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Resoconto dell'Assemblea

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XVI LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 109 di lunedì 5 gennaio 2009

Pag. 1

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANFRANCO FINI

La seduta comincia alle 16,10.

DONATO LAMORTE, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 15 dicembre 2008.
(È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Amici, Berlusconi, Bonaiuti, Bongiorno, Brambilla, Brugger, Brunetta, Casero, Castagnetti, Cota, Craxi, Crimi, Donadi, Evangelisti, Fitto, Frassinetti, Gelmini, Alberto Giorgetti, Giro, Lo Monte, Lupi, Malgieri, Maroni, Melchiorre, Miccichè, Mura, Roccella, Romani, Ronchi, Rotondi, Salvini, Stucchi, Tabacci, Tremonti e Vito sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
Pertanto i deputati in missione sono complessivamente trentasei, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Su un lutto del deputato Alberto Giorgetti.

PRESIDENTE. Comunico che il collega Alberto Giorgetti è stato colpito da un grave lutto: la perdita della moglie.
La Presidenza della Camera ha fatto pervenire al collega le espressioni della più sentita partecipazione al suo dolore, che desidero ora rinnovare anche a nome dell'intera Assemblea.

Annunzio della presentazione di disegni di legge di conversione e loro assegnazione a Commissioni in sede referente (ore 16,12).

PRESIDENTE. Il Ministro per i rapporti con il Parlamento, con lettera in data 30 dicembre 2008, ha presentato alla Presidenza, a norma dell'articolo 77 della Costituzione, il seguente disegno di legge, già presentato al Senato il 22 dicembre 2008 e trasferito dal Governo alla Camera, che è stato assegnato, ai sensi dell'articolo 96-bis, comma 1, del Regolamento, in sede referente, alla I Commissione (Affari costituzionali):
«Conversione in legge del decreto-legge 22 dicembre 2008, n. 200, recante misure urgenti in materia di semplificazione normativa» (2044) - Parere delle Commissioni II, III, IV, V, VI, VII, VIII, IX, X, XI, XII, XIII e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.

Il suddetto disegno di legge, ai fini dell'espressione del parere previsto dall'articolo 96-bis, comma 1, del Regolamento, è stato altresì assegnato al Comitato per la legislazione.

Il Presidente del Consiglio dei ministri ha presentato alla Presidenza, con lettere in data 31 dicembre 2008, i seguenti disegni di legge, che sono stati assegnati, aiPag. 2sensi dell'articolo 96-bis, comma 1, del Regolamento, in sede referente, alle sottoindicate Commissioni permanenti:
«Conversione in legge del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 207, recante proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni finanziarie urgenti» (2045) - alle Commissioni riunite I (Affari costituzionali) e V (Bilancio), con il parere delle Commissioni II (ex articolo 73, comma 1-bis, del Regolamento, per le disposizioni in materia di sanzioni), III, IV, VI (ex articolo 73, comma 1-bis, del Regolamento, per gli aspetti attinenti alla materia tributaria), VII, VIII, IX, X, XI (ex articolo 73, comma 1-bis, del Regolamento, relativamente alle disposizioni in materia previdenziale), XII, XIII, XIV e della Commissione parlamentare per le questioni regionali;
«Conversione in legge del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 208, recante misure straordinarie in materia di risorse idriche e di protezione dell'ambiente» (2046) - alla VIII Commissione (Ambiente), con il parere delle Commissioni I, II (ex articolo 73, comma 1-bis, del Regolamento, per le disposizioni in materia di sanzioni), V, VI (ex articolo 73, comma 1-bis, del Regolamento, per gli aspetti attinenti alla materia tributaria), X, XI, XIV e della Commissione parlamentare per le questioni regionali;
«Conversione in legge del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 209, recante proroga della partecipazione italiana a missioni internazionali» (2047) - alle Commissioni riunite III (Affari esteri) e IV (Difesa), con il parere delle Commissioni I, II (ex articolo 73, comma 1-bis, del Regolamento, per le disposizioni in materia di sanzioni), V, VI (ex articolo 73, comma 1-bis, del Regolamento, per gli aspetti attinenti alla materia tributaria), XI (ex articolo 73, comma 1-bis, del Regolamento, relativamente alle disposizioni in materia previdenziale), XII e XIV.

I suddetti disegni di legge, ai fini dell'espressione del parere previsto dal comma 1 del predetto articolo 96-bis, sono stati altresì assegnati al Comitato per la legislazione.

Seguito della discussione del disegno di legge: Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 10 novembre 2008, n. 180, recante disposizioni urgenti per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca (Approvato dal Senato) (A.C. 1966).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge, già approvato dal Senato: Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 10 novembre 2008, n. 180, recante disposizioni urgenti per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca.
Ricordo che nella seduta del 15 dicembre 2008 si è conclusa la discussione sulle linee generali e che il rappresentante del Governo è intervenuto in sede di replica, mentre il relatore vi ha rinunciato.

(Esame articolo unico - A.C. 1966)

PRESIDENTE. Passiamo all'esame dell'articolo unico del disegno di legge di conversione (Vedi l'allegato A - A.C. 1966), nel testo recante le modificazioni apportate dal Senato (Vedi l'allegato A - A.C. 1966).
Avverto che le proposte emendative presentate sono riferite agli articoli del decreto-legge, nel testo recante le modificazioni apportate dal Senato (Vedi l'allegato A - A.C. 1966).
Avverto altresì che le Commissioni I (Affari costituzionali) e V (Bilancio) hanno espresso i prescritti pareri (Vedi l'allegato A - A.C. 1966), che sono distribuiti in fotocopia.
Avverto infine che la Presidenza non ritiene ammissibili, ai sensi dell'articolo 96-bis, comma 7, del Regolamento, le seguenti proposte emendative, già presentatePag. 3in Commissione ed in tale sede dichiarate inammissibili, in quanto non strettamente attinenti alla materia oggetto del decreto-legge: Mazzarella 1.47, recante disposizioni sul trasferimento a titolo di contributo alle fondazioni universitarie; Mazzarella 1.45 e 1.46, nonché Zazzera 3-quinquies.03, concernenti la trasformazione in fondazioni delle università; Mazzarella 1.48, in materia di risorse da destinare al fondo di finanziamento ordinario delle università; Bachelet 1.51, in materia di risoluzione da parte delle pubbliche amministrazioni del rapporto di lavoro; Mazzarella 1-bis.5, riguardante l'aumento delle risorse del fondo ordinario per le università; Zazzera 2.1, recante disposizioni relative alla tutela dei beni mobili ed immobili delle università; De Pasquale 3-quinquies.014, in materia di esonero dalle tasse universitarie di determinati soggetti; Zazzera 3-quinquies.01, in materia di corsi speciali abilitanti all'insegnamento; Messina 3-quinquies.02, relativo al piano triennale per l'assunzione a tempo indeterminato di personale docente; Borghesi 3-quinquies.04, in materia di attribuzione di borse di studio per le scuole di specializzazione medica; Borghesi 3-quinquies.05, riguardante le funzioni direttive nella scuola di specialità in aziende ospedaliere miste; Zazzera 3-quinquies.06, recante disposizioni in materia di risoluzione del rapporto di lavoro da parte delle pubbliche amministrazioni; Ceccuzzi 3-quinquies.09, recante disposizioni in materia di collaborazione tra le università e le cooperative sociali per l'assunzione di persone con handicap; Ceccuzzi 3-quinquies.010, 3-quinquies.011, 3-quinquies.012 e 3-quinquies.013, riguardanti un piano di risanamento per le università in dissesto finanziario.

(Posizione della questione di fiducia - Articolo unico - A.C. 1966)

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il Ministro per i rapporti con il Parlamento. Ne ha facoltà.

ELIO VITO, Ministro per i rapporti con il Parlamento. Signor Presidente, come lei ha ricordato e come d'altra parte i colleghi presenti ben sanno, la discussione sulle linee generali di questo provvedimento si è conclusa lo scorso 15 dicembre. Successivamente, con una decisione unanime della Conferenza dei presidenti di gruppo sulla quale il Governo aveva pienamente convenuto, in considerazione del fatto che vi era l'esigenza di concludere l'esame da parte dell'Assemblea di altri decreti-legge in scadenza e della legge finanziaria, si era stabilito di rinviare il seguito dell'esame del provvedimento alla seduta odierna.
Questo, in qualche modo, ha determinato l'impossibilità di un seguito ordinario ed ordinato dell'esame del provvedimento. D'altra parte, signor Presidente, il Governo osserva come si sia potuto comunque sviluppare in Commissione un esame compiuto dell'argomento e come, nell'altro ramo del Parlamento, il Senato, il decreto-legge abbia subito modifiche rilevanti in sede di conversione, anche attraverso l'accoglimento delle proposte presentate dai gruppi di opposizione. Per tale motivo, si ritiene che probabilmente gran parte dei temi che erano stati oggetto di polemica politica nei mesi scorsi sia stata pienamente chiarita, con soddisfazione delle parti politiche che hanno partecipato ai lavori del Senato e della Commissione.
Quindi, signor Presidente, in considerazione della data di scadenza del decreto-legge, che è il prossimo 9 gennaio, a nome del Governo e autorizzato dal Consiglio dei ministri, pongo la questione di fiducia sull'approvazione, senza emendamenti ed articoli aggiuntivi, dell'articolo unico del disegno di legge di conversione del decreto-legge 10 novembre 2008, n.180, recante disposizioni urgenti per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca, nel testo licenziato dalla Commissione cultura, che è identico al testo approvato dal Senato.

AMEDEO CICCANTI. Chiedo di parlare sull'ordine dei lavori.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

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AMEDEO CICCANTI. Signor Presidente, signor Ministro per i rapporti con il Parlamento, onorevoli colleghi, è con un certo fastidio che apprendiamo di questa richiesta del voto di fiducia. Infatti, signor Presidente, lei che è molto attento al lavoro di questa Camera e soprattutto al corretto svolgersi della dialettica politica, sia all'interno degli schieramenti politici, sia nei rapporti con il Governo, avrà constatato come, in sintonia con la sua sensibilità, in questi giorni si siano espresse le più alte cariche istituzionali e anche morali del Paese affinché vi sia un dialogo e si instauri un rapporto più stretto nella classe dirigente, per dare risposta ai temi più impegnativi che vengono posti al nostro Paese nel contesto internazionale.
In questo senso si sono espressi il Presidente della Repubblica, il Sommo Pontefice ed anche la Conferenza episcopale italiana, mentre oggi sentiamo il Ministro Vito porre la questione di fiducia su un provvedimento che riguarda l'università, che noi del gruppo dell'Udc riteniamo uno dei temi più significativi per il rilancio della competitività del nostro Paese.
Infatti, con la crisi finanziaria, ancora tutta da scoprire, e di cui comunque comprendiamo la complessità, ci sarà una riallocazione nelle grandi aree del mondo delle risorse finanziarie in rapporto a nuovi modelli di sviluppo. Ci saranno aree geografiche che avranno modelli di sviluppo di tipo tradizionale, e lì vedremo allocarsi un certo tipo di finanza, mentre altre, fra cui speriamo anche l'Italia, avranno sistemi di sviluppo più attrattivi, per un'allocazione di capitali che ne dovrebbe ridisegnare lo sviluppo.
Ebbene, questa sfida, che l'Italia deve accettare, sulle tecnologie più competitive, ha come protagonista il sistema della formazione, scolastico ed universitario. Avremmo voluto dare un contributo, come Parlamento, a questa riforma universitaria. Lo stesso Ministro Gelmini, con molto coraggio, ha indicato i mali dell'università italiana e quindi avrebbe dovuto porvi rimedio. Dobbiamo solo ringraziare il Senato - come ha ricordato il ministro Vito - che ha fatto il tentativo di migliorare in qualche modo il provvedimento in esame. Avevamo espresso perplessità sul fatto che la riforma fosse prevista con decreto-legge, e ci troviamo addirittura di fronte al voto di fiducia. Dovremmo accettare la parte modificata dal Senato (che presenta anche aspetti positivi che condividiamo), ma riteniamo bisognasse andare più in profondità.
Si ripropone un altro tema, che lei ha sottolineato molto garbatamente, con la sua sensibilità istituzionale, in qualche passaggio nei suoi interventi: questa Camera e questo Parlamento si trovano a vivere una deformazione costituzionale. Infatti, senza accorgersene, si passa lentamente ad un sistema monocamerale, così come nel Paese siamo passati in questi anni ad un sistema presidenziale senza accorgercene.
Volevamo esprimere queste riflessioni e perplessità perché, facendo appello alla sua sensibilità (che apprezziamo), nel tempo di vivere che ci è dato nell'attività parlamentare futura, possa ritrovarsi un clima diverso, per poter collaborare nell'interesse del Paese.

ANTONIO BORGHESI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ANTONIO BORGHESI. Signor Presidente, ormai ho perso il conto: non ricordo più quante siano le questioni di fiducia poste da questo Governo in pochi mesi. Certo, qualcuno dirà che ne aveva poste tante anche il Governo Prodi, ma avevamo un Governo debole al suo interno e debole oggettivamente nei numeri. Qui siamo in presenza di una maggioranza con numeri che probabilmente nessuno più ricordava in questo Parlamento (e quindi forte), eppure questo Governo vilipende, in qualche modo, questa Camera, e lo fa ormai ripetutamente, al punto di impedire una serena, ampia e approfondita discussione su un tema come quello in esame. Devo anche dire che mi sarei aspettato, almeno in Commissione, la possibilità di discutere.Pag. 5
Non faccio parte della Commissione cultura, faccio parte della Commissione bilancio, però, avendo il mio gruppo deciso che io mi occupassi di questo provvedimento, sono andato in Commissione cultura e sono rimasto esterrefatto dalle modalità con cui ha avuto luogo la discussione. In Commissione bilancio magari poi si arriva al conferimento del mandato al relatore senza alcuna modifica, ma almeno si discute; lì la discussione non è stata ammessa neanche dal punto di vista accademico, perché ognuno potesse esprimere le proprie opinioni: si è dato mandato al relatore senza discussione, ed oggi noi ci troviamo a deliberare se dare o meno la fiducia al Governo senza discussione.
Eppure questo è un provvedimento, signor Presidente, che modifica le regole del gioco nel momento in cui il gioco è in corso (mi riferisco, ovviamente, ai concorsi in atto). Ci si aspetterebbe, dato che si modificano le regole del gioco quando il gioco è in corso, che ciò si faccia per cambiare in modo radicale e dare realmente una diversa impostazione a modalità che tutti noi riconosciamo sbagliate. Ma io credo che mai come in questo caso si possa far propria la frase che Tomasi di Lampedusa mette in bocca a Tancredi: se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi. In realtà questo decreto-legge, del quale qui neppure discuteremo se non con l'esame degli ordini del giorno, non cambia assolutamente nulla di ciò che deve essere realmente cambiato per far sì che i concorsi realizzino veramente la promozione del merito, e non decisioni frutto di altre formule, in molti casi poco edificabili.
Oggi non stiamo discutendo di questo, ma della posizione della questione di fiducia, e ribadisco che questa Camera, questo ramo del Parlamento, oggi viene nuovamente vilipeso dal Governo, che impedisce una discussione approfondita su un tema tanto importante come quello dei concorsi universitari.

ROBERTO GIACHETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ROBERTO GIACHETTI. Signor Presidente, francamente parlare di sorpresa mi sembra un po' eccessivo, forse bisognerebbe dire che ci troviamo davanti ad un film già visto, onorevole Ministro, onorevole Presidente della Camera. Si tratta di un film che abbiamo già visto ma che non per questo possiamo considerare un buon film, non soltanto perché parliamo dai banchi di opposizione. Senza volerlo chiamare in causa impropriamente, credo che il Presidente della Camera abbia già in passato messo in evidenza come sia invece indispensabile restituire al Parlamento il suo ruolo e confinare nel suo il Governo, nel rispetto delle reciproche competenze.
Sicuramente questo non è il modo migliore, signor Ministro, perché al di là dei numeri che dicono che questa è l'ottava fiducia che viene posta alla Camera (cioè circa una al mese, c'è poi un'altra fiducia posta al Senato, pertanto è la nona fiducia alla quale ricorre il Governo), sono preoccupato dal fatto che questa è l'ennesima fiducia con la quale si rischia (o forse lo si vorrebbe, interpretando gli auspici del Capo del Governo) di trasformare il processo legislativo in questo Paese. Infatti, signor Ministro, oggi noi ci occupiamo della questione dell'università con una fiducia posta innanzitutto con la responsabilità del Governo, il quale ha deciso di sottrarre questo argomento dal calendario dei lavori che voi predisponente, signor Ministro, voi maggioranza; noi partecipiamo alla Conferenza dei presidenti di gruppo, ma le scelte sono vostre: voi avete deciso di sottrarre dal calendario dei lavori antecedenti le feste natalizie questo argomento per proporlo a due giorni dalla scadenza, quest'oggi.
Ma questo non basta, signor Ministro, perché lei sa perfettamente che l'opposizione ha dimostrato in più di un provvedimento, anche recentemente, di essere disponibile ad affrontare tali argomenti. Signor Ministro, quando si parla di «disposizioni urgenti per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca»,Pag. 6forse anche lei, nonostante tutto, può rendersi conto che l'opposizione avrebbe da fornire qualche utile contributo, non solo per l'esperienza che ha maturato negli anni in cui ha governato, ma anche con analisi approfondite nell'ambito di un dibattito che ha coinvolto il Paese negli scorsi mesi su questa materia. Forse sarebbe stato utile acquisire qualche elemento di proposta e di modifica da parte dell'opposizione.
Quello che voi state realizzando, signor Ministro e maggioranza, che purtroppo in ciò si piega alla volontà del Governo, è la trasformazione del processo legislativo con fiducie poste per «accelerare i tempi». Questa fiducia, signor Ministro, non ha alcun senso, in primo luogo perché voi avete deciso di posticipare i tempi di discussione del provvedimento, e in secondo luogo perché gli emendamenti presentati sono in tutto 120, e si è dimostrato ampiamente e ripetutamente - non le devo ricordare come è andato avanti l'esame dei disegni di legge finanziaria e di bilancio - che quest'Aula, utilizzando il giorno di oggi e i giorni che voi imporrete al Parlamento di utilizzare per la fiducia e per l'esame degli ordini del giorno, avrebbe tranquillamente potuto esaminare il provvedimento senza alcuna esigenza che fosse posta la fiducia.
Non vi era alcun motivo valido, concreto, reale, per il quale voi siete dovuti ricorrere alla fiducia, se non uno, signor Ministro: da una parte (e questo si è manifestato nel dibattito politico nei mesi scorsi) avete qualche problema anche nella maggioranza, anzi soprattutto all'interno della maggioranza, in merito al provvedimento in esame; dall'altra, soprattutto, perché voi ritenete che quest'Aula e questo Parlamento, in tutte le sue componenti, sia quelle che stanno da questa parte sia quelle che stanno dall'altra, non sia in grado di poter fornire un contributo migliorativo ai provvedimenti che voi presentate: per voi è un intralcio, il vostro scopo è di andare rapidi, con discussioni che avvengono nel Consiglio dei ministri magari in qualche ora, per poi avere di fatto una ratifica da parte del Parlamento. Questo non è dato, signor Ministro. Questa è l'occasione più emblematica per dimostrare che non c'era alcuna esigenza di strozzare il dibattito...

PRESIDENTE. La prego di concludere.

ROBERTO GIACHETTI. Ho concluso, signor Presidente. Non c'era alcuna esigenza di impedire la possibilità di qualunque modifica migliorativa ad un provvedimento di tale importanza, ma a voi interessa esclusivamente fare presto.
Però, signor Ministro, si ricordi - sicuramente lo saprà - che spesso la fretta non è buona consigliera e soprattutto non è sicuramente un elemento che porti ad adottare provvedimenti buoni, utili e soprattutto condivisi dal Paese.
Signor Ministro, soprattutto signor Presidente della Camera, mi auguro che questa sia la coda del 2008, perché credo che questo sistema, questo modo di legiferare che voi volete imporre, non sia più accettabile (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

SIMONE BALDELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SIMONE BALDELLI. Signor Presidente, abbiamo ascoltato, come ogni volta che si pone la questione di fiducia in quest'Aula, una serie di interventi che corrispondono ad un canovaccio che conosciamo bene, che noi stessi abbiamo interpretato a nostro modo e forse con qualche ragione in più - o in meno, a seconda dei punti di vista - quando eravamo all'opposizione. Crediamo che vi siano questioni aperte in ordine al rapporto tra il Governo ed il Parlamento, di cui anche lei, signor Presidente, nel suo ruolo istituzionale, ha avuto modo di mettere in evidenza alcuni accenti e aspetti.
Però, in questo caso, visto il percorso che la Conferenza dei presidenti di gruppo ha deciso di dare a questo provvedimento, vista la scadenza, che il Ministro Vito ha ricordato essere quella del 9 gennaio, visti i tempi che impediscono, non una discussionePag. 7su questo provvedimento, ma la possibilità, signor Presidente, di introdurre modifiche allo stesso (il che comporterebbe il fisiologico trasferimento all'altro ramo del Parlamento), per queste e altre ragioni a me sembra che vi siano sostanzialmente le condizioni naturali per la posizione della questione di fiducia.
Signor Presidente, lo dico, sottolineando anche come, rispetto a precedenti dibattiti dello stesso genere, non si possa non registrare un tono comunque molto più pacato del solito, rispetto ad altre posizioni di questione di fiducia, non solo da parte dei colleghi dell'Unione di Centro, che sempre hanno mantenuto un distinguo, ma anche - e aggiungerei persino - dai colleghi dell'Italia dei Valori e del Partito Democratico, che peraltro, con responsabilità, in diverse occasioni, si sono manifestati disponibili ad un confronto di merito e non hanno esercitato la pratica del filibustering parlamentare, anche in presenza di decreti-legge.
Signor Presidente, ritengo che esista il problema della decretazione d'urgenza e di un ammodernamento delle regole del confronto parlamentare, che questo tema sia al centro e debba essere al centro dell'agenda politica e di un confronto serio tra maggioranza e opposizione, che proprio lei, signor Presidente, ha auspicato in sede di Giunta per il Regolamento. All'inizio di quest'anno, si tratta forse di uno degli auspici che possiamo fare, insieme ad un rinnovato impegno a lavorare tutti insieme e agli auguri di un anno proficuo di lavoro e di confronto parlamentare.
Credo che, da questo punto di vista, una riflessione vada svolta: forse questa non è tanto la sede, anche se evidentemente si tratta di uno dei momenti di riflessione importanti. Mi sembra di poter affermare, in piena serenità, che ancora una volta non ci siamo trovati di fronte ad uno spettacolo francamente triste e antipatico, così come eravamo abituati nella scorsa legislatura, quando ascoltavamo il Governo porre la questione di fiducia, adducendo argomenti francamente impossibili da condividere, come l'ostruzionismo che non c'era, come un atteggiamento oltranzista dell'opposizione che spesso non c'era. Invece, in questo caso vi è stato un atteggiamento sereno, non il solito Ministro che viene a leggere uno speech, ma un Ministro per i rapporti con il Parlamento che, per fortuna, non ha neanche più bisogno di leggere lo speech e che viene a dire come stanno davvero le cose.

ANTONIO BORGHESI. Lo sa a memoria!

SIMONE BALDELLI. Quindi, oltre al gioco dello speech letto o meno, il Ministro per i rapporti con il Parlamento ci viene a dire che il decreto-legge scade, che il calendario della Camera ha stabilito certe modalità e che evidentemente queste sono le condizioni. Non viene ad accusare l'opposizione di un ostruzionismo che non c'è, non viene a porre sul tappeto questioni politiche che sono diverse. Per il resto, signor Presidente, non possiamo che auspicare quel dialogo sano sulle riforme del Regolamento che permettano a questo Parlamento di lavorare meglio e magari di vedere l'apposizione da parte del Governo di un minor numero di questioni di fiducia.

VALENTINA APREA, Presidente della VII Commissione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VALENTINA APREA, Presidente della VII Commissione. Signor Presidente, in qualità di presidente della Commissione cultura, vorrei svolgere due brevi precisazioni. La prima è che condivido pienamente la necessità e l'urgenza avvertita dal Governo, in quanto si tratta di un provvedimento che ha davvero la necessità di essere approvato immediatamente, poiché riguarda norme che devono essere applicate subito in materia di concorsi, di finanziamenti per le borse di studio. Quindi, condivido il metodo. Per quanto riguarda, invece, le valutazioni espresse dall'onorevole Borghesi, mi corre l'obbligo di rassicurarlo in merito al fatto che la procedura è stata seguita interamente ePag. 8che si è svolta un'ampia discussione sul decreto-legge in Commissione. Il relatore Caldoro ha svolto ampiamente il suo ruolo e anche tutte le forze politiche.
Ciò che è mancato, come le forze di opposizione ma anche di maggioranza ricorderanno, è stato l'esame delle proposte emendative, ma semplicemente perché i gruppi parlamentari hanno deciso di ritirare gli emendamenti. Quindi, non c'è stata la fase dell'esame degli emendamenti, perché evidentemente è subentrata una scelta politica, rinviando all'Aula l'eventuale accordo su modifiche eventualmente da apportare. Tuttavia, di fatto la Commissione non ha proceduto all'esame degli emendamenti, perché, come dimostrano i resoconti delle sedute della Commissione, le forze politiche di maggioranza e di opposizione hanno deciso di ritirare gli emendamenti. Questo era mio dovere affermare in quanto presidente della Commissione.
Naturalmente, anche noi auspichiamo di tornare ad affrontare la materia dell'università in contesti diversi e mi riferisco all'esame di disegni di legge che possano favorire ancora meglio questa discussione ed eventuali sintonie e accordi anche con l'opposizione.

LUCIANO DUSSIN. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIANO DUSSIN. Signor Presidente, intervengo molto brevemente per concordare con le motivazioni espresse dal Ministro sull'apposizione della questione di fiducia, che, ovviamente, è vincolata da ciò che è accaduto nel mese di dicembre scorso.
Tutti conosciamo benissimo la difficoltà nel programmare i lavori a seguito di una serie di decreti-legge in scadenza da convertire in legge; pertanto, dopo gli accordi intercorsi tra i vari gruppi, l'unica data utile che rimaneva era questa. La scadenza è molto ravvicinata e, quindi, l'apposizione della questione di fiducia va da sé.
Se vi è una cosa da sottolineare è la seguente, almeno per fornire una risposta rispetto a quanto ho sentito dire dai colleghi dell'opposizione: molto spesso si è costretti a ricorrere alla posizione della questione di fiducia in quanto, soprattutto all'inizio di ogni legislatura, motivi di urgenza per emanare decreti-legge, chiunque si insedi al Governo di un Paese, ve ne sono in abbondanza.
Va da sé, quindi, che la programmazione dei lavori risulta vincolata anche, in determinate circostanze, dai comportamenti della stessa opposizione, che, utilizzando le aperture del nostro Regolamento, spesso ci porta a programmazioni dei lavori per le quali difficilmente si riesce a stabilire con esattezza i tempi di inizio e di fine delle varie votazioni che la Camera è chiamata a svolgere.
Sulla necessità e sull'urgenza di intervenire su un argomento come quello relativo al mondo universitario penso non vi siano dubbi; concordiamo sul testo sul quale è stata chiesta la fiducia ed ovviamente il nostro voto non mancherà di essere espresso.

PRESIDENTE. A seguito della decisione del Governo di porre la questione di fiducia, convoco immediatamente la Conferenza dei presidenti di gruppo per l'organizzazione del prosieguo del dibattito.
Sospendo pertanto la seduta, che riprenderà immediatamente dopo la conclusione della Conferenza dei presidenti di gruppo.

La seduta, sospesa alle 16,45, è ripresa alle 17.

Sull'ordine dei lavori.

PRESIDENTE. Comunico che la Conferenza dei presidenti di gruppo si è testé riunita per definire l'organizzazione del dibattito conseguente alla posizione della questione di fiducia sull'approvazione, senza emendamenti ed articoli aggiuntivi, dell'articolo unico del disegno di legge n. 1966 - Conversione in legge, con modificazioni,Pag. 9del decreto-legge 10 novembre 2008, n. 180, recante disposizioni urgenti per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca (Approvato dal Senato - scadenza: 9 gennaio 2009), nel testo della Commissione, identico a quello approvato dal Senato.
La votazione per appello nominale avrà luogo dopodomani, mercoledì 7 gennaio, alle ore 17. Le dichiarazioni di voto, a norma dell'articolo 116, comma 3, del Regolamento, avranno inizio mercoledì 7 gennaio, a partire dalle ore 16. Successivamente, si passerà all'esame degli ordini del giorno.
Alle ore 12 di giovedì 8 gennaio avranno luogo le dichiarazioni di voto finale dei rappresentanti dei gruppi e delle componenti politiche del gruppo Misto, con ripresa televisiva diretta. Si passerà, quindi, alla votazione finale del disegno di legge di conversione.
Il termine per la presentazione degli ordini del giorno è stabilito alle ore 12 di mercoledì 7 gennaio.
Dopo la votazione finale del disegno di legge di conversione, avrà luogo la votazione relativa alle dimissioni del deputato Pittelli. Nel pomeriggio di giovedì 8 gennaio è previsto lo svolgimento di interpellanze urgenti.
L'Assemblea sarà nuovamente convocata lunedì 12 gennaio (alle ore 15, con eventuale prosecuzione notturna) per la discussione sulle linee generali del disegno di legge n. 1972 - Conversione in legge del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, recante misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale (da inviare al Senato - scadenza: 28 gennaio 2009). Il seguito dell'esame del disegno di legge di conversione avrà luogo nei giorni successivi.
Martedì 13 gennaio la Conferenza dei presidenti di gruppo sarà convocata per la predisposizione del calendario dei lavori dell'Assemblea per il mese di gennaio 2009 e del programma gennaio-marzo 2009.

Si riprende la discussione (17,02).

(Illustrazione delle proposte emendative - A.C. 1966)

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Melis, che illustrerà l'emendamento a sua firma 1.29. Ne ha facoltà.

GUIDO MELIS. Signor Presidente, l'emendamento da noi presentato mira a correggere il senso draconiano e punitivo del primo comma dell'articolo 1, laddove si fa divieto tassativamente di indire nuove procedure concorsuali e di valutazione comparativa, nonché di assumere personale alle università che, alla data del 31 dicembre di ciascun anno, abbiano superato il limite di cui articolo 51, comma 4 della legge n. 449 del 1997. Ho parlato di senso draconiano e punitivo, ma non vorrei con ciò che si equivocasse: il Partito Democratico non solo comprende, ma condivide l'esigenza che siano introdotti nel sistema universitario italiano criteri di moralizzazione, di controllo rigoroso della spesa in relazione alle entrate e di efficienza dei risultati. Una politica dissennata, seguita negli anni novanta alla giusta realizzazione dell'autonomia universitaria ex lege cosiddetta Ruberti, ha fatto proliferare le sedi dei corsi universitari, spesso senza i necessari controlli dell'offerta didattica, con un uso scriteriato delle procedure dei concorsi locali per gonfiare gli organici, producendo alle nostre spalle effetti nefasti che vanno necessariamente corretti, anche a costo di sacrifici dolorosi.
Non è questo quindi il punto. Il punto è, come spesso accade nelle politiche del Governo e della maggioranza, l'impianto generale della manovra, il modo concreto attraverso il quale si vogliono conseguire i risultati; perché, anche in presenza di malattie accertate, esistono terapie e terapie, e una terapia sbagliata può uccidere il malato. Mi permetta però anzitutto, signor Presidente, un breve excursus storico, a mio avviso necessario, sebbene contenuto nei minimi termini.Pag. 10
Quando, dopo l'unificazione d'Italia, la classe dirigente post-risorgimentale si trovò a scegliere un modello per quella che allora si chiamava l'istruzione superiore, avrebbe potuto, e molti lo chiedevano, optare per il sistema all'inglese oppure alla tedesca, di poche grandi università prestigiose e centrali e di una rete periferica, non di atenei, ma di istituti superiori sparsi nel territorio, magari professionalizzanti, comunque privi del rango di università. Era un'alternativa possibile. È noto che si scelse viceversa il modello dell'università diffusa, senza distinzione (se non le famose tabelle previste dalle leggi ottocentesche, poi via via superate dalle leggi di pareggiamento, quelle che dividevano le università in università di serie A e di serie B) tra università centrali e università periferiche. Si sa anche, perché ormai esiste una storiografia che ce lo dice, come quell'opzione di fondo si realizzasse per effetto di una spinta politica dei piccoli atenei, degli atenei di provincia, rappresentati in Parlamento da agguerrite delegazioni di deputati e di senatori; e per l'iniziativa anche generosa, bisogna dire, degli enti locali, gelosi del mantenimento dei piccoli atenei fino al punto da sacrificarvi spesso ingenti risorse finanziarie.
Il centralismo italiano, o all'italiana come preferisco dire io (lo dico ai colleghi della Lega che spesso se lo dimenticano), è stato sin dall'Ottocento ben diverso da quello per esempio della vicina Francia, cui pure tante volte è stato erroneamente assimilato. È stato, per riprendere l'espressione dello storico Raffaele Romanelli, che più di altri l'ha studiato da vicino, centralismo debole o imperfetto, o addirittura, come dice il Romanelli in un suo libro, «contrattato» («comando impossibile», è l'espressione che usa il Romanelli), nel quale le classi dirigenti delle varie aree periferiche, in assenza di una forte leadership nazionale, hanno filtrato l'adesione allo Stato unitario attraverso una serie di garanzie per chi stava in periferia. L'Italia, diversamente da altri Paesi, è stata insomma spesso una sommatoria di espressioni locali molto vitali e incisive, che neppure il fascismo, col suo centralismo autoritario e burocratico, ha potuto ridurre completamente all'omologazione nazionale.
Questo è ciò che abbiamo alle spalle. La questione universitaria, se vogliamo per una volta ragionare sull'arco del tempo storico, è stata esemplare, nel bene e nel male, di questo centralismo all'italiana: sin da quando nel 1860, con un'alleanza trasversale alla Camera, i deputati provinciali contro i piemontesi bloccarono con una leggina la grande legge Casati del 1859 che espressamente prevedeva l'abolizione dell'ateneo più debole e periferico di tutti, quello della città di Sassari.
E, poi, quando nel 1862 il disegno razionalizzatore di un Ministro della destra (che era anche un grande scienziato dei suoi tempi, il Matteucci), volto a tagliare le piccole università concentrando lo sforzo finanziario del nuovo Stato in grandi istituti nazionali, naufragò in Parlamento per la tenace resistenza dei deputati delle province.
Da allora, e per tutto il Novecento, abbiamo avuto in Italia un sistema universitario a più velocità, con forte radicamento locale e con vistosi squilibri tra ateneo ed ateneo.
Come correzione, se così si può dire, abbiamo avuto un Ministero forte al centro, molto burocratizzato, che a lungo ha tenuto i cordoni della borsa costituendo il contrappeso della vitalità della periferia, e un sistema delle carriere imperniato sui concorsi universitari nazionali, autodiretto dai professori e basato su una specie di cursus honorum nel quale i neofiti erano dapprima mandati nei piccoli atenei di provincia a farsi le ossa e poi, per successivi trasferimenti basati sul merito, erano via via avvicinati alle grandi università più centrali.
Non dirò che questo sistema non abbia avuto delle virtù (ne ha avute, ed anche di notevoli). In molti contesti l'università di provincia - anche la piccolissima università di provincia - ha vitalizzato con la sua sola presenza la vita culturale e scientifica della periferia altrimenti depressa ed isolata, ha creato classi di dirigenti locali di non spregevole qualità, ha assicuratoPag. 11con il transito dei professori in carriera una certa circolazione nazionale delle élite, ha prodotto laureati di un certo livello medio nazionale.
Il sistema è entrato in crisi, però, quando (e ciò è avvenuto negli ultimi anni Sessanta del Novecento) è definitivamente tramontato l'ordine interno assicurato dal fatto, principalmente, che l'università era formata ed interessava le sole élite, era governata da élite ed era rivolta ad una platea costituita da élite.
L'apertura delle facoltà e dei corsi a tutti i ceti sociali (necessario passaggio non solo per ragioni di principio di carattere costituzionale, ma soprattutto per l'evidente esigenza di selezionare su più larga base la classe dirigente) avrebbe preteso, allora, una seria riforma universitaria che investisse insieme contenuti degli insegnamenti, metodologia della didattica, modelli organizzativi interni, forme di selezione del personale docente.
Altrove lo si è fatto: in Francia al grande movimento del Sessantotto è seguita una riforma (sia pure forse una riforma-restaurazione, la riforma Faure) che ha dato una risposta a quelle istanze e a quei movimenti.
È noto che per svariate ragioni - tra le quali la debolezza delle classi dirigenti italiane e, in esse, del ceto politico nel reagire alla spallata del Sessantotto - la riforma universitaria in Italia invece non si è fatta; si sono adottati provvedimenti urgenti, si sono fatti molteplici tentativi, conati di riforma talvolta anche frammentari e contraddittori a seconda del succedersi dei Ministri l'uno all'altro, accavallantisi l'uno dopo l'altro in modo confuso e contraddittorio.
Il panorama che oggi abbiamo di fronte assomiglia, dopo due decenni e più di mancate riforme, a un campo di macerie.
Manca innanzitutto - e manca anche nel progetto del Governo che stiamo affrontando per anticipi e brandelli, al di fuori di un piano organico - il senso complessivo di una riforma.
Il tema - lo dico al Ministro Gelmini - è o dovrebbe essere il seguente: come si fa in un Paese nel quale si sono bloccati i meccanismi per selezionare la classe dirigente e dove la classe dirigente è vecchia, inamovibile, autoreferenziale, espressa al di fuori di adeguati laboratori di formazione delle élite, a rimettere in moto il processo virtuoso per formare appunto questa nuova classe dirigente della quale il Paese ha urgente bisogno?
Perché la questione universitaria altro non è che la questione della formazione della classe dirigente, ed è per questo che essa ha una enorme, straordinaria rilevanza strategica.
Altri Paesi europei hanno alle spalle gloriose tradizioni: in Gran Bretagna ha tenuto molto a lungo - e ancora in gran parte tiene, checché se ne dica - la filiera dei grandi college (è il sistema imperniato su Oxford e Cambridge); in Francia, nonostante le critiche cui sono di recente sottoposte, vige ancora il sistema delle grandes écoles.
Da noi storicamente le élite si formavano nelle università (nelle grandi come nelle piccole) per poi passare a raffinarsi nelle professioni liberali, nell'alta amministrazione dello Stato, nei partiti intesi come canali di formazione e di selezione politica.
Questo storicamente, ma oggi cosa regge di quel sistema? Praticamente più nulla. È giusto certo innescare nelle università elementi di sana amministrazione, come dice di voler fare il Governo; è giusta anche la filosofia dell'aziendalismo privato entro centro limiti ed è giusto richiamare i rettori e i consigli di amministrazione alla responsabilità della spesa smarrita in tante pratiche dell'effimero degli scorsi anni. Ma senza quel progetto generale per la formazione delle classi dirigenti si va poco lontano; forse se ne possono regolarizzare i conti - ed è importante - ma non molto di più, si resta tutt'al più nella vecchia politica della lesina.
Signor Presidente, signor Ministro, signor sottosegretario, non vediamo in questo progetto neppure l'anticipazione, neanche la parvenza del disegno complessivo che sarebbe necessario al Paese nel campo strategico dell'istruzione universitaria; non vediamo il nesso tra il rilancio dell'universitàPag. 12e una moderna politica della ricerca (in un contesto nel quale la spesa per la ricerca in rapporto al PIL diminuisce ogni anno vergognosamente e si deve assolutamente contrastare la fuga dei cervelli all'estero, che sta diventando in Italia un'esperienza drammatica); non vediamo il progetto di ringiovanimento delle classi docenti (abbiamo i professori più vecchi di Europa) né il grande piano per richiamare in Italia la generazione mandata all'estero, ma che deve poter tornare e restituire alla collettività il frutto maturo di quella formazione. Non vediamo affatto, ad esempio, la ristrutturazione del sistema concorsuale e dei meccanismi della selezione dei docenti.
Avete inventato in proposito, partendo dalla famosa montagna, l'altrettanto famoso topolino dei sorteggi concorsuali. Lasciatevi dire da uno che lavora all'università dal 1972 e che di concorsi ne ha fatti tanti (prima qualcuno da candidato e poi molti da commissario e da presidente di commissione) che non servirà a nulla. Esistono - e sono anche già state sperimentate in anni passati (avete anche poca memoria storica) - tecniche più o meno occulte per fare accordi accademici stringenti anche in presenza del sorteggio.
Esistono miei colleghi (ne conosco più d'uno) che in materia potrebbero utilmente tenere a voi e ai vostri funzionari ideatori di questo sistema presunto anti-baronale opportuni seminari di aggiornamento, per dimostrarvi la totale inutilità del sorteggio.
Avete riaperto concorsi già banditi con una formula subdola che lascia ai rettori il potere di riaprire i concorsi, con il risultato, che è prevedibile, che si creerà una giungla di disuguaglianze nei prossimi concorsi e si aprirà il terreno ad una ridda di ricorsi.
Ora ci venite a proporre, nel nome dell'efficienza, il blocco degli atenei non virtuosi, di quelli i cui bilanci sono fuori parametro. Come darvi torto, in teoria? Ma, in pratica, quella che introducete è una norma capestro, priva di gradualità, inutilmente rigida, che finirà per fare di ogni erba un fascio e per risultare più negativa di quanto voi stessi non pensiate!
Esistono, infatti, è quasi banale ricordarlo, situazioni e situazioni, atenei clamorosamente inadempienti, e altri che lo sono di meno, atenei la cui presenza nei territori può perfino ritenersi superflua - giacché tanti insediamenti in periferia hanno ubbidito negli anni passati a logiche di campanile, quando non di clientela politica -, e altri che, viceversa, svolgono una funzione importante di utilità sociale in regioni altrimenti condannate al deserto culturale, esposte all'aggressione della criminalità, e al declino economico e civile.
Vi sono università certamente inutili, a cominciare dalle tante improbabili università private di cui è disseminato il Paese - e fareste bene a svolgere una inchiesta ministeriale per accorgervi degli sprechi e delle diseconomie che si celano dietro a quel mondo e, soprattutto, fareste bene a non finanziarle - ed altre, magari pubbliche, che sono utili, al di là delle magre fortune del loro stesso bilancio.
Vi sono università che producono buoni laureati, competitivi nel mercato del lavoro, e altre che, invece, licenziano zavorra culturale; università con professori che lavorano, e spesso lavorano molto per bassi stipendi, e altre piene di grandi professionisti che dedicano alla cattedra solo i ritagli del loro tempo, trascurando studenti, lezioni e ricerca.
Una graduatoria che si basi sui soli criteri del bilancio, e che non preveda almeno un temperamento di questi criteri, che non introduca una opportuna gradualità tale da consentire a questi atenei di rientrare nei parametri è davvero la più opportuna? Bloccare le assunzioni, quasi senza preavviso, come fa questo provvedimento, è davvero le terapia più giusta?
Noi vediamo in questo provvedimento - del quale pure comprendiamo le motivazioni iniziali - una specie di eccesso punitivo che non tiene conto delle differenze esistenti nelle realtà, delle esigenze degli atenei, delle circostanze e delle opportunità, ma vediamo anche - e questo, a dire la verità, ci preoccupa molto di più - l'assenza di una visione generale deiPag. 13problemi; cogliamo una visione puramente contabilistica dei problemi, il rifiuto di ragionare sulla complessità e sull'articolazione dei problemi.
Noi vorremmo - e siamo impegnati su questo fronte - una politica generale per l'università italiana che fosse anche una politica per il rilancio della ricerca scientifica nel nostro Paese, per la formazione delle classi dirigenti del futuro.
Parlare di università, se non lo avete capito, non significa più, se mai è stato così in passato, parlare di un tema settoriale, ma significa, e non può non significare, affrontare il futuro stesso del Paese, la sua capacità di uscire dalla crisi, guardando avanti nel rinnovamento e nel rilancio dell'identità di questo Paese (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Nunzio Francesco Testa, che illustrerà i suoi emendamenti 1.81, 1.82, 1.83, 1.18 e 2.6. Ne ha facoltà.

NUNZIO FRANCESCO TESTA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, ancora una volta ci troviamo a trattare con una misura d'urgenza materie importanti che da tempo richiedono, invece, misure organiche di riforma.
Il settore dell'università e della ricerca è strategico per il Paese e richiede, da tempo, riforme organiche, essendo ben lontano dal realizzare un sistema coerente ed efficace.
In realtà, il decreto-legge a ciò non provvede, anzi non prevede alcun intervento per fornire risposte alle istanze, da tempo rappresentate, del sistema universitario che soffre di problemi irrisolti.
Il vero obiettivo è chiaramente porre rimedio ai gravi e urgenti problemi causati, appena qualche mese fa, dallo stesso Governo con le disposizioni introdotte dal decreto-legge n. 112 del 2008 (la cosiddetta «manovrina») e confermate dalla legge di conversione. Si tratta di misure di contenimento della spesa che hanno colpito in maniera significativa l'università e la ricerca senza nessuna distinzione tra situazioni virtuose e non. Misure che non eliminano gli sprechi, ma riducono le risorse con effetti che sarebbero stati disastrosi.
L'università italiana con l'approvazione del decreto-legge in esame potrà tirare un respiro di sollievo, ma la paralisi è solo rinviata: dopo il 2010, anche tenuto conto dei correttivi previsti dal decreto-legge all'esame dell'Assemblea, molti importanti atenei andranno in rosso, e permettetemi di dubitare che la possibilità di trasformazione in fondazioni consentirà di attirare risorse private in grado di risolvere il problema.
Mi pare chiaro che il titolo del decreto-legge che ci accingiamo a convertire, che reca norme per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca, sia nella sostanza uno slogan. Questa affermazione non è il prodotto di una chiusura pregiudiziale, ma semplicemente la constatazione di un problema, ben noto al Governo, che, non a caso, ha annunciato nello stesso Consiglio dei ministri del 6 novembre 2008 di voler presentare, a breve, un ampio disegno di legge riformatore di cui ha anticipato i capisaldi nel documento delle linee guida del Governo discusso, appunto, nella riunione Consiglio dei ministri del 6 novembre. Le linee guida sarebbero: autonomia degli istituti, responsabilità degli operatori, e riconoscimento del merito. Sono degli obiettivi che ci trovano perfettamente d'accordo; mancano, però, nel documento le misure concrete per realizzare tali ambiziosi obiettivi che rimangono, quindi, semplicemente un'enunciazione.
Non vorrei che si persegua esclusivamente l'effetto annuncio, in quanto ciò sarebbe un grave errore, perché stiamo parlando della formazione che rappresenta, forse, oggi la via di uscita dalla crisi che non è solo economica, ma anche di programmazione.
Oggi vi sono condizioni particolarmente favorevoli perché si realizzi una seria e organica riforma del sistema universitario e della ricerca pubblica, in quanto anche dalle proteste che vi sono state, sono uscitePag. 14delle proposte; vi è la consapevolezza del sistema universitario e del mondo della ricerca che occorre un cambiamento.
È doveroso, inoltre, sottolineare che, nonostante le difficoltà e i noti problemi, il livello dell'università e della ricerca italiana è ancora elevato, con punte di eccellenza riconosciute a livello internazionale; è un patrimonio che abbiamo il dovere di tutelare e promuovere.
L'Unione di Centro vuole porsi in un'ottica costruttiva e in questo senso vanno gli emendamenti presentati in tempi strettissimi affinché il decreto-legge possa essere approvato nei termini, e possibilmente con dei miglioramenti volti a eliminare i già richiamati gravi effetti che si avrebbero con l'applicazione del decreto-legge n. 112 del 2008.
In questo contesto non aiutano le dichiarazioni di chiusura del rappresentante del Governo attraverso la posizione della questione di fiducia.
I commi 1 e 2 dell'articolo 1, che perseguono l'obiettivo condivisibile di sanzionare il mancato rispetto dei limiti per la spesa di personale, non sono omogenei rispetto al resto dell'articolo con riferimento al periodo temporale. Rischiamo di creare problemi interpretativi e sperequazioni; avevamo, quindi, proposto di correttivi.
Sul comma 3, relativo al turn over, mi limito a registrare che, se a luglio è stato sottratto l'80 per cento del budget deliberato per i pensionamenti, oggi con la restituzione del 30 per cento, il danno si riduce del 50 per cento, ma non si elimina.
Per quanto riguarda i commi dal 4 all'8, che modificano le norme sul reclutamento dei docenti, è chiaro che non appare convincente la scelta operata con il decreto-legge n. 97 del 2008, confermata dal decreto-legge in conversione, di prorogare con modifiche sulla composizione delle commissioni le norme della legge n. 210 del 3 luglio del 1998, in pratica la legge sul federalismo universitario che ha attribuito ai singoli atenei la competenza ad espletare le procedure per la copertura dei posti vacanti e la nomina dei professori di ruolo e dei ricercatori. Il correttivo del sorteggio tra i componenti eletti è una misura apprezzabile, ma ancora debole. Rimane il problema del localismo accademico che, secondo molti, ha determinato l'accentuarsi del fenomeno dei passaggi di carriera dal ruolo di ricercatore a quello di professore e dalla fascia di associati a quella di professori ordinari, spesso in assenza di copertura e senza criteri meritocratici.
Resta, poi, la doppia idoneità che accentua tali problemi.
Avevamo presentato alcuni emendamenti correttivi per evitare problemi applicativi, ma registriamo che, ancora una volta, la maggioranza e il Governo sono sordi.
Anche per quanto riguarda la valutazione sembra che ci si trovi in presenza di un paradosso: invece di intervenire per attivare l'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (l'ANVUR), che è ferma per la mancanza di regolamenti di competenza governativa, si prevedono disposizioni tampone per ripartire sulla base meritocratica una quota non inferiore al 7 per cento del fondo di funzionamento ordinario, che viene ripartito su tutti gli atenei, e del fondo premiale introdotto dalla finanziaria per l'esercizio 2008.
Ma il problema è il fondo ordinario: copre male e a malapena la spesa di personale e di funzionamento degli atenei. I soldi sono pochi rispetto alle esigenze attuali e sono anche spesi male, ripartiti su una rete troppo frammentata come quella dell'università per la quale esiste un'autonomia senza responsabilità.
Per avviare un sistema premiale e responsabile negli atenei bisogna avere la consapevolezza che o si aumentano i soldi o si riqualifica la spesa. Non esistono altre strade. Per questo motivo avevamo proposto con un emendamento l'avvio immediato di un piano di razionalizzazione della rete universitaria. Sarebbe questo il primo segnale, oltre alla necessità di affrontare veramente il tema della valutazione o con una nuova agenzia o con i vecchi comitati.Pag. 15
Gli emendamenti che avevamo presentato servivano a migliorare il testo del decreto-legge e mi auguro che saranno presi in seria considerazione i relativi ordini del giorno.
L'UdC prende le distanze dal metodo seguito: un decreto-legge disomogeneo, poco armonico e incapace di attuare le riforme necessarie. Le disposizioni del provvedimento e quelle introdotte dal disegno di legge di conversione presentano notevoli criticità tecniche puntualmente evidenziate nelle quattro pagine di parere del Comitato per la legislazione (e, forse, sarebbe l'ora di dare peso ai pareri di questo organo perché i problemi prodotti molte volte nella legislazione sono tutt'altro che secondari).
In ogni caso, non si affrontano i problemi del sistema universitario, ma si restituisce solo parzialmente quanto sottratto nel mese di luglio. Ciò avviene perché ci si basa su slogan che non hanno una seria rispondenza con la realtà, con la sola eccezione delle risorse messe a disposizione del diritto allo studio. Anche qui, però, rimangono perplessità sulla percorribilità giuridica di attingere alle risorse del fondo FAS.
Ribadiamo, invece, la nostra disponibilità a collaborare con la maggioranza a condizione che si avvii in concreto e senza enunciati di principio una riforma strutturale organica e condivisa.
Ritengo che vi siano le condizioni per realizzarla in quanto il sistema è arrivato ai limiti di guardia e i protagonisti (mi riferisco ai movimenti degli studenti, che hanno protestato ma hanno anche formulato diverse proposte quanto alla conferenza dei dottori e ai presidenti degli enti nazionali di ricerca) hanno dimostrato equilibrio in una situazione difficile del Paese dalla quale si esce dignitosamente se si ha il coraggio di scommettere nel futuro.
Per questo università e ricerca rappresentano un investimento necessario con un ritorno sicuro (Applausi dei deputati del gruppo Unione di Centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole De Biasi, che illustrerà il suo emendamento 3-quinquies.70. Ne ha facoltà.

EMILIA GRAZIA DE BIASI. Signor Presidente, è un po' irrituale, ma vorrei rivolgere un augurio di buon anno a tutti, visto che siamo qui valorosamente il cinque di gennaio. Mi sembra cortese.

PRESIDENTE. Ricambio l'augurio.

EMILIA GRAZIA DE BIASI. Vorrei iniziare dall'esame del mio emendamento per parlare di un argomento di cui non si è parlato assolutamente nell'ambito del dibattito su questo decreto-legge: si tratta del tema dell'alta formazione artistica e musicale.
Anche in questa occasione - dico «anche» perché mi pare che il resto del provvedimento non sia stato sufficientemente condiviso, neanche questa volta, con l'opposizione - parlando dell'alta formazione artistica e musicale, ci troviamo di fronte ad un caso clamoroso di totale disattenzione. Devo dire, in questo caso, che tale disattenzione è condivisa nel tempo perché non è certo una responsabilità esclusiva di questo Governo (occorre essere molto onesti da questo punto di vista). La legge n. 508 del 1999 risale ormai a dieci anni fa, e in questi dieci anni non è successo molto; quel poco che è successo comunque è avvenuto nella scorsa legislatura che - come sapete - si è interrotta e, per quel che riguarda l'alta formazione artistica e musicale, si è interrotta sulla soglia dei decreti attuativi e della definizione dei profili indispensabili affinché questa alta formazione possa vivere ed esercitare nel nostro Paese.
Il nostro Paese, da questo punto di vista, è davvero molto arretrato in Europa. Se pensiamo all'importanza che le arti visive e musicali hanno in altri Paesi - primo fra tutti la Germania - ci rendiamo conto della nostra totale arretratezza, in primo luogo dal punto di vista della cultura dell'amatorialità. Penso, ad esempio, alla musica, all'esperienza musicale chePag. 16accompagna i bambini fin da piccoli, all'apprendimento di un linguaggio così importante per la propria formazione, persino per la formazione della propria personalità, fino ad arrivare agli studi superiori e all'alta formazione che accompagna il sistema universitario in Germania. Questa amatorialità nel nostro Paese non è accompagnata né sostenuta.
L'esperienza, molto importante, delle scuole civiche locali comunali si è esaurita con grande rapidità, abbattuta anche dai Patti di stabilità e dall'oggettiva difficoltà, per gli enti locali, di favorire lo sviluppo delle istituzioni musicali e di arti visive e cinematografiche. Istituzioni che non hanno lo spazio sufficiente e necessario perché sono considerate - come purtroppo accade sempre per l'arte nel nostro Paese - un elemento accessorio di divertimento e non una forma di produzione e, quindi, una effettiva possibilità di crescita e di investimento anche economico e di capitale umano a vantaggio del Paese. Da ciò si capisce e si evince perché conservatori e accademie siano tenuti, come si suol dire, «a bagno», cioè siano come «color che son sospesi»: non hanno alcuna possibilità di finanziamento - neanche con il decreto-legge in esame - e sono comunque colpiti dai tagli operati dal decreto-legge 27 maggio 2008, n. 93, cosiddetto «taglia-ICI», e dal decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, ora legge 6 agosto 2008, n. 133.
In compenso, non sono ancora pronti i sistemi disciplinari e, quindi, non è ancora chiaro cosa si intenda per discipline artistiche e musicali e sappiamo anche che i decreti attuativi sono stati per lungo tempo bloccati dal TAR. Le retribuzioni degli insegnanti sono ferme perché il contratto specifico è fermo dal 2005: il quadro normativo è assolutamente incerto e non si comprende peraltro quale potrà essere l'interazione (né questo decreto-legge - devo dire - ne parla) tra i licei musicali e i conservatori, tra i licei artistici e le accademie: cioè, quali siano gli elementi di connessione; vale a dire, cosa significhi accedere all'alta formazione. In un certo senso, ritroviamo lo stesso problema esistente per le università, quel grande dilemma oramai, devo dire, talmente chiaro che permea di sé tutta la vita del mondo universitario e che, signor Ministro, mi permetta di dire, molto poco permea il suo decreto-legge se non nelle linee generali, alle quali tuttavia non conseguono conseguenze pratiche e logiche. Tale grande dilemma, tale grande contrasto è il seguente: siamo di fronte ad una formazione di massa, ad un'università di massa e, d'altra parte, abbiamo la necessità di avere un'alta formazione e alti livelli di eccellenza. Dunque noi anche per l'alta formazione artistico-musicale siamo in presenza di un problema che appartiene all'insieme delle università ma, per le mie competenze, le posso dire che appartiene a tutto il mondo dello spettacolo. Ne abbiamo discusso molto anche in Commissione e lo enuncio molto sinteticamente, per farmi capire, in questo modo: c'è un livello di eccellenza, dopodiché tutti sono uguali e tutti sono ugualmente da penalizzare. Non c'è invece la necessaria differenziazione, con la definizione di cos'è qualità, che, invece, oggi mi sembra assolutamente indispensabile. Lo dico perché temo molto che l'università e l'alta formazione diventino sostanzialmente un grande liceo, un «liceone», nel quale l'unica preoccupazione è offrire una formazione generale per tutti. Non penso che l'università oggi debba servire a questo né penso che l'università e l'alta formazione artistico-musicale debbano andare in questa direzione.
Vi sono, tuttavia, problemi molto specifici e mi stupisco che in questo decreto-legge in materia di università non vi sia praticamente nulla, nessun ragionamento, su tale punto: infatti il prossimo anno dovrebbe essere quello di attuazione dei licei musicali. Benissimo: come è noto, un ragazzo o una ragazza chi iniziano lo studio di uno strumento, non possono iniziarlo e poi, ad un certo punto, andare in un altro luogo a ricevere l'alta formazione perché, come sappiamo, lo studio dello strumento ha un elemento di continuità nel tempo dato dal rapporto con il proprio docente e da un rapporto numericoPag. 17tra alunni e docenti e dalla necessità molto spesso anche di un rapporto uno a uno tra alunno e docente. Come tutto questo si combinerà nell'intervento sui licei musicali e sull'alta formazione per me continua ad essere un mistero, anche perché evidentemente questo tipo di qualificazione richiede un investimento molto molto ampio.
In Germania, l'investimento ampio è stato fatto ed è stato enorme. È stato veramente un enorme investimento sull'alta formazione, in particolare sull'alta formazione artistica e musicale: mi pare che tale investimento sia stato pari a un miliardo e mezzo di euro. In Francia è stato fatto altrettanto. Ora chiedo che vi possa essere un luogo, una sede precisa in cui si possa discutere di una normativa per questo settore e vi sia la possibilità di avere chiarezza sui finanziamenti e sulle modalità di progressione di questa riforma. Viceversa, torneremo inevitabilmente indietro e ci troveremo, nel Paese con la massima concentrazione di arte e di capacità musicali, ebbene, ci troveremo all'ultimo posto per quanto riguarda l'alta formazione artistico-musicale, pur avendo tra le mani un tesoro davvero profondamente inutilizzato.
Le accademie hanno problemi enormi che riguardano le sedi e i finanziamenti da parte degli enti locali. Hanno problemi che riguardano la relazione con gli altri istituti di formazione e di alta formazione. Bisognerebbe creare quelle reti che erano state pensate e che non sono state mai più, purtroppo, attuate. I conservatori hanno un problema, grosso come una casa, riguardante l'internazionalizzazione, ad esempio, e riguardante, inoltre, cosa significhi formare un grande concertista dando, nel contempo, vita ad un'alta formazione che sia più ampia di quella dedicata solo a chi sceglie la carriera concertistica. È importante predisporre una riforma della scuola: guardi quanto tempo abbiamo perso, signor Ministro, a discutere del maestro unico quando avremmo dovuto pensare, invece, alla formazione e all'istruzione musicale e alla formazione artistica sin dalla più tenera età. Non dispero sul fatto che si possa trovare un luogo, una sede in cui riprendere il filo: infatti, è in corso di esame, in Commissione, la riforma in materia di spettacolo dal vivo e mi auguro che vi possa essere, nella proposta mia e del gruppo del Partito Democratico concernente lo spettacolo dal vivo, una parte che riguardi esattamente il rapporto con la scuola e l'università: rapporto indispensabile se vogliamo che si esca dall'idea secondo la quale tutto lo spettacolo dal vivo (arte, musica, danza, e quant'altro) è semplicemente il divertimento del re e non invece una vera e propria impresa culturale che richiede oggi capacità professionali non solo per chi eserciterà la professione, ma anche per le nuove professioni che si collocano accanto a quelle propriamente artistiche.
Penso, ad esempio, alla materia del management culturale per la quale sono attivati, in alcune università (ad esempio la Bocconi a Milano), corsi di formazione e di alta formazione. Tuttavia, mi piacerebbe che questa formazione potesse essere diffusa anche in altre università italiane, con gli stessi livelli di eccellenza.
Ciò detto e sperando, appunto, di ottenere ascolto da questo punto di vista, vorrei, tuttavia, rimarcare che tutto questo sarà molto difficile da realizzare se continuiamo con il sistema seguito per la scuola e che vale oggi anche per l'università, cioè un metodo che diventa esso stesso un problema. Non possiamo seguitare a non discutere mai, ad avere un momento di cesura che peraltro è incomprensibile perché davvero sull'università vi sarebbe stata l'opportunità (sapete che non sono un'ideologa, ma guardo molto alle cose pratiche) di discutere e di avere un ambito di riflessione e di decisione comune. Infatti, il problema dell'università, nel nostro Paese, è enorme. L'università ha sicuramente degli elementi di malattia, ma è anche sottoposta ad un martellamento mediatico e da parte dell'opinione pubblica che, francamente, supera la realtà. Quando poi si decide di fare una sorta di operazione per cui si prende una parte per il tutto e si decide, quindi, di mettere in evidenza solo ed esclusivamentePag. 18la casistica delle negatività, diventa inevitabilmente anche molto difficile far compiere dei passi in avanti positivi e condivisi all'università italiana.
Non a caso il Presidente della Repubblica si è espresso con parole alte e importanti in questo senso, auspicando la massima condivisione. Sono d'accordo con il Presidente della Repubblica e avrei gradito che vi fosse stata oggi non la posizione della questione di fiducia ma, invece, la possibilità di discutere serenamente e chiaramente, con le competenze che appartengono a questo Parlamento, in ordine alle modifiche da apportare ad un decreto-legge che certamente è solo una parte (immagino che esso non intende ricomprendere l'intera riforma dell'università) ma che pone già dei paletti che irrigidiscono, di molto, la possibilità di una grande riforma futura, che mi auguro si possa verificare nel settore pubblico.
Vengo ora all'esame dei punti. Personalmente capisco che dietro il decreto-legge in esame vi sia un modello di università - quello americano - molto distante dai modelli europei. Se consideriamo i dati - è in corso uno studio molto interessante da parte del dipartimento di studi del lavoro e del welfare dell'università di Milano - ve ne sono alcuni molto interessanti, che dimostrano che sostanzialmente (il che non vuole essere consolatorio, né giustificazionista) i problemi dell'università italiana sono anche quelli delle università europee. Perché avviene ciò? Perché si tratta di un tipo di modello che, a mio avviso, non sta più in piedi (sicuramente non sta in piedi per quanto riguarda l'Italia). Tuttavia, penso che ne corra, da ciò ad arrivare ad abbracciare un modello americano basato sulle fondazioni e, pertanto, sulla capacità di donazione e di sostituzione delle risorse private rispetto a quelle pubbliche e, quindi, anche agli indirizzi didattici.
Perché non sta in piedi il sistema italiano? Non certamente per la mancanza di volontà del corpo docente. Non generalizzo e desidererei che non si generalizzasse anche se, purtroppo, abbiamo letto cose terribili e secondo me anche molto ingiuste in un Paese che ama molto fare il «bar sport» e che ritiene che su alcune materie si possa discutere come si fa al bar e che sia sufficiente dire ciò che si pensa per formarsi un'opinione. Penso, invece, che l'università richieda un sovrappiù di indagine, di conoscenza e di capacità di analisi differenziata delle diverse realtà.
Personalmente, ritengo che l'università abbia un impianto ancora fondamentalmente medievale e che, quindi, il tema dell'innovazione si ponga in modo definitivo; non ci si può più permettere di tornare indietro.
Perché l'università ha un impianto medievale? Per il motivo che sottolineavo prima, perché è un'università pensata per pochi e una struttura che non è in grado di contenere ciò che, invece, è un punto auspicato non solo dalla Costituzione, ma spero anche da tutti noi, dato anche il tempo in cui viviamo e la contemporaneità in cui siano immersi, e cioè la possibilità di dare un'elevata formazione per tutti, una formazione che possa rappresentare anche la possibilità di un'ascesa nella scala sociale. Questo punto è, a mio avviso, molto rilevante, perché le ambizioni personali e i progetti di vita personali sono importantissimi, la possibilità di misurarsi con il merito e con la propria capacità sono, al giorno d'oggi, valori importantissimi e credo che assolutamente non debbano essere sottovalutati.
Allora, il punto è che non può decidere il mercato. Questo decreto-legge ha una sua debolezza intrinseca nel fatto che diventa, ancora una volta, la giustificazione dei tagli che sono stati compiuti e non riesce ad avere quella autonomia che è stata dichiarata nelle linee guida, che sono assolutamente condivisibili. Tuttavia, come sempre, e come è stato per la scuola, la montagna poi partorisce il topolino. Ciò mi dispiace molto perché penso che su molti punti non si possa che convenire. Certamente dobbiamo avere un'università del merito, un'università che valorizzi le capacità individuali, un'università che ponga in una condizione di parità tutti iPag. 19ragazzi e che fornisca pari opportunità nel percorso formativo. Successivamente, ognuno misurerà se stesso.
Ciò che oggi manca sono regole chiare, certe e condivise. Ma non vi è neanche quel sostegno che è inevitabile e che non possiamo non dare, in termini di diritto allo studio e di borse di studio.
L'abbandono universitario è ancora molto alto e di ciò ne siamo consapevoli. Tuttavia, sappiamo altrettanto bene che arrivano alla laurea ancora i ragazzi e le ragazze che provengono dalle stesse classi sociali di quarant'anni fa. Ciò significa che la mobilità sociale, in questo Paese, si è bloccata e non va avanti. Questo è un problema di cui penso si debba far carico il Governo ma anche l'opposizione e l'intero Parlamento. Tuttavia, se vogliamo che questa mobilità sociale si sblocchi dobbiamo fornire una serie di aiuti che oggi non vengono erogati.
Se si vuole sviluppare l'università, bisogna investire e ci sono delle priorità, in un Paese. Ciò, non perché ce lo dica il Trattato di Lisbona, che pure prevede chiaramente che entro il 2011 più del tre per cento del prodotto interno lordo debba essere investito in università e ricerca (ma non mi pare che ci troviamo in un trend così positivo).
Tuttavia, penso anche che si debba andare avanti e scegliere di investire. I privati non daranno mai i finanziamenti, come è noto e come risulta dall'esperienza delle fondazioni lirico-sinfoniche, da quella delle fondazioni e dei musei. Sappiamo perfettamente, oramai dopo un decennio, quali sono i limiti in Italia, stante il diritto italiano.
Capisco che Tremonti abbia i «deliri atlantici», ma dovrebbe rivederli perché lo statuto complessivo del diritto in Italia non consente di fare quel tipo di esperienza che è il tipo di esperienza americano. Non lo consente perché, ovviamente, bisogna ragionare sui fondi di dotazione. Quando si trasmette un patrimonio, bisogna anche fare in modo che il privato metta altrettanto, perché altrimenti non si capisce dove sia il vantaggio.
Fino ad oggi, in buona sostanza, il privato in questo Paese ha investito solo ed esclusivamente in presenza di un fortissimo investimento pubblico; si veda il caso delle fondazioni lirico-sinfoniche, che drenano il quaranta per cento del Fondo unico dello spettacolo sicché il privato poi vi aggiunge poche risorse, avendo però la maggioranza nei consigli di amministrazione. Inoltre, il sistema fiscale non intende, per quel che ne so e in base anche ai silenzi totali di Tremonti, arrivare alla defiscalizzazione totale delle donazioni. Pertanto, mi pare che sia molto, ma veramente molto difficile che un'università possa decidere di trasformarsi in fondazione, pena il fatto di non avere più risorse da un anno all'altro.
In secondo luogo, quali saranno le università finanziate dal «privato»? Certamente non le facoltà umanistiche, e questo lo possiamo dire fin da ora. Saranno le università tecnologiche? Saranno le università scientifiche? Benissimo, si deve sapere che già le università scientifiche sono quelle più frequentate nel nostro Paese, al contrario di quel che si pensa, perché si pensa che in questo Paese tutti facciano storia e filosofia. Le università più frequentate e il maggior numero di laureati si hanno nelle facoltà tecnico-scientifiche e sappiamo anche perfettamente che le industrie, peraltro, preferiscono assumere ragazzi diplomati nelle scuole tecniche, piuttosto che laureati in questo campo (altro problema, ma non si può ovviamente parlare di tutto). Le facoltà tecnico-scientifiche sono facoltà molto circoscritte in alcuni ambiti del nostro Paese e dobbiamo anche sapere che il futuro della ricerca non è nella ricerca applicata.
Il futuro della ricerca è possibile se permane una forte ricerca di base. Questo è chiaro: le industrie non finanzieranno mai la ricerca di base, perché a loro non conviene, mentre è proprio del loro mestiere finanziare la ricerca applicata. Questo è il secondo problema, per cui sarà molto difficile che si possano realizzare queste fondazioni.Pag. 20
Il terzo punto è che, comunque, quand'anche si decidesse di fare l'esperienza di una fondazione, si deve sapere che lo Stato continuerà a dare tutti i soldi che fornisce adesso e forse anche di più e dovrà anche farsi carico delle università che a quel punto avranno meno studenti. Consiglierei, pertanto, maggiore cautela nel percorso verso le fondazioni universitarie. Invece, mi soffermerei maggiormente su quegli elementi che riguardano il funzionamento, il senso e la finalità dell'università, dove ricerca e didattica sono inscindibili.
Non auspico assolutamente un'università in cui vi sia qualcuno che fa didattica, cioè il «liceone», e qualcuno che fa ricerca, cioè l'élite, ma mi auguro che vi possa essere un cambiamento di atteggiamento da parte del Governo per andare in un'altra direzione, quella che dovrebbe consentire di fare dell'università il volano della trasformazione del Paese, e non un elemento di punizione.
Le cose che sono state scritte sui docenti universitari e sul fatto che sarebbero tutti «baroni» va al di là - lo voglio dire! - di ogni immaginazione. Credo che capirlo sia un preciso dovere del Parlamento, che ha provato qualcosa di simile perché per i parlamentari è stato utilizzato il termine «casta» per cui è possibile immaginare che capiamo tutti perfettamente che cosa significhi.
Il mondo dell'università sicuramente ha molti problemi, sicuramente ha avuto molti torti, ma è un mondo al quale non si può dire che si fanno le pubblicazioni scientifiche solo per fare carriera, che le pubblicazioni scientifiche sono spazzatura e che non lavora. Ad esso bisogna dire altro: bisogna dire di collaborare fino in fondo, di accettare gli elementi di valutazione e gli elementi di modernizzazione che vengono proposti, di dare una mano e di fare in modo di produrre criteri di trasparenza e capacità di autogoverno.
Vi è, inoltre, il tema che riguarda anche il sorteggio e le commissioni miste; qualunque modello può essere sperimentato e non è questo il problema. Il problema principale è che ci deve essere una consapevolezza da parte del corpo accademico e della docenza della capacità di auto-valutazione e della capacità di produrre autoriforma. Se questo non ci sarà, nessuna norma sarà possibile.
Tuttavia, un'università che deve passare dalla struttura medievale alla struttura della modernità non può essere umiliata attraverso i tagli che sono stati fatti. Infatti, questi tagli mettono in discussione e pregiudicano qualunque altra scelta futura. Quand'anche si cambiasse orientamento - cosa che auspico -, in presenza di questi tagli (un miliardo e mezzo soltanto per quanto riguarda il Fondo di finanziamento ordinario) -, la difficoltà sarebbe comunque estrema e grandissima, senza possibilità di internazionalizzazione perché sarebbe molto difficile ragionare sulle residenze universitarie e sulla mobilità all'interno e fuori del nostro Paese, e sarebbe molto difficile definire i parametri di qualità.
Allora molto semplicemente chiedo che questa brutta pratica della decretazione d'urgenza, che mette in discussione in modo molto serio l'attività parlamentare e il suo significato, con questo decreto-legge abbia fine e che il Ministro ritorni alle intenzioni primarie che mi pareva fossero intenzioni di dialogo, il quale si è spento immediatamente e si è infranto peraltro in termini inspiegabili.
Penso che quando si è sicuri delle proprie idee e si crede in ciò che si fa non deve essere così difficile misurarsi con chi la pensa in modo diverso. Personalmente ritengo che il lavoro del parlamentare consista esattamente in ciò: nella capacità di comprendere quali sono le motivazioni dell'altro e di cercare di produrre una legge che sia il più possibile una legge che unisce e non che divide. Mi dispiace Ministro, ma questo caso è l'ennesima occasione perduta per dimostrare al nostro Paese, al mondo dell'università, a quella generosità enorme di uomini e donne che lavorano indefessamente, docenti e non, che si può cambiare in modo positivo condividendo non soltanto i valori ma anche le scelte concrete (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

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PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Ghizzoni, che illustrerà il suo emendamento 3.4. Ne ha facoltà.

MANUELA GHIZZONI. Signor Presidente, Ministro Gelmini - è un piacere averla qui, capita di rado - sottosegretario Pizza (che invece è sempre con noi, qui e in Commissione), onorevoli colleghi, non più tardi di tre settimane fa, il 15 dicembre scorso, si è svolta in quest'Aula (analogamente deserta) la discussione sulle linee generali sul provvedimento in esame. In quella occasione noi auspicammo che il decreto-legge non fosse blindato, come si usa dire, contrariamente invece a quanto era stato lasciato intendere durante i lavori in Commissione.
A me dispiace contraddire il Ministro Vito, però in realtà i lavori di Commissione sono stati assolutamente affrettati e inadeguati (vedo che la collega Aprea fa cenno di assenso e ciò mi conforta nella mia lettura). Sono stati inadeguati, infatti non abbiamo potuto svolgere nemmeno un'audizione, nonostante le modifiche apportate al testo dal Senato. Sono stati affrettati per i tempi compressi dovuti alla decisione della Conferenza dei presidenti di gruppo di far approdare il provvedimento in Aula il 15 dicembre. Avevamo veramente poco tempo e abbiamo lavorato in sessioni molto ravvicinate.
Se poi dobbiamo fornire la cronaca esatta degli eventi in Commissione - mi rivolgo in particolar modo alla collega Aprea - dobbiamo farlo con precisione. La fase emendativa è vero che è saltata, ma (e lei lo sa molto bene) è saltata dopo le vibranti proteste dei rappresentanti del centrodestra: voglio ricordare Emerenzio Barbieri, Paola Goisis, Fabio Granata e le loro critiche che rimangono agli atti dei lavori della Commissione. La stessa maggioranza ha richiesto tempo - e noi abbiamo convenuto con loro - per verificare la disponibilità del Governo a modificare il testo. È per questo motivo che abbiamo ritirato in quelle due sedute molto convulse i nostri emendamenti. Poi questa disponibilità del Governo non c'è stata e questa è storia che rimane scritta agli atti.
Ritorno al 15 dicembre: in quell'occasione facemmo anche notare - lo feci notare io - che tecnicamente la data entro la quale convertire il decreto, cioè il 9 gennaio, che allora non era prossimo, avrebbe consentito tutto lo spazio per una discussione serena e con tempi distesi in Aula. Avevamo a disposizione, infatti, più di tre settimane; una sola è stata poi occupata da una intensa attività, tanto che abbiamo potuto convertire tre decreti-legge ed abbiamo proceduto all'approvazione definitiva della legge finanziaria. Poi ci sono state due settimane di riposo per arrivare ad oggi con la richiesta dell'ennesima fiducia, l'ottava alla Camera dall'avvio della legislatura, che è stata posta adducendo diverse giustificazioni: ormai il 9 gennaio è prossimo e non ci si può permettere di lasciar decadere il decreto, eventualità questa che non rientra nelle nostre intenzioni; dico ciò per rassicurare quanti a diverso titolo sono coinvolti da questo provvedimento.
Il Ministro Vito prima ha anche aggiunto che in fin dei conti il testo è stato condiviso al Senato. Ma quando mai? Quando mai il testo è stato condiviso al Senato? Solo perché sono stati accolti un paio di emendamenti formali, uno solo sostanziale. Qui non si tratta di condivisione, ma di normale prassi e di discussione parlamentare. Noi comunque, qui alla Camera, non abbiamo avuto una discussione né in Commissione né in Aula.
Voglio anche aggiungere che un'attenta analisi dei tempi a disposizione ed anche una valutazione di carattere politico mi porta a dire che le motivazioni addotte dalla Ministro Vito non ci soddisfano assolutamente. Signor Presidente, non voglio apparire demagogicamente come la stacanovista dei lavori e dell'attività parlamentare, ma tra il 19 e il 23 dicembre si sarebbe potuta svolgere la discussione sul provvedimento, con la sua auspicabile approvazione con modifiche, e oggi al Senato avrebbe potuto tranquillamente iniziare la terza e definitiva lettura del provvedimento. Insomma entro il 9 gennaio, come previsto, il decreto-legge avrebbe potuto essere approvato, magari con un testoPag. 22migliorato rispetto a quello attuale e più condiviso, tanto o poco sarebbe dipeso naturalmente dalla volontà del Governo e della maggioranza di voler dialogare con noi dell'opposizione. Soprattutto si sarebbe consentito al Parlamento di svolgere la propria funzione.
Ho delineato uno scenario assolutamente realistico, a condizione però che la maggioranza nella settimana di Natale avesse assicurato la propria presenza in Aula; in altra parole, fosse stata in grado di garantire il numero legale, esercizio al quale attende ormai da mesi con qualche patente difficoltà, questo va detto a coloro che ci stanno ascoltando. Tutto questo per dire che, se si fosse voluto, tempo per discutere il provvedimento ce ne sarebbe stato d'avanzo, ma il problema sta proprio qui: nel fatto che non si vuole discutere, nel fatto che il Governo esautora il Parlamento dalle proprie prerogative, non gli riconosce quella centralità di ogni momento del dibattito evocata dal Presidente Fini nel suo bilancio di fine anno.
Lo abbiamo detto, lo ribadiamo e mai ci stancheremo di farlo: il ricorso massiccio alla decretazione d'urgenza, che in questa legislatura sta pericolosamente diventando il veicolo normativo di carattere ordinario, e la reiterata richiesta della fiducia, procurano un evidente squilibrio tra i poteri costituzionali: in altre parole mettono in crisi il nostro ordinamento.
Non so se sia chiaro per coloro che ci ascoltano da casa e che leggeranno i resoconti di seduta, quindi, a rischio di essere un po' pedante, signor Presidente, mi faccia ricordare che, attraverso la fiducia, si pone una pietra tombale sul dibattito parlamentare e sulla discussione degli emendamenti proposti, sulla possibilità di modificare il testo per migliorarlo e per rendere comprensibili norme scritte male e in fretta - su questo punto ritornerò - e trasformando la Camera in un mero «votificio», di ratifica dei provvedimenti di iniziativa del Governo, si mette a rischio la nostra democrazia.
Per il decreto-legge in parola, è mancato qualsiasi atteggiamento di ascolto da parte del Governo, tuttavia, con senso di responsabilità, non abbiamo fatto mancare le nostre proposte sotto forma di emendamenti, anche se certamente non si può dire che il loro numero abbia assunto il carattere ostruzionistico: ne abbiamo presentati una sessantina. In questo avvio di legislatura, il Governo si deve assumere la responsabilità di essersi chiuso a qualsiasi confronto aperto e costruttivo sui temi della conoscenza, come testimoniano gli interventi governativi su questi ambiti attraverso tre decreti-legge, presentati tutti alla Camera e sui quali è stata posta la questione di fiducia. In altre parole, all'opposizione (che - lo ricordo - è essenziale in ogni sistema democratico, come ha ricordato peraltro il Capo dello Stato) e ai deputati di maggioranza è stato consentito di svolgere un mero esercizio di stile. Signor Presidente, mi faccia ricordare brevemente i tre decreti-legge: il primo è stato il decreto-legge n. 112 del 2008, noto come manovra d'estate, che ha posto una gravissima ipoteca su formazione e ricerca, con il pesante taglio delle risorse, necessarie invece per la tenuta del sistema pubblico di istruzione universitaria, e le basi di un progressivo disimpegno dello Stato da una sua funzione precipua. Poi, vi è stato il decreto-legge cosiddetto Gelmini, con l'introduzione di una regressiva novità: il maestro unico nella scuola primaria e la riduzione del tempo scuola; una novità voluta esclusivamente per far cassa, a danno del sistema scolastico, avulsa da qualsiasi valutazione culturale, pedagogica ed educativa e da qualsiasi analisi del sistema vigente e dei livelli di apprendimento raggiunti dagli alunni, che - lo voglio ripetere - sono molto buoni, tra i primi d'Europa, e continuano a migliorare, anche in quegli ambiti in cui si registrano tradizionalmente difficoltà.
Il 9 dicembre, infatti, sono stati presentati i risultati IEA TIMSS 2007 - il Ministro sa esattamente a cosa mi sto riferendo - sulla valutazione degli apprendimenti in matematica e scienze, condotta in circa sessanta Paesi. Quella che esce da questi dati è una scuola primaria in ottima forma. Anche sulle competenze di scienze e matematica, migliorano le competenzePag. 23dei nostri studenti di nove anni, in analogia con gli eccellenti risultati nell'apprendimento della lettura riconosciuti dai dati IEA PIRLS di qualche anno fa, del 2006. Sono dati internazionali che avevamo utilizzato inascoltati per contrastare nel merito la proposta del ritorno al maestro unico e del taglio del tempo scuola nella scuola primaria. Ora questi recenti dati IEA TIMSS ci confermano che eravamo nel giusto nel difendere un sistema educativo pienamente in grado di raggiungere gli obiettivi di istruzione ed educativi fissati. Mi chiedo come lei, signor Ministro, possa ignorare questi dati, che contraddicono le sue scelte di intervento a gamba tesa nella scuola primaria e, soprattutto, mi domando come mai gli ottimi risultati IEA TIMSS che dovrebbero inorgoglire tutta la nazione, sono passati pressocché sotto silenzio, ed è anche per questo motivo che ho dedicato ad essi un po' del tempo a mia disposizione.
Il terzo decreto-legge è quello in parola, il n. 180 del 2008, che, strada facendo, è diventato un piccolo omnibus sulla materia universitaria, poiché al Senato si è arricchito di ben cinque articoli, cinque norme connesse in qualche modo alla materia originaria, pur non essendo materie immediatamente correlate alle principali finalità del provvedimento, tanto per non tradire quella tradizionale eterogeneità dei contenuti che fino ad ora ha caratterizzato i decreti-legge. Sono parole mie, ma in realtà le ho desunte dalla relazione del Comitato per la legislazione. Se dovessi sinteticamente definire questo decreto-legge, direi che è velleitario, demagogico, centralistico, come testimoniano i molti decreti non regolamentari disseminati nel provvedimento, che sottraggono un controllo da parte del Parlamento, incapace di responsabilizzare gli atenei, nonché promotore di nuove procedure burocratiche, piuttosto che generatore di una vera cultura della valutazione. Del resto, signor Ministro, lei appena insediata ha bloccato l'avvio dell'Agenzia nazionale di valutazione. Poi, nelle linee guida, che ancora aspettiamo ci vengano illustrate in Commissione, benché lo avessimo chiesto, mi pare che abbia cambiato idea e aspettiamo pertanto fiduciosi.
Come abbiamo spiegato in sede di discussione sulle linee generali e come stiamo facendo e faremo oggi nell'illustrazione degli emendamenti, il decreto-legge n. 180 del 2008 è modesto nei contenuti e imperfetto nella redazione del testo. A questo proposito, è chiarissimo il parere espresso dal Comitato per la legislazione, che suggerisce alcune modifiche necessarie per chiarire la volontà del legislatore e la corretta applicazione delle norme. Nel parere del Comitato per la legislazione, ad esempio, si legge che: «nel procedere a numerose modifiche della disciplina vigente, il provvedimento in esame non effettua un adeguato coordinamento con le preesistenti fonti normative». Ancora: «il decreto-legge modifica anche disposizioni di recente approvazione, in particolare l'articolo 1 (...) del decreto-legge n. 112 del 2008, circostanza che, come rilevato già in altre occasioni analoghe, costituisce una modalità di produzione legislativa non pienamente conforme alle esigenze di stabilità, certezza e semplificazione della legislazione». A questo proposito, allora, varrebbe forse la pena che il Ministro per la semplificazione normativa, Calderoli, dedicasse almeno una parte delle sue attenzioni non solo alla devoluzione, ma all'adozione di nuove norme ben scritte, comprensibili e applicabili.
Il Comitato per la legislazione, inoltre, osserva: «il provvedimento, inoltre, adotta espressioni imprecise ovvero dal significato tecnico-giuridico di non immediata comprensione». Sarebbe utile qui ricordarle, ma non lo faccio per economia di tempo e rimando al testo del parere del Comitato. Inoltre, il Comitato per la legislazione rileva che «il preambolo del decreto, in modo inusuale, non evidenzia il carattere straordinario delle circostanze di necessità ed urgenza che giustificano l'adozione del decreto-legge, come invece richiede l'articolo 15, comma 1, della legge n. 400 del 1988 (...) ». Forse, le circostanze di necessità ed urgenza sono apparsePag. 24labili agli stessi estensori del decreto-legge per dichiararle nel preambolo.
Con riferimento all'articolo 1, comma 7, il Comitato osserva che esso reca una nuova disciplina di portata generale sulla valutazione comparativa per il reclutamento dei ricercatori e, a fronte di ciò, sostiene che - cito - « (...) dovrebbe procedersi ad inserire la disposizione in oggetto in un quadro normativo organico (...) ». Mi pare quindi che se ne possa dedurre un giudizio sulla natura tampone del presente provvedimento e l'università non ha proprio bisogno di misure tampone.
Alcuni nostri emendamenti recepiscono le osservazioni del Comitato per la legislazione e i rilievi del Servizio studi; eppure, questi sforzi a vantaggio dell'efficacia del testo e per la chiarezza della sua formulazione sono destinati a restare lettera morta, ovviamente a causa dell'arroganza del Governo. A questo punto, non resta che affidare l'interpretazione autentica delle norme all'approvazione di ordini del giorno, ma è a tutti chiaro quanto sia deprimente questa strada, data la funzione legislativa del Parlamento.
Vengo all'emendamento a mia firma, che propone, per le risorse aggiuntive in favore del diritto allo studio, una copertura diversa e certamente più idonea rispetto all'uso dei fondi per le aree sottoutilizzate, che il Governo, dall'inizio della legislatura, ha utilizzato come un banale bancomat a disposizione della spesa corrente, dimenticando che la procedura di spesa, estremamente complessa, richiede un ammontare di risorse di tre volte superiore all'onere richiesto; infatti, rispetto ai 135 milioni di euro necessari, è stata prevista, con la correzione introdotta dal Senato, una disponibilità di 405 milioni di euro. In sede di discussione sulle linee generali ho avuto modo di argomentare le critiche a questa scelta, che sottrae risorse per interventi strutturali alle aree sottoutilizzate, prevalentemente meridionali, e che rende, peraltro, più difficile accedere ai cofinanziamenti europei.
Per brevità, aggiungo che l'incongrua copertura individuata dal Governo non è comunque sfuggita al Comitato per la legislazione, che rileva come - cito - «all'articolo 3, comma 3, il decreto-legge in esame dispone una deroga implicita alla disciplina che fissa la destinazione esclusiva del Fondo per le aree sottoutilizzate (...), al fine di utilizzarne le risorse per obiettivi ulteriori». Pertanto, un ripensamento su questo specifico aspetto sarebbe stato più che opportuno, anche per le evidenti iniquità di cui si fa promotore il provvedimento. Le colleghe Madia e Picierno affronteranno poi nel dettaglio le altre criticità contenute in queste norme, che sono state esplicitate in appositi emendamenti.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ROCCO BUTTIGLIONE (ore 18,10)

MANUELA GHIZZONI. Mi limito, quindi, a dire che l'integrazione delle risorse al diritto allo studio per il solo 2009 non è assolutamente sufficiente. Essa non rappresenta una panacea per gli studenti capaci, meritevoli e privi di mezzi, i quali devono, invece, avere certezza delle risorse su base pluriennale, poiché il loro bisogno si estende per l'intero ciclo di studi, cioè almeno tre anni. Non è responsabile creare un'aspettativa assegnando, nel 2009, una borsa a coloro che con maggiori difficoltà materiali vogliano investire sulla propria istruzione e, nel 2010, negare quella stessa borsa a coloro che si sono impegnati seriamente negli studi, perché non sono state allocate le necessarie risorse. L'integrazione del fondo deve essere permanente, se non vogliamo promulgare una norma demagogica e propagandistica. E se davvero si volesse dare impulso al diritto allo studio, come dimostra un recente studio di Maria Cecilia Guerra e Paolo Silvestri, la politica dovrebbe rimuovere altri aspetti critici del sistema, quali il suo pessimo assetto istituzionale, i difetti della sua attuazione, nonché la cattiva individuazione del bisogno sociale a cui il programma deve rispondere. Il Governo e la maggioranza sono interessati a lavorare su questi temi (noi, per inciso, lo siamo) oppure pensano di affrontare il diritto alloPag. 25studio con i prestiti d'onore, come farebbe, in qualche modo, pensare l'esplicito riferimento all'articolo 16 della legge n. 390 del 1991 contenuto nella norma? Vedremo in sede di esame degli ordini del giorno quali siano le reali intenzioni del Governo.
Resto nell'ambito delle risorse per richiamare un paio di emendamenti a mia firma che propongono di ripristinare le risorse decurtate dal Fondo di finanziamento ordinario secondo le previsioni del decreto-legge n. 93 del 2008, il cosiddetto «decreto taglia-ICI». I previsti tagli di 474 milioni di euro dal Fondo di finanziamento ordinario a partire dal 2010, unitamente a quelli definiti dal decreto legge n. 112 del 2008, conseguentemente al blocco del turnover, rappresentano una misura draconiana applicata in modo generalizzato a tutto il sistema, senza criteri di valutazione, e soprattutto inferta a un sistema che - lo stesso Ministro Gelmini lo ricorderà, perché ce lo ha detto in audizione in Commissione - è sotto finanziato. Questi tagli vanno pertanto azzerati, perché sono quanto di più lontano si possa immaginare da interventi di razionalizzazione della spesa e quanto di più prossimo ad una cronaca di una morte annunciata di tutti gli atenei, anche di quelli che adesso vengono definiti virtuosi, poiché la diminuzione del Fondo di finanziamento ordinario, determinata dal decreto-legge n. 93 del 2008, incide per ben il 46 per cento delle spese di funzionamento degli atenei, data l'incomprimibilità degli oneri stipendiali.
Siamo all'asfissia del sistema, non al suo miglioramento. Peraltro, in questo stato di sotto finanziamento conclamato del sistema nazionale, perde efficacia e valore anche la ripartizione del 7 per cento del Fondo di finanziamento ordinario secondo criteri di premialità dei risultati conseguiti dagli atenei, come previsto dall'articolo 2 del decreto. Si tratta di una norma apprezzabile per il principio che la ispira; del resto, finanziare le università in base al merito è un punto del nostro decalogo, la cui validità è, però, depressa dal fatto che non vengono utilizzate risorse aggiuntive, bensì quelle già presenti nelle poste di bilancio. Di fatto - è bene che si sappia - si utilizzano i 550 milioni di euro per ogni anno del triennio 2008-2010 già previsti dal Patto per l'università Mussi-Padoa Schioppa, presente nella finanziaria 2008.
Senza alcuno sforzo per recuperare ulteriori risorse al Fondo di finanziamento ordinario, anzi, dopo avere abbondantemente fatto cassa alle spalle del sistema universitario con l'articolo 2, il Ministro Gelmini impegna i finanziamenti del Patto per l'università per finalità analoghe o, quanto meno, simili a quelle originarie, che, ripeto, condividiamo, ma dimentica di chiarire se l'assegnazione delle risorse possa essere effettuata indipendentemente dalla presentazione del piano programmatico previsto dal citato Patto per l'università. Si tratta di un piano volto, tra l'altro, ad elevare la qualità del sistema universitario e il livello di efficienza degli atenei, a rafforzare i meccanismi di incentivazione per un uso appropriato ed efficace delle risorse, con contenimento dei costi del personale a vantaggio della ricerca e della didattica, e ad accelerare il riequilibrio finanziario tra gli atenei sulla base di parametri vincolanti. Il Servizio studi e il Comitato per la legislazione non hanno mancato di rilevare questa incongruenza; sarà, ancora una volta, un ordine del giorno a chiarire la norma?
Infine, per restare sempre nel merito dell'articolo 2, e quindi del riparto del 7 per cento del Fondo di finanziamento ordinario, proponiamo diversi emendamenti per chiarire i criteri da utilizzare, in particolare quelli relativi all'offerta formativa, espressi in forma generica.
Valutare è prassi che condividiamo e siamo consapevoli che essa richieda procedure valide e non ammetta improvvisazione, a partire dall'individuazione degli oggetti della valutazione stessa.
Per questo motivo, se riteniamo apprezzabile che alla qualità della ricerca scientifica si sia abbinata, almeno per quello che riusciamo a capire dal testo, che è formulato in modo impreciso, quella della didattica, nell'ottica di un approccio multidimensionale, attento alle diversePag. 26funzioni dell'università, fa quasi sorridere invece il termine ottimistico definito per il primo riparto entro la data del 31 dicembre 2008, che è data già passata, mentre ci vede fortemente critici il fatto che il riparto avvenga con l'ennesimo decreto ministeriale non regolamentare, quindi sottratto al parere delle Commissioni parlamentari: per un'attività governativa così delicata è grave che non si preveda un più incisivo indirizzo del Parlamento.
Mi preme comunque sottolineare un aspetto, da noi già reso noto durante l'affrettatissimo esame del provvedimento in Commissione, ripetuto in sede di discussione sulle linee generali in Aula, e che ribadisco ora. Mi riferisco agli emendamenti citati sul diritto allo studio, sul ripristino delle risorse decurtate dal Fondo di finanziamento ordinario con il decreto-legge n. 93 del 2008, sulla rimozione del blocco del turnover per i ricercatori e sul trattamento «draconiano» riservato alle università che superano il 90 per cento del Fondo di finanziamento ordinario per le spese di personale: l'attenzione del Governo a tali emendamenti, alcuni dei quali saranno illustrati da altri colleghi, avrebbe indotto il Partito Democratico a riconsiderare la propria proposizione rispetto al decreto-legge, e conseguentemente a rivalutare il proprio orientamento di voto. Ma su tutta la linea è arrivato un netto rifiuto, peraltro non argomentato. È questa, evidentemente, la disponibilità al dialogo mostrata dal Governo; questo, purtroppo, è lo stile con cui connota i rapporti istituzionali.
Vorrei concludere con una notazione che potrei definire a margine dei contenuti del provvedimento, ma che è ispirata da una parte del titolo del provvedimento stesso, quella che fa pomposamente riferimento alla valorizzazione del merito, che è un tema particolarmente caro al Ministro, e sono felice che sia presente ad ascoltare le mie considerazioni. Non ho intenzione di affrontare il tema se le misure poste in questa decretazione d'urgenza siano davvero in grado di valorizzare il merito; certo non sarà il sorteggio a farlo, di questo siamo tutti convinti, e nemmeno la prevista relazione tra gli aumenti stipendiali e la produzione scientifica, perché viene legata a criteri quantitativi piuttosto che alla valutazione della qualità intrinseca dei testi prodotti.
Voglio invece parlare, e spero di farlo in pochissimo tempo, del bando FIRB «futuro in Ricerca», licenziato in sordina dal Ministro il 19 dicembre scorso. In questo bando il Ministro ha fatto confluire, credo non senza qualche forzatura della norma, i 50 milioni destinati a progetti di ricerca presentati da giovani ricercatori, vale dire le risorse a tal fine previste dalla legge finanziaria 2008 in virtù dell'emendamento del senatore Marino (infatti tutta questa materia è nota sotto il nome di emendamento Marino).
Ciò che però il Ministro ha dimenticato di fare è di applicare i criteri di meritocrazia e di trasparenza indicati nell'emendamento citato, nell'emendamento Marino, nel quale si fa esplicito riferimento al criterio di selezione dei progetti mediante peer review, la cosiddetta valutazione tra pari, che punta ad una selezione anonima e indipendente sul merito scientifico del progetto. Il Ministro Gelmini ignora l'anonimato della valutazione e i referee internazionali, preferendogli una Commissione di esperti di nomina ministeriale, cioè la Commissione FIRB, che assegnerà i fondi valutando la documentazione o procedendo ad apposite audizioni. Si tratta di una scelta politica molto chiara, e anch'io voglio essere chiara nel dirlo: come ha sottolineato il senatore Marino, essa indica che «il futuro della ricerca nel nostro Paese sono i baroni, gli amici degli amici e i loro metodi discrezionali contrapposti alla metodologia internazionale del peer review». Oltre ad annunciare quindi un'apposita interrogazione su questa vicenda, mi limito ad aggiungere - ed ho concluso - che evidentemente il Ministro Gelmini, a cui la valorizzazione del merito piace a parole, gradisce assai meno metterla in pratica (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

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PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Fiorio, che illustrerà il suo emendamento 1.37. Ne ha facoltà.

MASSIMO FIORIO. Signor Presidente, ho seguito le fasi precedenti della discussione del provvedimento in esame alla Camera e al Senato, e devo dire che sono rimasto sorpreso di come alcuni esponenti della maggioranza abbiano ritenuto tale discussione esemplare di un dialogo tra maggioranza ed opposizione. Lo dico perché ritengo che in una sede come quella parlamentare le parole abbiano un significato particolare, al di là del fatto che il Parlamento dev'essere il luogo del confronto e della sintesi tra le forze politiche di un Paese, e inoltre per il motivo ben più banale che ciò che viene detto in Aula è doverosamente a disposizione dei cittadini, e spesso lo si riferisce impropriamente per veicolare al Paese informazioni distorte e in modo strumentale. Lo dico assumendomene la responsabilità, perché non vedo altro motivo per definire tale discussione come esemplare di un buon dialogo tra le parti.
Siamo alla vigilia dell'ennesimo voto di fiducia, l'ottavo, è stato detto, su un provvedimento varato per decretazione in cui sono stati ancora una volta confiscati i tempi per la discussione, l'approfondimento, la modifica e il miglioramento. Ribadire il fatto che è in gioco la salute della nostra democrazia, denunciare il rischio concreto di un esautoramento del Parlamento di fronte all'arroganza e all'ingerenza del Governo non può essere più rubricato come un espediente retorico di un'opposizione frustrata, soprattutto dal momento che tale questione è stata autorevolmente sollevata dal Presidente della Repubblica e dal Presidente della Camera, che ha ribadito che non ci può essere democrazia senza l'equilibrio; lo cito testualmente: «un rapporto equilibrato tra Esecutivo e legislativo».
La tecnica, ormai consolidata, è quella di affrontare le questioni di questo Paese attraverso decretazione, di enfatizzare i propri interventi in quel settore con slogan enfatici e titoli risolutori, spesso e volentieri tentando di mettere a posto quello che maldestramente è stato compromesso in interventi e provvedimenti precedenti. I riferimenti inevitabili, anche per il settore della formazione scolastica e universitaria, sono il decreto-legge n. 93 del 2008, il cosiddetto «taglia ICI», e la legge n. 133 del 2008, ovvero la conversione di quel famigerato decreto-legge n. 112 che stabiliva, con una mannaia, una serie di tagli per cui si è dovuti in tanti settori correre poi ai ripari.
Già in quell'occasione si è posta drammaticamente l'attenzione sul fatto che i tagli all'università avrebbero fatalmente compromesso il loro operare. Che fece il Governo allora? Pose la questione di fiducia sul decreto-legge in materia finanziaria che operava grandi tagli per tre anni.
Gli emendamenti di allora, miranti al recupero dei fondi per l'università, la ricerca e l'innovazione, vennero così annullati, e così avvenne anche in riferimento alla legge finanziaria per il 2009: il Governo esprime parere negativo agli emendamenti sulla questione ma presenta un decreto-legge su università, ricerca e diritto allo studio che realizza, solo in parte ed in modo purtroppo insufficiente, emendamenti da noi proposti e da lui bocciati a luglio (mi riferisco al recupero di parte dei fondi, allo sblocco parziale del turn-over, allo sblocco della pianta organica degli enti di ricerca). Naturalmente il Governo si guarda bene dal dire che stiamo restituendo parte del maltolto ad università e ricerca e che stiamo facendo quel che da mesi chiede il Partito Democratico. Dice invece: signore e signori, ecco nuove risorse per università, ricerca e diritto allo studio, guardate come siamo bravi! Ma questa non è forse demagogia?
Sul diritto allo studio ci sono aggravanti: diversamente dai nostri emendamenti, l'ultimo decreto-legge del Governo aumenta i fondi ma a spese del FAS (il Fondo per le aree sottoutilizzate). Certo questo modo di procedere è quanto mai singolare perché, mentre al Senato si procedeva all'approvazione della legge finanziaria per il 2009 che manteneva i saldi diPag. 28spesa ed i tagli istituiti dal decreto-legge n. 112 del 2008 e si decideva di non dare ascolto agli allarmi lanciati dai banchi dell'opposizione, preoccupata per la sottrazione dei fondi all'università, contemporaneamente si immettevano risorse per mantenere alcuni strumenti. Come abbiamo detto più volte, le manovre d'estate del decreto-legge n. 112 del 2008 e del decreto-legge n. 93 del 2008 sono la madre di tutte quelle che oggi chiamate riforme, sia quelle scolastiche sia quelle universitarie: il vero riformatore è stato il Ministro Tremonti.
I discorsi che oggi facciamo a proposito della riforma universitaria, per qualsiasi aspetto che la riguardi, partono dalla questione che tale riforma è parte integrante di una manovra finanziaria che colpisce duramente anche altri settori come la sanità, i trasporti, i salari e via dicendo. Leggendo in controluce il provvedimento in discussione rispetto alla manovra economica e finanziaria dell'estate (e non possiamo mettere dentro anche la questione Alitalia, poiché non voglio affliggere con la cronaca di quella vicenda e ricordare, alla luce di quello che leggiamo in questi giorni sui giornali, che razza di operazione a spese degli italiani è stata messa in opera), leggendo in controluce - ripeto - il decreto-legge n. 180 del 2008 con i provvedimenti finanziari precedenti, quello che salta all'occhio è la politica a gambero del Governo, e proprio per un settore - quello dell'università e più in generale della formazione - in cui alla politica della porta girevole (quello che da una parte esce, dall'altra si cerca in parte, in modo insufficiente e maldestramente, di far rientrare) andava applicata una seria riflessione, un coinvolgimento di tutte le forze politiche e sociali di questo Paese. Così non è, ed offriremo ancora una volta al Paese, anche per il settore dell'università, lo spettacolo di una fiducia che tronca la possibilità di un intervento e di un dibattito serio.
È stato scritto che l'Italia, riguardo al modo di trattare la conoscenza, non ha ancora assunto una mentalità all'altezza. Probabilmente, ciò è vero. L'Italia è stata a lungo un Paese povero, in cui il sapere rappresentava un'alternativa di status; quando è diventata un Paese più sviluppato non è riuscita a diventarlo in modo armonico, perché le nostre istituzioni educative non sono mai state messe al servizio di un sistema efficace di mobilità sociale e non hanno raggiunto un sufficiente grado di consapevolezza sul ruolo sociale della conoscenza. Il nostro Paese rischia di rimanere un solido Paese fatalista, nel quale la passività e la conservazione non corrispondono soltanto ad antiche paure, quanto piuttosto alla convinzione profonda che l'attitudine da sviluppare sia quella di adattarsi alle circostanze per sfruttare ogni piega possibile.
Questa condizione e questa attitudine quasi antropologica la vostra maggioranza le interpretano al meglio. Lo dico con rammarico, soprattutto oggi, in quest'epoca di crisi globalizzata, in cui sarebbe indispensabile un atteggiamento proattivo che aiuti a non lasciarsi travolgere dagli eventi ed in cui la necessità di portare a tema il ripensamento dell'organizzazione e del paradigma della diffusione del sapere nel nostro Paese e del nostro rapporto con la cultura civica, la società e l'economia italiana dovrebbe essere l'obiettivo, la mission di una politica che mette al centro la questione della ripresa.
È stato detto più volte, a più riprese, che l'Italia è uno dei Paesi che investe meno nell'istruzione e che è addirittura il fanalino di coda tra i Paesi per cui sono disponibili i dati Eurostat. I dati recenti dell'OCSE denunciano come la spesa italiana media annua per gli studenti dell'università sia di 8 mila 26 dollari rispetto alla media europea di 11 mila 512 dollari. L'Italia ha, inoltre, il primato tra i Paesi OCSE per l'abbandono degli studi universitari. La spesa italiana per l'istruzione rispetto al PIL è di 4,2 contro il 6 per cento della media OCSE. Questi sono tutti dati che confermano la gravità della situazione del nostro sistema formativo, oltre che la scarsa sensibilità del Governo italiano rispetto agli investimenti per l'università.Pag. 29
La progressiva e consistente riduzione di risorse per il Fondo di finanziamento ordinario per l'università, per il Fondo integrativo per il diritto allo studio e per l'edilizia residenziale universitaria va nella direzione di uno smantellamento del sistema pubblico universitario che sta arrivando rapidamente al collasso. E il Governo che fa? Il copione è il medesimo, una campagna mediatica che è incentrata sulla denuncia degli sprechi e sulla raffigurazione di un sistema di mala amministrazione tutto incentrato all'autoconservazione.
A questo proposito va denunciata la campagna di disinformazione organizzata che, pur partendo dalla sacrosanta denuncia di alcune situazioni di corruzione e nullafacenza, finisce per invocare un ulteriore disimpegno finanziario e, sulla base di dati elaborati in maniera subdola e capziosa, vorrebbe addirittura dimostrare che gli investimenti italiani nel sistema universitario sono superiori a quelli dei Paesi europei. La logica è quella di legittimare tagli indistinti e magari poi, per abilità mediatica, far passare che il provvedimento che mette mano al disastro compiuto prima possa essere un provvedimento innovativo.
Un'analisi spassionata del decreto-legge n. 180 del 2008, senza alcun pregiudizio, porta a riconoscere che non vi è alcuna coerenza tra gli interventi d'urgenza presentati all'esame del Parlamento su cui avete chiesto la fiducia (ripeto, l'ottava) e un qualche orientamento, un qualche indirizzo che sia degno di una discussione in grado di fare intravedere una visione organica dei problemi dell'università e della ricerca e delle soluzioni che vi possono far fronte.
Di un'impostazione di questo tipo, che pure sarebbe stata necessaria oltre che auspicabile, non vi è traccia nel decreto-legge che sottoponete alla fiducia. D'altra parte, lo stesso Ministro in Commissione cultura ha accanitamente dichiarato che qualsiasi intervento sarebbe potuto partire dalla consapevolezza che il sistema è fortemente sottofinanziato.
Anche in riferimento agli interventi correttivi rispetto ai tagli a mannaia dei provvedimenti estivi non vi è da rallegrarsi. Ha poco da rallegrarsi il Ministro, che ritiene che il suo operato sia paragonabile a quello di Gentile, perché nel quinquennio 2009-2013 sono reintegrati appena 354 milioni di euro rispetto a un taglio previsto nella legge finanziaria di 1.641 milioni di euro. Viene meno 1 miliardo 300 milioni di euro, che nel quinquennio avrebbe mantenuto costante almeno il valore assoluto della spesa già compromesso di per sé, e non in grado di affrontare una qualsiasi politica di rilancio e di razionalizzazione del sistema.
Anche se avete limitato, per l'ennesima volta, la possibilità del Parlamento di discutere, lasciateci dire che la diminuzione di 474 milioni di euro del Fondo di finanziamento ordinario, pari al 6 per cento del totale, in realtà incide per ben il 46 per cento sulle spese di funzionamento degli atenei, vista l'incomprimibilità degli oneri stipendiali. Un taglio di questa portata - come ha dichiarato nella discussione sulle linee generali la collega Ghizzoni, e come ribadito adesso - è solo la cronaca di una morte annunciata di tutti gli atenei, anche di quelli che adesso vengono considerati virtuosi.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANFRANCO FINI (ore 18,30)

MASSIMO FIORIO. Così, anche per quanto riguarda il tanto decantato 7 per cento del Fondo di finanziamento ordinario sulla premialità agli atenei virtuosi per prestazioni di ricerca, di didattica e gestionali, è il relatore medesimo a riconoscere che lo squilibrio finanziario dell'università consolidatosi negli anni rende inutile ogni intervento premiale a causa del peso e della struttura della spesa storica. Era necessario fare investimenti seri, prevedere risorse nuove, e non distolte da altri impegni di spesa del Fondo finanziamento ordinario. Il rischio serio è di mettere in sofferenza i bilanci di tutte le altre in modo talmente pesante da farPag. 30sospettare che poi vi sarà, in pratica, la necessità di assegnazioni meno premiali.
Sulla questione della qualità abbiamo perso una grande occasione di incontro e di confronto, perché non si può non condividere l'idea di vincolare la ripartizione di una quota del Fondo di finanziamento ordinario a valutazioni della qualità dei risultati. Su questo terreno si poteva lavorare, considerato che si trattava di una norma già contenuta nella legge finanziaria 2008 (nel cosiddetto patto per l'università Mussi-Padoa Schioppa). Certo, un confronto serio sul tema della qualità dell'offerta, e del merito, avrebbe consentito anche di evitare ambiguità, e vere e proprie contraddizioni, che certamente mettono in dubbio anche quei principi ispiratori a cui, enfaticamente, si rifà il titolo del decreto-legge, ovvero quei principi meritocratici che qualificherebbero la selezione del personale docente e dovrebbero spingere gli atenei, i dipartimenti, le strutture universitarie, ad agire secondo maggiori standard di qualità nella ricerca in comparazione ad altri colleghi di altre università.
Lasciando ad altri colleghi il compito di evidenziare altri aspetti, sottolineo il fatto che è vero che nel decreto-legge n.180 del 2008 sono stati introdotti nuovi criteri per i concorsi per ricercatore a tempo indeterminato, abolendo le prove scritte ed orali, e istituendo commissioni di soli professori ordinari sorteggiati su grandi rose di eletti, che si sono destinate risorse ordinarie per ricercatori - che d'ora in poi saranno assumibili con le nuove regole concorsuali e meritocratiche - anche alle figure del contrattisti precari, previsti dalla legge Moratti, ma si sono anche abolite, per l'assunzione di quella stessa figura precaria, le nuove regole concorsuali e meritocratiche che, invece, il decreto legge n. 180 prevedeva. Leggi nuove, ma vecchie regole, a discapito dei concorsi da ricercatore, che nessuno avrà più interesse a bandire proprio perché tendenzialmente meno manipolabili.
Chiediamo, in un settore indispensabile per il funzionamento delle facoltà, dei dipartimenti, dei centri e degli istituti di ricerca (sono stimabili 50 mila unità), che vi sia un trattamento equo. È un dato incontrovertibile che oggi l'università e gli enti di ricerca si reggono sul lavoro sottopagato e saltuario, e in alcuni casi non retribuito, di un numero enorme di ricercatori precari. La moltitudine di tirocini, stage e praticantati, tutti rigorosamente non retribuiti, non è più tollerabile, così come la dilagante attività didattica a titolo gratuito. Pensiamo che non siano più rimandabili interventi volti a dare diritti e dignità al lavoro dei ricercatori precari.
Abbiamo guardato con interesse l'introduzione di un vincolo di destinazione del 60 per cento del budget all'assunzione di nuovi ricercatori, che per la prima volta, da quando sono state abolite le piante organiche, recepisce la richiesta di contrastare la tendenza dei consigli di facoltà a bandire concorsi da associato e ordinario per favorire gli avanzamenti di carriera dei propri mentori e a ridurre al minimo i concorsi da ricercatori, con l'inevitabile conseguenza di abbandonare i giovani a contratti precari di ogni genere, indipendentemente da qualsiasi merito individuale.
Non possiamo che sottolineare che questo vincolo viene introdotto con un trucco pericoloso, in quanto si prevede che ciascuna università destini almeno al 60 per cento delle risorse all'assunzione di ricercatori a tempo indeterminato, nonché di contrattisti ai sensi dell'articolo 1, comma 14, della legge 4 novembre 2005, n.230: in pratica, si tratta di ricercatori a tempo determinato. Questa formulazione rappresenta un grave passo verso la definitiva precarizzazione della figura del ricercatore universitario e rischia di vanificare gli effetti positivi del vincolo di destinazione, spingendo l'università a fare massiccio ricorso ad assai più convenienti contratti per precari il cui reclutamento, via concorso, è stato maggiormente svincolato dalle nuove modalità.
Risulta davvero difficile seguire il ragionamento del Governo. Se si ritiene necessario un intervento sul sistema dei concorsi, perché si usa un trattamento diverso per i concorsi dei ricercatori aPag. 31tempo determinato? Rischiamo con la presente norma del decreto-legge uscita dal Senato, e non più emendabile alla Camera, di fare ancora passare l'assunto: fatto la legge, trovato l'inganno. La volontà da parte del Governo di procedere con lo strumento della fiducia consegna all'indifferenza tale questione.
Abbiamo ascoltato il Governo richiamare la ristrettezza dei tempi e, dunque, l'improrogabilità del voto di fiducia. È inutile ricordare alla maggioranza che il calendario è definito dalla maggioranza stessa, e che come per altre questioni si poteva, e si doveva, consentire a quest'Aula di trovare le modalità di discussione e di intervento su un provvedimento in cui l'atteggiamento pregiudiziale non arriva dall'opposizione. Quello che produce davvero frustrazione - credo che questo valga anche per i silenti colleghi della maggioranza, nonostante qualcuno ritenga l'andamento procedurale di questo provvedimento esemplare di un dialogo tra le forze parlamentari - è il fatto che si è persa un'occasione importante per lanciare un messaggio al Paese: se oggi la questione è quella di affrontare una situazione di crisi e di difficoltà economica, la carta della formazione scolastica e universitaria è una componente imprescindibile.
Porre rimedio all'emergenza che esiste nel funzionamento del nostro sistema universitario e di ricerca e nel non sempre felice rapporto tra cittadini e sapere è una delle sfide più impegnative di cui la politica oggi possa e debba farsi carico. Un Paese che torna e intende ritornare a crescere intorno all'università, nei laboratori, nei centri di ricerca e nelle biblioteche è un Paese che ha meno da temere sia dalla globalizzazione, che erode i margini alle imprese, sia dai gravi problemi di invecchiamento e di apprendimento che colpiscono la nostra popolazione.
Il problema è quello di ridefinire compiti e ruoli dentro e fuori l'università, ma è prima di tutto quello di capire come si fa a programmare senza disegnare sulla sabbia e come si fa a realizzare ciò che si è scelto di realizzare senza scorciatoie, così come sembra l'intendimento del Governo (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Picierno che illustrerà il suo emendamento 3.74. Ne ha facoltà.

PINA PICIERNO. Signor Presidente, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, tra i Paesi dell'OCSE l'Italia è ultima per investimenti destinati all'università sia rispetto al PIL, sia rispetto alla spesa pubblica nazionale. È ultima anche per quanto riguarda la percentuale di laureati e gli investimenti in ricerca rispetto al PIL.
Il sistema universitario ha attraversato negli ultimi anni una profondissima crisi di credibilità a causa delle tante disfunzioni di cui si è parlato e soprattutto a causa degli scandali concorsuali, e ha perso così progressivamente il consenso in una parte notevole dell'opinione pubblica. La terapia che il Governo ha proposto, a partire dalla legge n. 133, è fatta essenzialmente di tagli e di ulteriore drastica riduzione degli stanziamenti statali. Vorrei ricordarlo: sono previsti 700 milioni di euro in meno per il 2010 e addirittura 800 milioni in meno per il 2011. Questi tagli sono accompagnati da un'ulteriore riduzione del personale e da una sorta di «autoprivatizzazione». Questa è la ricetta che il Governo propone rispetto al male dell'università. In sostanza, come abbiamo più volte avuto modo di ricordare, c'è l'illusione che il cavallo affamato, in qualche modo privatizzato, ricominci a galoppare. C'è il rischio però che norme così severe penalizzino a tal punto l'università da rendere difficile realizzare addirittura i piani di rientro già previsti per quegli atenei che hanno sforato il tetto del 90 per cento. Vi è il rischio che ottime università, eccellenti università del nostro Paese, si impoveriscano anche sul piano della produzione scientifica, e questo credo debba rappresentare la preoccupazione maggiore di tutti noi in questo momento.
Il gruppo del Partito Democratico non condivide - come è noto - la terapia governativa, anzi teme che essa possaPag. 32aggravare la malattia, trasformando il futuro dell'università nella cronaca di una morte annunciata. Noi vogliamo proporre una terapia alternativa che è fatta di proposte concrete, cercando il consenso di tutti coloro che tengono all'università e che non vogliono che essa muoia, anzi pensano che l'Italia abbia più, e non meno, bisogno di università, di formazione superiore, di ricerca e di innovazione in tutti i campi, perché siamo convinti - come abbiamo sottolineato più volte in quest'Aula - che la qualità di un Paese si misuri a partire dalla qualità del suo sistema d'istruzione. Pertanto, ci pare giusto e utile sottolineare che è esattamente questo che si intende liquidare frettolosamente con l'ennesimo voto di fiducia: la qualità e il futuro del nostro Paese. È esattamente per questo che riteniamo che l'Italia abbia bisogno di più e di meglio per l'università. Serve più autonomia responsabile in un quadro di regole semplici e chiare, più valutazione e riconoscimento del merito degli studenti, dei docenti e delle istituzioni, più spazio ai giovani e alla ricerca libera, più internazionalizzazione della ricerca, dei docenti, degli studenti e dei modi di funzionamento, più attenzione all'equità sociale, e infine (come conseguenza e non come condizione) più investimenti pubblici e privati.
Il decreto-legge n. 180 non risponde a questi bisogni, ma è piuttosto volto ad intervenire per rimediare parzialmente agli errori compiuti in precedenza, fatto senza dubbio positivo perché il turnover al 20 per cento avrebbe comportato un blocco delle carriere di reclutamento e sarebbe stato troppo penalizzante per i giovani, per i ricercatori e per i docenti, e certamente il 50 per cento che si propone nel decreto-legge n. 180 è più ragionevole. Infatti, esiste un problema del diritto allo studio in questo Paese - come ha sottolineato poc'anzi l'onorevole Ghizzoni - ed esiste un problema di pari opportunità. Esiste un problema di uguale cittadinanza e resta purtroppo ancora del tutto inattuato il dettato costituzionale che prevede che tutti i meritevoli possano accedere ai gradi più alti dell'istruzione. Però, sottosegretario, per affrontare una questione così delicata per il nostro Paese non bastano - come è stato detto poc'anzi - interventi spot che sono soltanto limitati all'anno accademico 2009, ma è necessario un intervento sistematico, come abbiamo più volte chiesto dai nostri banchi. È necessario un intervento che, per esempio, parta dalla revisione della legge quadro sul diritto allo studio, che è antecedente addirittura alle modifiche che sono intervenute con la riforma del titolo V della Costituzione, perché riteniamo che in alcun modo la residenza geografica e il luogo di nascita possano diventare un discrimine rispetto al merito. Quindi, noi accettiamo per buone le intenzioni, e cioè di intervenire nel settore del diritto allo studio, del merito e sulla qualità del sistema universitario, ma non possiamo non notare che si tratta di un provvedimento minimale, il cui aspetto migliore, per così dire, è stato l'annuncio che si sarebbero offerte risposte serie all'università italiana.
Si tratta di una risposta - come dicevo - sostanzialmente inadeguata di fronte alla fortissima opposizione che si è levata dalla comunità accademica, dagli studenti, dalle famiglie italiane e dal Parlamento stesso. Non viene nemmeno sfiorato l'articolo 16 della legge n. 133 che aumenterà la privatizzazione del sapere per gli atenei in difficoltà economiche, per i quali invece si dovrebbe prevedere un piano di rientro che parta dalla valutazione del bilancio e dalla qualità dei servizi offerti e che si basi essenzialmente anche su agevolazioni per il conseguimento di obiettivi di spesa e di qualità.
Si tralascia anche che, con il mantenimento di tagli, anche in forma ridotta rispetto alla legge 6 agosto 2008, n. 133, saranno moltissimi gli atenei a sforare il tetto previsto del 90 per cento per le spese del personale, comportando così l'impossibilità di assumere di nuovo a fronte dei pensionamenti. Ma il grande assente di questo decreto-legge - lo voglio dire con molta chiarezza - è una valutazione complessiva del sistema universitario.Pag. 33
Il nostro Paese ha bisogno di provvedimenti organici, di provvedimenti coraggiosamente innovativi, avendo ben chiara in mente l'università di cui avrà bisogno tra dieci o vent'anni: per intenderci, quella i cui professori di riferimento saranno gli attuali giovani ricercatori, di ruolo o precari che siano. Di tutto questo non si intravede nemmeno l'ombra nel decreto-legge in discussione. Si tratta, come abbiamo detto, di provvedimenti disorganici e qualche volta anche contraddittori. Cito, ad esempio, il comma 1 dell'articolo 1 in virtù del quale non si può superare il 90 per cento del costo del personale rispetto ai trasferimenti. Non si parla del fatto che il personale assunto non equivale all'indebitamento. Vi sono università che, per quanto giovani e recenti, hanno trasferimenti inferiori a quelli previsti dai criteri: di conseguenza, pur avendo una buona gestione, di fatto rischiano di superato il tetto del 90 per certo.
Anche rispetto al reclutamento del corpo docente e di ricercatori si ragiona ancora su concorsi locali sostanzialmente uguali a quelli già esistenti, con la sola differenza che, per la composizione della commissione giudicatrice, si usano contemporaneamente metodi elettivi e di sorteggio che non vanno però ad incidere in alcun modo sulla trasparenza. Riteniamo necessario allargare i confini europei per la composizione delle commissioni, pensando ad una riforma strutturale, basata sulla premialità e anche sulla sanzione, dei meccanismi di reclutamento tanto dei docenti quanto dei ricercatori, affiancata da una vera e propria riforma della valutazione del sistema universitario.
È ormai urgente - lo abbiamo detto anche questo più volte - la creazione di un ente terzo rispetto al Ministero che operi in maniera radicata, stabilendo criteri di ripartizione dei fondi che siano definitivi, condivisi, strutturali e che garantiscano la reale trasparenza dei meccanismi di reclutamento del corpo docente.
Gli articoli 2 e 3 presentano aspetti senza dubbio positivi ma casualmente - come è stato ricordato - sono limitati soltanto all'anno accademico 2009, senza un piano di investimenti pluriennali, così come abbiamo più volte chiesto. Inoltre, l'investimento di 135 milioni di euro non è assolutamente sufficiente per coprire la totalità delle borse di studio così come è assolutamente insufficiente l'investimento di 65 milioni di euro per gli interventi in alloggi e residenze universitarie. Inoltre - lo voglio ricordare - è quasi una contraddizione che la copertura per il diritto allo studio sia assicurata dal Fondo per le aree sottoutilizzate. Insomma, siamo ancora molto lontani - come dire - dallo spirito di Lisbona, dalla spinta presente in tanti Paesi del mondo verso la conoscenza, verso gli strumenti formativi, verso la consapevolezza che dalla formazione dipende il futuro del nostro Paese. È dalla formazione che dipende la capacità che avremo di risalire nelle classifiche che ci indicano a livelli bassissimi per la capacità di produrre e di competere con gli altri. Vorrei dire che vi è una sproporzione quasi tragica tra quanto servirebbe al nostro Paese per fare della conoscenza la sua grande opportunità e la sua grande risorsa e il provvedimento in esame, frutto piuttosto della fretta di mettere qualche toppa qua e là. In questo senso ha ragione il rappresentante del Governo: il carattere di urgenza vi è tutto, tanto erano sbagliati e vorrei dire irrazionali i provvedimenti precedenti. Peccato, però, che con una toppa non si fa un vestito nuovo. In altre parole, state procedendo, signor sottosegretario, con logiche sbagliate e talvolta anche incomprensibili. Siamo convinti che l'università italiana abbia bisogno di altro ed è per questo che rimaniamo profondamente contrari sia allo spirito sia alla lettera di questo decreto-legge (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Madia che illustrerà sul suo emendamento 3.72. Ne ha facoltà.

MARIA ANNA MADIA. Signor Presidente, pochi colleghi, l'università nel corso dell'autunno che si è appena concluso è stata al centro della crisi italiana. Il nostroPag. 34Paese, al pari di altri Paesi, sta attraversando e vive i drammi della crisi economica, i drammi del calo dell'occupazione, i drammi quindi del calo generale della qualità di vita per i suoi cittadini.
Tuttavia, diversamente da altri Paesi, il Governo attuale, in carica ormai da oltre sei mesi, ha cercato di rispondere a questa crisi con misure per salvaguardare il potere di acquisto delle famiglie che sono di dubbio effetto e, cosa più grave, con misure che sono state finanziate sottraendo risorse ad altri programmi pubblici. Mi riferisco, in particolare, proprio ai tagli massicci e lineari operati alla scuola e all'università. Infatti, il settore pubblico della formazione, dell'istruzione e della ricerca - questo è un dato di fatto - è stato utilizzato per fare cassa e per abolire integralmente l'ICI per i più ricchi e per coprire la fallita detassazione degli straordinari. Inoltre, quel miliardo e mezzo, che avrebbe potuto almeno attenuare i tagli alla scuola e all'università, sarà impegnato - sono stime assolutamente ottimistiche - per rilevare le sofferenze della bad company di Alitalia.
A fronte di ciò, nel nostro Paese abbiamo assistito ad una protesta pacifica di decine di migliaia di studenti universitari per la prima volta uniti a professori, a ricercatori e al personale amministrativo: una protesta pacifica che ha contestato le norme contenute nel decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112.
Una protesta che non può essere definita ideologica né tantomeno una protesta simile a quella che a volte fanno gli studenti per saltare le lezioni, tant'è che alla medesima si sono uniti i professori, i ricercatori e il personale amministrativo. In realtà, si tratta proprio di una protesta orientata a contestare quelle misure originarie adottate dal Governo che avrebbero pregiudicato la qualità del sistema universitario pubblico italiano. Quindi, saremmo stati dinanzi ad un'università più povera, più demotivata e con una ridotta, anzi ridottissima, capacità di ricambio e di ringiovanimento del personale e, pertanto, chiaramente un'università che avrebbe funzionato di meno e che sarebbe stata meno capace di offrire a chi ha meno possibilità l'opportunità di migliorare la propria condizione sociale ed economica.
Ma allora, a questo punto, dobbiamo dirci le cose chiaramente. Se l'università pubblica smette di funzionare come ascensore sociale, cioè smette di offrire opportunità per migliorare la propria vita e quindi per portare conoscenza al proprio Paese, indipendentemente dalle capacità economiche dalle quali si parte, allora (chiaramente questa è una provocazione, ma dalla risposta possiamo ripartire e capire che cosa vogliamo realizzare) tanto vale non avere un sistema pubblico universitario e prevedere una riforma costituzionale, perché di questo si tratterebbe, che riscriva gli articoli 33 e 34 della nostra Carta fondamentale, escludendo espressamente l'università.
Chiaramente siamo contrari a questo e siamo convinti dell'importanza di un sistema pubblico dell'università come ascensore sociale e credo che della gravità delle misure originarie del Governo si sia reso conto lo stesso Esecutivo e oggi discutiamo un ripensamento parziale e insufficiente, ma pur sempre un ripensamento rispetto alle norme approvate questa estate.
Dicevo che si tratta di un ripensamento parziale ed insufficiente perché in sostanza - per semplificare e per riassumere - si tratta di un ripensamento sul blocco del turnover che, quindi, attenua il blocco del turnover ma che nulla fa per ripristinare la grande maggioranza dei tagli che erano stati compiuti. Infatti, ricordiamo che la legge n. 133 del 2008, come è stato già detto in questa discussione, che è al centro delle contestazioni del mondo universitario, ha tagliato il fondo per le università di 1.441 milioni di euro per il corso della legislatura, cioè di un importo pari almeno a quanto spenderà lo Stato italiano per sostenere i debiti della bad company Alitalia, frutto della scelta politica del Governo di non avere voluto l'acquisizione di Alitalia da parte di una compagnia straniera e di aver poi, con tutti i problemi che si stanno materializzandoPag. 35ancora in questi giorni, voluto venderla nei modi e alla compagine industriale che tutti conosciamo.
Credo che, se ci divertissimo a chiedere agli italiani se preferiscono accollarsi i debiti della bad company Alitalia e magari vedersi raddoppiate le tasse universitarie dei figli, oppure avere un'università con più fondi e, quindi, con più risorse affinché possa essere in grado di funzionare bene, di tenere aperti laboratori e biblioteche, di fornire borse di studio a chi lo merita (perché le borse di studio costano), di avere come insegnanti i ricercatori che rappresentano i migliori cervelli del Paese e di non farli fuggire, credo che la risposta di ognuno sarebbe scontata. Eppure, il Governo è andato esattamente nella direzione opposta e ora, tuttavia, tenta di mitigare quelle scelte.
Pertanto, il decreto-legge n. 180 del 2008, che oggi è al nostro esame, è un ripensamento positivo. Questo è stato detto e si è anche parlato di un dibattito interessante al Senato. Tuttavia, va sottolineato che è un ripensamento positivo rispetto alle norme originarie di questo Governo, ossia alle norme della scorsa estate. È chiaro che è positivo che il turnover sia elevato al 50 per cento, anche se il 10 per cento dei nuovi ricercatori e professori passerebbe da contratti a tempo indeterminato a contratti a tempo determinato. Pertanto, malgrado il ripensamento positivo e l'aumento del turnover, ci sarebbe, tuttavia, un incremento di precariato nelle nostre università.
Comunque, il ripensamento positivo del decreto-legge n. 180 del 2008 riguarda anche i limiti alla spesa per il personale delle università non virtuose, la riforma dei criteri di composizione delle commissioni giudicatrici dei concorsi, l'introduzione di nuovi criteri di selezione dei concorsi (valorizzando i titoli dei ricercatori), l'introduzione di primi meccanismi per il censimento e la valutazione della produzione scientifica, legandola all'erogazione delle risorse agli atenei (anche se su questo punto notiamo che l'intervento è davvero molto timido), l'incremento di borse di studio per i capaci e i meritevoli, l'aumento del fondo per la costruzione degli alloggi e delle residenze universitarie. Insomma, si tratta di una serie di principi e interventi giusti ma - lo ripeto - insufficienti di fronte alla catastrofe finanziaria che gli atenei affronteranno nei prossimi anni.
D'altra parte, questi interventi giusti e questo ripensamento parzialmente migliorativo, con un limitato maggiore impegno finanziario, poteva essere migliore. Questo poteva accadere se la maggioranza avesse accolto alcuni emendamenti del Partito Democratico e cioè se non avesse posto la questione di fiducia oggi. Mi riferisco in particolare - e lo diceva anche la collega Picierno - alle coperture finanziarie. Sottolineo, soprattutto, che le proposte emendative all'articolo 3, che riguardano l'agevolazione del diritto allo studio, avrebbero permesso di rendere queste agevolazioni permanenti e, quindi, di non farle gravare sul Fondo per le aree sottosviluppate. Infatti, seppure per uno scopo giusto ed utile, sembra davvero un controsenso rispondere al bisogno di formazione, togliendo risorse al sud, cioè sottraendo risorse all'area più svantaggiata del Paese.
Insomma, eravamo convinti - e purtroppo il fatto che oggi sia stata posta la questione di fiducia ci rende ancora più pessimisti - che il Governo dovesse cambiare la tipologia di copertura finanziaria di una norma che, positiva nei suoi effetti, produrrà comunque conseguenze negative per le regioni che si avvalgono del FAS.
Inoltre, ritengo che ci sia una questione ancora più generale. In Italia l'università non ha bisogno soltanto di riforme delle procedure concorsuali. In passato ne sono state approvate tante ed io le ho vissute da studente. Vi sono state tante riforme del reclutamento poste in essere da diversi Governi con obiettivi che sono sempre stati gli stessi: premiare il merito, favorire l'ingresso di giovani, stroncare il clientelismo, stroncare il familismo amorale, assicurare qualità e trasparenza nelle scelte dei professori e dei ricercatori.
Penso che non dobbiamo aver paura di ammettere che ciascuna di esse ha fallito, che alcune hanno addirittura riprodotto,Pag. 36se non ingrandito, i vizi che dovevano sanare e che oggi dobbiamo tutti insieme avere la consapevolezza che non basta una «riformina» dei concorsi per cominciare a sanare le falle di un sistema che necessita di interventi molto più drastici e strutturali.
Insomma, nella nostra università, per i mali che ci sono, non si possono più fare riforme a costo zero, anche perché stiamo parlando di un settore che deve - e non ci sono alternative - costituire il PIL del futuro.
Allora, innanzitutto, bisogna investire e non togliere risorse; occorre dare risorse e sanare il gap che divide l'Italia dalla media europea per spese in ricerca. Non si può non notare che la Francia di Sarkozy ha dato dieci miliardi di euro in più agli atenei meritevoli; non è certo un Governo di sinistra, lo ha fatto senza pressioni politiche, ma come precisa scelta di politica economica.
Il secondo punto fondamentale è che serve un nuovo sistema di allocazione delle risorse. I soldi sempre di più devono poter seguire la qualità.
Il terzo punto è la responsabilità, una nuova forma di responsabilità per le strutture universitarie perché non ci può essere autonomia senza responsabilità: è questo che sta uccidendo l'università italiana, ma è questo che ancora non viene affrontato oppure viene affrontato con segnali davvero troppo timidi dal provvedimento che stiamo discutendo.
Credo che siamo tutti d'accordo: se davvero l'università e la ricerca sono qualcosa di importante, di fondamentale per il nostro futuro, non possiamo lasciarle ad una «leggina» di riforma delle procedure concorsuali che, peraltro, rischia anche di essere in contraddizione con altri provvedimenti del Governo stesso, e penso ad esempio ai precari degli enti di ricerca pubblica.
Non ho ben chiaro come si concili questo sblocco della riduzione di spesa per gli enti di ricerca pubblici con la revoca dei processi di stabilizzazione già imposti con il collegato alla finanziaria (A.C. 1441-quater).
Insomma, la necessità e l'urgenza di una legge di sistema che affronti il nodo ricerca e università rendendola davvero un asse strategico del Paese non possono essere comprese in un decreto-legge sul quale viene posta la questione di fiducia.
Serve in questo campo una grande riforma condivisa e noi, come opposizione, siamo pronti a dare il nostro contributo (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Binetti che illustrerà il suo emendamento 1.32. Ne ha facoltà.

PAOLA BINETTI. Signor Presidente, vorrei soffermarmi prima di tutto sull'emendamento che ho proposto, anche perché, essendo stata posta la questione di fiducia e, quindi, avendo la certezza che questo emendamento non passerà (trovandomi successivamente quasi nell'obbligo di trasformarlo in un ordine del giorno), vorrei che in qualche modo la comprensione e la rilevanza di quello che ciò comporta raggiungesse perlomeno, attraverso la persona del sottosegretario - non posso dire attraverso la presenza della maggioranza perché effettivamente è un po' paradossale quello che sta accadendo oggi pomeriggio - l'interesse dell'università.
L'emendamento che ho presentato ha come punto di riferimento la valorizzazione della figura dei ricercatori. Si chiede sostanzialmente che gli atenei possano investire una parte considerevole del loro budget nella possibilità di attivare i concorsi per ricercatori. Detta così, potrebbe sembrare una questione che si scontra con la tematica drammatica della mancanza di risorse, della mancanza di fondi e addirittura dei tagli a cui tutta l'università in qualche modo è stata sottoposta.
Però, vorrei che fossero chiari tre passaggi, concretamente. Il primo è che questi giovani che aspirano a diventare ricercatori generalmente sono il meglio di quello che l'università ha proposto: sono quei giovani che hanno cominciato la loro carriera universitaria con serietà, con tenaciaPag. 37e con impegno. Nelle facoltà scientifiche, nelle quali sono abituata a lavorare, sono quelli che fanno gli studi interni. Nella facoltà di medicina, concretamente, molto spesso sono ragazzi che entrano all'università alle otto del mattino e vanno via alle otto o alle nove di sera perché passano dalle lezioni, ai laboratori, all'assistenza ai pazienti.
Sono persone che frequentano le scuole di specializzazione superando già delle selezioni, ragazzi intelligenti, determinati e appassionati che dovrebbero davvero rappresentare quello che possiamo chiamare il meglio di ciò che l'università è in grado di produrre. Queste energie nuove e fresche, capaci di rinnovare l'università e in qualche modo già selezionate dal sistema, entrando all'università, possono avere la possibilità di vedere riconosciuto davvero il valore del merito e la qualità di una dedizione e di una donazione personale agli studi tutto sommato in modo realmente gratuito.
Chiedo scusa in anticipo se la maggior parte degli esempi che faccio riguardano la facoltà di medicina. Questi giovani ricercatori, si trovano davvero a svolgere i tre compiti fondamentali dell'università: la ricerca, il contributo reale all'attività di didattica e, nel caso specifico, anche il contributo all'attività dell'assistenza.
Voglio soffermarmi un momento specificamente sul contributo che riescono a dare sul piano della didattica.
Penso che non sfugga a tutti noi che stiamo parlando di riforma del sistema universitario che già il decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980, molti anni fa (la prima riforma universitaria un po' seria che il nostro Paese ha avuto), aveva istituito, accanto al ruolo dei ricercatori, anche una funzione molto particolare che aveva assegnato a tutto il corpo docente, guardando con particolare interesse ai ricercatori: il ruolo del tutorato, quella formazione ad personam che ogni studente può ricevere nel momento in cui entra nell'università, stabilendo con i giovani docenti quel rapporto di fiducia, quel rapporto di confidenza, quella possibilità di fare un bilancio reale delle difficoltà, non misurato soltanto dal voto ma anche dal profilo delle competenze che può e che desidera acquisire, quelle che fa fatica ad acquisire.
Il sistema dei ricercatori, questo universo straordinario, che è il primo gradino della docenza universitaria, è quello più prossimo alla formazione degli studenti interni, e in molti casi è quello che ha a proprio carico la formazione professionalizzante degli studenti.
Chi insegna ad un giovane studente di medicina degli ultimi anni a diventare un medico? Qualche volta il maestro, ma il maestro parla più ai ricercatori, ai suoi assistenti. Chi svolge questa funzione di maestro, potremmo dire quasi una sorta di de magistro, accanto ai giovani è proprio il ricercatore. Senza la figura del ricercatore, senza questa rete straordinaria che i ricercatori riescono a costruire, attraverso questa dinamica che chiamiamo di formazione ad personam quale è il sistema tutoriale, molti ragazzi si perdono, per gli abbandoni, per i ritardi; ma c'è anche una perdita più importante che non possiamo sottovalutare, la perdita dell'entusiasmo, la perdita della speranza, la perdita della fiducia, la perdita dell'ambizione all'eccellenza, quella che costituisce il volano di trasformazione delle nostre università.
D'altra parte, i ricercatori sono anche per definizione coloro i quali nei laboratori riescono a portare il contributo più vivo di un'intelligenza creativa, di una capacità di non seguire dinamiche di tipo conformista. Sono coloro che sono capaci con maggiore facilità di porsi i «perché». Al di là dell'ovvietà delle cose che si sono sempre fatte in un certo modo, a volte noi abbiamo bisogno delle domande, più ancora delle risposte. E sono i giovani ricercatori che hanno questa freschezza dell'intelligenza che riesce a provocare un sistema, che riesce a suggerire una soluzione che magari fino a quel momento poteva essere sembrata inapplicabile, inattuabile e che l'intelligenza nuova riesce, invece, a trovare con una ricchezza alla quale si può attingere per risolvere in modo diverso problemi consolidati.Pag. 38
Sono di fatto i ricercatori, come sappiamo, che molte volte traducono l'intuizione del direttore. Il direttore dice: si potrebbe fare così, potremmo andare a verificare questa cosa. Ma poi chi di fatto trasferisce quelli che noi chiamiamo i pochi istanti di un'ispirazione nei molti momenti di lavoro faticoso, di controllo, con gli esperimenti di laboratorio, con la tempistica che richiedono, con la necessità di essere presenti in quegli orari che sono dettati dall'esperimento stesso e non dalla volontà personale, sono proprio loro. Chi si sobbarca la fatica della scrittura dell'articolo, quegli articoli scientifici che poi molte volte subiscono quel controllo rigoroso che il direttore, il primario, l'ordinario fa sul loro lavoro? Chi costruisce questo articolo, andando a verificare i dati, con il controllo bibliografico, con la capacità di riscrivere le nuove metodologie di lavoro seguito sono ancora una volta i ricercatori. Molte volte il grande capo è quello che mette giustamente, come sappiamo tutti quanti, o la prima o l'ultima firma, cioè è colui che dà l'ispirazione o colui che mette il sigillo finale; ma chi ha costruito quell'articolo e prima di tutto l'esperimento, l'esperienza e poi la materializzazione dell'articolo stesso, è ancora una volta il giovane ricercatore.
Io non so come noi potremo prescindere nel sistema universitario da questa fucina che poi costituisce nella prospettiva anche la vera anticamera dei docenti senior. L'esperienza del ricercatore, molte volte anche con la durezza nel percorso della vita del ricercatore stesso, è quella che permette più di qualunque altro tipo di concorso.
Sappiamo perfettamente che negli Stati Uniti il sistema concorsuale è molto diverso da quello italiano: è un sistema per cooptazione, si sceglie una determinata persona, senza bisogno di subordinare il sistema delle regole alla scelta personale. Questa persona poi, però, deve dare sul piano concreto delle operazioni le prove del suo merito e del suo valore.
Molte volte i nostri ricercatori, quando arrivano a fare il concorso, lo hanno già vinto, ma non soltanto per il sotterfugio del concorso, ma perché quel concorso è stato bandito in quanto già avevano dato prova di capacità, di intelligenza, di dedizione e di originalità nel pensiero. Sono una ricchezza e una risorsa che è veramente un peccato perdere e disperdere.
Credo che abbiamo un sistema anche molto interessante, di cui non mi sembra di aver sentito parlare oggi pomeriggio, a proposito della valutazione, ed è quello della conferma: a tre anni da un concorso, che sia di ricercatore, di associato o di ordinario, c'è la conferma, ossia quella valutazione che, prima di tutto, fa la facoltà, perché è questa che poi manda la sua documentazione al CUN, affinché da questo poi arrivi la conferma reale. In questa valutazione interna, progressiva, gli atenei virtuosi già da tempo si stanno cimentando. Ed è qui che si ottengono i lavori prodotti, ma ciò non basta. Sappiamo benissimo quante sono le dinamiche di sotterfugio attraverso le quali si può avere la firma in un lavoro. Chi sa realmente cosa ha fatto ciascuno in quel lavoro è il direttore che ha diretto quell'unità di ricerca. Egli sa se quel ricercatore vale, se vale veramente, quanto vale, quanto è originale il suo contributo, quant'è corposa la sua dedizione e donazione. Ecco perché vi dico - intendo ancora fare riferimento brevemente alla valutazione del sistema universitario - che su questo emendamento ci giochiamo il futuro dell'università (ma non perché esso dipenda da questo emendamento, che cerca di rappresentare questa situazione); ci giochiamo il futuro dell'università se chiudiamo gli occhi davanti alla gioventù dei ricercatori.
Per favore, non pensiamo ai ricercatori che diventano tali a cinquant'anni, con tutto il rispetto. Abbiamo bisogno di ricercatori che raggiungano queste posizioni nel momento in cui c'è davvero la possibilità di esprimere il massimo della loro creatività intellettuale e della loro dedizione reale. Sappiamo che molte volte questi giovani, per arrivare e vivere in questa fascia, sacrificano molte energie familiari, intanto perché lo stipendio di un ricercatore è notoriamente bassissimo, per niente competitivo rispetto a quello che potrebbe essere per pari intelligenza, dedizionePag. 39e creatività lo stipendio in un altro tipo di azienda. Molte volte sacrificano la possibilità di una famiglia, non solo del matrimonio e di avere dei figli, ma anche di costruire una loro vita sociale.
Detto questo, vorrei ribadire i seguenti punti, che sono quelli che ho preparato in particolare. L'università nasce, vive e opera per rispondere alle sfide del futuro. Un giovane che oggi vi entra sarà pronto sul mercato del lavoro tra tre, cinque o addirittura otto anni. I programmi di ricerca hanno cicli di sviluppo misurabili in anni e spesso in lustri, l'università, quindi, è interessata principalmente a ciò che accadrà in un avvenire prossimo o meno prossimo, che essa stessa contribuisce a preparare. L'università costruisce il futuro perché mantiene e aggiorna di continuo la memoria del nostro passato, ponendosi al servizio della comunità. Una società che non guarda al futuro, che non si pone traguardi anche ambiziosi è condannata inesorabilmente al declino. Se si vuole dare una risposta convincente alla domanda «quale futuro?», occorre puntare sul dialogo tra il mondo della politica, dell'impresa e dell'università.
La crescita culturale e professionale dello studente è il risultato di un complesso processo di apprendimento, che non poggia più esclusivamente sull'insegnamento in aula e si avvale di numerosi supporti e servizi di informazione, assistenza e socializzazione. Il giudizio sull'università deve tener conto non solo della qualità dei docenti, ma anche dell'affollamento delle aule, delle biblioteche e dei laboratori, della possibilità di svolgere attività sperimentali, dell'opportunità di potere effettuare stage presso imprese e istituzioni, dell'offerta di residenza, dell'efficacia dei programmi di scambio con l'estero, della presenza di spazi e strutture per lo studio individuale e di gruppo.
Molti studi rilevano il ruolo decisivo che l'educazione superiore e la ricerca scientifica assolvono nei processi di innovazione tecnologica e di sviluppo economico; non c'è sviluppo maturo e duraturo senza un solido sistema di alta educazione e di ricerca scientifica.
Ciò è tanto più vero nell'era contemporanea del mercato e dell'informazione globale. Il mondo nel quale viviamo e operiamo richiede che la cultura sia accessibile a tutti. In Italia lo afferma la Costituzione, di cui, non a caso, quest'anno ricorre il sessantesimo anniversario, che attribuisce alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese (si tratta dell'articolo 3, come tutti sappiamo molto bene).
Viviamo in un'epoca di grande concorrenza, ovviamente, ma, seppure in ritardo, l'Unione europea ha mostrato di avere percepito la portata rivoluzionaria della sfida che ci si pone innanzi. Nel 2000, a Lisbona, si è definita la strategia ambiziosa di diventare, entro il 2010, la prima economia al mondo fondata sulla conoscenza.
Successivamente, a Barcellona, sono stati indicati obiettivi precisi: investire in ricerca scientifica il 3 per cento del PIL, recuperare il gap rispetto alle economie più dinamiche, il knowledge base del mondo, dare vita ad uno spazio europeo della formazione superiore e della ricerca, superare la frammentazione a causa della quale, ancora oggi, il 95 per cento della spesa europea in ricerca è decisa a livello nazionale.
Il settimo Programma quadro approvato dal Parlamento europeo prevede un aumento della spesa. Nei prossimi sette anni l'Unione europea investirà oltre 53 miliardi di euro in ricerca e, in questo contesto, un compito importante sarà affidato al nuovo Consiglio europeo delle ricerche, cui spetterà distribuire 7,5 miliardi di euro a studiosi di ogni nazionalità che intendano stabilire il proprio centro di ricerca in uno dei Paesi membri.
Si parla di questa strategia, di questo spazio europeo della conoscenza nel 2010. Signori, il 2010 è praticamente già cominciato! Potremmo fare un sorta di contoPag. 40alla rovescia: dei 365 giorni del 2009, 5 sono già trascorsi; ce ne resta un certo numero e su questi vale la pena guardare e investire.
Dovremmo cercare di passare da un'università chiusa e ingessata ad una più aperta e dinamica; da un'università espressione del mondo epistemologico delle certezze ad un'università ancorata al mondo epistemologico della probabilità e degli scenari possibili; da un'università monade e delocalizzata ad un'università glocal, dove il sapere globale si confronta e interagisce con i bisogni e le domande locali; da un'«università isola» ad un'università integrata a livello internazionale, nazionale e territoriale; da un'università che formava ristrette classi dirigenti in un ciclo breve e definito di istruzione rigidamente disciplinare ad un'università chiamata ad educare un numero crescente di persone in un ciclo di istruzione permanente, il long life learning; dall'università dei manuali e dei saperi consolidati ad un'università dei saperi fluidi e interdisciplinari.
Il nostro sistema dell'istruzione superiore e della ricerca è in grado di produrre buona materia prima, toccando, non di rado, punti di eccellenza. Nature ha pubblicato uno studio che colloca i ricercatori italiani, ultimi per i finanziamenti, al terzo posto per la produttività scientifica tra i Paesi del G8; quindi, materia prima buona per l'esportazione, pronta per essere utilizzata altrove nella produzione di cultura, sapere e tecnologia.
Nondimeno, il nostro sistema nazionale rischia di diventare rapidamente periferico e di rimanere al palo per ciò che concerne la capacità di incidere in relazione ai profondi e rapidi cambiamenti in atto. Per evitare tale eventualità, occorre fissare i seguenti obiettivi: la qualità, l'equità e l'efficienza, peraltro sottolineati dall'OCSE nella conferenza tenutasi ad Atene lo scorso 28 e 29 giugno.
Ciò in quanto il sistema universitario italiano si presenta come una struttura complessa, con atenei specialistici e generalistici, piccoli e giovani, statali e non statali. Penso che la dizione «università pubbliche-università private» vada totalmente abbandonata, anche dopo la riforma del sistema che ha visto, nel sancire il pieno ruolo della scuola paritaria, anche gli atenei distinti in statali e non statali, anziché in pubblici e privati.
Non credo che ci vergogniamo di istituzioni come la Bocconi, la LUISS, la Cattolica o anche l'università da cui provengo, il Campus Biomedico, e molte altre.
Sul tema, anzi, il potenziamento delle università a vocazione specifica va opportunamente valorizzato, e va valorizzato ponendo anche lì obiettivi di valutazione: il termine parallelo a «valorizzazione» è «valutazione». Però mi dispiacerebbe se noi dovessimo portare avanti una politica che rendesse l'ateneo pubblico contrapposto a quello privato, laddove l'ateneo privato è inesistente, posto che tutti gli atenei, per loro stessa intrinseca vocazione, sono atenei pubblici.
Se si fa poi un confronto sugli investimenti, il sistema universitario italiano rispetto a quello degli altri Paesi europei risulta in evidente ritardo. È sufficiente indicare un solo dato: l'Italia spende per ogni studente universitario 7.241 euro, contro i 9.135 della Francia e i 9.895 della Germania. Il Fondo di finanziamento ordinario, che dovrebbe assicurare all'università la possibilità di svolgere nel quotidiano la funzione di istituzione pubblica per l'alta formazione, è quasi interamente assorbito dagli stipendi del personale. Fatto 100 questo fondo nel 2001, il rapporto tra il 2001 e il 2006 è passato a 112,4; nello stesso periodo, il livello degli emolumenti fissi del personale universitario, che ammonta a poco più di 100 mila unità compreso il personale tecnico-amministrativo, è passato da 100 a 124. È alquanto difficoltoso tentare di rialzare la testa, se manca un miliardo di euro persino per tornare al livello di cinque anni fa.
Vorrei avvicinarmi alla conclusione, e vorrei anche però sottolineare un altro dato positivo del sistema universitario italiano: il numero dei laureati è passato dai 161 mila del 2000 ai 301 mila del 2005; in realtà, in quattro anni il numero dei laureati è duplicato. Questo mi sembra un dato positivo, anche se non si non ci esime dal porci laPag. 41domanda di quale sia il livello di competenza dei nuovi laureati. A sentire i professori universitari, per i soggetti che si laureano in media, misurati come fascia se guardiamo all'università come università di massa, il livello sembra più basso; viceversa, se guardiamo in ogni corso di laurea a quelle nicchie di eccellenza che si formano, la qualità, la competenza e il potenziale di sviluppo dei giovani laureati anche attualmente è molto alto e fortemente competitivo sul piano internazionale.
Ritornando al confronto con i Paesi dell'Unione europea e gli Stati Uniti, il rapporto per numero di ricercatori e per unità di lavoro è rispettivamente pari alla metà e ad un terzo; da rilevare che oltre l'80 per cento dei nostri professori ordinari ha un'età compresa tra i cinquanta e i sessant'anni: se in questo campo non si interviene in tempo ed efficacemente, tra quindici anni si creerà un vuoto che sarebbe paradossale per un paese, come l'Italia, nel quale molti giovani talenti premono per entrare nel mondo della ricerca. E questa era l'origine stessa, che aveva dettato il desiderio di un emendamento che aprisse le porte ai ricercatori come alla vera ventata nuova che produrrà dall'interno il cambiamento della struttura universitaria (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Sono esauriti gli interventi per l'illustrazione degli emendamenti.
Il seguito dell'esame del provvedimento è rinviato alla seduta di mercoledì, che come stabilito a seguito dell'odierna riunione della Conferenza dei presidenti di gruppo, avrà inizio a partire dalle ore 16, con le dichiarazioni di voto sulla questione di fiducia.

Per la risposta ad uno strumento del sindacato ispettivo (ore 19,23).

IVANO STRIZZOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

IVANO STRIZZOLO. Signor Presidente, prendo la parola per sollecitare il Governo a dare risposta ad un mio atto di sindacato ispettivo, presentato il 16 settembre sulle questioni legate alla vicenda Alitalia, perché si stanno determinando non solo situazioni di difficoltà nei grandi aereoporti, ma anche nei piccoli. Cito un fatto: stamattina dovevo partire dall'aereoporto di Ronchi dei Legionari, che anche lei conosce bene, e sono stato due ore seduto in aereo in attesa che questo decollasse. Pregherei veramente il Governo di dare risposta a questo atto, perché purtroppo la vicenda Alitalia rischia di rivelarsi l'ennesimo pasticcio di questo Governo.

Ordine del giorno della prossima seduta.

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della prossima seduta.

Mercoledì 7 gennaio 2009, alle 16:

Seguito della discussione del disegno di legge:
S. 1197 - Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 10 novembre 2008, n. 180, recante disposizioni urgenti per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca (Approvato dal Senato) (1966).
- Relatore: Caldoro.

La seduta termina alle 19,25.