ricerca della qualità della spesa ma dall'altra costituisce nel subconscio il pericolo maggiormente percepito.
La spesa storica è sempre apparsa come l'attracco più sicuro nel porto della finanza pubblica, ma in realtà non si trattava di un approdo ma di una secca, rappresentando il limite più evidente allo sviluppo equilibrato e dinamico del Paese.
Per questa ragione occorre mettere in campo un progetto federalista che sappia pianificare l'uscita del nostro sistema dalle secche economiche ed istituzionali, con una rotta certa e ben definita, sicura e non azzardata, che sappia scongiurare la percezione di una traversata in mare aperto, senza nessun porto sicuro all'orizzonte.
Il disegno di legge alla nostra attenzione ha questa ambizione. La gradualità dell'attraversata riformatrice e il costante monitoraggio della rotta federalista mirano a garantire a tutti i soggetti protagonisti un approdo condiviso e sicuro. Pag. 104
Due sono le questioni rilevanti che il Governo ha il compito di tradurre in atti conseguenti : la definizione degli standard e la individuazione del riparto finanziario.
Mi permetto, onorevoli colleghi, di soffermarmi solo un attimo su queste due questioni.
La prima, la definizione degli standard.
Partiamo da un presupposto, l'Italia è un paese articolato territorialmente e socialmente, e una riforma federalista deve mettere in campo tutti quegli strumenti di riequilibrio fondamentali per evitare disparità e squilibri.
Se la sanità rappresenta uno dei temi cardine della spesa storica occorre immaginare parametri nazionali ma anche correttivi legati alle diverse connotazioni territoriali. L'indice demografico e l'articolazione territoriale devono costituire elementi imprescindibili seppur parametrati per individuare un corretto standard di spesa.
La definizione degli standard non può poi prescindere dalla fotografia reale del paese, prima di tutto sul piano infrastrutturale.
Se vi è in una determinata area un gap infrastrutturale che incide sul sistema complessivo dell'economia e delle pubbliche amministrazioni appare evidente che tale elemento debba essere valutato e parametrato proprio in virtù delle ripercussioni sulla spesa.
E proprio per questo motivo che va affiancato al costo standard delle prestazioni erogate il piano di riallineamento che va definito con obiettivi, tempi e risorse certe.
Mi rivolgo ai colleghi della maggioranza così come a quelli della minoranza, non vi può essere paese omogeneo sul piano della spesa se tutti non vengono posti sulla stessa linea di partenza.
Certo non è pensabile assistere ulteriormente a ritardi e sprechi, e per questo motivo non dovranno più essere tollerabili quei consolidati modelli di spesa che dilapidano in mille rivoli le risorse pubbliche senza incidere strutturalmente sui limiti infrastrutturali ed economici.
Il nostro obiettivo non deve essere quello di un paese a due marce, uno che trascina l'altro, ma quello di rendere il treno più veloce, con meno vagoni e più locomotori. Se ci fosse una parte del paese destinata a trainarne un'altra si finirebbe per rallentare tutti.
Per questo motivo vorrei introdurre con chiarezza la necessità di affiancare al fulcro di questa riforma, ovvero il passaggio dalla spesa storica al costo standard, il piano di riallineamento.
Solo così potremo incidere strutturalmente sul federalismo fiscale senza trascinarci antichi limiti e deprecabili vizi.
Un piano di riallineamento che costituisca la visione strategica del federalismo, protesa all'unità economica e sociale del nostro paese, non a dividere tra bravi e cattivi.
La sfida del Governo, dunque, si fonda sugli obiettivi di medio e lungo termine, facendo di flessibilità e gradualità il metodo fondante della riforma.
Se due sono i capisaldi della spesa futura, il costo standard e il costo del piano di riallineamento, appare evidente che i due elementi sono destinati ad incidere temporalmente e virtuosamente sulle entrate.
Mentre il costo del riallineamento sarà temporalmente definito è altrettanto vero che il compimento dello stesso riallineamento costituirà un alleggerimento sia della spesa che del conseguente prelievo fiscale.
Per questo motivo appare indispensabile costruire con grande attenzione e lungimiranza il disegno di perequazione.
Non voglio richiamare il principio costituzionale della solidarietà, il nostro deve essere un approccio diverso, da quella logica solidaristica del passato.
Non serve un federalismo solidale e piagnone, serve un federalismo che disegni autonomia e nel contempo riequilibrio del paese.
Consentire a chi non ha strade di farsele non è solidarietà ma è riequilibrio.
Un riequilibrio al quale tutti devono poter concorrere non nell'esclusivo interesse dell'area indicata ma in quello dell'intero Pag. 105paese. Se una merce scorre più velocemente in tutto il paese non se ne avvantaggia solo una parte ma l'intero sistema.
E non si tratta certo di un riequilibrio limitato al solo aspetto finanziario, ma soprattutto alla «governance» del sistema.
Si tratta di semplificare le procedure, di ridurre gli adempimenti, di tradurre le entrate in spese utili al sistema dei servizi e delle opportunità.
In questo processo la fiscalità deve essere una leva fondamentale se gestita con equilibrio e buon senso.
Per essere più chiari, né le imprese né il cittadino possono pagare una deregulation dell'imposizione fiscale.
L'articolazione fiscale deve essere chiara e non sovrapponibile sui diversi livelli istituzionali, individuata con parametri certi mantenendo ben chiaro l'obiettivo strategico e non contingente del federalismo.
Fatti salvi i parametri nazionali che dovranno concorrere alla garanzia del fondo perequativo necessario per la copertura dei costi standard delle prestazioni e per il piano di riallineamento dovrà essere messa in campo quell'autonomia impositiva che consenta alle regioni e ai comuni di gestire con lungimiranza l'imposizione fiscale.
Mi sia consentita sul tema dell'autonomia impositiva l'apertura di una riflessione di natura comunitaria.
L'introduzione di un diverso sistema fiscale territoriale da introdurre e sostenere, costituisce di per sé uno dei motori del federalismo fiscale ma va anche detto, ora e non dopo, che l'Unione Europea, oggi più che mai, tende ad omogeneizzare l'imposizione fiscale sull'intero territorio comunitario.
Questo aspetto credo meriti la trattazione diretta dello Stato con l'Unione europea, un confronto non episodico ma organico, proprio per rendere compatibile ed omogeneo, seppur articolato territorialmente, l'approccio al federalismo.
Affermo la necessità di un approccio complessivo di compatibilità europea del sistema federale perché vi è l'esigenza di far fronte alla giusta rivendicazione delle regioni a statuto ordinario tesa a meglio focalizzare le politiche fiscali con il fine di valorizzare peculiarità e specificità particolari.
Sul tema delle specificità, mi permetteranno i colleghi, vorrei introdurre qui una questione rilevante relativa alle regioni speciali con particolare riferimento all'insularità.
Vi sono ragioni profonde che ancor oggi caratterizzano le specialità di alcune regioni italiane, ma ve ne sono alcune che rivestono carattere strutturale e permanente che devono obbligatoriamente essere assunte dallo Stato e dall'Unione europea come prioritarie.
Il Governo ha fatto propria la condizione da me avanzata nel parere della Commissione bicamerale costituzionale per gli affari regionali relativamente al principio dell'insularità.
È un fatto storico, sul quale è indispensabile avviare un serrato confronto per la definizione di parametri e risorse di riequilibrio strutturale e infrastrutturale.
È una questione, quella insulare, che non può e non deve essere considerata alla pari delle altre perequazioni ma semmai un fattore aggiuntivo, in quanto permanente e misurabile.
E nel caso di alcune prestazioni standard è evidente che si dovrà tener conto di un riconoscimento fiscale ed economico aggiuntivo e permanente conseguente proprio allo status insulare.
In questo caso è indispensabile «misurare» il divario e conseguentemente la compensazione.
Un tema, quello dell'insularità, lo dico ai colleghi e al Governo, che necessita di un approccio unitario, condiviso e fondato appunto sulla effettiva «misurazione» del gap e dei relativi riequilibri.
Se questi, colleghi, sono gli obiettivi altrettanto definite devono essere le regole: due su tutte, sanzioni per chi non rispetta i parametri, premialità per i virtuosi.
Se questi saranno i presupposti, questa imponente traversata che oggi prende avvio Pag. 106in quest'aula ci porterà verso un compiuto, moderno ed efficiente processo federalista del nostro Paese.

LINO DUILIO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, preliminarmente mi preme osservare, più che in altre circostanze vissute nella solennità di quest'aula, che il giudizio su questo disegno di legge, l'orientamento verso il miglioramento dei suoi contenuti, muovono entrambi, non da oggi, dalla convinzione di doversi cimentare, auspicabilmente insieme, nell'impresa di una migliore organizzazione del nostro Stato, perseguendo l'obiettivo di quella che in Commissione ho definito «una fase più adulta della nostra statualità».
Prima di entrare nel merito della proposta in discussione, e indipendentemente da ogni valutazione del suo contenuto specifico, è bene ribadire, se ce ne fosse bisogno, che ogni discussione sulla riorganizzazione dello Stato, dei suoi poteri e delle sue risorse, deve essere, a nostro avviso, inscritta dentro il principio irrinunciabile di un'unica Comunità nazionale, il cui valore peraltro può essere oggi ulteriormente ribadito attraverso una opportuna valorizzazione del dettato dell'articolo 114 della Costituzione, il quale recita, al comma 1, che «La Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato». La Costituzione, cioè, parla di una pluralità di istituzioni aventi, per così dire, una pari dignità costituzionale, tutta da declinare al positivo. L'architettura che ne deriva rinvia conseguentemente alla necessità di realizzare una redistribuzione di compiti e funzioni tra i diversi livelli istituzionali richiamati, secondo una corretta applicazione del principio di sussidiarietà.
L'orizzonte ideale e politico nel quale si colloca un simile disegno è per me costituito dalla costruzione dello «Stato delle Autonomie» di cui parlava Vittorio Bachelet, dal protagonismo municipale teorizzato da don Luigi Sturzo, dal superamento delle incrostazioni accumulatesi in circa quarant'anni di centralismo nazionale e regionale, dopo le speranze suscitate dalla felice intuizione regionalista degli anni settanta. La meta finale resta quella di una statualità caratterizzata da un autentico pluralismo sociale, politico ed istituzionale nella già richiamata cornice unitaria di un unico Stato nazionale, in coerenza con la tradizione culturale popolare e cattolico-democratica che ha visto i cattolici occuparsi di politica, sin dall'origine, innanzitutto con riferimento alla costruzione dello Stato democratico.
Una ulteriore annotazione di premessa conduce a riconoscere, per onestà intellettuale, alla Lega Nord il merito di aver portato avanti con caparbietà e determinazione il tema del Federalismo, fino ad imporlo come centrale nell'agenda politica del Paese. Il riconoscimento di questo merito non può essere dissociato peraltro dall'annotazione politicamente rilevante, per la genesi del fenomeno leghista e per le relative, almeno potenziali implicazioni, di una sua caratterizzazione originaria ispirata più ad una pulsione «destruens» dello Stato unitario che non al principio unitivo tipico delle esperienze federaliste conosciute. Quella pulsione traeva alimento, certo, dalle numerose distorsioni accumulatesi, insieme ad indubbi meriti, in decenni di storia repubblicana, ma non vi è dubbio che contenesse il rischio, non del tutto scomparso, di assecondare generici istinti primitivi, che alle paure della modernità oppongono i geni propri di un egoismo territoriale segnato dai vincoli del sangue, del suolo e dei valori. Molta acqua, comunque, è passata sotto i ponti da quegli anni. Ed il nostro orientamento all'ottimismo ci induce oggi a confidare nella prevalenza della pars construens del progetto, concretamente da verificare nella dialettica politica e, più in specifico oggi, con riferimento ai contenuti peculiari del disegno di legge sottoposto al nostro esame.
Federalismo e federalismo fiscale.
Il confronto sul disegno di legge delega sul federalismo fiscale va inserito nel discorso, ben più ampio, della riorganizzazione in senso federale dello Stato, con il quale un po' genericamente il primo viene confuso. Pag. 107
Ora, una volta detto sui meriti da riconoscere alla Lega per la ritrovata centralità politica del tema, va osservato che diversamente da quanto la vulgata lascia intendere numerosi sono stati nel nostro Paese gli interventi normativi su questa materia, a sentire qualche studioso sin dalla nascita dello Stato unitario.
Interventi «frastagliati», non interni ad una cornice unitaria e spesso non univoci se non contraddittori, ma che non si può certo negare non abbiano lasciato segni profondi nei rapporti funzionali e finanziari tra lo Stato centrale ed i livelli istituzionali sub-statuali.
La cifra sintetica di questo «fiume carsico» federale che viene da lontano è fornita dall'evidenza della suddivisione della spesa della Pubblica Amministrazione strettamente intesa, al netto cioè della spesa per interessi e per pensioni, e dal confronto con il volume e la distribuzione delle entrate, al netto dei contributi sociali.
Se si esaminano, ad esempio, i dati del 2007, per la spesa pubblica risulta una ripartizione per poco più della metà a carico del livello centrale e per poco meno della metà per il livello periferico dell'Amministrazione: su circa 431 miliardi di euro, 230 miliardi, vale a dire il 53 per cento, vanno al centro e 202 miliardi, vale a dire il 47 per cento, vanno alla periferia.
Considerando invece le entrate, depurate dai contributi sociali destinati al finanziamento delle pensioni, risulta che l'82 per cento (450 miliardi) viene raccolto dal centro ed appena il 18 per cento (98 miliardi) dalla periferia.
Il sistema di decentramento finora realizzato mette in mostra, cioè, una profonda discrasia tra le performances della voce «Spesa» e quelle della voce «Entrate»: Le realtà istituzionali locali svolgono funzioni ed hanno competenza per un volume di spesa quasi uguale al 50 per cento della spesa complessiva, ma hanno un'autonomia di entrate che non arriva nemmeno al 20 per cento. La situazione è dunque nettamente sbilanciata!
È da qui, anche da qui, che occorre prendere le mosse per correggere le distorsioni che si sono accumulate e per dare un senso più compiuto alle modifiche costituzionali che sono intervenute, ad esempio con la stesura del richiamato articolo 114. La più puntuale attuazione del quale comporta, evidentemente: l'esigenza di costruire un sistema di Finanza pubblica, o più correttamente «della Repubblica», fondato su principi di autonomia, trasparenza e responsabilità e connotato da elementi di congruenza, coordinamento e confrontabilità; la necessità di instaurare una effettiva e sostanziale relazione, per le funzioni di competenza, tra volume e decisioni di spesa e relative fonti di finanziamento, superando il criterio della cosiddetta «spesa storica» che ha caratterizzato la storia della finanza locale nel periodo repubblicano.
Un processo lungo e complesso.
Annotando ciò che non ha funzionato nel percorso sinora realizzato, facendo tesoro delle insufficienze, degli sprechi e delle distorsioni accumulati, è forse possibile, insomma, ritentare la tessitura di una tela più organica, volta alla modernizzazione del nostro Stato, che rappresenta «la madre di tutte le riforme».
Ora, pur avendo le migliori intenzioni, non bisogna dimenticare che si tratta comunque di un processo sicuramente «intrigante» ma lungo e complesso. Che richiede, nella sua compiutezza: una correzione del Titolo V della Costituzione; la stesura ed approvazione della Carta delle autonomie; la creazione del cosiddetto «Senato Federale»; la riforma della finanza locale e dunque la realizzazione del «Federalismo fiscale».
Con la discussione del disegno di legge presentato dal Governo, si comincia dunque «dalla coda». In particolare, si comincia: senza sapere esattamente «chi fa cosa», dal che deriva la prima condizione che, a nostro parere, deve essere assicurata: «dire di più» sulla Carta della autonomie, assicurando una maggiore contestualità sul disegno di attribuzione delle funzioni tra i diversi livelli istituzionali di cui al richiamato articolo 114 della Costituzione. Il progetto sottoposto va dunque accompagnato dall'articolato sulla suddetta Pag. 108«Carta», superando lo «sbrego» rappresentato da alcune norme ordinamentali contenute nel disegno di legge e, più in specifico, dalla disciplina sicuramente eccentrica e parziale, prevista in materia di poteri e competenze di «Roma capitale» (non casualmente «esaltata» dalle «apparizioni» in Commissione dal sindaco di Roma Gianni Alemanno, nel corso della discussione in Commissione sia Al Senato che alla Camera). Per quanto ci riguarda, una buona base di partenza, in questa prospettiva, potrebbe essere rappresentata dalla ripresa di attenzione della cosiddetta «bozza Violante»; senza conoscere, almeno in via approssimativa, qual è l'impatto finanziario del progetto di legge presentato.
Lo testimoniano le dichiarazioni del Ministro dell'economia, Giulio Tremonti, al Senato, il quale ha avuto modo di affermare che quell'impatto è del tutto incerto «a questa altezza di tempo», e che ciò deriva dal fatto che «abbiamo dodici tipi principali di tributo in gioco; cinque soggetti politici titolari dei cespiti tributari; undici tra criteri e principi e un numero non ancora specificato di decreti attuativi», per poi aggiungere che «è difficile ragionare in termini di meccanismo di finanziamento se non è stato prima definito il costo standard, che è la base da cui partire», precisando peraltro che «i dati sono necessari e possibili decreto per decreto ad ogni passo», ma ricordando che «le variabili che devono essere conteggiate interagiscono tra di loro essendo interdipendenti e coniugate».
Lo testimoniano, inoltre, le dichiarazioni rese in sede di audizione alla Camera del Ragioniere generale dello Stato, della Corte dei conti, dell'ISAE e degli altri soggetti auditi, i quali hanno tutti evidenziato la complessità dell'operazione e la problematicità della relativa quantificazione finanziaria.
Migliorare ulteriormente il progetto.
Nelle scorse settimane, alcuni osservatori, alquanto critici sulla proposta, hanno parlato di un «manifesto», vale a dire di un testo così generico ed indeterminato da soddisfare esclusivamente esigenze di carattere politico ed elettorale. Riteniamo che la critica fosse probabilmente un po' severa e forse ingenerosa, considerate le modifiche in senso migliorativo apportate dal Senato, soprattutto grazie all'apporto dell'opposizione.
Dopo quelle modifiche, riteniamo che in Commissione alla Camera siano stati fatti ulteriori passi in avanti nel miglioramento del testo, anche se permangono tuttora dei nodi da sciogliere. Il testo al nostro esame, insomma, vede mitigata, anche se non del tutto risolta, quella sua «vaghezza originaria» della quale aveva parlato qualche studioso dopo la conclusione dei lavori del Senato.
Più puntualmente, ci sembra opportuno richiamare i miglioramenti conseguiti su alcuni elementi qualificanti come la centralità del Parlamento, grazie alle modifiche intervenute in materia di composizione e prerogative della Commissione bicamerale deputate a fornire i pareri sui decreti legislativi di attuazione della delega. La modifica apportata non soddisfa pienamente le nostre attese, ma certamente rappresenta un passo avanti rispetto alla precedente formulazione; l'unità dello Stato e la territorialità dell'imposta. Le modifiche apportate, in accoglimento delle proposte dell'opposizione, scongiurano il rischio di uno «spappolamento» dell'Irpef, e delle negative conseguenze, concrete e simboliche, che la precedente formulazione avrebbe determinato. Al di là delle distorsioni «misurabili» che si sarebbero prodotte nelle diverse realtà regionali, non sembra superfluo rammentare che, secondo le nostre convinzioni, il senso dell'imposizione fiscale (particolarmente per l'Irpef, ma non solo), oltre che rivolgersi alla corrispondenza con il relativo beneficio, continua primariamente ad afferire al dovere di cittadinanza di contribuire, secondo la propria capacità contributiva, alle sorti della Comunità nazionale (detto con Ezio Vanoni, l'imposta rappresenta innanzitutto lo stigma dell'appartenenza alla propria comunità). Il nuovo impianto di federalismo fiscale deve affrancarsi dunque dal rischio di tentazioni corporative, magari Pag. 109favorite da un'errata interpretazione dei concetti di «territorialità dell'imposta» e di «appropriatezza» della prestazioni essenziali in riferimento a specifiche realtà di territorio (una qualche eco di possibili tentazioni è parso di trovarla anche in qualche audizione alla Camera); il collegamento tra le spese essenziali, da finanziare e perequare integralmente sulla base di costi standard ed obiettivi di servizio, ed i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep); la perequazione per gli enti locali attribuita alla fiscalità generale e la salvaguardia del Fondo perequativo da 1,5 miliardi di euro previsto dalla legge n. 549 del 1995, il che evidenzia la consapevolezza di dover tener conto delle esigenze complessive del Paese; un più stringente vincolo di bilancio, che esplicitamente porta ad escludere nuovi oneri a carico della finanza pubblica.
Rimangono, per contro, ancora aperte alcune questioni, che riepilogo per titolo: il trasporto pubblico locale, le regioni a statuto speciale, la certezza dei rimborsi da attribuire agli enti Locali, nelle more della realizzazione del Federalismo fiscale, la definizione puntuale della Carta delle Autonomie richiamata più sopra, l'indicazione temporale del percorso da realizzare, con la stesura immediata della Carta, l'emanazione del disegno di legge sui Lep entro pochi mesi, la precisazione, per quanto approssimativa, dell'impatto finanziario della riforma massimo entro un anno.
Ancor più sullo sfondo, andranno poi affrontate questioni un poco più sofisticate ma non di meno di particolare pregnanza, quali la prefigurazione di differenze di prestazioni al di sopra di una certa soglia nelle differenti realtà regionali (all'insegna del principio secondo il quale in uno Stato sarebbe preferibile avere il governo delle differenze piuttosto che la rituale affermazione di uniformità nominali, di fatto smentite dalla realtà concreta) nonché l'approfondimento della questione, anch'essa «intrigante», se lo Stato debba preoccuparsi di perequare «a prescindere», dunque anche «tra ricchi e ricchi», ovvero debba occuparsi solo della perequazione a favore delle realtà più povere, lasciando vivere le differenze nei contesti più ricchi ed affidandole a meri autofinanziamenti eventualmente decisi a livello locale.
Qualche orientamento conclusivo.
Volendo abbozzare una sintetica conclusione provvisoria, sulla base delle considerazioni sinora svolte, richiamiamo preliminarmente il nostro orientamento generale positivo ogni qualvolta si intenda perseguire l'obiettivo della costruzione di uno Stato più moderno ed efficiente, che non smarrisca il suo carattere di comunità solidale ma punti a realizzare nel Paese «una fase più adulta di statualità diffusa», valorizzando il contenuto dell'articolo 114 della Costituzione.
Uno Stato che persegua con maggiore determinazione la mitigazione ed il superamento dei divari tra Sud e Nord del Paese, anche attraverso una significativa innovazione delle procedure nella distribuzione delle funzioni, nell'allocazione delle risorse e nel procacciamento delle fonti di finanziamento delle spese.
Nel caso del testo al nostro esame, esso si presenta come il tentativo di razionalizzare l'esistente, facendo tesoro di alcune distorsioni sedimentatesi negli anni ed introducendo significative innovazioni innanzitutto sul piano economico-contabile-fiscale. Rispetto al testo entrato in Parlamento, le modifiche apportate, inizialmente al Senato ed in Commissione alla Camera, hanno nettamente migliorato la proposta, che peraltro conserva le sue caratteristiche di fondo, di una legge di delega forse eccessivamente ampia e conseguentemente generica.
Resta a questo punto da valutare la sostanza dei decreti di attuazione con i principi ed i criteri direttivi della legge di delega. La partita vera, insomma, si sposta al tempo successivo, lo scorrere del quale dovrà peraltro scongiurare i rischi di: una crescita della spesa; un possibile default dello Stato; un deprecabile ridimensionamento dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Pag. 110
Il «sistema di autonomie» che a regime dovrebbe derivare dall'attuazione di questa proposta e dai connessi interventi di riforma istituzionale più sopra richiamati dovrebbe favorire il perseguimento di molteplici obiettivi, tra i quali la crescita di responsabilità delle classi dirigenti, l'esercizio di un maggior controllo sociale da parte dei cittadini, una più efficace lotta agli sprechi ed alle inefficienze nella pubblica amministrazione, in definitiva di una maggiore democrazia. Anche grazie alla eliminazione delle distorsioni prodottesi in anni di finanza derivata, in ragione di trasferimenti «a pié di lista» ispirati al finanziamento della cosiddetta «spesa storica», dovrebbe così prendere il via una stagione di riforme finalizzata alla mitigazione ed al progressivo superamento degli stessi divari accumulatisi tra il nord ed il sud del Paese.
Alle riserve, pure comprensibili, di quanti nutrono dubbi e perplessità sul processo che, con il progetto di riforma in senso federale dello Stato, dovrebbe prendere avvio, è da opporre la semplice constatazione che, dopo anni di gestione della Finanza pubblica all'insegna della centralizzazione delle decisioni di spesa e di entrata, l'evidenza empirica pone in evidenza, oltre alle discrasie finanziarie annotate, un preoccupante allargamento delle differenze tra le diverse aree del Paese, e segnatamente un aggravamento contestuale sia della cosiddetta «questione settentrionale» che della speculare «questione meridionale». Un più accorto processo di «federalismo cooperativo e solidale», in altre parole, dovrebbe dare la stura - questa è almeno la speranza! - ad una prospettiva di più ordinata ed equilibrata fase di crescita e di sviluppo dell'intero Paese.
In conclusione, come appare evidente, il nostro atteggiamento e le nostre valutazioni sono ispirate ad una lettura «sostanziale» del disegno di legge, si potrebbe dire ad una laicità di approccio metodologico che non si piega a considerazioni di maniera ma, come è nostro costume, fa riferimento al bene inestimabile del Paese, il cui miglior destino è certamente legato anche a quella che abbiamo definito come «una fase più adulta della sua statualità diffusa», di cui il Federalismo fiscale, opportunamente inteso, può costituire un prezioso tassello.

MARIO PEPE (PD). Signor Presidente, onorevoli deputati, l'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione molto dibattuto in questi ultimi tempi e che ha portato, dopo le modifiche costituzionali del Titolo V, ad un confronto serrato in dottrina e soprattutto tra i partiti e nelle aule parlamentari è alla nostra riflessione conclusiva.
Oggi ci troviamo ad approfondire gli aspetti essenziali e le articolazioni normative di una legge che , approfondita in Senato e ancora di più nelle Commissioni riunite della Camera, è alla nostra attenzione. La «vexata materia» di riforme totali o di riforme parziali della nostra Costituzione ha sempre contrapposto le culture istituzionali anche se la prassi parlamentare ha dimostrato che bisogna discutere di quello che c'è in cantiere. La domanda che molti si pongono e ci siamo posti tutti in questi giorni: è urgente il federalismo? Conviene fare oggi una modifica così significativa dell'articolo 119 della Costituzione? Sono domande che hanno una loro razionalità ma che sono ormai superate dal rush finale nel quale si trova attualmente il provvedimento cosiddetto Calderoli. È vero, le cifre della macro e micro economia testimoniano che ci troviamo in un periodo di profonda depressione con il rischio di un default profondo ma è anche vero che occorre, per sortire almeno un effetto di risanamento delle finanze dello Stato, responsabilizzare gli enti pubblici territoriali maggiori o minori nella amministrazione delle risorse assegnate. Il federalismo in concreto, al di là dei numeri - quali numeri? Quali costi? - è una nuova modalità per governare le comunità del nostro Paese. Una modalità basata sulla trasparenza, sui diagrammi dei costi, sugli obiettivi da realizzare e sui controlli da fare. Il federalismo fiscale è la scelta di campo determinata dal Governo e, diciamolo, Pag. 111dalla tenacia della Lega, dove confrontarsi sulle questioni che interessano la spesa di tutto il sistema degli enti pubblici.
La scelta l'ha fatta il Governo: noi ci confrontiamo sulla proposta di legge delega per evitare un disordine economico - finanziario nel sistema delle autonomie e per uniformare gli indirizzi di finanza pubblica. Operiamo all'interno di un quadro problematico e destrutturato; abbiamo deciso che la sfida su un tema così delicato vada accolta senza pregiudizi o chiusure ma con la convinzione di chi ha le idee chiare.
Il Partito Democratico su tale materia da tempo e pienamente possiede idee chiare. Ci sforzeremo di imporre le nostre ragioni e le nostre capacità emendative; in verità il provvedimento ha subìto profondi e decisivi cambiamenti nella stesura che possiamo dire è frutto del Parlamento. È una verità soprattutto che dobbiamo dichiarare e rafforzare in tempi in cui il dibattito parlamentare - e il voto - rischia di essere banalizzato affidando la decisione all'uomo carismatico. Non ci siamo perduti nel testo labirintico del Ministro Calderoli, abbiamo accettato di lavorare su un argomento di grande interesse istituzionale. Se c'è una sfida epocale - tale è l'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione - non bisogna dar vita a tattiche sciovinistiche o a chiusure criptiche.
Si rischia di morire di narcisismo istituzionale, se il Partito Democratico nel confronto parlamentare si chiude nelle sue categorie culturali e non affronta la questione federalista. È necessario rendersi conto che l'impatto del provvedimento sull'articolazione della vita istituzionale e soprattutto sui costi standard e sulla spesa storica che si andranno a determinare sarà intenso. Il Governo ci deve dare le cifre di quello che accadrà sul piano della spesa , non si può chiudere in una afasia numerica. Il Ministro Tremonti, nella valutazione economica generale del Paese ci ha detto che certamente non ci sarà un ritorno al Medioevo ma neppure ci ha fatto intravedere un orizzonte di cultura illuministica cioè l'impegno del Governo a dare un ordine e una razionalità alle strategie e alle scelte economiche e finanziarie del Paese. Il federalismo fiscale, oltre che nuova governance, è anche tassonomia di numeri e cifre. Non sappiamo con la carenza di cifre adeguate che cosa potrà accadere nel Sud del Paese: potrà avvenire una restrizione dei servizi essenziali giudicati troppo costosi in alcune regioni o l'appesantimento degli oneri fiscali. Il «quanto costa» la riforma rimane tutto lì sospeso e senza risposta.
Il federalismo fiscale è innanzitutto una sfida istituzionale: si tratta di far funzionare meglio lo Stato democratico e il sistema delle autonomie territoriali richiamando le responsabilità dei governanti nell'uso delle risorse per i servizi essenziali e per le prestazioni più importanti per le comunità. Una sfida politica perché richiamandoci ai provvedimenti già assunti dal Governo Prodi e non approvati, ci accingiamo a dare una forte spinta alla attuazione di tutte le normative previste nel Titolo V. Una sfida economico - finanziaria: si tratta di amministrare bene le risorse che lo Stato e gli enti raccolgono attraverso l'imposizione che deve essere sempre più equa e rispettosa del reale imponibile dei cittadini combattendo fortemente la elusione e la evasione fiscale che sottraggono ingenti risorse al bene comune. Sarà superato il criterio della spesa storica, si partirà dai fabbisogni reali e dai costi standard che dovranno essere definiti nella consapevolezza dei parlamentari e nella chiarezza della comunicazione da parte del Governo nelle aule parlamentari. L'equilibrio storico tra le regioni più forti e quelle più deboli deve essere mantenuto, migliorato, rafforzato. Inoltre il federalismo fiscale sarà una sfida per il Mezzogiorno d'Italia ma che il sud deve accettare sapendo che si tratta di creare un nuovo protagonismo delle regioni e degli enti locali.
Lo Stato democratico ha bisogno di una svolta profonda nella pubblica amministrazione. Se il sud non deve essere trascurato Pag. 112nell'attuazione di tutte le norme presenti in questa legge delega, dobbiamo anche dire con molta franchezza che la rinascita del sud dipende da noi, da come sapremo amministrare le risorse future che non mancheranno ma dovremo finalizzarle bene. Certamente con questa legge delega di attuazione dell'articolo 119 della Costituzione non andiamo verso l'ignoto ma verso un nuovo orizzonte della istituzionalità democratica che deve trovare condivisione e corrispondenza nelle comunità e tra tutti i cittadini.

ERRATA CORRIGE

Nel resoconto stenografico della seduta dell'11 marzo 2009, a pagina 50, prima colonna, ventitreesima riga, inserire il nome: «SALVATORE VASSALLO.».