XIX Legislatura

Commissione parlamentare di controllo sull'attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale

Resoconto stenografico



Seduta n. 17 di Giovedì 23 maggio 2024
Bozza non corretta

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Bagnai Alberto , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA SUGLI INVESTIMENTI FINANZIARI E SULLA COMPOSIZIONE DEL PATRIMONIO DEGLI ENTI PREVIDENZIALI E DEI FONDI PENSIONE ANCHE IN RELAZIONE ALLO SVILUPPO DEL MERCATO FINANZIARIO E AL CONTRIBUTO FORNITO ALLA CRESCITA DELL'ECONOMIA REALE

Audizione di rappresentanti di AIFI – Associazione italiana del Private equity , Venture capital e Private debt.
Bagnai Alberto , Presidente ... 2 
Gervasoni Anna , direttrice generale AIFI – Associazione italiana del ... 3 
Bechi Alessandra , vicedirettrice generale AIFI – Associazione italiana del ... 6 
Gervasoni Anna , direttrice generale AIFI – Associazione italiana del ... 8 
Bagnai Alberto , Presidente ... 9 
Lovecchio Giorgio (M5S)  ... 9 
Bagnai Alberto , Presidente ... 10 
Gervasoni Anna , direttrice generale AIFI – Associazione italiana del ... 10 
Bagnai Alberto , Presidente ... 12 
Gervasoni Anna , direttrice generale AIFI – Associazione italiana del ... 15 
Bagnai Alberto , Presidente ... 20 
Gervasoni Anna , direttrice generale AIFI – Associazione italiana del ... 20 
Bagnai Alberto , Presidente ... 21

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
ALBERTO BAGNAI

  La seduta comincia alle 8.30.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti di AIFI – Associazione italiana del Private equity , Venture capital e Private debt.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sugli investimenti finanziari e sulla composizione del patrimonio degli enti previdenziali e dei fondi pensione anche in relazione allo sviluppo del mercato finanziario e al contributo fornito alla crescita dell'economia reale, di rappresentanti di AIFI, Associazione italiana del Private equity, Venture capital e Private debt.
  AIFI è stata istituita nel lontano 1986 e ha soci gestori, prevalentemente nazionali, che effettuano investimenti nell'economia reale attraverso organismi di investimento collettivo del risparmio di capitali di rischio, quindi private equity e venture capital di debito privato, private debt, e fondi infrastrutturali.
  Per l'AIFI sono presenti la direttrice generale, la professoressa Anna Gervasoni, accompagnata dalla vicedirettrice, dottoressa Alessandra Bechi, che ringrazio per la disponibilità a partecipare ai lavori della nostra Commissione.
  Prima di dare la parola alla professoressa Gervasoni per lo svolgimento della relazione, reco anche le scuse dei colleghi Pag. 3senatori che con grande rammarico, purtroppo, non possono partecipare in presenza a causa del protrarsi di una discussione e di votazioni in Senato, situazione purtroppo imprevedibile che non siamo riusciti a gestire. Questi sono gli inconvenienti della vita parlamentare che ci riavvicinano spesso alla precarietà dell'esistenza umana.
  Siamo qui, invece, per parlare di persone che vogliono fare hedging contro questa precarietà, avere magari in futuro una pensione e vorrebbero investire o dovrebbero investire bene i loro soldi. Questo è il pezzo del discorso che senz'altro vi coinvolge.
  Do la parola alla professoressa Gervasoni.

  ANNA GERVASONI, direttrice generale AIFI – Associazione italiana del Private equity, Venture capital e Private debt. Grazie presidente. Vi ringrazio di questa opportunità, che per noi è molto importante, perché il settore che AIFI raduna, quindi fondi di private equity, venture capital, private debt, fondi che investono in infrastrutture, quelli che si chiamano i private asset nel mondo, è un settore molto articolato. Lo dico con rammarico, perché esistiamo dal 1986. Io c'ero, ero molto più piccola.
  Nonostante tante attività di divulgazione, siamo ancora un settore poco conosciuto. Noi lavoriamo sull'economia reale, che vuol dire che essenzialmente noi investiamo come fondi di private equity e di venture capital in equity, quindi in capitale di rischio. Andiamo a fornire capitale di rischio a imprese non quotate, che poi siano start-up o siano in fase di crescita, di cambiamento, di sviluppo, ma in ogni caso sono non quotate. Abbiamo poi una realtà molto recente in Italia, che sono i fondi di debito. Questi non esistevano, come sapete, fino a una decina di anni fa. Stanno diventando un segmento del mercato finanziario molto importante e più che integrato con il sistema bancario, il che vuol dire che spesso investono proprio insieme Pag. 4per fornire debito a medio-lungo termine sempre a imprese non quotate.
  Poi abbiamo i fondi che, invece, investono in veicoli, che fanno progetti infrastrutturali. Quindi, tutti i danari vanno in quella che noi chiamiamo economia reale. Sia che siano progetti infrastrutturali, sia che siano aziende che devono crescere, questo è.
  Il mercato italiano, lo dico perché è importante anche ai fini dei temi che voi trattate, è un mercato in cui le operazioni a livello di numero sono fatte al 70-80 per cento da operatori italiani, quindi da fondi gestiti da SGR italiane.
  Il 70 per cento dei volumi sono investiti da operatori internazionali, quindi da grandissimi fondi paneuropei che investono in tutta Europa e che hanno capitali molto grandi a disposizione per fare i progetti più grandi.
  Una importante strozzatura del mercato italiano è proprio il mercato della raccolta. Noi facciamo molta fatica – parlo degli operatori italiani – a raccogliere capitali e quindi rimaniamo piccoli e possiamo fare meno operazioni. Il nostro mercato è piccolo. D'altra parte, se non raccogliamo capitali non riusciamo ad avere danari per investire e tanto meno per crescere.
  Dove si prendono questi capitali? Tradizionalmente i capitali – parlo a livello mondiale – arrivano da grandissimi investitori istituzionali, in primis proprio i gestori previdenziali, perché si tratta di capitali pazienti che hanno orizzonti temporali di investimento di medio-lungo periodo e quindi ben si sposano all'asset allocation della previdenza; asset allocation della previdenza che vede nel mondo – parlo soprattutto degli Stati Uniti e della Gran Bretagna – un'esposizione di gran lunga superiore. Il mondo francese vede tanti strumenti che noi chiamiamo di previdenza gestiti da assicurazioni – vediamo, Pag. 5quindi, in prima linea il mondo assicurativo – che hanno un'esposizione molto importante, che mediamente sta tra il 15 e il 20 per cento del totale dei capitali in gestione verso quelli che noi chiamiamo i private asset.
  Il private asset ormai è una realtà che è un segmento più che consolidato nel panorama internazionale. Nel mondo è in gestione – tra fondi di private equity, private debt, infrastrutturali eccetera – una cifra che faccio fatica anche a concepire. Parliamo di 18 trilioni di dollari. Vuol dire che non possiamo più porci la domanda se questo segmento esiste o non esiste. È un segmento strutturale che va a finanziare il mondo delle imprese e della progettualità infrastrutturale.
  In Italia abbiamo un mercato piccolo, dignitoso. Come vi dicevo prima, abbiamo grandi potenzialità proprio perché in questo momento il nostro mercato è grosso modo un quarto di quello francese. Io dico sempre che se tanti investitori internazionali, e noi ne siamo felici, vengono in Italia a investire vuol dire che c'è mercato. Mi piacerebbe far crescere un po' di più gli intermediari italiani e dargli un po' più di cartucce. Magari, perché no, qualcuno può crescere e diventare operatore europeo. Questo è un bell'auspicio per quelli un po' più grandi.
  Ci serve, quindi, un legame che noi promuoviamo. Abbiamo anche all'interno di AIFI una costola che associa proprio fondi pensione e casse di previdenza – questo accade anche nelle altre associazioni internazionali simili alla nostra – proprio per creare un dialogo e un legame che speriamo rendano più fluido il passaggio di risorse e di competenze tra questi due mondi.
  Noi auspichiamo che queste logiche di investimento da parte di fondi pensione e casse siano sempre logiche di mercato, perché, siccome noi tutti speriamo di avere una pensione e speriamo ce l'abbiano anche i nostri figli, la logica deve essere di selezione, di mercato. Mi permetto di darvi un unico dato. Gli Pag. 6altri li ho scritti. Parlar di dati – poi se mi fate domande ve li fornisco – è sempre un po' noioso, soprattutto alle 8.30 del mattino. L'unico dato che però mi sento di darvi, che non è ancora uscito sulla stampa perché è di qualche giorno fa, è che il private equity e il venture capital italiano, nel 2023 – che è stato un anno complicato, dove ci sono stati anche dei deal andati molto male, abbiamo avuto un grosso write off, che vuol dire azzeramento del valore di una partecipazione – ha fatto mediamente un rendimento lordo del 18 per cento. Pertanto, perché i fondi pensione americani investono tanto in questa asset class? Perché rende, diversifica il portafoglio e quindi conviene. Sono investimenti che devono essere fatti – siccome sono complicati – con competenza, però io ormai credo che anche nel nostro Paese le competenze siano maturate in tanti operatori e, soprattutto, si possono facilmente acquisire.
  Ci tenevo a fare questo breve quadro generale, poi rispondo più che volentieri alle vostre domande.
  La vicedirettrice Alessandra Bechi, che guida anche tutto il nostro Tax & Legal Committee, meglio di me può dare due o tre spunti tra i più importanti che vorremmo suggerire.

  ALESSANDRA BECHI, vicedirettrice generale AIFI – Associazione italiana del Private equity, Venture capital e Private debt. Grazie. Buongiorno a tutti.
  Una misura di ampio respiro che noi suggeriamo per far affluire più risorse all'economia reale sono sicuramente le forme di partnership pubblico-private, che si declinano con un modello che a livello internazionale è molto diffuso e ha dimostrato di avere impatti positivi sull'economia reale dei Paesi (come Spagna, Francia e Germania), ma su cui anche noi stiamo iniziando in vari ambiti ad avere delle esperienze positive.Pag. 7
  In particolare, lo strumento è quello del fondo dei fondi, che viene spesso richiamato negli ultimi periodi, in cui il soggetto istituzionale pubblico svolge il ruolo di anchor investor, con due avvertenze che noi specifichiamo sempre: le risorse del fondo dei fondi devono essere integrative, aggiuntive, addizionali. Non deve il fondo dei fondi fare raccolta presso la platea di investitori istituzionali, quali fondi pensione e casse di previdenza di cui si sta parlando, su cui vanno a raccogliere i fondi a valle, i fondi destinatari di queste risorse.
  La seconda avvertenza è che il fondo dei fondi deve investire in modo indiretto nelle aziende, avvalendosi, cioè, delle competenze di gestori specializzati quali sono i fondi di private capital che sono in grado di selezionare le imprese secondo criteri di mercato. Poi, sono in grado anche essi stessi, forti di questa componente del lead investor, di attrarre risorse sul mercato. Quindi, si moltiplica, con un effetto volano, proprio la quantità di risorse a disposizione che vanno poi a beneficio delle imprese non quotate. Poi c'è qualche misura ancillare, che noi sottolineiamo sempre. Senz'altro viene richiamato anche in questa sede dalle casse di previdenza il fatto che debba essere pubblicato il regolamento sui limiti di investimento atteso da tanti anni. D'altra parte noi diciamo sempre che è bene che questo regolamento, pure atteso, contenga dei criteri flessibili di investimento, cioè vada nell'ottica del principio di diversificazione. Comunque le casse si stanno, ci sembra, anche autoregolamentando su queste politiche di investimento.
  Qualche suggerimento dal punto di vista fiscale potrebbe essere di sistemazione e razionalizzazione, con qualche intervento di copertura. Ad esempio, esiste già un buon incentivo sulla detassazione dei capital gain, di fondi pensione e casse di previdenza, che investano in fondi di private capital, ma precisiamo fondi di private equity e venture capital che investono Pag. 8in economia reale. È mancato un tassello. Si è dimenticato di inserire anche i fondi di private debt che, come richiamava la professoressa Gervasoni, compongono la platea di investimenti possibili. Questo, quindi, andrebbe corretto.
  Potrebbe essere utile anche un credito d'imposta per gli investimenti sempre collegati a fondi pensione e casse di previdenza che vogliano investire in economia reale attraverso l'intervento di fondi di private capital. Abbiamo un esempio in una vecchia legge dello Stato, che poi è stata abrogata perché era molto complessa come misura da attuare. Si potrebbe recuperare semplificando la stessa misura.

  ANNA GERVASONI, direttrice generale AIFI – Associazione italiana del Private equity, Venture capital e Private debt. Aggiungo solo un'ultima cosa. Ripeto, le misure di dettaglio le trovate nell'appunto, anche perché è stato proprio oggetto di dibattito ieri nella riunione di FeBAF ed è stato oggetto di tanti dibattiti sulla stampa. La riforma del mercato dei capitali è fondamentale. Noi ci crediamo tantissimo anche perché il sogno di qualsiasi fondo di private equity è poi quello di andare successivamente a quotare le aziende dove ha investito del danaro.
  Non dimentichiamoci, però, che l'Italia ha bisogno di far sì che le proprie aziende – che ricordo sono bellissime, ma molto piccoline – non ce la fanno ad andare in misura massiva in IPO, quindi in quotazione. Hanno bisogno, nella stragrande maggioranza dei casi, prima di avere un'iniezione di private equity, di venture capital se sono start-up innovative. Questo tassello di mercato non dimentichiamocelo nella riforma del mercato dei capitali, perché è il passo che viene prima, sennò non abbiamo niente da portare in borsa.
  Questo è un tema al quale teniamo molto, proprio in chiave di complementarietà e collaborazione. Io sono vicepresidente Pag. 9dell'Advisory Board di Borsa Italiana. Siamo grandissimi sostenitori del mercato. Non siamo in alternativa, siamo complementari. Spesso siamo il tassello precedente proprio per far raggiungere quella dimensione critica alle imprese che consente loro poi un ulteriore passo verso i mercati: perché se fatturi 30, 40 o 50 milioni – che vuol dire già che sei bravo – in borsa non ci puoi andare.
  Grazie.

  PRESIDENTE. Ringrazio la professoressa Gervasoni e la dottoressa Bechi per il loro intervento.
  Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
  Prego, onorevole Lovecchio.

  GIORGIO LOVECCHIO. Ringrazio la professoressa Gervasoni e la dottoressa Bechi.
  Dopo aver ascoltato la vostra relazione vorrei capire come funzionano due cose. Avete detto che fornite capitali di rischio a imprese non quotate. Questo è il primo passaggio.
  La domanda su questo era come viene valutata un'impresa, se un'impresa si può affacciare e chiedere a voi di avere un contributo, avere un aiuto per un investimento, per un progetto, oppure siete voi che approcciate le imprese. Non so se c'è un canale. Come funziona? È a vostra discrezione oppure poi valutate le imprese che vogliono essere finanziate e vogliono un aiuto? Abbiamo il problema dell'Italia, che abbiamo imprese molto piccole che non riescono ad affacciarsi in un mercato azionario e quindi a fare incetta di capitali sul mercato azionario stesso.
  In più, avete detto che per il private equity e il venture capital italiano il rendimento lordo è stato, l'anno scorso, del 18 per cento. Voi investite anche in titoli statali, in titoli dello Stato Pag. 10oppure non è nella vostra mission? Perché non investite anche in titoli di Stato? Perché comunque potrebbe essere un aiuto allo Stato. Questa è la domanda. Grazie.

  PRESIDENTE. Do la parola alle nostre ospiti per la replica.

  ANNA GERVASONI, direttrice generale AIFI – Associazione italiana del Private equity, Venture capital e Private debt. La ringrazio. Sono temi molto importanti.
  Noi non investiamo in titoli di Stato. Il fondo nasce con un regolamento. Si tratta di fondi che vengono autorizzati sulla base di un regolamento che, nel caso dei fondi mobiliari chiusi, prevede alcune attività. Nei regolamenti dei nostri fondi chiusi c'è scritto che si investe in valori mobiliari di società non quotate. Quindi, non si investe in titoli di Stato, si investe in imprese, valori mobiliari di imprese prevalentemente non quotate. Perché poi può esserci un caso in cui ciò non accade: ad esempio, se uno quota in borsa l'impresa, si trova in portafoglio, dopo un po', automaticamente, dei titoli quotati e non li può rivendere il mattino dopo sennò crolla il titolo. Quindi, si scrive «prevalentemente non quotate».
  Si tratta di imprese non quotate vogliono fare un progetto di sviluppo, di solito. Noi statutariamente e per natura investiamo nel private equity e nel venture capital e diventiamo azionisti dell'impresa. Quindi, entriamo o in aumento di capitale oppure comprando una quota da un azionista che vuole uscire dall'azienda. Può essere di minoranza, può essere di maggioranza. Siamo nel mercato delle imprese non quotate: dipende dalla volontà dei soggetti.
  Noi forniamo proprio equity, diventiamo azionisti, quindi partner dell'imprenditore, con una governance che sarà decisa, per esempio, con riferimento a quanti posti in consiglio, con quante maggioranze prendo determinate deliberazioni di investimento,Pag. 11 ma il modello mira a cercare imprese di solito in tre o quattro fattispecie: venture capital, impresa start-up, quindi do capitali a un imprenditore che ha magari grande competenza tecnologica e un po' meno sotto il profilo manageriale. Non solo gli do i capitali per partire, ma di solito gli do anche una mano a trovare dei manager per poter crescere. Noi non forniamo solo capitali, forniamo proprio – mi si passi il termine – consulenza per lo sviluppo, dialogando con l'imprenditore che poi sarà lui che gestirà l'azienda. Nessun fondo ambisce a gestire le aziende in cui investe, però a suggerire sì.
  Quanto alle aziende in sviluppo, si tratta di imprese che chiedono capitali, ad esempio, per comprare un'altra azienda. Questa è una modalità che oggi vediamo tantissimo sul mercato. Spesso gli imprenditori cercano un fondo di private equity che dia loro 10 milioni, 20 milioni, 50 milioni per poter acquisire altre aziende e crescere. In alcuni casi, ci sono imprenditori che, invece, vogliono vendere la loro azienda, quindi cedere le loro azioni. Il fondo di private equity le compera e ne fa comprare un po' anche a dei manager, che diventeranno i nuovi imprenditori che, poi, guideranno l'azienda fino all'uscita, e anche dopo, dal fondo di private equity.
  Come si incontrano? Ormai esiste, sulle operazioni più grandi, un mercato dell'M&A con professionisti che, quando hanno qualche imprenditore che, magari, ha voglia di fare un'operazione di questo tipo, sanno quali operatori contattare. Dall'altro lato, sulle operazioni un po' più piccole c'è tutto il mondo dei professionisti (commercialisti, avvocati) che dicono: «Io ho un'azienda XY, vado a cercarmi un fondo». Lato loro, i fondi cercano di essere presenti in quei luoghi, in contesti tipo il convegno all'Associazione industriali di Bologna che farà AIFI tra un po' di mesi. AIFI è un'istituzione. Noi non facciamo alcuna intermediazione. Abbiamo un bel sito dove uno può Pag. 12trovare tutte le informazioni di tutti i soci. Cerchiamo, poi, di creare occasioni di incontro. Peraltro, anche i fondi stessi si organizzano (vado a fare la relazione di qua, frequento il circolo industriale di là, eccetera).
  Nel caso del venture capital ci sono circuiti, invece, più improntati sui temi della tecnologia e del rapporto con le università. Lo dico da persona che fa anche il mestiere dell'universitaria. Se tu hai dei colleghi nel mondo ICT o biotech, eccetera, che fanno cose interessanti, attraverso altri circuiti, che ormai sono molto consolidati anche in Italia (raduni con business angel, venture capitalist, eccetera), organizzi degli incontri e fai anche quell'attività molto complessa, ma preziosa di technology transfer. Quindi, vai a individuare con i technology transfer office degli atenei degli incontri tra scienziati, manager – perché per fare impresa non basta la scienza – e portatori di capitali.
  Spero di aver chiarito la sua importante domanda.

  PRESIDENTE. Grazie.
  Se non ci sono altre richieste di intervento, vorrei fare io qualche considerazione. Innanzitutto, l'adesione a un progetto politico che propaganda sé stesso attraverso la retorica, in parte fondata e in parte no, delle economie di scala, ci porta spesso a ragionare sul tema delle dimensioni, che in economia, probabilmente, contano. Questo mi spinge a cercare di capire - perché penso sia importante - quale possa essere o dove si situi l'anomalia italiana, dal momento che, come ben sappiamo, l'Italia è un Paese che ha registrato una crescita deludente. Vero è che i motivi di questa crescita deludente sono stati esposti molto bene dal presidente Draghi nel suo discorso del 16 aprile scorso. Quello è un quadro macro dal quale non si può prescindere; però, entrando nel micro, innanzitutto, mi sono riguardato, per verifica, il rapporto annuale sulle piccole e Pag. 13medie imprese europee per gli anni 2022 e 2023. Effettivamente, l'Italia non è un outlier, come incidenza, delle piccole e medie imprese. Quello che si registra sono un paio di altre anomalie. Per esempio, noi siamo noti per essere un Paese di risparmiatori. Risparmi fatti perlopiù in un periodo in cui il Paese, ovviamente, cresceva di più. Non dimentichiamoci mai che il presupposto del risparmio è il reddito: se non c'è reddito non ci può essere risparmio.
  Fatto sta che questi risparmi ci sono, ci sono stati, ma noi non abbiamo fabbriche, sostanzialmente, di prodotti finanziari che siano all'altezza della propensione al risparmio e dei risparmi accumulati, del patrimonio che potenzialmente potrebbe essere gestito, delle nostre famiglie. Su questo tipo di dinamica mi interesserebbe una riflessione. Anche lei auspicava che, in qualche modo, l'Italia potesse avere operatori di livello paneuropeo.
  Il discorso è semplice. Noi abbiamo avuto qui anche importanti associazioni rappresentative del mondo delle casse e dei fondi che ci hanno voluto convincere che il loro contributo all'economia reale era già determinante. Noi ascoltiamo. Siamo persone cortesi. Ci facciamo dire tutto. Poi ci sono i numeri, e i numeri sono altri. Sono un po' più simili a quelli che ha presentato lei.
  Qui c'è, inoltre, un tema che vorrei capire. Innanzitutto, si osserva una tendenza al delisting, che è una tendenza mondiale, non riguarda solo noi. Vorrei capire il rapporto di causa-effetto in che direzione va. Magari è bidirezionale tra questa tendenza al delisting e l'affermarsi del mercato private asset. Le aziende, comunque, di soldi hanno bisogno e da qualche parte devono trovarli. Lo sviluppo di private asset è una conseguenza di questa tendenza, che magari ha altre motivazioni, oppure è, Pag. 14indirettamente, un fattore che favorisce questa tendenza perché offre altre alternative?
  C'è un'altra cosa su cui ci siamo dovuti spesso confrontare (mi sembra che anche l'audizione di CDP Venture Capital abbia messo in evidenza questo punto). Lei ha evidenziato la strozzatura dal lato della raccolta. C'è, però, un'altra strozzatura dal lato dell'uscita, che è il momento in cui il fondo realizza questi rendimenti, che – come lei giustamente ci ha fatto notare – sono piuttosto consistenti. In un anno non ottimo sono stati del 18,2 lordo. Erano del 18,7 l'anno prima, come la vostra relazione ci dice. Il discorso è questo: se non si riescono a fare IPO, se non c'è un mercato presso il quale queste aziende, una volta sviluppate, possono crescere, che succede? Io mi metto anche dal lato dell'operatore previdenziale o, comunque, di chi compra qualcosa. Chi compra qualcosa, se deve realizzare, anche per un tema di liquidità, deve aver chiaro che potrà rivenderla una volta che ciò gli serva.
  Peraltro, sul tema dimensionale, la sua osservazione, che riguardava anche come si entra in questo mercato, è abbastanza illuminante e ci spiega anche il perché, in qualche modo, avere aziende di ridotte dimensioni non sia necessariamente un segno di familismo amorale, tutte queste cose che i nostri colleghi – se non capisco male – accademici ci raccontano in televisione, ma sia anche determinato dal fatto che se una persona ha un'idea – insomma, anche per Bill Gates ci è voluto dietro lo Stato americano e alcuni decenni per diventare molto grande – all'inizio, quando ha l'idea, è da sola con la sua idea e con qualcuno che le deve dare i soldi, che glieli darà, ma è difficile che si parta con 100 dipendenti e un'idea. Non credo sia possibile, sarebbe sconsigliabile. Occorre, ovviamente, un meccanismo di selezione.Pag. 15
  Occorre anche accettare – e questo è un problema culturale che abbiamo – l'idea che si può anche fallire, che non è la fine. Questo in altre culture esiste. Da noi, invece, è uno stigma. Ci si può provare, in onestà, se si è sulla frontiera della tecnologia. Guardi quante cose erano un hype, facevano hype due anni fa. Il metaverso: lei ci è mai entrata? Io no. Secondo me, non c'è già più come hype. Le auto a guida autonoma. Qui oggi sarei dovuto venire, secondo quello che dicevano i giornali sei anni fa, senza far lavorare un tassista. Invece il tassista ha lavorato, ed era anche simpatico. Ci sono delle direzioni, che vengono indicate, che poi si rivelano infruttuose.
  Penso che il problema per il quale siamo non voglio dire la «preda», ma il target di grandi fondi, è che esiste questa percezione che solo chi ha un grande portafoglio riesce a diversificare il rischio Paese. C'è una percezione di rischio Paese anche un po' elevata – questo, secondo me, è un altro tema – forse troppo elevata.
  Ho dato un po' di stimoli. Sono temi intorno ai quali noi vorremmo organizzare una riflessione per i motivi che sono ampiamente esposti dal titolo dell'indagine conoscitiva.
  Prego, professoressa Gervasoni.

  ANNA GERVASONI, direttrice generale AIFI – Associazione italiana del Private equity, Venture capital e Private debt. Signor presidente, la ringrazio.
  Tra l'altro, sono temi sui quali ho il piacere di riflettere anche in sede accademica, quando capita, dove spesso – soprattutto sugli accademici internazionali – ci sono un po' di preconcetti nei confronti del nostro Paese. Il family business lo vedono come una cosa opaca, tutti chiusi dentro un'azienda. Io insegno in un'università in provincia di Varese. Continuo a conoscere imprenditori che, invece, mi dicono: «Tu che conosci Pag. 16questo mondo, dove posso trovare un po' di capitali?». Quindi, proprio a livello personale, ho un'esperienza un po' diversa.
  Lei, presidente, ha sollevato alcuni temi fondamentali. Parto dal tema dell'importanza, in tutti i segmenti del mercato finanziario, di avere un'intermediazione italiana, quindi intermediari italiani che – vivaddio – non lavorino solo in Italia, ma siano un po' più grandi. Questo non tanto per voler essere patrioti a tutti i costi, ma perché quando uno ha una industry di qualsivoglia natura (e l'industria finanziaria è una industry) sul proprio territorio è ovvio che attrae competenze, attrae capitali, offre posti di lavoro ai nostri giovani, che ben si sono formati in Italia da ottime università, che, quindi, non sono costretti ad andare a lavorare altrove. Niente di male a lavorare altrove, ma – come dico sempre – ai nostri giovani offriamo almeno un'opportunità nel nostro Paese.
  Ciampi molti anni fa, quando era governatore della Banca d'Italia, credo fossero gli anni Ottanta, diceva che non è irrilevante dove si colloca un'industria finanziaria, perché un'industria finanziaria – come qualsiasi industria – genera ricchezza, genera competenze e, secondo me, genera anche un po' il ritmo di come viene fatta e concepita una normativa internazionale. Noi lavoriamo tantissimo anche a livello internazionale. Le direttive sul nostro settore arrivano da Bruxelles (AIFMD eccetera).
  Al di là dei rappresentanti, che possono fare un ottimo lavoro, se la nostra industria non è rappresentata è ovvio che ci scendono addosso direttive pensate – questo vale per le banche e vale per i fondi – su intermediari che non sono domestici e che, quindi, inevitabilmente, vanno a favorire altri intermediari di altri territori.
  La dimensione – che non deve essere sempre e comunque grande: deve esserci una convivenza (parlo degli intermediari) Pag. 17tra gli intermediari più piccoli, perché sono quelli che possono stare più vicini alle piccole imprese, e gli intermediari più grandi – è fondamentale. Nel nostro Paese, purtroppo, gli operatori italiani sono tutti piccoli. Non voglio dire che devono diventare tutti grandi, ma almeno qualcuno, attraverso aggregazioni, ce la deve fare.
  Quanto alle imprese, noi abbiamo imprese che devono crescere e, per come è strutturata la nostra industria, devono crescere attraverso quelli che noi chiamiamo «add on», acquisizioni seriali per creare piccoli poli. Per fare questo devono avere intermediari che entrano oggi nel capitale dell'impresa non quotata, che fattura 30 milioni, ed escono quando ne hanno comprate altre 4-5 e vanno a fatturare 200 milioni.
  A quel punto, c'è un tema di exit, sul quale torno perché è fondamentale.
  Se riusciamo – com'è auspicabile – a creare circuiti di intermediazione, fatti anche grazie ad advisor italiani, a intermediari italiani, è ovvio che è più facile che, poi, ci sia una ricaduta di investimento nel nostro Paese. A parità di investimento, il fondo pensione vuole diversificare, vuole prendere un fondo che investa in tutta Europa. Benissimo. Se il fondo raccoglie 3 miliardi, 4 miliardi (perché questa è la dimensione dei fondi paneuropei) e le teste sono italiane, o almeno alcune teste sono italiane, credo ci sia una maggiore opportunità di vedere, poi, un flusso nel nostro Paese, che, sinceramente, è una cosa auspicabile per lo sviluppo dell'economia del nostro Paese.
  Tra l'altro, quanto agli investimenti in un'impresa italiana, ho tantissime statistiche molto interessanti. Parlo del nostro mondo. Abbiamo 1.300-1.400 imprese target nel nostro portafoglio, oggi. Sono tutte imprese non quotate, che stanno crescendo, piccole, grandi, in settori diversi, tecnologici e non tecnologici. Se noi guardiamo la loro esposizione all'estero, Pag. 18quindi quello che esportano o le aziende estere che hanno comprato, e guardiamo il loro fatturato, abbiamo un'esposizione mediamente del 50-60 per cento. Non si comprano il rischio Italia. Queste sono le famose aziende che hanno lo stabilimento a Saronno, ma che esportano in tutto il mondo e che hanno, spesso e volentieri, complessi produttivi in Albania, in Romania, e magari da lì partono i prodotti che sono venduti in tutta un'altra area ancora del mondo.
  Quindi, quando parliamo di imprese italiane a rischio Italia, dovremmo andare a vedere un po' i bilanci, perché spesso il rischio Paese, ammesso che ci sia, è molto attenuato. Questo lo guardano con grande interesse gli operatori di private equity. Vanno a prendere imprese che o sono già internazionalizzate o hanno una volontà internazionale. Dando capitali, spesso – noi lavoriamo molto con il Ministero degli esteri – accelerano proprio questa volontà di crescita internazionale.
  L'exit è un tema centrale. Bene ha detto CDP Venture Capital: il mestiere dei fondi è quello di entrare e, mediamente, dopo sei anni – questa è la media delle medie – uscire, vendere. Però bisogna vendere. Soprattutto sul venture capital oggi abbiamo grandi difficoltà nell'exit. Quali sono i temi sul tavolo, anche insieme a CDP Venture Capital? Ovviamente, anche qua, il sogno è avere il NASDAQ.... Ma queste nostre start up, soprattutto quelle tecnologiche, nascono veramente piccoline, non hai sempre la Apple sotto casa. Devi avere un po' di pazienza, anche perché il mercato europeo è ancora molto frammentato per quanto riguarda tutto il tema brevetti, non brevetti, mercati di sbocco. La scala, in tutta Europa, è più complicata per le start-up tecnologiche. Ci sono ancora barriere, per esempio, su certi prodotti. Pensiamo solo a tutto il tema medicale. Se trovo un farmaco fantastico, me lo vendo in Italia per un bel po'. Anche quello che si riesce a fare in America – crescere molto Pag. 19velocemente - in Europa è più complicato, soprattutto sulla tecnologia. Pensiamo a tutto il tema dell'intelligenza artificiale. Su questo, però, CDP Venture Capital è più brava di me. Il dottor Scornajenchi ne capisce meglio di un'aziendalista.
  Il tema dell'exit si può risolvere e si deve risolvere. Come? Noi non abbiamo big corporate che possano comprare le nostre start-up, però abbiamo delle medie imprese molto sane e solide, che, magari un po' sottotraccia, si stanno comprando molte start-up. Quindi, facilitare il dialogo con le nostre medie imprese che operano in alcuni settori (tipo chimico o farmaceutico), che magari sono nel portafoglio del private equity. Sono acquirenti molto importanti.
  L'altro tema è avere qualche fondo italiano che faccia il second round. Oggi il fondo di venture capital ti dà un milione, due milioni di euro. Non vai da nessuna parte se vuoi fare la scala. C'è bisogno di qualche fondo – internazionalmente ce ne sono – che ti faccia quell'iniezione di capitale dopo la selezione. Qua c'è una caduta enorme. Bisogna accettare la sfida del fallimento, sennò non andiamo da nessuna parte. Ci vuole il fondo di gross capital – così si chiama tecnicamente – che ti faccia quell'iniezione di 20-30 milioni per farti fare il salto. A quel punto, riesci a quotarti e ad assicurare l'exit. Sennò gli investitori fanno fatica a vedere i soldi indietro. Questo è il motivo per cui oggi, per esempio, investire nel private equity, che fa meno fatica a fare exit, è più facile, come investitore, che investire in venture capital, dove fai più fatica, perché stai investendo in una cosa che ha meno mercato, non ha il mercato dell'M&A. Sono temi centrali.
  Ci sono, poi, anche tante falsità che circolano tra i colleghi universitari. L'Italia sembra sempre il Paese dell'inefficienza. Non è così. Abbiamo anche imprenditori che possono benissimo Pag. 20tener testa ai loro colleghi internazionali. Tante volte siamo anche più trasparenti noi di tanti altri.

  PRESIDENTE. Grazie, professoressa. Sulla tendenza al delisting, forse mi sono perso la risposta.

  ANNA GERVASONI, direttrice generale AIFI – Associazione italiana del Private equity, Venture capital e Private debt. Mi scusi, l'ho dimenticato.
  Come lei giustamente diceva, la tendenza al delisting è mondiale e deriva da tantissimi fattori. Nel nostro Paese essa deriva essenzialmente da un problema di governance e pesantezza di gestione degli schemi di mercato. Ben venga sempre la riforma del mercato dei capitali, ma anche l'atteggiamento dei regulators sui mercati – che da noi è particolarmente incombente – dovrebbe entrare nell'ottica non dico di abbassare il livello delle regole, ma di togliere un po' di burocrazia, che costa e rende estremamente difficile il rapporto con il mercato.
  Tra l'altro, quando uno è sul mercato non è che faccia tanti aumenti di capitale. Sta lì. Il mercato è utile perché diventa un mercato secondario utile, di secondarie negoziazioni. Spesso è più facile, per fare un aumento di capitale, per fare un'operazione di acquisizione, uscire dal mercato e venire a dialogare con un fondo che, nel giro di qualche mese, ti dà i capitali, capisce il progetto. Non hai tutta quella burocrazia che devi mettere sul tavolo se fai tutte queste operazioni, figuriamoci un'acquisizione internazionale dove devi concordare tantissime cose. Qualche volta può essere anche facile ritornare in borsa dopo. Non è detto che uno esca per sempre. Ricordo che tanti anni fa – 10-15 anni fa – ho fatto un'analisi sui delisting negli Stati Uniti. Il tema che era uscito su quel mercato più evoluto è che c'è il delisting e il relisting. È una scelta flessibile. Non è per la vita né entrare in borsa né uscirne.Pag. 21
  Il momento attuale è più complicato rispetto ad altri momenti, per tantissimi elementi che riguardano tassi, scenari macroeconomici. Per cui, effettivamente, con una tale aleatorietà, tu vedi, a prescindere dai tuoi fondamentali, i valori della tua azienda salire e scendere. C'è una guerra – per carità – dall'altra parte del mondo. Se tu, magari, devi fare delle negoziazioni sui valori della tua azienda diventa molto complicato subire gli effetti di un contesto geopolitico che nulla ha a che fare con i tuoi fondamentali. Ti trovi svalutato e rivalutato. Si potrebbe dire: «Mi porto fuori. I miei valori sono quelli che mi vengono detti dal perito. Se ho bisogno di capitali ho pure i fondi di private equity. Faccio le mie acquisizioni e poi, magari, torno in borsa in un momento più adatto».
  C'è anche da dire questo. Soprattutto le small cap subiscono variazioni e fluttuazioni delle loro valorizzazioni che spesso hanno proprio un impatto anche nelle riorganizzazioni del patrimonio di una famiglia, che dipendono da temi importantissimi: la guerra in Ucraina, Gaza. Però, tu eri lì, continui a far bene, hai un ottimo EBITDA, scendi del 30 per cento. Se, magari, c'è il cugino che è un po' più nervoso, dà fastidio.

  PRESIDENTE. Grazie per aver approfondito questo aspetto, che è evidentemente legato agli altri, per esempio al tema dell'exit.
  Non registro altre richieste di intervento. Ringrazio innanzitutto gli auditi per essere intervenuti e per aver portato il loro contributo. La relazione è stata distribuita. Qui è anche in cartaceo, ma oggi siamo tutti più orientati sul PDF.
  Ringrazio nuovamente la professoressa Gervasoni e la dottoressa Bechi.
  Dichiaro chiusa la seduta.

  La seduta termina alle 9.15.