XIX Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere

Resoconto stenografico



Seduta n. 34 di Mercoledì 28 febbraio 2024

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Colosimo Chiara , Presidente ... 3 

Comunicazione del presidente:
Colosimo Chiara , Presidente ... 3  ... 3 

Seguito dell'audizione di Salvatore Borsellino e del suo legale Fabio Repici:
Colosimo Chiara , Presidente ... 4 
Scarpinato Roberto Maria Ferdinando  ... 4 
Colosimo Chiara , Presidente ... 5 
Repici Fabio , legale di Salvatore Borsellino ... 5 
Colosimo Chiara , Presidente ... 8 
Repici Fabio , legale di Salvatore Borsellino ... 8 
Colosimo Chiara , Presidente ... 10 
Russo Raoul  ... 10 
Borsellino Salvatore  ... 10 
Russo Raoul  ... 10 
Borsellino Salvatore  ... 11 
Cantalamessa Gianluca  ... 11 
Borsellino Salvatore  ... 11 
Colosimo Chiara , Presidente ... 12 
Repici Fabio , legale di Salvatore Borsellino ... 12 
Cantalamessa Gianluca  ... 12 
Repici Fabio , legale di Salvatore Borsellino ... 12 
Cantalamessa Gianluca  ... 13 
Repici Fabio , legale di Salvatore Borsellino ... 13 
Colosimo Chiara , Presidente ... 14 
Repici Fabio , legale di Salvatore Borsellino ... 14 
Colosimo Chiara , Presidente ... 14 
Salvitti Giorgio  ... 14 
Repici Fabio , legale di Salvatore Borsellino ... 14 
Verini Walter  ... 15 
Repici Fabio , legale di Salvatore Borsellino ... 16 
Colosimo Chiara , Presidente ... 18 
Borsellino Salvatore  ... 18 
Colosimo Chiara , Presidente ... 19  ... 19

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
CHIARA COLOSIMO

  La seduta comincia alle 13.45.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche tramite impianto audiovisivi a circuito chiuso.

Comunicazioni del presidente.

  PRESIDENTE. Procedo a dar conto alla Commissione dei risultati derivanti dai controlli, di cui all'articolo 1, comma 1, lettera i), della legge n. 22 del 2023, effettuati sulle liste elettorali riguardanti le consultazioni che si terranno in data 10 marzo, per le elezioni del presidente e del consiglio regionale della Regione Abruzzo.
  L'orientamento di questa presidenza è di rendere pubblici i nominativi solo dopo che tutti i componenti ne avranno potuto prendere piena contezza in seduta segreta.
  Propongo quindi di passare in seduta segreta.
  (Così rimane stabilito. I lavori procedono in seduta segreta, indi riprendono in seduta pubblica).

  PRESIDENTE. In data 15 febbraio 2024, la Commissione ha trasmesso gli elenchi dei candidati alle consultazioni elettorali di cui in premessa alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, la quale, in data 22 febbraio 2024, ha comunicato gli esiti della estrazione e della elaborazione richieste con riferimento a: «pendenze a decorrere dalla fase del rinvio a giudizio (in relazione ai reati richiamati dal codice di autoregolamentazione delle candidature), a decorrere dalla emissione di una sentenza non definitiva (in relazione ai reati richiamati dal decreto legislativo n. 235 del 2012) e di misure di prevenzione personali e patrimoniali (a decorrere dalla applicazione del decreto)».
  La rilevazione eseguita dalla Direzione generale dei servizi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia sui registri SICP – Sistema informativo della cognizione penale – ha avuto per oggetto 347 nominativi (forniti dagli elenchi dei candidati trasmessi dalla Commissione) e ha evidenziato un esito positivo in relazione ad alcuni candidati, come più avanti procederò a illustrare in dettaglio.
  Con riferimento alle misure di prevenzione personali e patrimoniali (registri SIPPI – Sistema informativo prefetture e procure dell'Italia meridionale e SITMP – Sistema informativo telematico delle misure di prevenzione), la DNAA ha comunicato che l'interrogazione eseguita dalla citata Direzione generale ha dato esito negativo in relazione ai medesimi elenchi.
  I candidati per i quali la DNAA ha evidenziato un esito positivo sono sette.
  All'esito delle verifiche svolte dalla Commissione risultano in violazione del codice di autoregolamentazione due candidature.
  In particolare, risultano in violazione del codice di autoregolamentazione le seguenti candidature: la candidatura di Fernandez Simona, candidata al consiglio regionale per la lista «Alleanza verdi sinistra – Abruzzo progressista e solidale». Per la predetta candidata risulta disposto il giudizio con decreto del GIP presso il tribunale di Taranto (dibattimento in corso di svolgimento), per il reato di cui agli articoli 110, 356 codice penale (concorso nel reato di frode nelle pubbliche forniture), in violazionePag. 4 dell'articolo 1, comma 1, lettera b), del codice di autoregolamentazione.
  La candidatura di Serraiocco Vincenzo, candidato al consiglio regionale per la lista «Noi moderati». Nei confronti del predetto, con decreto del GUP presso il tribunale di Pescara è stato disposto il giudizio (dibattimento in corso di svolgimento) per il reato di cui agli articoli 81, 110 codice penale, 216, comma 1 e 2 e 223, legge fallimentare (concorso in reato continuato di bancarotta fraudolenta) in violazione dell'articolo 1, comma 1, lettera o), del codice di autoregolamentazione.
  Vi sottopongo infine il caso di un candidato condannato (per fatti risalenti al 1989), con sentenza divenuta definitiva l'8 maggio 2003, per il reato di cui agli articoli 110, 319-bis codice penale (concorso in reato di corruzione aggravata per atto contrario ai doveri di ufficio). La candidatura risulterebbe dunque in violazione dell'articolo 1, comma 1, lettera b) del codice di autoregolamentazione. Tuttavia, in relazione a tale titolo esecutivo, in data 15 dicembre 2009 è stata concessa dal tribunale di sorveglianza dell'Aquila la riabilitazione che, ai sensi dell'articolo 178 codice penale, è riconosciuta decorso un determinato periodo di tempo se il condannato ha dato prove effettive e costanti di buona condotta.
  La riabilitazione non è esplicitamente prevista dal codice di autoregolamentazione, mentre è indicata dalla legge Severino (articolo 15, comma 3 del decreto legislativo 235/2012) quale causa di estinzione dell'incandidabilità.
  Propongo pertanto di ritenere che, in caso di riabilitazione, la condanna cui la stessa si riferisce non rilevi ai fini del codice.
  (La seduta, sospesa alle 13.50, riprende alle 13.55)

Seguito dell'audizione di Salvatore Borsellino e del suo legale Fabio Repici.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'audizione di Salvatore Borsellino e del suo legale, avvocato Fabio Repici, che ringrazio ancora una volta per la disponibilità a tornare in Commissione per rispondere ai quesiti dei colleghi che intendono intervenire.
  Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme dell'audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione. I lavori potranno proseguire in forma segreta a richiesta degli auditi o dei colleghi. In tal caso non sarà più consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv.
  Rinnovo i ringraziamenti per la disponibilità. Sono felice di vedere anche Salvatore Borsellino. A questo punto io ho iscritto a parlare certamente il senatore Scarpinato e aspetto le altre prenotazioni.

  ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Avvocato, le chiedo se può indicare i fatti accertati processualmente dai quali si desume la partecipazione di soggetti esterni alla mafia alla strage di via D'Amelio.
  Secondo domanda. Lei ha attribuito grande rilevanza al depistaggio del collaboratore Maurizio Avola. Le chiedo se le risultano rapporti tra questo collaboratore o i suoi avvocati e i servizi segreti.
  Terza domanda. È stato accertato che il giorno prima della strage di via D'Amelio il dottor Borsellino si incontrò con un magistrato che si chiamava David Monti. Le chiedo se le risulta che Borsellino raccontò a Monti i motivi dei contrasti alla procura di Palermo, se parlò di una scissione. Ancora, se le risulta che il generale Mori e il capitano De Donno, a proposito dell'incontro alla caserma di Carini del 25 giugno 1992, riferirono a Borsellino dei loro rapporti con Ciancimino e quando hanno riferito per la prima volta alla magistratura di questo incontro del 25 giugno 1992.
  Le chiedo ancora se le risulta che è stato accertato nella sentenza Borsellino quater che la decisione di anticipare la strage di via D'Amelio fu assunta verso la metà di giugno, nella terza settimana, e quali eventi particolari si verificarono in quel periodo, se vi erano stati o meno già gli incontri con Ciancimino.

Pag. 5

  PRESIDENTE. Poiché ci sono molte domande, la invito a rispondere.

  FABIO REPICI, legale di Salvatore Borsellino. Grazie, presidente. Procedo a rispondere.
  Sull'esistenza di soggetti che hanno concorso con cosa nostra, non essendo affiliati a cosa nostra, ma essendo espressioni di gruppi di potere variamente individuabili che con cosa nostra fossero in relazione, si devono fare due puntualizzazioni.
  La prima è che alcuni elementi noi li conosciamo e addirittura fanno riferimento perfino alla fase esecutiva della strage, del delitto. Per altro verso, ci sono delle risultanze processuali direi abbastanza corpose circa il fatto che l'organizzazione cosa nostra, che sicuramente è stata centrale nella progettazione e nella realizzazione della strage di via D'Amelio, ma non solo della strage di via D'Amelio, prima ancora della strage di Capaci e prima ancora nell'omicidio dell'onorevole Salvo Lima e successivamente con altri attentati e altre stragi, ebbe delle interlocuzioni con esponenti esterni a cosa nostra.
  Faccio riferimento alle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia. Mi riferisco per primo a uno di quelli sui quali, in tutti i processi, nessuno escluso, tutti i giudici che si sono trovati a valutarlo hanno fatto certificazione di attendibilità assoluta. Mi riferisco ad Antonino Giuffrè.
  Antonino Giuffrè era il principale braccio destro di Bernardo Provenzano, forse il capomafia più fidato di Bernardo Provenzano nella fase immediatamente successiva alla commissione delle stragi del 1992. Era naturalmente uomo d'onore da antico tempo, dagli anni Ottanta, nel territorio di Caccamo, che aveva un ruolo particolarmente importante. Basti ricordare una famosa affermazione del dottor Giovanni Falcone secondo cui Caccamo era la Svizzera di cosa nostra. Penso che quando si pronunciò in quel modo non facesse solo riferimento eventuale alle ricchezze, ma in realtà alla sua terzietà, alla sua collocazione fuori dai conflitti fra le varie fazioni di cosa nostra, tanto che proprio in quel territorio nel 1986, lo ricordo, fu arrestato l'allora latitante Michele Greco, che era ufficialmente il capo della commissione provinciale di cosa nostra.
  Antonino Giuffrè, la cui fonte principale è Bernardo Provenzano, oltre a essere stato un componente della commissione di cosa nostra in quanto capo mandamento, riferì che cosa nostra, Totò Riina in particolare e anche Bernardo Provenzano, prima di procedere all'attività stragista del 1992, operò quelli che egli definì dei sondaggi, cioè delle interlocuzioni e dei confronti con ambienti che egli definì in varie tipologie: ambienti imprenditoriali, ambienti politici e ambienti – ci tenne espressamente a esprimersi in questi termini – massonici, con i quali cosa nostra si confrontò sulla utilità e sulle conseguenze che dalla realizzazione delle stragi sarebbero derivate.
  Nell'esprimersi in questo modo, Giuffrè spiegò che quella strategia di cosa nostra di adesione a progetti stragisti rientrava in una necessità di ricomporre equilibri con gli ambienti del potere che con il crollo della Prima Repubblica erano sostanzialmente da riformulare.
  Oltre ad Antonino Giuffrè, circostanze molto simili sono state riferite da altri collaboratori di giustizia, anche in questo caso altri capi mandamento di cosa nostra e quindi ne parlarono per conoscenza personale. Faccio riferimento a Salvatore Cancemi, che era il reggente di uno dei più importanti mandamenti di cosa nostra a Palermo, cioè il mandamento di Porta Nuova.
  Salvatore Cancemi era legatissimo a Raffaele Ganci, che era sostanzialmente nel 1992 il principale basista di Totò Riina a Palermo. Anche Salvatore Cancemi fece riferimento a contatti di Totò Riina con esponenti esterni a cosa nostra. Arrivò anche a fare dei nomi, come è noto, e alla indicazione di un progetto politico, una necessità di Totò Riina, attraverso la violenza stragista, di trovare degli altri interlocutori con i quali poter convivere felicemente per cosa nostra, come già fatto durante la cosiddetta «Prima Repubblica».
  Altro esponente di rilievo di cosa nostra, che ha parlato dello stesso tema in termini analoghi, è Giovanni Brusca, che era il reggente del mandamento di San Giuseppe Pag. 6Jato, oltre che il regista, quanto agli uomini di cosa nostra, della esecuzione della strage di Capaci.
  Giovanni Brusca viene in rilievo per due motivi, perché è persona che ebbe interlocuzione diretta con Salvatore Riina, da cui apprese che Riina agli interlocutori esterni aveva rivolto le richieste per patteggiare un nuovo contratto di convivenza fra cosa nostra e le sfere del potere, il cosiddetto «papello» di richieste formulate da Riina.
  Brusca è stato anche il personaggio che per primo parlò del contatto, dell'interlocuzione fra cosa nostra a livello di vertice ed esponenti dell'Arma dei carabinieri. Fu proprio dalle parole di Brusca che si sollevò il velo, molti anni dopo rispetto ai fatti, sui contatti che, almeno a partire da giugno del 1992, quindi prima della strage di via D'Amelio, alti esponenti del ROS dei Carabinieri avevano intrattenuto con Vito Ciancimino, individuato come emissario di Totò Riina e Bernardo Provenzano.
  Questo è ciò che è stato raccolto in sede giudiziaria quanto al profilo dei possibili mandanti esterni, soggetti che avevano avuto contatti con cosa nostra. Trascuro ciò che però nella sentenza del processo Borsellino quater e nella sentenza del processo Tagliavia a Firenze non viene trascurato e non lo possiamo trascurare neanche in questa sede per dovere di realtà, quanto ha riferito forse il pentito più attendibile sulle stragi nella storia processuale italiane, Gaspare Spatuzza, a proposito dei contatti avuti da Giuseppe Graviano fino a pochi giorni prima del suo arresto nell'ottica di una intesa che lo stesso Giuseppe Graviano aveva fatto con i soggetti che tutti voi conoscete, perché risulta da sentenze passate in giudicato. Anche nella sentenza della corte di assise di Firenze sono fatti quei nomi e sono i nomi di Silvio Berlusconi e di Marcello Dell'Utri come i soggetti con i quali Giuseppe Graviano aveva stipulato un accordo che gli consentiva, il 20 gennaio 1994, di prevedere che si erano messi il Paese in mano, cosa che poi, in realtà, rispetto ai desiderata di Giuseppe Graviano naufragò il 27 gennaio con l'arresto dei fratelli Graviano a Milano.
  La cosa forse più significativa è che della presenza di soggetti estranei a cosa nostra, concorrenti di cosa nostra per le stragi del 1992 e per la strage di via D'Amelio in particolare, ci sono risultanze che riguardano proprio la fase esecutiva.
  Gaspare Spatuzza ha riferito all'autorità giudiziaria, in modo particolarmente dovizioso di dettagli, del personaggio sicuramente estraneo a cosa nostra che era presente al momento in cui, sabato 18 luglio 1992, la Fiat 126 utilizzata per la strage il pomeriggio successivo veniva imbottita di esplosivo.
  A quella fase delicatissima della esecuzione, dei preparativi per la strage, era presente un soggetto estraneo a cosa nostra. L'autorità giudiziaria ha cercato di procedere a una individuazione mediante riconoscimenti che Gaspare Spatuzza provò a fare. Lo fece in forma solo dubitativa. Indicò solo con grado di possibilità e neanche di probabilità un soggetto che era funzionario del SISDE, l'allora vice capo del SISDE di Palermo. Peraltro, in quell'occasione, nel momento in cui Spatuzza rese quelle dichiarazioni si verificò un problema serio sulla tutela della posizione del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, che vide sostanzialmente un conflitto fra il potere esecutivo e la Direzione nazionale antimafia, perché, proprio dopo quelle dichiarazioni, a Gaspare Spatuzza, con delibera della Commissione centrale ex articolo 10, legge n. 82/1991, non furono assegnate inizialmente le misure di protezione che poi, per fortuna, furono assegnate. Se non ricordo male, anche dopo un annullamento in sede di giustizia amministrativa del provvedimento, perché era palesemente illegittimo, furono poi, per fortuna, assegnate.
  Oltre a questo, vanno riferite anche delle altre circostanze che riguardano perfino le ultime cognizioni che Paolo Borsellino ebbe circa i pericoli che egli correva. A partire dal 2009, come sapete, la vedova Agnese Borsellino riferì all'autorità giudiziaria tutto quello che aveva appreso nelle ultime settimane di vita e in particolar modo dopo la strage di Capaci e segnalò un dato che, a mio modo di vedere, è rilevantissimo: Paolo Pag. 7Borsellino, la sera, quando era Palermo e si trovava a casa sua, intimava, mi viene da dire, sollecitava fortemente la moglie ad abbassare le serrande della camera da letto per impedire – queste furono le parole di Paolo Borsellino – «di poter essere controllato dal Castello Utveggio».
  Come a tutti voi è noto, il Castello Utveggio è una struttura originariamente residenziale, che si trova sulle alture del Monte Pellegrino, che sovrastano peraltro anche la zona di via D'Amelio. In quel momento, il 19 luglio del 1992, era occupato da un centro di formazione per manager dipendente dalla Regione Siciliana, il cui nome era CERISDI, che aveva una peculiare caratteristica, anzi direi due. La prima, che il dirigente di quel centro era l'ex capo dell'Alto Commissariato antimafia. Fra le competenze che io conosco ordinamentali che aveva l'Alto Commissariato antimafia non credo che ci fossero specializzazioni in materia di formazione manageriale.
  La seconda caratteristica, rilevantissima, che io conosco bene, perché riguarda uno degli imputati dell'omicidio del poliziotto Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, è che con le utenze telefoniche del CERISDI al Castello Utveggio risultò in contatto telefonico il mafioso, uomo d'onore della famiglia dell'Arenella, mandamento di Resuttana, Gaetano Scotto, oggi imputato per il duplice omicidio Agostino-Castelluccio.
  C'è un altro dato, che è forse il più preoccupante, ed è registrato anche questo nella sentenza del processo Borsellino quater, dove invano abbiamo sentito – nel senso che le parti hanno esaminato – due persone, che si chiamano Mario Santo Di Matteo, noto collaboratore di giustizia, e la ex moglie Francesca Castellese, ovverosia i genitori del piccolo Giuseppe Di Matteo, sequestrato all'età di dodici anni a novembre 1993 e purtroppo finito con una delle morti peggiori che si conoscano.
  A novembre 1993 Santino Di Matteo collaborava da un mese con la giustizia, aveva fatto le sue rivelazioni sulla strage di Capaci, essendo esecutore materiale della strage di Capaci, e aveva consentito l'emissione di una ordinanza di custodia cautelare sulla strage di Capaci. Dieci giorni dopo l'esecuzione di quella misura ci fu il sequestro del bambino. Di Matteo si trovava sotto protezione, chiese un incontro con la mamma del bambino, come è comprensibile, e quell'incontro fu registrato, perché fu celebrato in una caserma ed era stata disposta l'intercettazione ambientale per quell'incontro. In quella occasione la cosa a mio modo di vedere sconvolgente è che la mamma del bambino che era stato sequestrato da cosa nostra in quanto figlio del collaboratore di giustizia, anziché rivolgere le proprie preoccupazioni alle dichiarazioni che Santino Di Matteo aveva già reso sulla strage di Capaci e che avevano portato alle misure cautelari nei confronti di numerosi uomini d'onore, si premurò di supplicare il marito di tacere su una evenienza, che non riguarda la strage di Capaci. Testualmente le parole di Francesca Castellese al marito furono: «Non parlare dei poliziotti infiltrati nella strage Borsellino».
  Capite che il grado di genuinità di una mamma che cerca di fare di tutto per salvare il figlio è facilmente valutabile da ognuno di voi e secondo i canoni che vengono utilizzati nella valutazione delle prove in un giudizio penale naturalmente è facile comprendere il rilievo di quelle parole.
  Su quelle parole l'autorità giudiziaria ha cercato di scavare, senonché si è imbattuta in un muro di assoluto silenzio, di omertà terrorizzata – mi viene da dire – da parte sia di Santino Di Matteo sia di Francesca Castellese. Nessuno dei due ha mai voluto fare alcuna chiarezza. Hanno perfino negato che quelle parole fossero state pronunciate davanti a delle registrazioni, che sono la prova materiale di quelle parole.
  Questi sono gli approdi probatori in sede giudiziaria, i più rilevanti, a mio modo di vedere, circa la presenza di concorrenti che insieme a cosa nostra abbiano partecipato, in fase ideativa, in fase deliberativa o addirittura in fase esecutiva, alla strage di via D'Amelio.
  La circostanza, peraltro, proprio per quello che ho detto, si lega al tema della Pag. 8seconda domanda, che riguarda le nuove rivelazioni, rese a partire dal 31 gennaio 2020, da Maurizio Avola. Sul punto devo segnalare due cose. La prima è che c'è un'indagine in corso presso la procura di Caltanissetta, a seguito di un'ordinanza del GIP che rigettò una richiesta di archiviazione, indagine fondata sulle dichiarazioni di Maurizio Avola, nel tentativo di comprendere il grado di astratta, molto astratta, anche solo semplice verosimiglianza del racconto di Avola. In contemporanea, la procura di Caltanissetta sta procedendo nei confronti di Avola e del suo difensore per il delitto di calunnia proprio per le stesse dichiarazioni relative alla strage di via D'Amelio. Il fatto che ci siano due procedimenti in corso, che è un dato non segreto, perché è noto per il deposito degli atti che c'è stato, mi ha consentito di fare riferimento al fatto dell'esistenza dei procedimenti.
  Per rispondere nel dettaglio, è necessario che io chieda di procedere con la forma della segretezza.

  PRESIDENTE. Lo teniamo alla fine.

  FABIO REPICI, legale di Salvatore Borsellino. Va bene.
  L'incontro del tardo pomeriggio del 18 luglio 1992 all'Hotel Astoria Palace di Paolo Borsellino con il suo collega più giovane David Monti. David Monti è un magistrato che è stato sentito come testimone nel processo Borsellino bis e riferì di questo incontro che ebbe, proprio meno di ventiquattro ore prima della strage di via D'Amelio, con Paolo Borsellino. Effettivamente David Monti è un magistrato che con Paolo Borsellino era entrato in un rapporto di una certa confidenzialità, anche per comune militanza correntizia. Erano nella stessa corrente di Magistratura Indipendente. Infatti, venti giorni prima, a fine giugno 1992, Paolo Borsellino era stato in Puglia, a Giovinazzo, proprio per partecipare a un congresso di Magistratura Indipendente, e anche lì si era trovato con David Monti.
  David Monti, il 18 luglio, andò a Palermo e i due si incontrarono intorno alle 20. David Monti ha riferito il contenuto della conversazione avuta nel processo Borsellino bis ed effettivamente ha fatto riferimento a tre circostanze principali, meritevoli di attenzione nelle parole rivoltegli da Paolo Borsellino. La prima era che effettivamente alla procura di Palermo in quel momento Paolo Borsellino segnalava, denunciava alle orecchie del collega l'esistenza di una spaccatura, una spaccatura della quale riteneva responsabile il procuratore Giammanco. Addebitava a Giammanco non solo una generale mala gestio dell'ufficio, ma anche, fin da anni precedenti, un trattamento persecutorio che Giammanco aveva riservato all'allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone, negli ultimi due anni di presenza di Falcone alla procura di Palermo, prima di accettare l'incarico alla Direzione degli affari penali presso il Ministero di grazia e giustizia.
  Nell'occasione, Borsellino spiegò a David Monti che Giammanco, anche dopo aver marginalizzato Giovanni Falcone e averlo sostanzialmente costretto ad andare via dalla procura di Palermo, aveva continuato a condurre l'ufficio requirente palermitano in modalità non apprezzate da Paolo Borsellino. Paolo Borsellino segnalò di avere un carattere diverso da Giovanni Falcone e, quindi, di preferire, anziché arrivare allo scontro, cercare di raggiungere risultati utili. Spiegò che la cosa che gli premeva di più in quel momento era cercare elementi di ricostruzione sulla strage di Capaci. Segnalò al collega che, seppure Giammanco gli creasse problemi, lui, anche operando sulla provincia o dalla provincia, tanto avrebbe fatto che sarebbe riuscito comunque a ottenere elementi sulla strage di Capaci. Segnalò, poi, che proprio in quel momento – siamo al 18 luglio 1992 – la procura di Palermo era segnata – queste sono le parole usate da David Monti – da una «spaccatura verticale», di cui era responsabile il procuratore Giammanco. Con questa espressione mi viene facile richiamare alla memoria quelle che erano state le ultime settimane di lavoro di Paolo Borsellino alla procura di Palermo, gli scontri con Giammanco, il quasi controllo che, attraverso un procuratore aggiunto, GiammancoPag. 9 cercava di fare sull'attività di Paolo Borsellino nel momento in cui aveva iniziato a collaborare Gaspare Mutolo, le resistenze a che Paolo Borsellino si occupasse delle vicende di Palermo e, infine, la spaccatura che si formalizzò immediatamente dopo la strage di via D'Amelio, che è a tutti nota.
  Quanto a Mori e De Donno e al loro incontro del 25 giugno 1992 con Paolo Borsellino alla caserma «G. Carini», io ho già riferito sull'oggetto di quell'incontro e nella ricostruzione più verosimile propendo per accreditare le parole dell'unico testimone disinteressato che era presente, ossia l'allora maresciallo Canale, che riferì che l'incontro era stato voluto da Paolo Borsellino perché cercava di capire se fosse stato il capitano De Donno il redattore di quell'inquietante documento anonimo, passato convenzionalmente alla storia come il documento del «Corvo bis».
  È certa una cosa: il generale Mori e il capitano De Donno per anni mantennero il silenzio su quell'incontro. La cosa ha un rilievo madornale, ai miei occhi, per un fatto. Sicuramente il 25 giugno 1992 i vertici del ROS avevano già avviato l'interlocuzione con Vito Ciancimino. Dietro incarico dell'allora colonnello Mori, il capitano Giuseppe De Donno aveva agganciato il figlio di Vito Ciancimino durante un viaggio e avviata quella interlocuzione, che poi gli stessi Mori e De Donno, soprattutto il secondo, davanti ai giudici di Firenze chiamarono «trattativa». Utilizzarono proprio questo termine.
  Il punto è che di quell'incontro per anni i due tacquero davanti all'autorità giudiziaria. Tacquero davanti all'autorità giudiziaria, ma soprattutto a Paolo Borsellino tacquero della trattativa avviata con Vito Ciancimino, emissario di Totò Riina e Bernardo Provenzano.
  Perché la questione è molto rilevante? Per due motivi. Il primo è che noi sappiamo per certo che analogo riserbo Mori e De Donno non mantennero con esponenti politici, anzi direi con esponenti del Governo. Noi sappiamo, infatti, in quanto lo ha testimoniato davanti ai giudici l'allora direttrice generale degli affari penali, dottoressa Ferraro, cioè il magistrato che succedette a Giovanni Falcone in quel ruolo dopo la strage di Capaci, che il 28 giugno ella informò il dottor Borsellino, incontrandolo all'aeroporto di Fiumicino, che aveva appreso dal capitano De Donno, mandatole dal colonnello Mori, che i due avevano avviato una trattativa con Vito Ciancimino. Vi lascio immaginare quale possa essere stata la reazione intima di Paolo Borsellino. Sappiamo di quella ufficiale. La dottoressa Ferraro ha riferito che Paolo Borsellino le disse molto sbrigativamente: «non ti preoccupare, me la vedo io». Il punto è che, però, Paolo Borsellino aveva incontrato quei due ufficiali dell'Arma tre giorni prima e tre giorni prima quei due ufficiali dell'Arma una cosa di dimensioni colossali, quali l'avvio di un confronto con l'emissario del capo di cosa nostra, l'avevano taciuta.
  Lo stesso difetto di riserbo, perché il riserbo l'hanno mantenuto solo con Paolo Borsellino, la stessa apertura confidenziale il generale Mori e il capitano De Donno la tennero anche con altri esponenti, con la segretaria generale della Presidenza del Consiglio di allora, l'avvocata Fernanda Contri, con l'allora presidente della Commissione parlamentare antimafia, onorevole Luciano Violante. C'è traccia perfino, dall'agenda di Mario Mori, che anche con un altro esponente politico, l'allora credo deputato onorevole Pietro Folena, ebbe degli incontri, nei quali Mori faceva degli aggiornamenti sulle attività che svolgeva.
  Questo lo dico per dire che l'unico soggetto che fu destinatario del silenzio, che definirei omertoso, perché non so come definirlo in altro modo, fu proprio Paolo Borsellino. È come se nell'atteggiamento di Mori e De Donno ci fosse una ragione – e vorrei che la spiegassero – per cui a Borsellino doveva essere tenuta nascosta l'interlocuzione avviata con l'emissario di cosa nostra.
  Per via deduttiva a me è facile comprendere quale sia il motivo del silenzio davanti a Paolo Borsellino, perché io non oso immaginare quale sarebbe stata la reazione di un magistrato in generale e di Paolo Borsellino in particolare davanti a degli ufficialiPag. 10 dei carabinieri che gli dicono: «per risolvere il problema perché bisogna fare questo muro contro muro» – sono le parole utilizzate da Mario Mori in una deposizione a Firenze – «con cosa nostra (le parole rivolte a Vito Ciancimino)? Vediamo di trovare un accordo».
  Non do neanche io la risposta, invito voi a rispondere. Quale sarebbe stata la risposta di Paolo Borsellino all'evocazione di un accordo con Totò Riina e Bernardo Provenzano? Perché di quello si trattava. Lo hanno detto quegli ufficiali dei carabinieri.
  Questo spiega il motivo per cui per molti anni Mori e De Donno tacquero davanti all'autorità giudiziaria, perché era difficilmente giustificabile sia il loro comportamento, sia il loro silenzio tenuto nei confronti di Paolo Borsellino. Tanto che, quando resuscitò il discorso dell'incontro con Paolo Borsellino del 25 giugno 1992 e la teorizzazione, che io continuo a definire della «pista palestinese», del rapporto mafia e appalti quale ipotetica causale della strage di via D'Amelio, a ottobre 1997 De Donno fu convocato dalla procura di Palermo e gli fu chiesto di spiegare ciò che aveva fatto il ROS intorno a quel rapporto, intorno a quell'indagine e intorno ai rapporti non perfettamente piani con un altro emissario di cosa nostra, a nome Angelo Siino, che aveva appena cominciato a collaborare con la giustizia e che aveva rivelato alla procura di Palermo la possibilità che, anche attraverso esponenti dell'Arma dei carabinieri vicini a Mori e De Donno e al ROS, cosa nostra aveva avuto informazioni sul dossier mafia e appalti.
  Infine, c'è la domanda sull'accelerazione. Questo è un dato documentato e accertato nella sentenza del processo «Borsellino quater» da plurime fonti di prova. È certo che l'accelerazione che portò all'esecuzione nei tempi più immediati possibili è avvenuta fra gli ultimi giorni di giugno e i primi giorni di luglio 1992, quindi sicuramente dopo che era stata avviata l'interlocuzione fra i vertici del ROS e cosa nostra attraverso Vito Ciancimino. Questo, peraltro, è confermato anche, da altra parte, da un dato che riguarda proprio la fase esecutiva del delitto. Basta registrare le dichiarazioni rese da Gaspare Spatuzza a proposito del momento in cui Giuseppe Graviano gli chiese di procurare l'auto, la famosa Fiat 126 rubata, che fu utilizzata per la strage. Quella richiesta venne fatta a Gaspare Spatuzza nella prima decade di luglio 1992, esattamente in conseguenza di quanto vi avevo detto.
  Vi aggiungo che è noto e processualmente accertato che in quel periodo uno degli obiettivi di cosa nostra, del programma di rappresaglia vagamente deliberato dai vertici di cosa nostra, era un attentato che era stato progettato ai danni dell'onorevole Calogero Mannino. La responsabilità dell'attuazione di quell'attentato era stata affidata a Giovanni Brusca. Non più di una settimana prima della strage di via D'Amelio, Totò Riina revocò quell'incarico a Giovanni Brusca.
  Sono tutti elementi di fatto, comprovati, che impongono di dedurre che l'accelerazione che portò al compimento della strage di via D'Amelio è sicuramente successiva al 25 giugno 1992.

  PRESIDENTE. Grazie, avvocato. Solo un richiamo al rispetto dei tempi, per quanto possibile. Non voglio interrompere nessuno, ma se ogni domanda e ogni risposta alla domanda dura 35 minuti, ci vedo in difficoltà. Peraltro, alcune cose erano sicuramente già emerse nella sua audizione.
  Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  RAOUL RUSSO. Signor presidente, vorrei rivolgere delle domande al dottor Borsellino, se è collegato.

  SALVATORE BORSELLINO(intervento da remoto). Sono collegato.

  RAOUL RUSSO. Grazie, dottor Borsellino. Volevo rivolgere alcune domande relativamente alla situazione del dottor Borsellino dal punto di vista lavorativo, nel contesto della procura di Palermo. In particolare, se avesse ricevuto confidenze sulle difficoltà che incontrava in quella procura tanto - e le chiedo anche il motivo - da Pag. 11arrivare a dire che era un «covo di vipere». Inoltre, se lei mi sa indicare, a questo punto, quali erano i magistrati di cui lui in qualche modo si fidava e quelli di cui non si fidava, se le faceva queste confidenze, naturalmente. E se, dopo la strage di Capaci, abbia avuto modo e tempo di fare delle confidenze sui pericoli che temeva per la sua persona, per la sua incolumità, dopo quell'evento così tragico.

  SALVATORE BORSELLINO(intervento da remoto). Guardi, mio fratello usava parlare molto poco del suo lavoro. Era molto riservato sul suo lavoro. Gli unici accenni che mi fece furono relativi al suo contrasto proprio con il procuratore Pietro Giammanco. Non mi parlò mai, non ebbi mai occasione di parlare con lui di altri magistrati, a parte Giovanni Falcone, ovviamente, che gli erano particolarmente vicini. Non mi fece mai queste confidenze.
  Dopo la strage di Capaci, sicuramente mio fratello sapeva che sarebbe toccato a lui. Era una cosa di cui era assolutamente certo. Addirittura, aveva degli atteggiamenti con i figli: cercava di allontanarsi effettivamente da loro per abituarli a quella che sarebbe stata la sua assenza. Sicuramente, quindi, mio fratello era consapevole di quello che rischiava.
  Quello che posso dire è che gli telefonai il venerdì prima che lo uccidessero per chiedergli di andare via da Palermo. Sapevo che cosa rischiava restando a Palermo e gli chiesi di andare via da Palermo. Mio fratello si alterò rispondendomi. Mi rispose: «Io non accetterò mai di fuggire. Io presterò fino all'ultimo fede al giuramento che ho fatto allo Stato».
  Queste sono le cose che posso riferire relativamente ai colloqui con mio fratello.
  Ripeto, mio fratello, per quanto riguarda il suo lavoro, era molto riservato. Assolutamente riservato.

  GIANLUCA CANTALAMESSA. Signor presidente, tre domande veloci per il dottor Borsellino, che saluto e ringrazio.
  Prima domanda. Per quali motivi lei e i suoi nipoti, i fratelli Gatani, dopo esservi costituiti parte civile nel processo contro Matteo Messina Denaro, avete ritenuto di non presentare le conclusioni nel processo, revocando la costituzione della parte civile?
  Seconda domanda. Per quali motivi avete ritenuto di non impugnare la sentenza di assoluzione, quindi di non dover procedere nei confronti dei poliziotti Bo, Mattei e Ribaudo, imputati del depistaggio delle indagini su via D'Amelio?
  Terza domanda, più generica. Quando è venuto a conoscenza dell'agenda rossa di suo fratello e della sua sparizione e ha mai visto suo fratello annotare qualcosa su di essa?
  Grazie.

  SALVATORE BORSELLINO(intervento da remoto). Per quanto riguarda le prime due domande, a me non risulta di aver revocato la mia costituzione di parte civile. All'interno di questi processi mi sono completamente affidato all'avvocato Repici, di cui ho piena fiducia. Eventualmente, lascio a lui di sostituirmi in questa risposta.
  Per quanto riguarda l'agenda rossa, sicuramente l'ho vista più volte, anche se non direttamente. Io vidi l'ultima volta mio fratello a capodanno del 1992. Poi non avemmo più occasione di incontrarci, quindi non ebbi più occasione di vedere lui scrivere qualcosa nell'agenda rossa. Però ho notato quell'agenda rossa in molte sue interviste, ho visto che l'aveva in mano. Da confidenze con persone come Gaspare Mutolo, che ebbe gli ultimi incontri con Paolo Borsellino, mi è stato testimoniato che su quell'agenda rossa Paolo annotava regolarmente tutto quello che succedeva. Mi è stato anche riferito della sua particolare cura nel non far vedere ai suoi familiari quell'agenda, che custodiva gelosamente, e di quella che era stata la sua agitazione quando, mentre si trovava in Puglia, uscendo dall'albergo, si era accorto di non avere l'agenda in mano. Aveva fatto di tutto per ritornare precipitosamente e cercare quell'agenda. Aveva una grandissima cura per quell'agenda e sicuramente la utilizzava per scrivere tutto quello che non poteva essere verbalizzato nei colloqui che aveva con collaboratori di giustizia e con altri Pag. 12elementi per quanto riguardava la sua indagine.

  PRESIDENTE. Prego, avvocato, se vuole completare.

  FABIO REPICI, legale di Salvatore Borsellino. La questione relativa al mancato appello della sentenza di proscioglimento per prescrizione nei confronti degli imputati Bo e Ribaudo e all'assoluzione per non aver commesso il fatto nei confronti dell'imputato Mattei, in realtà, pecca di mancata conoscenza delle questioni giuridiche con le quali è regolato il processo.
  Dopo il deposito della sentenza di primo grado, Salvatore Borsellino e i figli di Adele Borsellino, il cui cognome è Gatani, erano costituiti parte civile e sono costituiti parte civile a mezzo della mia assistenza, abbiamo ricevuto la notifica dell'atto di appello ritualmente proposto dalla procura della Repubblica. L'appello proposto dal pubblico ministero vale anche sugli effetti civili nel caso di sentenza di assoluzione in primo grado, tanto che oggi è in corso il giudizio d'appello e il sottoscritto il mese scorso ha partecipato all'udienza di quel processo.
  Sia Salvatore Borsellino sia i figli di Adele Borsellino mi hanno dato un mandato difensivo semplicemente finalizzato a una cosa: la ricerca della verità e l'ottenimento della verità e della giustizia, non quello di mettere il marchio o fare iniziative che non hanno alcun rilievo concreto, non hanno alcun effetto concreto, ma possano valere come formalismo puro, mettiamola in questi termini, volendo essere diplomatici. Avendo noi ricevuto la notifica dell'appello della procura della Repubblica, sapevamo che ci sarebbe stato il secondo grado di giudizio, al quale avremmo partecipato, come effettivamente stiamo partecipando.
  Quanto alla costituzione di parte civile nel processo contro Matteo Messina Denaro, anche lì, come già ha detto Salvatore Borsellino, non c'è stata nessuna revoca della costituzione di parte civile. Sono accadute varie cose delle quali bisogna tenere conto nella valutazione delle cose pratiche, sia della vita sia dei processi.

  GIANLUCA CANTALAMESSA. Chiedo scusa, per essere chiaro. Non vorrei che prima le parole abbiano tradito il pensiero. Non il discorso della revoca della costituzione, la revoca della costituzione sarebbe una conseguenza del non aver presentato le conclusioni nel processo. Questa era la domanda.

  FABIO REPICI, legale di Salvatore Borsellino. Anche questa domanda pecca, in questo caso, non di scarsa conoscenza di questioni giuridiche, ma di scarsa conoscenza proprio dei fatti processuali. Posso segnalarle che ho ricevuto la notifica della fissazione del giudizio di appello e ho ricevuto anche la notifica della fissazione del giudizio innanzi alla Corte di cassazione.
  Stavo dicendo un'altra cosa, più pratica. Quel processo si aprì in contemporanea al processo Borsellino quater. Noi abbiamo avuto la fortuna di poter celebrare il processo Borsellino quater davanti alla corte più attrezzata che potessimo trovare. Proprio grazie alla possibilità di celebrare quel processo, si sono ottenuti i risultati che sono certificati nella sentenza della corte d'assise di Caltanissetta, presidente Balsamo, che è passata in giudicato quasi integralmente in sede di giudizi di impugnazione.
  Contemporaneamente, partì il processo a carico di Matteo Messina Denaro. Quel processo aveva due caratteristiche che indusse me a consigliare ai miei assistiti di indirizzare tutti i nostri sforzi nel processo Borsellino quater. I motivi erano duplici. Il primo. Le segnalo una circostanza, cioè la norma, l'articolo 419-bis, che era in vigore al momento dell'apertura del processo a carico di Matteo Messina Denaro. Noi viviamo in una dimensione pubblica, nel commento delle vicende giudiziarie, nella quale, giustamente, spesso si sollecita a fare applicazione garantista delle norme in tutti i processi. Naturalmente, il garantismo vale non secondo il nome dell'imputato. La legge è uguale per tutti. È scritto dietro le spalle dei giudici. Matteo Messina Denaro, all'inizio di quel processo, come tutti sappiamo, era latitante. È stato arrestato non molti mesi prima di morire, quando già la sentenza di primo grado era stata emessa e Pag. 13stava per concludersi il processo di secondo grado. La cosa che mi lasciò turbato è che non ci si accorse che era impossibile dimostrare, come la legge imponeva, che l'imputato Matteo Messina Denaro avesse avuto conoscenza dell'avvio del processo.
  Questa cosa la riferisco non per amore di formalismo, che non ho per nulla, ma per una circostanza che è comprovata da ciò che, poi, dirò sul depistaggio che ha il nome di Maurizio Avola. Il depistaggio che ha il nome di Maurizio Avola ha trovato l'avvio ad aprile del 2019 proprio nel processo a carico di Matteo Messina Denaro, innanzi a quella corte d'assise che esaminò, in un'aula bunker di Firenze, Maurizio Avola.
  Io, sarà che sono malpensante, sarà che, magari, ho un minimo di sensibilità in più rispetto ad altri operatori processuali, mi accorsi di quella anomalia dovuta al fatto che giudici, pubblici ministeri e addirittura difensori dell'imputato non si accorgevano di un evidente difetto di procedibilità. In contemporanea alla celebrazione del processo a carico di Matteo Messina Denaro per le stragi a Caltanissetta, fu avviato un processo innanzi all'autorità giudiziaria di Palermo, perché l'articolo 112 della Costituzione prevede che l'esercizio dell'azione penale è obbligatorio. Quindi, anche in presenza del 419-bis, naturalmente la richiesta di rinvio a giudizio va fatta. Solo che il 419-bis impone al giudice di verificare se l'imputato ha avuto contezza dell'avvio del procedimento. Se questa prova non c'è e non ci sono prove di notifiche effettuate, il processo deve essere sospeso.
  Infatti, in contemporanea, mentre Matteo Messina Denaro veniva processato a Caltanissetta, il GUP di Palermo in un processo per associazione mafiosa – naturalmente i processi per le stragi non si celebrano a Palermo per ragioni di competenza funzionale ex articolo 11 – sospese il giudizio. Quel giudizio sospeso fu riavviato dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, perché al momento della cattura di Matteo Messina Denaro gli furono notificate tutte le ordinanze di custodia cautelare e tutte le ordinanze di esecuzione pena – penso una carrettata – che aveva accumulato nel corso di trent'anni di latitanza.
  Quella anomalia messa insieme a ciò che è accaduto come fatto materiale, vale a dire che quel processo è stato utilizzato da qualcuno come il palco sul quale costruire ulteriori depistaggi, mi ha indotto a suggerire al fratello di Paolo Borsellino di osservare dall'esterno, senza partecipare a quel processo, che rischiava di diventare una palestra di depistaggi. Purtroppo, mi viene da dire spiacevolmente, quella previsione poi ebbe conferma.
  In questo senso io, che avevo molti dubbi, come è naturale – qualunque scelta si fa e qualunque suggerimento si dà a un cliente si vive sempre nel dubbio, l'avvocato per forza di cose vive nel dubbio – quando ho visto accadere ciò che è accaduto, ho detto: «Ho fatto bene».

  GIANLUCA CANTALAMESSA. Giusto per chiarire. Non sono un avvocato, sono un dottore commercialista, ma ho l'onore di far parte di questa Commissione da sette anni, quindi prima di fare le domande normalmente mi informo. Ebbene, leggo che la parte civile può proporre impugnazione contro i capi della sentenza di condanna che riguarda l'azione civile 538, 541 e 600 ai soli effetti della responsabilità civile contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio.
  Questo semplicemente per dire che mi sembra più una scelta processuale legittimissima, ma non solo, che obbligata.
  Grazie.

  FABIO REPICI, legale di Salvatore Borsellino. Mi perdoni, presidente. C'è un corredo. Naturalmente se la procura della Repubblica non appella una sentenza in assoluzione, la parte civile che vuole insistere nella richiesta risarcitoria deve proporre appello ai fini civili. Ma se l'impugnazione viene proposta dalla procura della Repubblica, il processo va tutto in secondo grado, sia le questioni penali, sia le questioni civili, che sono il corredo di quelle penali, perché io non potrò mai ottenere la condanna a un risarcimento se non viene accertata la responsabilità penale. Se la Pag. 14procura recede dall'azione non impugnando, a quel punto io dovrò proseguire nell'azione civile nell'unico modo, che è quello di impugnare ai fini civili la sentenza.
  L'appello della procura della Repubblica di Caltanissetta valeva anche per noi e questo avrebbe indotto la proposizione di un appello solo ai fini civili a semplicemente una duplicazione dello stesso atto.

  PRESIDENTE. Io non credo che volesse essere un attacco all'avvocato. Era per capire, in quanto agli atti della Commissione...

  FABIO REPICI, legale di Salvatore Borsellino. Volevo spiegare.

  PRESIDENTE. Agli atti della Commissione risulta che le altre parti l'hanno fatto, quindi credo che la domanda sia legittima, senza adesso voler entrare in un dibattito.

  GIORGIO SALVITTI. Dalle sentenze di assoluzione in riferimento a Mario Mori e Mauro Obinu emerge, in quanto riferito da più testimoni, che Agnese Borsellino chiese al pubblico ministero Cardella di lavorare con il ROS per le indagini sulla strage di via D'Amelio. Perciò, il ROS svolse alcune indagini sui mandanti esterni, come emerso dal processo «trattativa Stato-mafia». Emerge che addirittura chiese la presenza dello stesso ROS alla perquisizione dello studio del dottor Borsellino, che venne eseguita dal personale della squadra mobile. Come si conciliano queste circostanze secondo lei – le chiedo un suo parere – con l'opinione che avrebbe dovuto avere a quell'epoca la signora Borsellino su Subranni, avendo ricevuto le confidenze del marito?
  Grazie.

  FABIO REPICI, legale di Salvatore Borsellino. Senatore, le rispondo con franca cordialità. Il dottor Cardella era un pubblico ministero, quindi naturalmente non riceveva deleghe dalla signora Borsellino, ma operava esattamente per come riteneva doveroso operare. Segnalo che il dottor Cardella arrivò a Caltanissetta in applicazione extradistrettuale credo nel mese di ottobre 1992, quando le perquisizioni presso l'ufficio del dottor Borsellino si erano già verificate.
  Presidente, a tal proposito voglio ringraziare la Commissione antimafia e lei personalmente, perché solo nelle ultime settimane, dopo aver fatto richieste varie a colleghi, sono riuscito finalmente ad avere copia dei decreti di perquisizione e di acquisizione eseguiti sia presso la casa, sia presso l'ufficio del dottor Paolo Borsellino. Questa è una cosa molto importante. Quindi, poiché li avete acquisiti voi, lei sa bene che quegli atti furono eseguiti nella tarda sera del 19 luglio 1992, immagino che poi si proseguì in data 20, perché penso che si superò la mezzanotte, e naturalmente risulta che li ha fatti, e naturalmente non c'era il ROS.
  Io qui richiamo non le parole di Agnese Borsellino, fermo restando quello che proprio sento come dovere civico, io ho deferenza assoluta per le parole di quella donna, ma induco o chiedo alla Commissione di prestare la doverosa attenzione alle parole rese da Lucia Borsellino e Manfredi Borsellino, figli di Paolo Borsellino, deponendo come testimoni innanzi alla corte d'assise di Caltanissetta al processo Borsellino quater.
  Qui devo menare un vanto. Mi perdoni la caduta di gusto. In tanti si lamentano di mancate testimonianze nei processi per la strage di via D'Amelio. Quando io ricevetti incarico da Salvatore Borsellino nel processo Borsellino quater, che fu il primo processo per la strage di via D'Amelio al quale ho partecipato, insieme al mio cliente, che mi onoro di rappresentare, Salvatore Borsellino, ci siamo presi cura di indicare nella lista testimoniale e di convocare davanti alla corte d'assise tutti i testimoni vivi che potessero riferire. Questo per dire che, se il dottor Giovanni Tinebra è stato sentito come testimone innanzi alla corte di assise di Caltanissetta, lo si deve grazie alla parte civile Salvatore Borsellino. Se il procuratore Pietro Giammanco è stato citato come testimone innanzi alla corte d'assise di Caltanissetta, lo si deve alla parte civile Salvatore Borsellino. Poi, in corso di dibattimento le condizioni di salute di GiammancoPag. 15 si deteriorarono, per cui non poté testimoniare. Ma naturalmente la parte civile Salvatore Borsellino anche alla salute dei testimoni non poteva in nessun modo prestare alcun beneficio.
  Lucia e Manfredi Borsellino io ho avuto l'onore di convocarli come testimoni al processo Borsellino quater. Non avevano mai testimoniato nel processo sulla strage di via D'Amelio, mai! Neanche i loro avvocati li avevano mai indicati come testimoni, neanche nel processo «Borsellino quater». Perché li convocai? Perché era successo un fatto, che ho già riferito, che a me lasciò parecchio sgomento: la reazione del generale Subranni, il 10 marzo 2012, a commento delle parole di Agnese Borsellino riportate nella misura cautelare del procedimento Borsellino quater. Le parole le conosciamo, «Subranni punciutu», la reazione di Subranni la conosciamo.
  Convocai come testimoni Lucia e Manfredi Borsellino e Lucia e Manfredi Borsellino riferirono due dati rilevantissimi. Il primo è che la mamma, subito dopo la strage e per lunghi anni, la principale premura che aveva avuto era tutelare la sicurezza dei suoi figli, come chiunque di noi avrebbe fatto. Come si può pensarla diversamente? Solo nel 2009, quando la signora Agnese Borsellino aveva pensato che ormai tutti i doveri di mamma li aveva abbondantissimamente messi in pratica, ritenne doveroso – penso che l'Italia non la ringrazierà mai abbastanza – riferire ai magistrati, dei quali si fidava, tutto ciò che le aveva confidato nelle ultime settimane di vita suo marito. Il Castello Utveggio lo abbiamo appreso da Agnese Borsellino. Il «Subranni punciutu» l'abbiamo appreso da Agnese Borsellino. La trattativa in corso fra parti infedeli dello Stato e cosa nostra l'abbiamo appresa da Agnese Borsellino. L'aria di morte respirata da Paolo Borsellino non a vicolo Pipitone, ma al Palazzo del Viminale l'abbiamo appreso da Agnese Borsellino.
  La seconda cosa che dissero all'unisono Lucia e Manfredi Borsellino è che la mamma non solo aveva detto, come è ovvio a tutti, la verità, ma era la persona più lucida dei familiari di Paolo Borsellino nel raccontare quelle cose.
  La terza cosa fu la reazione morale, ben comprensibile, di Lucia e Manfredi Borsellino alle parole infami pronunciate dal signor Antonio Subranni nell'occasione.
  Questo mi porta a dire che non si può in alcun modo dubitare delle parole di Agnese Borsellino.
  Vi segnalo una circostanza, e chiedo scusa al senatore Scarpinato, perché c'era una cosa che avrei dovuto aggiungere nella risposta su David Monti in occasione del suo incontro con Paolo Borsellino. Noi sappiamo che la settimana precedente, l'11 luglio 1992, Paolo Borsellino aveva incontrato un suo carissimo collega, il cui figlio battezzò come padrino, il dottor Diego Cavaliero. Io penso, e l'hanno detto anche i figli di Paolo Borsellino, che Diego Cavaliero fosse il magistrato al quale era più legato Paolo Borsellino al momento della sua morte. Proprio il dottor Diego Cavaliero riferì di aver appreso da Agnese Borsellino della confidenza sul generale Subranni che le era stata fatta da Paolo Borsellino e precisò: badate bene, il senso delle parole di Agnese Borsellino fu che Paolo Borsellino aveva certezza della veridicità di quelle parole.
  Poi, chiunque vuole può mettere in dubbio la lucidità e la capacità di comprensione delle cose di Paolo Borsellino o la genuinità delle parole di Agnese Borsellino. Naturalmente io mi sottraggo a questo tipo di indirizzo.

  WALTER VERINI. Signor presidente, anch'io mi associo ai ringraziamenti nei suoi confronti, ma voglio in particolare ringraziare l'avvocato Repici, voglio ringraziare Salvatore Borsellino, voglio ringraziare Gioacchino Natoli e aggiungo, anche per il contributo, sia pure in una posizione oggi diversa da quella del passato, il senatore Scarpinato, perché dopo le importantissime esposizioni dell'avvocato Trizzino e di Lucia Borsellino, le corpose esposizioni, le vostre argomentazioni, anch'esse corpose e documentate, hanno contribuito molto e in maniera molto efficace, a mio giudizio, ad allargare il quadro e a non concentrarci soltanto sul tema, importantissimo, mafia e Pag. 16appalti. Hanno contribuito e stanno contribuendo a fornire alla Commissione un quadro molto rilevante di connessioni, di legami.
  Credo che questo possa – dal punto di vista mio, naturalmente, non pretendo che sia l'opinione di tutti – riportare il nostro confronto e la nostra ricerca su binari di maggiore completezza del quadro. Se posso usare un'espressione semplificata e banale, rischiavamo di vedere l'albero e di non tenere conto della foresta.
  Rivolgo un ringraziamento a tutti coloro che fin dalla prima nostra seduta, mi riferisco anche alla figlia di Borsellino e al suo avvocato, ma soprattutto a queste vostre esposizioni, hanno contribuito ad arricchire, e di molto, il quadro.
  Mi scuserà sia la presidente che lei, avvocato, se io colgo l'occasione della sua presenza e di quella di Salvatore Borsellino per dire queste cose, soprattutto nella concomitanza involontaria del fatto che, se non sbaglio, domani ci sarà un pronunciamento della Corte di cassazione per una sorta di cosiddetto «quarto giudizio» in relazione a un ricorso degli avvocati di Cattafi. Sbaglio? È confermato? Lo dico perché sia Salvatore Borsellino che l'avvocato Repici sono stati chiamati, Borsellino come familiare della vittima e l'avvocato per assistere.
  Cattafi è stato condannato in terzo grado in Cassazione per gravissimi reati. Per capire le sue frequentazioni, le sue amicizie, e non soltanto quelle legate al procedimento in corso, si chiamavano Totò Riina, Bernardo Provenzano, Stefano Delle Chiaie, Licio Gelli, la crème de la crème delle connessioni tra mafia stragista, neofascismo, massonerie. Questo è il quadro.
  Cattafi ha avuto una condanna definitiva per gravissimi reati. Adesso i suoi avvocati hanno fatto un ricorso straordinario in Cassazione, senza che peraltro, così risulta, ci siano fatti nuovi, gravi elementi, venuti tali da richiedere una revisione. Tuttavia, questo ricorso è stato ammesso e domani la Cassazione si pronuncerà.
  I familiari, Salvatore Borsellino, Nunzia e Flora Agostino, sorelle del poliziotto Antonino, Paola Caccia, figlia del magistrato Bruno Caccia ucciso a Torino, Pasquale Campagna, fratello della diciassettenne Graziella, Roberta Gatani, nipote del magistrato Borsellino, Angela Gentile Manca, madre del medico Attilio Manca, Brizio Montinaro, fratello di Antonio, Stefano Mormile, fratello dell'educatore penitenziario Umberto, hanno rivolto un appello pubblico, un auspicio – naturalmente nessuno vuole condizionare nessuno – per fare in modo che questa già discutibile accettazione di questo ricorso non sia una «sentenza di quarto grado», come si dice, che non è previsto nel nostro ordinamento. Sarebbe uno schiaffo non solo ai familiari, ma a tutti noi.
  Colgo l'occasione della presenza del dottor Borsellino e della sua per chiederle che cosa vi aspettate alla vigilia di questa sentenza.
  Grazie.

  FABIO REPICI, legale di Salvatore Borsellino. Grazie a lei, senatore, sia per l'attenzione al fatto oggetto della domanda sia per quanto aveva detto prima. Poiché lei ha citato la vicenda mafia e appalti, c'è un'ultima cosa che io mi permetto di aggiungere, sempre ringraziando la Commissione per avermi consentito per la prima volta di leggere i documenti che si trovavano nello studio di casa e nell'ufficio di Paolo Borsellino.
  Paolo Borsellino aveva ricevuto, come processualmente accertato, copia del rapporto mafia e appalti del 16 febbraio 1991, una prima volta informalmente dall'allora capitano De Donno e una seconda volta l'aveva ricevuta formalmente dalla procura della Repubblica di Palermo, mentre egli era procuratore di Marsala. Poi era arrivato a Palermo. Segnalo, peraltro, che risulta che quel rapporto non era propriamente segreto, nel senso che la procura della Repubblica di Palermo si trovò nella necessità di trasmetterlo per competenza territoriale, per fatti non riguardanti la competenza dell'autorità giudiziaria di Palermo ad altre autorità giudiziaria. In alcuni casi, come ad esempio nel caso della procura della Repubblica di Reggio Calabria, la procura di Palermo ricevette richiesta dalla procura di Reggio Calabria di Pag. 17trasmissione di quel rapporto mafia e appalti di cui avevano, non ricordo come, credo da pubblicazioni giornalistiche, avuto contezza. Questo per dire che non era propriamente segreto il rapporto mafia e appalti. Ce l'avevano un bel po' di procure della Repubblica.
  Dopodiché, purtroppo, il 19 luglio del 1992 c'è la strage in via D'Amelio. Quando ho letto gli atti delle acquisizioni fatte presso la casa e presso l'ufficio del dottor Paolo Borsellino, visto che si sostiene, secondo me in modo del tutto infondato, che Paolo Borsellino avesse particolarmente accesa attenzione a quel rapporto negli ultimi tempi della sua vita, davo per scontato che o a casa o nel suo ufficio una copia del rapporto mafia e appalti si sarebbe trovato. Però non c'era. Poiché sicuramente non c'era neanche nella borsa e quindi non fu sottratto insieme all'agenda rossa che invece fu sottratta, poiché sono in questo molto aristotelico e adesivo al principio di realtà, do per assodato che Paolo Borsellino, nelle ultime settimane di vita, il rapporto mafia e appalti non lo trattò. Punto. Lo dico per realtà documentale.
  Dopodiché, c'è il cosiddetto «quarto grado di giudizio». Nel processo a carico di Rosario Pio Cattafi, esponente della famiglia mafiosa barcellonese, del quale peraltro avevo parlato, quindi non mi ripeto, in precedente occasione, mi sono costituito parte civile per conto di una associazione che si è costituita parte civile fin dalla udienza preliminare. Il giudizio poi fu definito con le forme del rito abbreviato. A un certo punto ho ricevuto la notifica della fissazione della udienza innanzi alla quinta Sezione penale della Corte di cassazione su un ricorso straordinario ex articolo 625-bis del codice di procedura penale. Naturalmente, con la notifica dell'avviso non mi era arrivato il ricorso straordinario e quindi non potevo sapere. Avevo letto la sentenza della Cassazione, ero parte di quel processo e non avevo mai rilevato errori di fatto.
  Per intenderci, l'errore di fatto, che sarebbe rilevabile pure d'ufficio dalla stessa Corte in una sentenza della Corte di cassazione attiene a dati oggettivi di contrasto fra la decisione assunta e dati di realtà: l'errore nel calcolo del termine di prescrizione. Il calendario è un dato oggettivo. Se si scrive che un fatto è avvenuto il 16 febbraio, mentre in realtà è provato, perfino dal capo di imputazione, che quel fatto è accaduto il 16 gennaio, è ovvio che si può procedere alla correzione dell'errore di fatto. Oppure, se il calcolo di sette anni e mezzo per il decorso della prescrizione è fatto con errore aritmetico e i giudici ne contano otto e mezzo anziché sette e mezzo, è un errore di fatto e allora va bene.
  Quando ho letto il ricorso straordinario del difensore di Cattafi, ho pensato che l'avviso che mi era stato notificato di fissazione dell'udienza fosse un refuso, un errore di fatto , perché il ricorso – che ho letto, naturalmente, e domani lo discuterò – tratta della attendibilità dei collaboratori di giustizia utilizzati come fonti di prova a carico di Rosario Cattafi. Il ricorso è fatto per capitoli e ogni capitolo ha il nome del collaboratore di giustizia che ha reso accuse nei confronti di Cattafi. È una cosa che io non avevo mai visto. Non solo non l'avevo mai vista, confido che mai più non solo io, ma nessun operatore processuale rivedrà. Eppure, nonostante questo, nonostante la norma del codice preveda che se il ricorso straordinario, cioè extra ordinem, la sentenza irrevocabile è un macigno, non si può pensare che lo Stato abbia tanta poca credibilità nel pronunciare un accertamento giudiziale definitivo da rendere facilmente possibile una non revisione per prove sopravvenute o per contrasto di giudicati o per qualunque altra ragione prevista dal codice di procedura penale, ma per errore di fatto. Se fosse così semplice l'abbattimento di una sentenza, la Corte di cassazione sarebbe più impegnata in processi per errore di fatto che in giudizi di cognizione.
  Io non l'avevo mai vista una cosa del genere. Non so come si possa ritenere che le valutazioni di una Corte sull'attendibilità, anzi le valutazioni di legittimità della Corte sull'apparato motivazionale di una sentenza di merito che aveva ritenuto attendibili le fonti di prova nei confronti di Rosario Cattafi, possano essere oggetto di valutazione sotto il profilo dell'errore di Pag. 18fatto. È una cosa clamorosa. Siccome riguarda un personaggio, come lei riferiva... Io ho consegnato, fra i documenti che ho messo a disposizione della Commissione, una informativa del GICO di Firenze del 3 aprile 1996 che documenta in modo documentale i contatti che nel corso della sua carriera criminale Rosario Cattafi ha avuto. Si tratta di Ministri, Sottosegretari, parlamentari, magistrati, funzionari dei servizi segreti, funzionari di polizia, ufficiali dell'Arma dei carabinieri, burocrati di altissimo livello, dirigenti di imprese produttrici di armi, diplomatici. Allo stesso tempo, quel soggetto è il soggetto che, nel corso di una udienza del processo trattativa, Totò Riina, lasciando l'udienza nella quale si era parlato di Rosario Cattafi, in un commento che fu registrato in un'annotazione di servizio del personale di polizia penitenziaria, definì Cattafi «zio Saro».
  «Zio Saro», chiunque conosce i processi di mafia sa che è un appellativo deferente da parte di un mafioso nei confronti di un mafioso superiore. Quello che aveva pronunciato quelle parole era Totò Riina. Naturalmente è facile comprendere qual è il mio auspicio rispetto a ciò che accadrà domani innanzi alla Corte di cassazione. Diversamente, penso che ci sarebbe da riflettere ulteriormente su come sia possibile che accadano certe cose.
  Immagino che i dubbi sulla linearità della giurisdizione probabilmente saremmo indotti a corroborarli.

  PRESIDENTE. Oggi ho letto, per rimanere in tema di Corte di cassazione, una sentenza che riteneva illegittimo il licenziamento da parte di un'azienda di una persona condannata in via definitiva per mafia. Me l'hanno mandata i consulenti, giusto per concludere la riflessione dell'avvocato. Prima di passare in seduta segreta vorrei rivolgere una domanda a Salvatore Borsellino che penso possa essere utile per il prosieguo dei lavori.
  Rispetto ai riferimenti che faceva l'avvocato alle testimonianze di Agnese e Manfredi Borsellino, se io non ricordo male, anche Salvatore Borsellino ha testimoniato, e nello specifico, l'ha fatto nel primo processo per la strage di via D'Amelio. In quella situazione, mi pare che abbia ricordato di una confidenza di suo fratello rispetto al suo futuro in magistratura. Ricordo male, Salvatore? Ce lo può raccontare?

  SALVATORE BORSELLINO (intervento da remoto). Guardi, prima del Borsellino quater non ho mai testimoniato in nessun altro processo direttamente. Sono stato sentito, e soltanto una volta, a Caltanissetta, prima dei processi, non ricordo esattamente da quale pubblico ministero. Posso sbagliare, quindi non dico il nome. Però poi non ho mai testimoniato direttamente in un processo.
  Per quanto riguarda l'impegno di mio fratello in magistratura, non ricordo a quale episodio, a quali parole si riferisce, perché quando mio fratello fece il concorso in magistratura io ero appena laureato e stavo facendo il servizio militare, quindi un periodo nel quale non potei neanche raccogliere le confidenze di mio fratello.
  Sicuramente, però, il motivo per cui lui scelse di fare il magistrato lo scrive nell'ultima lettera che Paolo scrisse proprio la mattina del 19 luglio 1992. Paolo, rispondendo alla domanda di una ragazza presso la scuola della quale avrebbe dovuto avere un incontro, che poi era saltato per i suoi impegni di quei giorni, scrisse: «Io ho intrapreso la mia carriera in magistratura perché nutrivo una grandissima passione per gli studi di diritto», e di diritto giuridico civile, neanche di diritto penale. Poi il primo incarico che riguardò processi di mafia fu quello per l'assassinio del maresciallo – non ricordo il grado – Lombardo, capitano, credo, che era il suo collaboratore a Monreale e – dice: – «da quel momento capii che quelli erano i veri problemi del nostro Paese e su quelli dovevo particolarmente impegnarmi». Dice che avrebbe potuto scegliere anche di fare l'avvocato, ma ci sarebbe voluta un'altra famiglia alle spalle che gli avesse potuto assicurare all'inizio di poter portare avanti il suo studio, ma la nostra famiglia non era in condizioni economiche tali da permettersi questo. Avrebbe potuto fare, per coltivare la sua passione per il diritto civile, il professore universitario, ma ci volevano santi Pag. 19in paradiso e santi in paradiso Paolo non ne aveva e neppure li voleva.

  PRESIDENTE. Grazie mille. Saluto il dottor Borsellino e lo ringrazio per la sua presenza. Sicuramente la Commissione continuerà a lavorare sotto tutti gli aspetti e per tutto quello che fin qui è emerso.
  Propongo di passare in seduta segreta.
  (Così rimane stabilito. I lavori procedono in seduta segreta, indi riprendono in seduta pubblica).

  PRESIDENTE. Ringrazio l'avvocato Repici e dichiaro conclusa la seduta.

  La seduta termina alle 15.40.