XIX Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere

Resoconto stenografico



Seduta n. 29 di Giovedì 25 gennaio 2024

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Colosimo Chiara , Presidente ... 3 

Audizione di Augusto Di Meo:
Colosimo Chiara , Presidente ... 3 
Di Meo Augusto  ... 3 
Colosimo Chiara , Presidente ... 6 
Zara Giovanni  ... 6 
Di Meo Augusto  ... 6 
Colosimo Chiara , Presidente ... 7 
Zara Giovanni  ... 7 
Colosimo Chiara , Presidente ... 7 
Rando Vincenza  ... 8 
Colosimo Chiara , Presidente ... 8 
Zara Giovanni  ... 8 
Colosimo Chiara , Presidente ... 8 
Zara Giovanni  ... 8 
Colosimo Chiara , Presidente ... 9 
Sisler Sandro  ... 9 
Di Meo Augusto  ... 9 
Colosimo Chiara , Presidente ... 10 
Di Meo Augusto  ... 10 
Colosimo Chiara , Presidente ... 10 

(L'audizione termina alle 14.20) ... 10

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
CHIARA COLOSIMO

  La seduta comincia alle 13.40.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che se non vi sono obiezioni la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche tramite impianto audiovisivo a circuito chiuso nonché via streaming sulla web-tv della Camera.

Audizione di Augusto Di Meo.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di Augusto Di Meo, accompagnato dall'avvocato Giovanni Zara. Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme dell'audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione. I lavori potranno proseguire in forma segreta, a richiesta dell'audito o dei colleghi. In tal caso, non sarà più consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv.
  Questa audizione apre a un doppio lavoro che aspetta la Commissione parlamentare, un lavoro che, come abbiamo fatto per padre Pino Puglisi, porterà alla pubblicazione di un documento su don Peppe Diana, del cui omicidio Augusto Di Meo è testimone oculare. Nello stesso tempo, come sentirete da quello che ci diranno Augusto Di Meo e l'avvocato Zara, si apre una riflessione che secondo me questa Commissione dovrà portare avanti sulla legge che si occupa di vittime di mafia e testimoni di giustizia.
  Voglio ringraziare di cuore sia Augusto Di Meo sia il suo avvocato per essere qui perché, come sentirete, nonostante ci avviciniamo velocemente ai trent'anni da quell'efferato omicidio, i ricordi sono ancora molto vivi e per fortuna hanno portato anche tanti frutti, soprattutto nelle giovani generazioni e tra gli scout.
  Do la parola ad Augusto Di Meo.

  AUGUSTO DI MEO. Buongiorno a tutti, mi chiamo Augusto Di Meo. Sono nato il 19 maggio del 1961 a Grumo Nevano in provincia di Napoli. Sono un fotografo e la mia ultima residenza è a Villa di Briano. Ho un'attività fotografica in quel di San Cipriano d'Aversa. Ringrazio la presidente e voi tutti per poter avere l'opportunità di raccontare alla Commissione quali sono state e sono le mie difficoltà.
  Il 19 marzo del 1994 era un sabato. Visti i rapporti di amicizia che c'erano con don Peppe Diana – frequentava casa mia e a mia volta frequentavo casa sua – e avendo delle cose da fare, decisi di andare a fare gli auguri di buon onomastico a don Peppe. Mi portai presso la parrocchia di San Nicola di Bari, arrivai pochi minuti dopo le 7. Chiesi al sacrestano dove stesse don Peppe, perché la sagrestia all'epoca era ubicata a fianco dell'altare e l'ufficio era sempre nell'edificio di culto, a destra. Feci questo passaggio nel corridoio di circa otto metri, bussai, entrai e ci facemmo gli auguri, sia per l'onomastico di don Peppe sia perché era la festa del papà – io ero già sposato con due bambini piccoli. Parlammo del più e del meno. La sera ci sarebbe stato un buffet per i pochi collaboratori più stretti con le suore carmelitane, che all'epoca stavano a Casal di Principe, nella scuola che volle don Peppe Diana. Mi chiese poi se avessi fatto fotografie perché per anni con mio padre avevo fatto il fotografo, io ero della terza Pag. 4generazione. Abbiamo servito sempre con onore e riservatezza le forze dell'ordine, fotografando anche morti ammazzati. Mi disse se avevo fotografato una certa persona, e lui mi chiedeva se potevamo fare qualcosa per la famiglia, io dissi di sì, e poi mi girai, lo chiamai «Peppino», chiesi che altro bisognava fare, lui mi guardò e disse che ci sarebbe voluto un miracolo, visto che era san Giuseppe. Poi fece una telefonata – da noi nella giornata di san Giuseppe si usa fare le zeppole – e chiamò un sacerdote perché le doveva portare. Insegnavano tutti e due all'Istituto tecnico Alessandro Volta di Aversa. Il sacerdote non rispose al telefono, ma la telefonata evidentemente rimase sulla cella telefonica. Si erano fatte le 7.25. Lui disse che doveva andare a dire messa e quindi si rimise la giacca, indossava un giubbino. Mentre lui chiudeva la porta, io mi stavo allacciando la scarpa. Gli chiesi di aspettare, lui disse che ci saremmo visti la sera. Impiegai pochi secondi e lo raggiunsi dietro. Arrivammo sotto la porta che dava verso l'altare. Di fronte a noi si palesò, a fianco del sacrestano, una persona, non era armata. Egli disse: «Chi di voi è don Peppe?». Don Peppe disse: «Sono io». Tirò fuori la pistola e sparò cinque colpi in direzione di don Peppe. Quattro colpirono il volto di don Peppe e un altro si conficcò nel muro alle spalle della sacrestia. Premetto che la chiesa era gremita di fedeli perché era san Giuseppe. Le signore del quartiere volevano fare gli auguri a don Peppe e poi andare a sbrigare le loro faccende. Scapparono tutti. Feci una telefonata fuori dalla chiesa chiamando un sacerdote e poi subito mi diressi in macchina dai carabinieri. Incrociai il piantone che, avendomi visto il giorno prima, pensava fosse uno scherzo. Io gli dissi che era accaduta una grande tragedia. Poi, anziché passare per la chiesa, andai a casa mia e avvisai mia moglie della morte di don Peppe, che era una persona di famiglia, e le feci capire che da quel momento forse sarebbe cambiata la nostra vita. E così fu, perché pochi giorni dopo, fui portato in caserma per essere ascoltato. Ero così scioccato che in quel momento non riuscii a ricordare nulla. Mi rimandarono a casa e mi risentirono il giorno 30 marzo, al comando provinciale di Caserta. Iniziò un lungo interrogatorio. Fornii particolari sul soggetto, perché mi fecero vedere uno o due album fotografici e riconobbi l'esecutore materiale del delitto. Pensavo che la cosa sarebbe finita lì, ma non fu così. Nel laboratorio avevo cinque collaboratori. Si trattava di un laboratorio consistente. Non c'erano fotografi a San Cipriano e papà era il primo fotografo in quel territorio, veniamo da Grumo Nevano in provincia di Napoli. L'idea di andare via mi era già scattata, la paura era tanta che non riuscivo nemmeno a quantificarla. Un pomeriggio stavo aprendo il laboratorio e vidi una persona con i capelli lunghi. L'associai al killer di don Peppe. Chiamai i carabinieri – in un primo momento tenevano una automobile sempre visibile, poi chiesi al capitano se si poteva fare diversamente e piazzare una auto civetta – dunque li chiamai – stavano a cento metri da me, arrivarono subito – mi misero in sicurezza e poi andarono a prendere questo soggetto, dopo che ne diedi una descrizione. Questo soggetto fu fermato, non so poi come andò a finire. Ci fu un fermo di polizia giudiziaria. Poi venne il capitano che mi disse quanto fossi stato bravo. Io risposi che avevo paura, forse non ci eravamo spiegati bene, stavamo a Casal di Principe. «Non ti preoccupare, non ti preoccupare». Passano 20-25 giorni. Una mattina mia madre, in un quartiere tranquillo, mentre puliva la cunetta fuori casa, vide un soggetto con un cappello e una cravatta rossa e mi avvisò dicendo che c'era una persona che lei pensava la stesse osservando, cioè nel senso di attenzionare la nostra abitazione. Chiamai l'ufficiale dei carabinieri. Disse di non uscire di casa e che sarebbero arrivati loro. Ci fu un blitz, stavano facendo un summit di camorra. La cosa mi spaventò. Avevo dei risparmi per comprare una casa. Incominciai a vedere delle riviste specializzate di fotografia. Trovai un negozio a Spello, in Umbria, e decisi di spostarmi. Feci dei sopralluoghi, vedere case e quant'altro. Quando poi a Spello aprì un piccolo centro commerciale, mi trasferii là con tutta la famiglia. Le cose non andarono così bene Pag. 5perché non ero conosciuto, però io volevo stare tranquillo. Arrivai a Spello dove stetti fino ad aprile del 1997, ma rimasi con una casa affittata fino al 1998, perché avevo una paura incredibile, che non si può descrivere.
  Poi iniziò il processo a cui mi accompagnava un sacerdote, don Carlo Aversano. Anche in queste occasioni mi sentivo dare dell'infame, cosa che mi faceva stare molto male. Quando ritornai, pensavo di essere il valore aggiunto al territorio di Casal di Principe. No, sono un infame, uno spione, uno sbirro e uno che sarebbe stato meglio si fosse fatto i fatti suoi. Questo non da tutto Casale, solo da una parte di quelle persone che evidentemente hanno ancora questa cultura della camorra.
  Poi ci fu un altro percorso. Pensavo che lo Stato, che le istituzioni sarebbero venuti da me a chiedermi il motivo per cui me ne fossi andato e avessi speso tutti i miei risparmi. Non fu così. Mi affidai poi a un legale che mi disse che quando sarebbe finito il processo in Cassazione si sarebbe potuto fare una richiesta. Quindi feci tutta una serie di passaggi. Il problema è che non c'era una legge. La legge sui testimoni di giustizia è la n. 45 del 2001. Non essendo retroattiva non si potevano avere i benefici previsti. Si arriva a un punto un po' particolare perché la legge non c'era. L'avvocato, qui presente, fa un tentativo, avendo io subìto traumi che hanno inciso sulla mia salute. La settimana dopo l'omicidio andai dal mio medico di famiglia che mi trovò la pressione a 200/140 e mi fece ricoverare al Policlinico. Da quel momento faccio uso di medicinali per la depressione e quant'altro. Questo però non mi pesa perché cerco anche di dare un senso a quello che ho fatto, per esempio oggi incontrando giovani da tutta Italia per la memoria di don Peppe.
  L'avvocato fece una richiesta al Ministero dell'Interno sostenendo che potevo essere anche una vittima di camorra, visto quello che patisco ogni giorno. Mi venne fatto la richiesta del quarto grado, nel senso che dovevo individuare i membri di quarto grado della mia famiglia. Con grande difficoltà ci sono riuscito. Vengo convocato al Ministero dell'Interno per un'audizione. Poi mi arriva una notifica nel 2018 secondo cui dovevo procurarmi il quarto grado della famiglia di don Peppe Diana! Che c'entrava la famiglia di don Peppe Diana? Diceva giustamente l'avvocato che se Augusto, che viene ritenuto un soggetto adamantino, avesse assistito a un omicidio di un camorrista, lo avrebbero arrestato e non lo avrebbero più rilasciato. Con il quarto grado della famiglia di don Diana ci siamo fermati perché la cosa non poteva andare avanti. C'è stato un passaggio, da parte di chi doveva preoccuparsi di questa famiglia, di questa persona, che non si è concretizzato.
  Successivamente c'è stata una petizione su di me, firmata da 45 mila persone, ci sono stati vari appelli al Presidente della Repubblica. Sono stato nominato Ufficiale al Merito della Repubblica, con la stessa motivazione, cioè per essere stato determinante per l'individuazione e la condanna del killer di don Diana e dei mandanti.
  Mi fermo qui, sono a disposizione a rispondere alle domande. Sono emozionatissimo, perché questa storia mi ha segnato e ha segnato la mia famiglia, moglie e bambini piccoli, però combatto per questo riconoscimento, perché credo che sia doveroso da parte delle istituzioni riconoscere persone che hanno avuto il coraggio di non girare la faccia dall'altra parte e soprattutto di resistere e restare in quei territori. Per farvi capire di cosa sto parlando, non più tardi di un mese fa mi chiama un cliente. Mi trovavo al Santuario a fare un servizio fotografico. Il cliente mi chiama per darmi la data della prima comunione della figlia. Non frequento bar perché la vita ti viene proprio cambiata. Entriamo in questo bar. C'erano tre persone che stavano consumando un caffè. Per istinto ci giriamo, per sapere se si trattasse di persona amica cui offrire il caffè. Alla mia vista questo disse: «Guagliò – in napoletano – andiamo via perché qua vanno i diavoli camminando» cioè io sarei stato il diavolo. Una idea me la sono fatta: questa è gente che quando c'era la camorra faceva finta di volerti bene perché ne traeva qualche vantaggio, adesso che è arrivato lo Stato a Casal di Principe, allora si gira dall'altro Pag. 6lato. «Tu sei sempre Augusto Di Meo, non te lo dimenticare, perché quella mattina se te ne andavi a casa tua evidentemente qua noi stavamo tutti un po' meglio». Io credo che oggi noi stiamo meglio. Sentire dire che stavamo meglio quando stavamo peggio a me fa un male che non immaginate. Mi fermo qui.

  PRESIDENTE. Vi avevo anticipato che il ricordo era ed è molto vivo, ma anche che questa storia, come avete sentito, ha una serie di risvolti di cui non possiamo non occuparci, evidentemente. Per questo io, anche per far prendere fiato ad Augusto, chiederei all'avvocato Zara, se è possibile, di spiegare ai commissari la parte più tecnica di quello che ci ha raccontato Augusto Di Meo, il quale peraltro – lui questo non l'ha detto, lo dico io – da allora avrà incontrato qualche migliaio di giovani e a questi giovani ha raccontato questa storia, ma anche quella storia di speranza e di riscatto che è passata per Casal di Principe. La parola all'avvocato Zara.

  GIOVANNI ZARA. Grazie presidente, grazie a tutti i componenti della Commissione antimafia per questa opportunità che date ad Augusto. Augusto ha denunciato l'assassino di don Peppe Diana nel 1994, quando la legge che tutela i testimoni di giustizia non esisteva ancora. Esisteva una legge che tutelava i collaboratori di giustizia, ma non i testimoni, quindi non è mai entrato in un programma di protezione. La legge a tutela dei testimoni entrò in vigore nel 2001, ma in quel periodo, per fortuna, non c'erano più problemi di incolumità da parte di Augusto e quindi chi avrebbe dovuto all'epoca decidere non ha mai preso in considerazione di inserire il testimone in un programma di protezione. Sta di fatto che, a seguito della sua denuncia, ha subito una serie di danni, danni sia fisici – diagnosticatigli anche da medici – sia economici e finanziari perché, come ha spiegato prima, aveva un negozio avviato di fotografia e si è dovuto spostare in maniera autonoma, investendo soldi e chiedendo anche prestiti dei familiari, alla mamma e alla sorella, per poter gestire fuori regione la sua attività. Attività che però, ahimè, non è andata bene e quindi è dovuto ritornare, con tutto il seguito. Non ha avuto alcun tipo di sostegno da parte dello Stato per quello che ha fatto, tanto che nel 2017 abbiamo cercato di intraprendere una strada un po' anomala, o meglio, quella di utilizzare la legge che tutela i familiari delle vittime innocenti della criminalità organizzata, ovvero la legge n. 302 del 1990, identificando il testimone come una vittima indiretta della criminalità organizzata. È vero che non è stato direttamente colpito lui, è stato colpito don Peppe, ma il suo coraggio e il suo atteggiamento gli hanno creato danni e questi danni sono consequenziali all'azione violenta della mafia. Però, presentata questa istanza – Augusto già l'ha accennato – la prefettura di Caserta, su richiesta del ministero dell'Interno, gli ha chiesto il quarto grado dei parenti non suoi, che aveva già inviato, ma il quarto grado dei parenti di don Peppe, cosa che era impossibile fare perché c'è una questione di privacy. Posso indicare chi sono i miei parenti, non posso indicare chi sono i parenti di un terzo, quindi la richiesta era già anomala. Dopo qualche mese però ci arriva addirittura il rigetto, nonostante il dirigente avesse incontrato qualche settimana prima Augusto e gli avesse manifestato anche il suo sostegno, almeno a parole. Gli arriva il rigetto perché la sua domanda viene definita tardiva, perché è stata presentata dopo il passaggio in giudicato della sentenza penale che aveva condannato l'assassino di don Peppe. Quindi è una figura che è rimasta incastrata: non ha potuto percorrere la strada del testimone di giustizia perché non c'era la legge, però lui ha fatto il suo dovere e ha testimoniato fino in fondo. Addirittura lui racconta – non l'ha fatto oggi – che da Spello andava a testimoniare a Napoli con i propri mezzi.

  AUGUSTO DI MEO. «Lei deve venire al carcere di Benevento perché deve fare il riconoscimento del Quadrano». Lasciavo la famiglia con due bambini piccolini e correvo per amore della giustizia, e quando andai a riconoscere il killer di don Peppe, rientrando a Spello la sera da Benevento, dalla sezione speciale, mi si ruppe la macchinaPag. 7 ad Attigliano. Vi lascio immaginare. Nemmeno questo supporto di dire: «Mandatelo a prendere, portatelo qua, riaccompagnatelo». Una cosa così grave, un omicidio di questa portata, è chiaro che diventa un problema serio. Però, ripeto, rifarei tutto quello che ho fatto perché ne è valsa la pena. Abbiamo il cambiamento di un territorio proprio dalla morte di don Peppe, ed è anche una responsabilità morale. C'è un altro particolare. La Corte d'assise di Santa Maria Capua Vetere, sulla base delle dichiarazioni del Quadrano, condannerà due soggetti che niente c'entravano con l'omicidio di don Diana. Quanto alle minacce: «Cornuto, scendi – alle tre e dieci di notte – perché ti dove dobbiamo tagliare la testa».
  Poi ci furono una serie di iniziative dirette a promuovere anche quell'attività, per farla rinascere. Ci fu un progetto con delle bottiglie, c'era il soldatino, lo schiaccianoci e la notte vennero e tagliarono la testa al soldatino, cioè: «Tu chi ti credi di essere, che vuoi fare?». Poi ci fu una delibera del comune di Casal di Principe che fece firmare ai comuni della provincia di Caserta per mantenere l'attenzione su questo caso.
  Il problema è che la Corte d'appello di Napoli ribalta la sentenza su killer e mandanti. La gente a Casale dimentica che, a parte l'esecutore materiale, ci sono state altre sette persone che stanno scontando il fine pena mai. L'ultimo episodio è stato quello del mandante che esce dal carcere per un tumore e viene portato a Villa Literno, un comune vicino casa mia, e quindi vi lascio immaginare come mi sia attivato con i carabinieri. La sorella di don Peppe fece un appello al giudice del tribunale di Sassari, poi io andai dal prefetto e mi confrontai con lui per esporgli la estrema pericolosità della situazione.
  Come dicevo prima, la Corte d'appello ribalta la sentenza anche perché, questa è una mia chiave di lettura, essendo io un fotografo, a quel soggetto feci la fotografia con gli occhi. La Corte d'appello di Napoli dice: «Quadrano non lo conosceva, come asserisce egli stesso, come è del tutto comprensibile, atteso che lo stesso, nato a San Cipriano d'Aversa e residente in Carinaro, certamente non era un frequentatore abituale della parrocchia di Casal di Principe e di raduni scout, a causa del suo stile di vita. Il killer, stante l'assenza di un travisamento, la persona presente subito alle spalle di don Diana che si trovò di fronte il killer a ridosso, dovette necessariamente vederlo, a meno che non sia cieco e Di Meo Augusto non è cieco e ha il coraggio delle sue azioni e dice ripetutamente la sua verità fino all'ultimo verbale allegato, raccolto nel processo similare più di recente celebratosi a Santa Maria Capua Vetere». Quindi la Corte d'appello riarresta il killer, scagiona i due soggetti che erano stati condannati a fine pena mai e la parola finale è della Suprema Corte di cassazione, dieci anni dopo, dieci anni dopo! La Corte «faceva discendere da tale ricostruzione anche la individuazione del diverso ruolo avuto da Quadrano nell'omicidio rispetto alle sue dichiarazioni e cioè quello di esecutore materiale. La realtà processuale aveva dimostrato che Di Meo, il teste fotografo presente al fatto, aveva riconosciuto Quadrano in fotografia, lo aveva riconosciuto in televisione quando lo aveva visto scendere dall'aereo che lo riaccompagnava in Italia e lo aveva riconosciuto in carcere. Aveva sempre confermato tali versioni in dibattimento e aveva fornito particolari della persona di difficile confondibilità con le caratteristiche fisiche di altri autori». Se non si è testimoni così, io non so che altro devo fare.

  PRESIDENTE. Chiedo all'avvocato se vuole aggiungere qualcosa.

  GIOVANNI ZARA. L'ultima cosa riguarda le due norme. Una è arrivata in ritardo a tutela del testimone di giustizia, solo nel 2001, l'altra non c'è stato modo di poterla percorrere perché il Ministero ci ha detto che abbiamo presentato la richiesta in ritardo, oltre a quella disposizione sul quarto grado che riguarda tantissime altre vittime. Non so se sia il caso di affrontarla adesso.

  PRESIDENTE. Grazie mille. Vedo che ci sono anche molti commissari collegati da Pag. 8remoto. Chiedo ai colleghi se intendano porre delle domande. Come avete capito, questa audizione è non solo purtroppo molto attuale, nel senso che la camorra è ancora molto presente nelle cronache odierne, ma ci porta anche a una riflessione su come sia necessario – e questo credo che Augusto Di Meo lo abbia detto meglio di altri – avere una forza irreprensibile nella condanna, ma la stessa forza la deve avere lo Stato nel sostenere le persone che hanno avuto il coraggio, nonostante la paura di andare fino in fondo in situazioni così delicate. È per questo che Augusto Di Meo è anche consulente di questa Commissione perché credo che chi come lui negli anni abbia raccontato la ferocia della criminalità organizzata possa insegnare anche molto a chi siede da questo lato del tavolo e in questa Commissione.
  Do la parola alla senatrice Rando.

  VINCENZA RANDO. Grazie dottor Di Meo e grazie anche per la sua testimonianza. Ho avuto modo di conoscerla e anche di ascoltarla. Finalmente la legge italiana ha fatto questo grande passo in avanti sui testimoni di giustizia ponendo una grande differenza tra i collaboratori, perché prima – lo diceva l'avvocato – c'era una confusione ed era anche una confusione culturalmente non accettabile, perché un testimone di giustizia è totalmente estraneo a fatti di mafia, un collaboratore è colui che prima ha commesso gravi reati. Ricordo anche la legge n. 6 del 2018 che è andata anche più avanti. Una cosa però volevo chiarire anche per capire come anche questa Commissione si possa impegnare a una ulteriore modifica e credo che già ci siano gli elementi perché occorrerebbe superare la questione della prescrizione e della decadenza sulle istanze con la legge 302. Vorrei capire meglio, magari è un mio limite, perché se è vero che la legge sui testimoni di giustizia è la n. 45 che dà la definizione di chi sia il testimone, però già la legge precedente, il decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8 convertito nella legge n. 82 del 1991 già definiva il testimone di giustizia sia pure con una certa confusione iniziale. Magari l'avvocato Zara, che conosco bene, ci può far capire meglio la questione. Avete poi fatto l'opzione per la n. 302. A me non è mai successo di sapere, conoscendo un po' questa legge, che chiedano il quarto grado anche per la vittima diretta. Abbiamo saputo di casi in cui vi erano estranei, testimoni di giustizia, che hanno assistito alla commissione di reati di mafiosi e sono stati riconosciuti testimoni di giustizia, perché c'era un'estraneità. Ciò al di là del fatto – ne avevamo accennato anche con la presidente – che la questione del quarto grado è veramente una cosa che bisognerebbe superare perché forse dovremmo valorizzare la frequentazione e non il quarto grado.
  Le chiedo inoltre se avverso il provvedimento di diniego, considerandolo come decadenza, avete proposto ricorso e se ci sia già stato un pronunciamento perché ci sono state pronunce che hanno ribaltato le precedenti decisioni. Grazie.

  PRESIDENTE. La parola all'avvocato Zara.

  GIOVANNI ZARA. Per quanto riguarda l'inserimento all'interno del programma di protezione, anche per la legge precedente al 2001, non gli è mai stato proposto. Qui c'è stato un errore. Però all'epoca lui aveva 33 anni e ha imparato solo negli anni successivi come fossero applicate le leggi penali, civili e amministrative. All'epoca lui non ne sapeva nulla, qualcun altro avrebbe dovuto istradarlo, ma questo non è stato fatto. Nel 2017, proprio perché era passato del tempo, abbiamo ipotizzato questa strada e il quarto grado ci è stato chiesto dalla Prefettura di Caserta, ce l'ho qui, anche a me era la prima volta che capitava: il quarto grado sia del richiedente, sia della vittima, don Giuseppe Diana. Se vuole, presidente, la possiamo lasciare tale richiesta agli atti.

  PRESIDENTE. Grazie, avvocato me l'ha già lasciata Augusto ed è a disposizione della Commissione.

  GIOVANNI ZARA. Quando ci è stata fatta questa richiesta, i familiari della vittima avevano già ottenuto i benefici della Pag. 9legge n. 302. Un paradosso. Per quanto riguarda la tardività, no, non abbiamo fatto ricorso. Anche io sono riuscito a fare ribaltare le decisioni in altri casi, quella di Augusto no, perché è tutta un'anomalia. Qui credo che non siano tanto i tribunali a dover fare giustizia, ma quest'Aula. Lui cerca giustizia, ma gliela si dovrebbe dare in questo luogo, non tanto in tribunale, non so se riesco a far percepire ciò che sentiamo.

  PRESIDENTE. L'avvocato intende la politica, perché il tema nello specifico è evidentemente fatto di una serie di grossolani errori. Senza entrare in altri dettagli, la solitudine di chi è familiare di vittima di mafia o testimone di giustizia, per me e immagino per i membri della Commissione che hanno già seguito questioni come questa, non è una novità e quindi anche su questo sapere che qualcuno a trent'anni o magari una donna rimasta sola viene lasciata – penso alle vedove Luciani – in balia di norme che non si conoscono, perché non è loro dovere conoscere, la cosa andrebbe rivista e modificata. Però, al netto di questo, la storia di Augusto Di Meo incrocia errori, ma anche scelte che intendiamo valorizzare perché la richiesta di essere sentito in questa Commissione nasce sia per dare il giusto risalto alla figura di don Peppe Diana sia per evitare che altri, domani, si possano trovare nelle condizioni di Augusto Di Meo, e quindi di aver visto con i propri occhi sparare a un amico, che era peraltro un prete, come spesso è successo, in una chiesa, e non essere riconosciuto dallo Stato. È stato riconosciuto tramite le onorificenze che lui vi ha raccontato. Noi, nel nostro piccolo, abbiamo provato, facendolo consulente, a fare altrettanto, ma questa storia credo possa portare la Commissione nel suo insieme a lavorare affinché un fatto così, e questo fatto così, non ci sia più.
  Do la parola al senatore Sisler.

  SANDRO SISLER. La mia più che una domanda è una breve considerazione che tenevo a fare. Anzitutto ringrazio il signor Di Meo per la disponibilità, a trent'anni di distanza, a venire da noi a raccontare per l'ennesima volta la sua vicenda. Ringrazio e faccio i complimenti alla presidente perché con questo caso ha portato all'attenzione di questa Commissione antimafia una vicenda che altrimenti sarebbe rimasta nei ricordi, ma a margine. La mia considerazione è che, se le cose stanno così – è un paradosso ma ci tengo a dirlo – non so se sia il caso di far raccontare al signor Di Meo ai giovani quella che è stata la sua vicenda, perché certo a tutto porta ma non a invogliare a denunciare fatti gravi come quelli. Tutto questo va tenuto in considerazione perché la sua è una storia di sofferenze, di tristezza, di stravolgimento della vita sua, dei suoi familiari e dei suoi parenti. O questa Commissione, e sono certo che lo farà, interviene affinché il legislatore e la politica correggano questa serie di errori, o altrimenti sarà meglio non far raccontare questa vicenda ai nostri giovani perché, ripeto, tutto accadrà tranne che invogliare a denunciare fatti come quelli.
  Sono contento che la presidente l'abbia coinvolto nella Commissione come collaboratore. Credo che questo debba portare a un intervento significativo e concreto della Commissione. La domanda gliela faccio ugualmente: qual è la reazione dei ragazzi quando ascoltano la sua storia?

  AUGUSTO DI MEO. Essendo considerato un soggetto adamantino, ai ragazzi dico che questa cosa la rifarei sicuramente nonostante le difficoltà di questo territorio, e però mi scontro con una realtà locale fatta di «Ma chi l'ha fatto fa'?» «Te ne potevi stare a casa tua» «Lo vedi lo Stato com'è?».
  Poi c'è l'aspetto professionale. Vi racconto velocemente una piccola cosa su cosa significhi essere testimone a Casal di Principe e non essere nemmeno riconosciuto. Incontro un avvocato che mi dice: «Augusto io mi devo sposare però le fotografie non me le puoi fare». Gli chiedo perché. «Mamma ha un nipote in galera e quando andiamo a Sorrento una faccia come la tua questi non la vogliono vedere». Ma stiamo scherzando? Qui allora c'era bisogno del supporto dello Stato, cioè di quelli che evidentemente si dovevano interessare. Pag. 10Credo di essere ancora ancora vigilato perché i carabinieri passano tre volte al giorno, e credo che sia la mia seconda famiglia perché non mi hanno mai abbandonato. Una cosa però è il rapporto amicale, un'altra è il rapporto professionale.
  Il segnale però è quello di speranza e dire ai giovani che si deve denunciare, nonostante tutto si deve denunciare!

  PRESIDENTE. Credo che ci sia poco da aggiungere. Però diamo loro uno strumento in più per fare questo racconto, credo che sia l'appello che si possa lanciare da qui. Non essendoci altri interventi, credo che possiamo chiedere ad Augusto Di Meo di lasciarci tutti i documenti che ha citato in modo che tutti i commissari possano averli e di fornirci, come farà in quanto consulente, tutti i documenti e le omelie di don Peppe Diana che possiamo utilizzare per la prossima pubblicazione. Credo che la Commissione possa prendere l'impegno di arrivare a questo importante trentesimo anniversario con una proposta da sottoporre al Parlamento italiano che preveda che casi così non avvengano più, per Augusto, per la sua famiglia, ma anche per chi ha continuato e continua a credere nello Stato.

  AUGUSTO DI MEO. Intendo aggiungere che la storia è nota a livello nazionale, essendo un omicidio di una particolarità unica, di un sacerdote in chiesa. Il 21 marzo scorso il Presidente Mattarella quando è venuto a Casal di Principe – abbiamo tutti ascoltato il suo discorso dell'ultimo dell'anno – io rimasi scioccato. Il mio compito era di portarlo alla tomba di don Peppe. Mi onoro di avere la chiave di quella cappella perché così ha voluto la famiglia, la mamma di don Peppe. Quando lui si avvicinò per accompagnarlo, io dissi: «Sono Augusto Di Meo» e lui rispose: «Io ti conosco». Rimasi senza parole, proprio basito. Poi mi ripresi e gli dissi che condividevamo lo stesso dolore, perché lui ha abbracciato suo fratello e a me don Peppe mi è caduto addosso. Poi riflettendo, mi sono detto che allora la storia la conoscevano e che si poteva fare qualcosa per incidere su questa vicenda. Però io sono fiducioso. Per il trentesimo intanto vi invito a Casal di Principe, paese stupendo, non è il clan dei Casalesi. Casal di Principe è il nome di un popolo e quindi spero che prendiate veramente a cuore questa vicenda.

  PRESIDENTE. Grazie ad Augusto Di Meo per aver voluto rivivere con noi questi momenti e averci dato queste indicazioni, e all'avvocato Zara con cui rimarremo in contatto.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  L'audizione termina alle 14.20.