XIX Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere

Resoconto stenografico



Seduta n. 22 di Giovedì 23 novembre 2023

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Colosimo Chiara , Presidente ... 3 

Audizione di Antonio Di Pietro:
Colosimo Chiara , Presidente ... 3 
Di Pietro Antonio  ... 3 
Colosimo Chiara , Presidente ... 4 
Di Pietro Antonio  ... 4  ... 7 
Colosimo Chiara , Presidente ... 7 
Di Pietro Antonio  ... 7 
Colosimo Chiara , Presidente ... 8 
Di Pietro Antonio  ... 8 
Colosimo Chiara , Presidente ... 18 
Di Pietro Antonio  ... 18 
Colosimo Chiara , Presidente ... 18 
Di Pietro Antonio  ... 18 
Colosimo Chiara , Presidente ... 18

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
CHIARA COLOSIMO

  La seduta comincia alle 13.35.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Se non vi sono obiezioni la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche tramite impianto audiovisivo a circuito chiuso nonché via streaming sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di Antonio Di Pietro.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Di Pietro, a cui do il benvenuto e che ringrazio infinitamente per questa disponibilità.
  Voglio ricordare che la seduta odierna si svolge nelle forme di audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione, ma che i lavori potranno proseguire in forma segreta a richiesta dell'audito o dei colleghi, in quel caso non sarà più consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv.
  Ricordo ai colleghi che la Camera è convocata per le ore 15, quindi questo è il tempo che ci diamo. Al Senato è previsto il question-time quindi se sarà necessario ci aggiorneremo ad altra seduta.
  Do la parola al dottor Di Pietro.

  ANTONIO DI PIETRO. Buongiorno a tutti e grazie dell'invito.
  Sono ben disponibile a riferire quanto di mia conoscenza rispetto a un certo periodo storico.
  Sotto questo aspetto voglio fare alcune premesse. Primo: io posso riferire solo su ciò che ho visto direttamente nel periodo dal 1985 al 1995, tutto il resto è ciò che ho letto che altri hanno fatto e quindi, essendo informazioni de relato, ne sapete più voi che io e certamente non sarei una prima fonte.
  Se ho capito bene, da quanto ho potuto comprendere dalla parte pubblica del dibattito, uno dei quesiti che vi state ponendo è il rapporto che ha avuto la procura di Milano con l'inchiesta Mafia e Appalti, se ne ha avuto, e se e quali sono stati i rapporti intervenuti fra me e i magistrati Falcone e Borsellino.
  Non so se è questo il tema, perché non ho un oggetto preciso su cui ho ricevuto la convocazione, quindi intendo innanzitutto chiarire, o meglio avere chiarezza su quale argomento riferire, perché io posso riferire su fatti di cui io ho diretta e personale conoscenza. Ecco, faccio un brevissimo indice.
  Posso riferire su ciò che ha fatto o non ha fatto la procura della Repubblica di Milano, ma segnatamente io, come allora pubblico ministero Di Pietro, per quanto riguarda l'inchiesta cosiddetta Tangentopoli che aveva riflessi, se ne aveva, anche con situazioni di gestioni mafiose degli appalti.
  Secondo: se posso avere elementi per ritenere – o non ritenere – che ci siano collegamenti fra la necessità di non far svolgere le inchieste sugli appalti alla procura della Repubblica di Milano o a quella di Palermo e quindi di fermare i magistrati nei modi classici con cui di solito vengono fermati: o con quintali di tritolo o con una serie di delegittimazioni.
  Su questi fatti io posso riferire. Se volete io posso cominciare dal dire cosa stava Pag. 4facendo la procura della Repubblica di Milano e che rapporto ha avuto con i magistrati Falcone e Borsellino. Se volete posso cominciare da qua, oppure mi dite voi da dove devo cominciare.

  PRESIDENTE. Noi ci siamo sentiti, lei sa che è stato chiamato più volte in causa e non solo qui, ma anche in diverse aule di tribunale per quello che riguarda non solo la sua frequentazione e i suoi rapporti con i giudici Falcone e Borsellino, ma anche per un presunto mai approfondito coinvolgimento e rapporto tra l'inchiesta di Mafia e Appalti e quella nota come Mani Pulite. Quindi questi sono i due filoni su cui noi abbiamo piacere di ascoltarla, come ci siamo sentiti tra l'altro.

  ANTONIO DI PIETRO. Allora facciamo due precisazioni secche.
  Se per inchiesta Mafia e Appalti si intende il rapporto del ROS, 892 mi pare che fosse, del 1991, io non l'ho mai letto. Punto. Né alcuno me ne ha parlato, fino a quando sono stato sentito come teste in sede giudiziaria prima a Caltanissetta e poi a Palermo e in sede antimafia all'Antimafia della Regione Siciliana.
  Sotto questo aspetto, non so se lo avete, io ho portato con me le tre audizioni che ebbi a suo tempo a fare. Oggi parlo dopo trentuno anni, ma in realtà di questa vicenda ho parlato una prima volta nel 2009, credo che il ricordo di allora possa considerarsi molto più attuale rispetto a quello di adesso. E ne ho parlato il 21 aprile 1999 davanti alla corte di assise di Caltanissetta.
  Io quindi produco questa audizione, quel giorno non sono stato audito solo io ma anche altri, per cui mi sono permesso oltre che mettere la prima pagina, siccome era scritta in piccolo, l'ho anche ingrandita, però avete tutti i riferimenti, se volete acquisire l'originale, comunque io l'originale ce l'ho.
  Dopodiché sono stato risentito un'altra volta il 3 ottobre 2019, questa volta dalla corte d'appello di Palermo. Queste attività istruttorie per intenderci, ma ci sono qui degli ex colleghi che possono correggermi se sbaglio, riguardavano il processo sulla Trattativa Stato-mafia, nell'ambito del quale io sono stato sentito come testimone perché la mia testimonianza è stata richiesta dalla difesa in sede di appello. In primo grado invece non era stata richiesta dalla difesa, perché in primo grado sono stato sentito dall'Autorità giudiziaria di Caltanissetta.
  Questo è avvenuto il 31 ottobre del 2019 ed è un altro verbale che dice pressappoco le stesse cose di quanto risulta dal verbale del 21 aprile 1999. Come potete vedere, ogni dieci anni i resoconti stenografici plichi diventano più ridotti perché sono più sintetici, ma i fatti riferiti sono sempre quelli.
  Sono stato, altresì, sentito nel 2021 dalla Commissione di inchiesta e vigilanza sul fenomeno mafioso dell'Assemblea regionale siciliana e lì pure ho riferito quanto a mia conoscenza.
  Io lascerei questa documentazione, ma per informazione nei confronti di chi è qui ad ascoltarmi permettetemi di riassumerla. Ovviamente quel che mi accingo a riferire è un sunto, sarebbe interessante leggere integralmente tutti e tre i verbali.
  La questione è cosa intendiamo noi per Tangentopoli e Mafiopoli, perché: è sbagliato dire che la procura di Milano non ha fatto nulla perché non ha mai contestato reati di mafia e ciò perché la procura di Milano ha acquisito – nell'ambito dell'inchiesta Mani Pulite – tante informazioni anche su fatti di mafia. È sbagliato dire la procura di Palermo non ha fatto quel che doveva fare rispetto alle notizie di reato che riguardavano i rapporti tra mafia e appalti perché ha fatto tanto, prima durante e dopo le stragi, per quel che risulta a me e per i coordinamenti di indagini che ha avuto la procura di Milano con quella di Palermo.
  Io subii una serie di esposti, denunce, memorie, anonimi (e chi ne ha più ne metta), che – messi assieme – ha formato un corposo dossier che è stato riversato sugli organi di informazioni dal 1992 e negli anni seguenti, fino al 1994 causando di conseguenza anche una serie di ispezioni ministeriali nei confronti del cosiddetto pool Mani Pulite e della mia persona in particolare.Pag. 5
  Di questa questione, di questa attività di dossieraggio nei miei confronti per convincermi a non occuparmi dell'inchiesta Tangentopoli, ho riferito al Copasir in due occasioni: nel 1995 e nel 1996. Credo sia necessario acquisire e leggere la relativa documentazione, perché forse questa prima audizione potrebbe essere interessante per permettere a voi di confrontarci anche con domande mirate.
  Al Copasir fu fatta una Relazione finale con una riserva finale. La sintesi finale era: «ce ne dobbiamo occupare».
  In quelle Relazioni del Copasir, infatti, si dava atto che erano state effettivamente poste in essere delle attività di dossieraggio nei confronti di diversi magistrati della procura di Milano, ma mi pare anche di quella di Palermo ed anche di altre Autorità giudiziarie. Diversi dossieraggi che stavano lì a disposizione quando servivano. Tant'è vero che non sono stati utilizzati nel 1992, ma sono stati oggetto di una voluminosa attività ispettiva da parte del Ministero della giustizia nel mese di novembre del 1994, salvo poi provvedere ad una frettolosa archiviazione il 7 dicembre 1994 appena mi sono dimesso. Trattasi degli stessi dossier ripresentati alla procura della Repubblica di Brescia con finalità diverse.
  Spiego ora il motivo per cui ho voluto fare queste premesse.
  Innanzitutto, vi consegno le due Relazioni del Copasir affinché ufficialmente siano agli atti. Si tratta della Relazione numero 3 del 26 ottobre 1995, avente ad oggetto: «Documenti trasmessi dalla procura della Repubblica di Milano: rilievi e valutazioni», in cui appunto si indica per nome e cognome chi erano i mandanti del dossieraggio, si indica per nome e cognome chi erano gli esponenti dei Servizi segreti che avevano svolto questa attività di dossieraggio. Consegno anche la Relazione del Copasir approvata nella seduta del 5 marzo 1996. Anche in questo caso bisogna leggerla, è inutile che vi faccia perdere tempo.
  Per me è l'ultima occasione di parlare in un'istituzione pubblica di quel che ho da dire per poter lasciare almeno in una sede pubblica una serie di atti, di sentenze e di provvedimenti giudiziari che raccontano il mio percorso processuale che ho svolto come poliziotto, come magistrato, come indagato, come imputato, come parte lesa, come parte civile, mi manca soltanto di aver svolto anche il ruolo di responsabile civile.
  Ho voluto fare questa premessa non per uscire fuori tema, ma per spiegare il motivo per cui vi produco un documento da cui risulta l'insieme delle attività svolte dalla procura di Milano e, per orgoglio, permettetemi di dirlo, nella maggior parte dei casi svolte proprio da me, credo sia notorio (ed è qui presente come consulente una ex collega del tribunale di Milano che può essermi testimone).
  Nella procura di Milano l'inchiesta Mani Pulite veniva svolta come attività di indagine da me e gli interrogatori li facevo io o, se li faceva qualcun altro, li rifacevo io. Avevo realizzato il cosiddetto fascicolo virtuale, come di solito tutte le procure fanno, ovvero si apre un fascicolo madre e ogni volta che si trova un'ipotesi di reato si chiude su quel fatto, si stralcia e si definisce. Ma questo non vuol dire che, siccome ho definito una parte, la parte restante l'ho buttata nel cestino. Vuol dire che ho stralciato una parte per proseguirne un'altra sempre sullo stesso filone di indagini. Su questo modo di procedere credo che qui tra voi ci sia chi ne sa più di me, però ho preso atto che qualcuno fa storie su questa metodologia di indagini.
  Nel caso di specie, tutta quell'attività di dossieraggio fatta nei miei confronti – da cui era scaturita l'indagine ispettiva da parte del Ministero della giustizia e di cui si dà atto nella Relazione del Copasir – si è bloccata il giorno dopo che mi sono dimesso con un'archiviazione secca da parte dell'ispettorato del Ministero. Insomma, si è bloccata il giorno dopo che mi sono dimesso ed è stata subito archiviata e nemmeno protocollata.
  Quell'attività di dossieraggio che a me era stata preannunciata direttamente e pesantemente prima delle mie dimissioni, subito dopo si è bloccata.
  È stata ripresa poi dalla procura della Repubblica di Brescia perché a Brescia è pervenuta, a partire dal 1995 in poi, quella Pag. 6stessa miriade di esposti anche anonimi (uno aveva il nome in codice «Dossier Achille», un altro «Abusi DP», Abusi Di Pietro per intenderci), tutto questo insieme di esposti e segnalazioni è stato resuscitato all'improvviso ed è stato mandato una prima parte anonimamente, una seconda parte tramite persone che poi sono state condannate per diffamazione e-o per calunnia dall'Autorità giudiziaria di Brescia, Milano, Roma, eccetera.
  La procura di Brescia ha aperto diversi procedimenti penali su di me, queste indagini sono state svolte anche e soprattutto da un magistrato che si chiama Fabio Salamone e ne è nato un conflitto processuale tra me e lui perché io sostenevo che lui non poteva indagare su di me perché era il fratello di Filippo Salamone, che credo sia un personaggio già noto a questa Commissione.
  Allora io, per poter far valere le mie ragioni per cui non poteva indagare su di me, ho inviato una relazione al procuratore generale di Brescia, relazione che poi consegnai anche all'Autorità giudiziaria di Caltanissetta, sia Filippo che Fabio Salamone mi hanno denunciato per calunnia.
  Prima di andare oltre, proprio per poter entrare nel tema, produco la relazione che feci al procuratore generale in cui spiegavo quali erano (e questo sì, vi devo illustrare adesso nei limiti di tempo che mi date) le collaborazioni che erano intervenute fra la procura di Milano e la procura di Palermo e soprattutto in che periodo erano intervenute.
  È inutile che ve ne parli, ve lo dico subito, dall'arrivo del nuovo procuratore Caselli in poi credo che ci sia un testimone – tra voi commissari – che può testimoniare su questa intervenuta collaborazione.
  Avendo io fatto quelle dichiarazioni a Caltanissetta e avendo io depositato questo appunto fatto al procuratore generale, che consegno, sono stato denunciato per calunnia dai fratelli Salamone, Filippo e Fabio Salamone. Produco il decreto di archiviazione che l'Autorità giudiziaria di Caltanissetta ha emesso riconoscendo che non avevo calunniato nessuno in quanto avevo detto il vero, cioè che il PM Fabio Salamone non poteva indagare su di me.
  Ed infatti, il dottor Fabio Salamone è stato condannato disciplinarmente dal Consiglio superiore della magistratura per aver svolto indagini su di me, benché non potesse farle.
  Voi direte: ma che c'entra tutto questo? Serve per giustificare il motivo per cui io posso consegnare a voi questa relazione da me fatta a suo tempo al procuratore generale di Brescia, che nessuno ha mai potuto contestare, e posso nello stesso tempo comprendere il dottor Fabio Salamone, il quale, essendosi sentito calunniato, mi ha denunciato.
  Consegno la richiesta e il decreto di archiviazione che ha emesso l'Autorità giudiziaria di Caltanissetta, ma devo anche consegnarvi la richiesta ed il decreto di archiviazione dell'Autorità giudiziaria di Milano, perché io ho denunciato non solo disciplinarmente, ma anche penalmente il dottor Fabio Salamone accusandolo di aver costruito le indagini su questo dossieraggio nei miei confronti, ma il mio esposto è stato archiviato.
  Io avevo denunciato non soltanto le persone indicate nel decreto di archiviazione, avevo denunciato tutto un sistema.
  Per cui, voglio dire, non c'entra niente Fabio ... lo ripeto qui e lo metto per iscritto.
  Fabio Salamone con i fatti di mafia e appalti non c'entra niente con le inchieste milanesi di Mani Pulite. Sto riferendomi a lui perché dal 1995 in poi si è messo a indagare su di me (dopo che mi ero dimesso dalla magistratura) pur non dovendo indagare su di me in quanto io – all'epoca in cui ero ancora PM – stavo addirittura... io mi apprestavo a chiedere l'arresto di Filippo Salamone.
  E allora prego di acquisire agli atti la mia relazione alla procura generale di Brescia del 22 aprile 1996, la richiesta ed il decreto di archiviazione dell'Autorità giudiziaria di Caltanissetta, la richiesta di archiviazione della procura di Milano per ciò che riguarda le accuse che io avevo rivolto nei confronti anche di Fabio Salamone che non c'entrava niente con i fatti di mafia su cui io stavo indagando durante l'indagine Pag. 7di Mani Pulite. Quindi io devo scusarmi con lui se ne parlo qui perché non è con lui che ce l'ho. Io ce l'avevo con Filippo Salamone, neanche sapevo che esistesse Fabio Salamone. L'ho saputo quando poi negli anni successivi sono venuto a conoscenza anch'io che, pochi giorni prima dell'attentato di via D'Amelio, Fabio Salamone era andato a casa di Borsellino. Credo che questo risulti già pure a voi. Il dottor Fabio Salamone è andato a casa di Borsellino per... per non si sa che cosa, perché si sono chiusi in studio; in casa c'era il dottor Ingroia quel giorno, però fu messo alla porta. La moglie del dottor Borsellino sentì chiaramente che Borsellino diceva a Fabio Salamone: «Vai via, vai via, vai via». Ma questa è tutta un'altra storia che affronteremo dopo se la vorrete aprire.
  Tutta questa premessa per dire che cosa? Per precisare che la procura di Milano, anche tramite la mia persona, ha indagato eccome in relazione alla questione mafia e appalti!
  Posso provarlo con l'elenco degli interrogatori che vi segnalerò fra un po', delle altre indagini che abbiamo fatto (compresi diversi interrogatori) assieme alla procura di Palermo (forse anche con il senatore Scarpinato direttamente qui presente credo, comunque con Lo Forte).
  La questione sta a monte. Cosa ci stavamo apprestando a fare noi alla procura di Milano e loro alla procura di Palermo?
  Qui dobbiamo risalire a quei tempi. Innanzitutto, va precisato che le indagini di questo tipo non le stavano facendo solo Milano e Palermo, un po' dappertutto si stavano facendo indagini su appalti e politica, perché il fenomeno delle tangenti era talmente diffuso che Nanni Moretti ci aveva fatto il film, Il Portaborse, ovvero il sistema della «dazione ambientale», così come l'ho chiamato io.
  Io qui ribadisco una cosa di cui sono personalmente testimone. Ho trovato un solo partito non coinvolto, in cui non c'è stato nessun esponente coinvolto nei fatti di tangenti, ed era il Movimento Sociale Italiano, tutti i restanti partiti io li ho trovati coinvolti. Persone, non partiti. Persone. Tanto per chiarire.
  Bene, è dal 1985, perché dico 1985? Perché è il momento in cui si comincia a discutere della necessità di indagare su questo fenomeno noto pure alle pietre. Sicuramente tante indagini vennero fatte, non spetta a me riferire, ma dagli atti che ho esaminato ho visto che anche Palermo, ma anche Torino con il dottor Maddalena, Foggia, Reggio Calabria avevano svolto indagini, un po' meno Roma, il «porto delle nebbie» di Roma è sempre rimasto un po' defilato. Ma il problema fondamentale era che l'articolo 68 della Costituzione all'epoca vigente ci impediva oltre un certo punto di svolgere le indagini, per cui arrivavamo sempre all'ultimo scalino e non potevamo salire oltre.
  Ditemi dove ho sbagliato.

  (interventi fuori microfono)

  ANTONIO DI PIETRO. Allora devo capire che uno è di destra e uno di sinistra.

  PRESIDENTE. Dottore, mi aiuti, la prego, così lei non mi aiuta a condurre questa audizione. Colleghi, per favore. Adesso il dottor Di Pietro mi aiuta a condurre questa audizione e voi mi aiutate allo stesso modo. Cerchiamo di stare sul tema al quale stava arrivando il dottor Di Pietro. Peraltro, negli atti che lei ci ha consegnato c'è proprio un riferimento diretto a un colloquio che voi avete avuto con il dottor Paolo Borsellino sul sistema di cui lei sta parlando.

  ANTONIO DI PIETRO. Sì, ma, ripeto, è talmente lunga, o facciamo una scaletta.
  Non è vero che io ho avuto un solo colloquio con Borsellino. Riportatevi con la mente in quegli anni, in quegli anni... Una fotografia, c'è la fotografia ambientale che conoscevano pure le pietre e tante autorità giudiziarie che cercavano di scalfire questa fotografia ambientale, che aveva raccontato pure Nanni Moretti, ma prima ancora Alberto Sordi.
  Tutti stavamo cercando di trovare un filo, quindi quando si dice che l'inchiesta Mani Pulite è cominciata il 17 febbraio 1992 oppure che l'inchiesta Mafia e Appalti è cominciata nel 1991 si dicono due realtà Pag. 8minimaliste perché in realtà pure prima si facevano le indagini, pure negli anni precedenti.
  Ve lo ricordate, io ve l'ho portato qua proprio per storia personale, a Milano chi non si ricorda il caso di Antonio Natali? Ve lo ricordate il caso di Antonio Natali? Lo dico per qualche giovane che non lo sa. Il collega PM, credo Colombo o Turone, erano arrivati a un signore che si chiamava Antonio Natali che era il papà politico di Bettino Craxi. Venne messo pure dentro a San Vittore.
  Lui (Craxi) era Presidente del Consiglio, la prima cosa che fece non è stato quello di andare dal magistrato a dire: «Bravo!», ma è andato dall'imputato a dargli solidarietà, «Ora ci penso io».
  Alle prime elezioni l'ha fatto eleggere in Parlamento, hanno richiesto l'autorizzazione a procedere e gliel'hanno negato dicendo che la Metropolitana Milanese non era un ente pubblico.
  Questa era la situazione ambientale, per cui le indagini non si potevano fare oltre un certo livello.
  In una prospettiva di questo genere le indagini le stavamo facendo tutte le procure quando è scoppiato... quindi dire che l'indagine Mani Pulite è cominciata il 17 febbraio 1992 è riduttivo ... è stato un motorino che ha acceso la macchina, il motorino d'avviamento, ma è ovvio che avevamo un bagaglio di informazioni enorme già agli atti, mica solo noi, quasi tutte le procure d'Italia ce l'avevano.
  In quest'ottica io mi sono ritrovato dalla sera alla mattina... Ecco, questo sì che ve lo posso consegnare da subito. Mi sono ritrovato dalla sera alla mattina... Questi sono i giornali dei primi due, tre mesi del 1992, uno stralcio, dalla sera alla mattina mi sono ritrovato (e poi lo consegno, mi riprometto di segnare anche questo con un indice se poi mi date il tempo) che tutti i giornali parlavano di questa inchiesta che cresceva, cresceva, cresceva, quindi si è capito che dal livello locale si stava arrivando al livello nazionale.
  Ma al nazionale mi son trovato impreparato... il primo intoppo, per mia ignoranza, consisteva nel fatto che non sapevo come si facevano le rogatorie. Ho fatto la prima rogatoria e la dottoressa Del Ponte della procura di Lugano me l'ha rimandata indietro. Non mi ha rimproverato lei. Siccome era in buoni rapporti con il giudice Falcone gliel'ha raccontato e Falcone mi ha ripreso chiamandomi al telefono dicendomi sostanzialmente: «Ma così si fanno le rogatorie?»
  Io avevo fatto la rogatoria denominata «Mosini+42», scrivendo alla dottoressa Del Ponte dicendo... Era la prima volta che la facevo, abbiate pazienza per tutti quanti c'è prima volta... Ho scritto: «Mosini+42. Egregia Autorità giudiziaria, per favore mi dai i conti correnti di tutte queste persone?» E quell'Autorità m'ha risposto: «Sì, scusa, ma ognuno per che cosa, che ha fatto, in relazione a quale specifico reato...?».
  Ricordo che io, all'epoca, già frequentavo il Ministero. Dovete sapere questo, quando si dice: «Ma tu hai parlato con Borsellino?» «Sì, dove, quando?» Perché una cosa è il giorno del funerale di Falcone. Sì, quel giorno io ho parlato con Borsellino in modo drammatico, è vero, e ci siamo dati... con quelle quattro parole volevamo dire dobbiamo coordinarci nelle indagini, sta scritto in tutte e tre quei verbali in cui io ho testimoniato a Caltanissetta e Palermo. Non abbiamo usato le parole «coordinare per le indagini», abbiamo usato le parole «dobbiamo fare presto, dobbiamo fare presto», «dobbiamo chiudere il cerchio». «Chiudere il cerchio» lo dicevo io, «fare presto» lo diceva lui.

  PRESIDENTE. Andare di corsa.

  ANTONIO DI PIETRO. Andare di corsa. Ma quella è stata una sintesi di una serie di colloqui e di incontri che io ho avuto con Borsellino anche al Ministero della giustizia, ma soprattutto con Falcone. Perché Falcone in quel periodo ha fatto tante cose, oltre che la DDA, la DNA, eccetera, ma una delle piccole grandi cose che ha fatto e che a noi ha risolto adoperandosi per modificare il meccanismo delle richieste rogatoriali. Cioè vale a dire uno degli inghippi che ricordo avevamo avuto fino allora sia per il Conto Protezione che per altri, specialmentePag. 9 con lo IOR e col Vaticano, era che ci rispondevano: «Se mi dici il nome di chi ha fatto questa operazione ti do il tabulato, ti do il documento bancario che lo riguarda». Ma se sapevo il nome che te lo chiedo a fare il documento bancario? Se già so il nome vuol dire che già so chi ha preso la mazzetta! È per sapere chi ha preso la mazzetta che ti chiedo il tabulato. Lì c'è tutto un discorso sui conti corrente da utilizzare per pagare le mazzette, come voi sapete, conto di transito in mezzo, conto di provenienza e conto d'arrivo.
  Allora in un'ottica di questo genere io perché frequentavo il Ministero nello stesso periodo in cui Falcone era direttore generale degli Affari penali? Frequentavo il Ministero perché, se vi ricordate, in quel periodo si discuteva molto (prima ancora che arrivasse Falcone al Ministero, io già frequentavo il Ministero) della problematica dell'informatizzazione degli uffici giudiziari.
  Ora a me ne hanno detto di tutti i colori, perché non ho fatto il liceo classico, perché non so parlare bene italiano, eccetera eccetera, però io sono un perito elettronico. A quell'epoca un perito elettronico al Ministero della giustizia faceva comodo, tant'è vero che io sono stato uno di quelli che si è attivato per realizzare l'automazione del sistema informatico del Casellario giudiziario.
  Ora nessuno me lo riconosce, però ci azzeccavo all'epoca di valvole, diodi e quant'altro.
  Quando andavo lì mi sono ritrovato a parlare con il giudice Falcone – e io più volte ho parlato con lui ... Era lui che m'ha proprio corretto con la penna rossa la prima rogatoria, poi ci ha indicato la possibilità di abbreviare i tempi per le rogatorie formali (cioè di mandare gli atti attraverso il Ministero della giustizia al Ministero degli esteri che lo mandava al Ministero degli esteri corrispondente del Paese, il quale lo mandava al Ministero della giustizia corrispondente, il quale lo mandava all'Autorità giudiziaria di quel paese)... Insomma, era già scaduta la prescrizione quando si chiudeva il cerchio. Il dottor Falcone aveva individuato la possibilità di interloquire direttamente con la corrispondente Autorità giudiziaria estera. Con la dottoressa Del Ponte mi ha messo in contatto direttamente il dottor Falcone.
  Insomma, Falcone dall'inizio e fino alla sua morte ha seguito direttamente le inchieste di Mani pulite e le ha seguite perché da lui passavano le rogatorie e perché è colui che è stato interpellato anche dalla dottoressa Del Ponte per dire a quelli di Milano, significativamente a me: «Falle meglio queste rogatorie». Poi le ho fatte bene, ne ho fatte 560, 570 e non ne ho sbagliata una, però c'è sempre un inizio, non ne ho sbagliata più una.
  Quindi cosa voglio dire con questo? Quando andavo al Ministero per parlare con il dottor Falcone – perché io continuavo ad andare al Ministero – ho incontrato qualche volta anche il dottor Borsellino. Non so perché andava al Ministero ma ho incontrato anche lui.
  Ho riferito della prima volta che ci sono andato nella mia deposizione del 1999, che ho riletto. Falcone mi diceva: «Devi seguire il denaro. Devi rivedere appalto per appalto. Non perdere tempo a costruire adesso una ipotesi associativa globale, piuttosto prima accerta reato per reato, fai una rogatoria alla volta e su quella rogatoria fai il tuo capo di imputazione e stralcia, e vai avanti così».
  Quindi tecnicamente sapeva benissimo e ci teneva moltissimo all'inchiesta sugli appalti.
  Cosa è successo però? È successo che – nell'inchiesta Mani Pulite – avevano cominciato a confessare personaggi che ritroveremo dopo (dopo la morte di Falcone, di Borsellino e negli anni successivi), nelle inchieste svolte anche in collaborazione con la procura di Palermo, personaggi come Papi, Montevecchi, Pomicino – perché pure lui ha preso una parte della tangente Enimont – Di Paolo, D'Acquisto, Di Vincenzo, Schellino, Canepa. Canepa è l'elemento di congiunzione importante, un elemento di congiunzione tra appalti e mafia, è un elemento di congiunzione fondamentale. Bini... Buscemi... Panzavolta. Quest'ultimo a me ha negato molte volte le tangenti in Sicilia, poi a loro l'ha ammesso, a me no. Io Pag. 10l'ho interrogato 36-37 volte, poi quando ho passato le carte a loro di Palermo e abbiamo coordinato le indagini l'ha ammesso. M'ha detto, non Panzavolta ma me l'ha detto un altro rappresentante sempre del gruppo Ferruzzi...
  Qual era la tecnica investigativa che io avevo messo in piedi all'epoca? Farsi dire dagli imprenditori a chi potevano avere dato i soldi. Poi spiego qual era il meccanismo. Tutti quanti mi dicevano: ammetto tutto fino a Roma, ma da Roma in giù non dico più nulla.
  Ed io mi domandavo: possibile che da Roma in giù non ci siano stati illeciti negli appalti? E di questo si era accorto non solo Falcone, ma anche e soprattutto Borsellino.
  Borsellino se n'era accorto soprattutto tra la morte di Falcone e la sua fine. A questo ci riferivamo, io e Borsellino, quel giorno in cui ci siamo parlati al funerale di Falcone. Dicevamo: «dobbiamo fare presto, per vedere come fare per allargare queste...»
  Dopo la morte di Borsellino, io non avevo più nessuno con cui parlare. In effetti, non ebbi modo di parlare più con nessuno, anche perché non avevo altri rapporti a Palermo.
  Forse, invece, avrei dovuto in qualche misura interloquire, direttamente e autonomamente, non solo con Palermo ma con le altre procure.
  Noi a Milano avevamo scelto di seguire questo principio: per fare queste inchieste... fu una intuizione del collega Davigo – potremmo dire una «davigata» – ricorrevamo al principio delle «connessioni deboli e delle connessioni forti».
  Il concetto era questo: al fine di scoprire il fenomeno nella sua globalità era necessario la cosiddetta unitarietà delle indagini in modo da avere la certezza che ci fosse una sola Autorità giudiziaria che sviluppa tutte le indagini fino ad accertare i fatti per poi smembrare i procedimenti e distribuirli alle varie autorità giudiziarie territorialmente competenti.
  All'inizio ci è stato possibile ricorrere a questa strategia. Successivamente però le varie Autorità giudiziarie reclamavano la competenza, dicendo: «Noi dove stiamo?».
  Da queste posizioni divergenti è sorta poi una serie impressionante di conflitti di competenza. È accaduto così che il fascicolo «Mani Pulite» pian piano venisse smembrato in mille fascicoli, perdendo così la necessaria visione d'assieme. In altri termini, chi riceveva il procedimento stralciato conosceva quel fatto specifico, ma non aveva conosceva di tutto il sistema.
  Io, durante l'indagine, cercavo di acquisire ogni possibile informazione su tutte le imprese aventi caratura nazionale, ivi compresi gli appalti che avevano anche al Sud.
  Dopo l'omicidio Borsellino, di questa vicenda (e voi già potete capire qui in mezzo quante altre domande si potrebbero fare e quante altre cose si devono spiegare, ma io adesso vado per sintesi) non volli parlare con nessuno, perché feci tra me e me questa riflessione: «Io non so bene ancora cosa sto scoprendo, ma quelli su cui sto indagando sanno dove io sto arrivando».
  Per esempio, nel mentre io interrogavo per dieci volte Canepa o Panzavolta è evidente che tutti i soggetti che giravano attorno a tali indagati sapevano dove stavo arrivando. ... Interrogavo, ottenevo gli arresti a quei tempi, interrogavo quasi sempre il giorno dopo gli arresti. Sono stato inquisito e sono stato prosciolto per questo mio modo di svolgere le indagini. Quindi non mi accusate: sono stato prosciolto in quanto noi arrestavamo per il pericolo di inquinamento probatorio, non per farli confessare.
  Dopo la strage di via D'Amelio, io ho continuato a fare indagini fino a quando, verso il mese di ottobre di quell'anno, venne da me Zuliani, un ufficiale dei Carabinieri che era il mio riferimento milanese dell'Arma, dicendomi: «C'è un ufficiale del ROS» – non ricordo se tenente o capitano – «che ti deve parlare». Oggi so chi è quella persona, lo sapevo pure allora, ma quando mi è stato chiesto il nome dieci anni dopo al processo di Caltanissetta non me lo ricordavo, perché sfido qualsiasi magistrato che in quel momento fa mille indagini del tipo Mani Pulite a ricordarsi: «Guarda che è passato il signor XY che m'ha detto che ti vuole parlare».Pag. 11
  Però io, dal primo giorno che mi è stato chiesto chi era questo ufficiale, ho risposto: «Non ricordo il nome, ma sono certo che mi ha accompagnato al carcere di Rebibbia, mi ha accompagnato a incontrare questa persona che diceva che mi voleva parlare.»
  Questo ufficiale ho ricostruito poi che si chiama De Donno.
  Cos'era successo? Era successo che, soprattutto dopo la morte di Borsellino, le indagini ormai avevano preso una rilevanza nazionale, erano arrivate ai principali gruppi italiani (Cogefar, Impresit, Ferruzzi, aiutatemi a dirle, de Eccher, Calcestruzzi, c'è l'elenco completo che ho consegnato, le troverete nell'elenco, nei miei interrogatori di allora c'è l'elenco e li troverete lì).
  A quel punto viene questo ufficiale del ROS, credo fosse tenente allora o capitano, che poi hanno, non abbiamo, hanno ricostruito essere il capitano De Donno, e mi dice: «Con riferimento alle indagini che stai facendo su determinati personaggi (Ferruzzi, de Eccher, Buscemi, una serie di nomi, questi nomi li ritroveremo nei verbali di interrogatorio che feci) ti vuole parlare perché lui è insoddisfatto di come lo stanno trattando a Palermo, lui è stato arrestato da un anno però non gli credono e quindi non gli danno retta».
  Vero o non vero, così mi ha detto De Donno. Non m'ha detto: «Perché noi ci lamentiamo», mi ha detto: «Perché Li Pera si lamenta e vorrebbe parlare con lei perché lei sta indagando su fatti che lui conosce e che lo riguardano direttamente, a cominciare da una ditta su cui, abbiamo letto sui giornali, lei sta procedendo che si chiama de Eccher, di cui lui non solo ha parlato ma è una delle ragioni per cui sta dentro».
  Io lì per lì ne ho preso atto e ho detto: «La prima volta che vado a Roma vedo cosa fare».
  Una quindicina di giorni dopo dovevo andare a Rebibbia per interrogare altri personaggi che non c'entravano niente con quello che doveva dirmi questo personaggio e dissi al tenente Zuliani: «Riferisci a quel capitano o tenente del ROS se mi accompagna da questo detenuto così vediamo cosa vuole dirmi?»
  E infatti io e questo capitano, non Zuliani, siamo stati accompagnati dall'altro capitano che avevo come riferimento su Roma che si chiama D'Agostino.
  Andammo a Rebibbia io, D'Agostino e De Donno e a Rebibbia Li Pera mi ha raccontato quel che poi ha raccontato abbondantemente in tante altre... anzi, che già aveva raccontato e messo a verbale, anche a Catania e che diceva che a Palermo non gli davano retta, così ha detto e così l'ho messo pure a verbale. Vi consegno copia di quel verbale e quindi ora avete anche il verbale di interrogatorio di questo Li Pera reso al PM di Milano.
  A quel punto io che, ripeto, a quel tempo ancora mi ripromettevo di completare il quadro nazionale della diffusione delle tangenti – soprattutto perché avevo ancora nel cuore ed a mente i dialoghi che avevo avuto con Falcone, i dialoghi che avevo avuto con Borsellino, che, ripeto, erano più quelli al Ministero, più le telefonate che gli incontri formali – ed allora mi sono detto: «Finalmente adesso posso arrivare lì, anche in Sicilia». E ho cominciato, tra le mille altre attività istruttorie, anche a sentire tante altre persone che mi hanno raccontato fatti-reati commessi anche a Palermo.
  Nel mentre accumulavo questo bagaglio informativo, facevo altre indagini, perché non c'erano solo le dichiarazioni di Li Pera a cui dare seguito. Con tutto il rispetto per Li Pera c'erano molto più grosse dichiarazioni, c'era il processo Enimont. Voglio dire erano poca cosa le questioni di Li Pera. Con tutto il rispetto, la diga di Blufi rispetto alla tangente Enimont era la diga di Blufi, quindi mi son detto: «Ci occuperemo anche di questo».
  Senonché in quel momento, non so, forse alla fine del 1992 – Scarpinato correggimi, quando è arrivato Caselli? All'inizio del 1993, gennaio 1993, ecco – il dottor Caselli nell'immaginario collettivo, ma soprattutto nella procura di Milano, dava l'idea di una grande aria nuova nel Paese, ma non perché prima di Palermo non avevamo mai sentito mai parlarne male, qualcunoPag. 12 ci ha parlato male di Roma ma non di Palermo, insomma il concetto era questo.
  C'erano già stati rapporti tra la procura di Milano e la procura di Torino quando era procuratore Caselli, si è proseguito poi con il procuratore Maddalena.
  C'era un rapporto personale molto forte di Caselli con Borrelli nell'ambito del quale i due evidentemente si sono parlati. Io non li ho ascoltati, ma l'ho saputo poi. Da quel che mi ha raccontato Borrelli, ma che ci siamo raccontati tutti noi dei due pool: «Stiamo procedendo pure noi su fatti sui quali state procedendo voi a Milano, pure noi abbiamo preso Lodigiani e altri ancora». Altri ancora perché dire Lodigiani vuol dire tante cose. Dire Panzavolta vuol dire tante cose.
  Dietro Lodigiani e dietro Panzavolta si apre un mondo. Io dico dei nomi che portano dietro centinaia di persone per centinaia di fatti-reato. Ve ne posso parlare, ma erano 5 mila imputati credo, due o 300 mila capi di imputazione, quindi parliamone se ne dobbiamo parlare.
  In quest'ottica io ricordo che è venuta fuori questa idea fra i due procuratori, non so chi ne abbia parlato prima.
  Al dottor Borrelli veramente bisognerebbe fare un monumento, perché è quello che ha difeso l'inchiesta Mani Pulite allo strenuo, ce l'ha messa tutta, le pressioni che ha ricevuto, quanto ha dovuto difendere il suo pool è stata una cosa fuori dall'immaginabile.
  Quindi non so se è stato Borrelli che, quando ha letto sui giornali che pure Palermo stava arrestando e indagando persone di cui stavamo occupandocene noi, ha telefonato a Caselli o è stato Caselli a telefonare a Borrelli. Non lo so, c'era un rapporto personale.
  So che a un certo punto è venuto a Milano il gruppo coordinato da Caselli. Sono andato a rileggermi tutte le carte. C'era sicuramente Caselli da una parte, c'era sicuramente Lo Forte, c'era Patronaggio, c'era Ingroia perché ci ho litigato pure con Ingroia e non mi ricordo se c'eri pure tu, Scarpinato. Il nome tuo io non l'ho fatto, quindi probabilmente non c'eri, perché come facevo a non ricordarmi di te con quei capelli là, quindi me lo sarei ricordato.
  Ne nacque una discussione perché io ormai ero diventato... i denigratori mi dicevano accentratore, gli ammiratori mi dicevano che è quello che aveva in mano tutta la situazione.
  In realtà obiettivamente io avevo facile accesso ad ogni informazione, grazie anche all'informatizzazione, con cui gestivo il fascicolo processuale, quel cosiddetto fascicolo virtuale di cui vi ho parlato prima.
  Noi, man mano che completavamo le indagini, mandavamo, se necessario, per competenza alle varie autorità giudiziarie il pacchetto già finito: l'imprenditore che aveva parlato, il bonifico che era stato effettuato, il politico o il funzionario che aveva preso i soldi, avevano confessato tutti e tre, procedimento stralciato e invio all'Autorità giudiziaria di vattelapesca. Quindi era questo il meccanismo investigativo che avevo messo in piedi.
  Palermo, con quel po' po' di pool che vi ho detto prima, quando sono arrivati non sono arrivati a mani vuote, avevano già indagato, stavano già indagando sugli stessi personaggi, quindi evidentemente c'erano arrivati a prescindere da noi.
  Non so se mi spiego, non siamo noi che li abbiamo imboccati a Palermo. Io voglio raccontare la verità. Quando Palermo ha messo il paletto della competenza territoriale l'aveva messo pure Foggia, l'aveva messo pure Napoli con Miller, l'aveva messo pure Maddalena. Però io ho resistito a tutti e ho tenuto il fascicolo contro tutti, perché a quell'epoca mi ascoltavano.
  Però Borrelli mi disse: «No. A Torino Maddalena, a Napoli Caselli non si può, perché quelle sono persone su cui possiamo contare su una collaborazione totale».
  Peccato che tu Scarpinato non c'eri, ma quel giorno a Milano, prima nel nostro ufficio, ne è venuto fuori un confronto molto serrato perché io non volevo cedere quel che avevo scoperto.
  Che avevo in mano? Avevo tutta una serie di interrogatori di imprenditori che riconducevano a questo formato particolare esistente in Sicilia.Pag. 13
  Attenzione, mentre in una parte d'Italia c'è il sistema appalti-politica dove l'intermediario poteva essere o l'imprenditore o il soggetto politico di riferimento – di regola era un faccendiere alla Pazienza maniera, diciamo così, alla Larini maniera, alla Pacini maniera, c'erano tanti nominativi che giravano in quel tempo – a Milano abbiamo scoperto il «cartello» (su cui, vi prego, fatemi le domande, ve lo spiego bene), a Palermo c'era il «tavolino».
  Il «tavolino» è la cosa più speciale. C'è un signore che è un po' come il giudice di pace, che assicura che le imprese facenti parte del cartello avranno gli appalti, che il sistema politico di riferimento avrà le sue soddisfazioni economiche e in termini di consenso elettorale, che tutti i cantieri andranno bene, ma la quota dello 0,80 va alla cassa comune, il 20 per cento, come mi diceva Li Pera inizialmente, va alla cassa comune del potere mafioso.
  Guardate che siamo in una situazione completamente diversa. Io su questo stavo indagando e avevo acquisito una serie di informazioni perché era venuto fuori che Siino era colui che gestiva i rapporti fra mafia e politica. L'interfaccia era un tale che si chiamava Angelo Siino. Da ciò che mi aveva detto Li Pera e dalle indagini che io avevo fatto successivamente, tra il 1992 e la primavera del 1993 – perché l'accordo con Palermo arriva nella primavera del 1993, credo marzo o aprile – è venuto fuori che c'era stato un cambio di ruolo.
  Non sapevo a quell'epoca, adesso l'ho appreso perché ho letto i risultati dei vari processi che si sono svolti a Palermo, ma all'epoca io sapevo che Siino era stato defenestrato, in questo senso mi veniva riferito, da Salamone che era il vincente, il convincente. Poi ho saputo che anche il ROS aveva cannato sulla decodificazione della lettera «S», perché il ROS ha indicato la «S» come Siino e invece «S» voleva dire Salamone. Se vogliamo mettere i puntini, avevo sbagliato io, ma anche loro.
  Perché avevo sbagliato? Perché Salamone non era l'ultimo arrivato, in realtà stavano defenestrando pure Salamone perché doveva essere sostituito da Bini. Io non sono arrivato ad individuare in Bini il nuovo referente che doveva stare sul «tavolino» a rappresentare (possiamo dirlo per nome e cognome, chiedo ai due procuratori qui presenti se sbaglio) Lima e Riina, perché poi questo Bini si è scoperto essere anche un referente per conto della Ferruzzi, non scordiamocelo, alla fin fine dietro c'era Gardini, non è che non si sa chi ci fosse. Ripeto, se vi è sufficiente solo descrivere il fenomeno io mi limito a questi accenni, altrimenti bisogna discuterne a lungo.
  Se non che quel giorno (ovvero il giorno dell'incontro a Milano tra il pool di Palermo ed il pool di Milano) io fui messo alle strette e quel pomeriggio non volli cedere alla richiesta di coordinamento. Allora Borrelli, che era un padre, ci ha invitato a cena a casa sua, Borrelli da una parte e Caselli dall'altra premevano per coordinare le indagini. Ingroia, voi lo conoscete, pure lui si inalbera sempre, c'è stato uno scontro fra me e lui perché lui voleva che le indagini Mafia e Appalti fossero trasferite a Palermo e io volevo continuare a portarle avanti a Milano.
  Allora abbiamo raggiunto il compromesso, quel famoso compromesso dei collegamenti forti e dei collegamenti deboli.
  In cosa consisteva questo compromesso? Era pacifico che alla fine se ne dovesse occupare Palermo, perché, se avessero fatto ricorso alla Corte di cassazione per conflitto di competenza, Palermo avrebbe avuto ragione.
  Era, però, anche ovvio che non si poteva fare a meno dei risultati investigativi che stava ottenendo e poteva ancora ottenere la procura di Milano, perché a Milano stavamo interrogando persone che da noi confessavano perché si fidavano della procura di Milano. Si fidavano perché erano «pentiti processuali», adesso probabilmente qualche processo per trattativa me lo prenderei anch'io, perché trattavamo (soprattutto io) con gli avvocati difensori degli indagati. Credo che, da un punto di vista storico, dopo trent'anni se ne possa parlare.
  È chiaro che si trattava con questi avvocati ed erano trattative del tipo: «Sto scoprendo quel che sto scoprendo, questo tuo cliente l'ho già preso sette, otto, nove, dieci volte. Che facciamo?» Quindi ci aspettavamoPag. 14 che l'indagato ci venisse a dire altro. Sapevamo bene che se ammetteva qualche reato ce ne nascondeva dieci, ma siccome io volevo arrivare alla cupola il più presto possibile a me bastava che Tizio mi dicesse che cosa aveva fatto Caio e poi Caio mi dicesse che cosa aveva fatto Sempronio sperando che Sempronio mi dicesse cosa aveva fatto Mevio e così via. Supponevo che ogni indagato poteva aver taciuto altri reati, ma non mi sono messo a perdere tempo per accertare quante volte... Ecco, brutalmente, non mi sono messo a perdere tempo per accertare quante volte Silvio Berlusconi ha fatto festa a casa sua, non mi son messo a perdere tempo.
  Volevo arrivare ad investigare fino alla cima e dovevo arrivare prima che venissimo fermati, perché avevano già ucciso Falcone e Borsellino, quindi ho sempre pensato che fosse meglio cercare di arrivare il più possibile in alto nell'accertamento delle responsabilità perché era inutile perdere tempo a correre appresso soltanto a una persona di cui avevamo già scoperto, seppure solo in parte, le responsabilità.
  In quest'ottica quella sera, a casa del dottor Borrelli, si concordò che io avrei continuato le indagini che stavo svolgendo, ma veniva trasferito a Palermo innanzitutto quel che avevamo già acquisito a Milano: i verbali, i nominativi che sono riportati nella mia relazione al procuratore generale di Brescia di cui ho riferito prima.
  Inoltre, siccome io su quelle stesse persone indagavo anche per altri fatti-reato commessi, perché erano ditte nazionali e quindi facevano appalti da Mondovì a Canicattì, io avrei continuato a interrogarli e a svolgere tutte le mie indagini anche su costoro e, qualora mi fosse capitato di accertare qualche fatto-reato commesso a Palermo, lo avrei comunque acquisito ma poi dovevo trasmetterlo subito a Palermo, e così ho fatto.
  Devo dire che tale soluzione ha funzionato ed il contrasto sulla competenza territoriale venne superato.
  Perché io mi sono lamentato dopo?
  Io non so cosa voglia fare questa Commissione, perché questa Commissione certamente, mi pare di capire, vorrà capire se dietro la volontà stragista del mafioso Riina che si è voluto liberare di quei due magistrati, ci siano state altre «menti raffinatissime», come diceva qualcuno (ricordate tutti chi l'ha detto), che quantomeno gioivano e avevano interesse alla loro eliminazione.
  Se voi dovete indagare solo su questo, io posso dare il mio contributo con riferimento a tutto ciò che è stato il coordinamento delle indagini di mafia tra la procura di Milano e quella di Palermo, tutto ciò che riguarda il fenomeno Mafiopoli e il fenomeno Tangentopoli.
  Parliamoci chiaro, le inchieste su Mafiopoli e Tangentopoli sono due facce della stessa medaglia, sono la sintesi di uno stesso procedimento.
  Non come sento dire che questo tipo di inchieste nascono nel 1991, iniziano dagli anni Ottanta, nel 1985. Diverse autorità giudiziarie avevano già svolto indagini settoriali anche se non erano riusciti ad arrivare, non riuscivano ad arrivare al nocciolo dell'intreccio criminale fra affari e politica.
  Quindi Mafiopoli e Tangentopoli sono certamente due facce della stessa medaglia, seppure con delle proprie particolarità molto specifiche.
  Avevamo scoperto, cioè, che – al Sud laddove era presente la mafia – il metodo di gestione era diverso da quello utilizzato dagli imprenditori al Nord.
  Infatti, il sistema che avevamo scoperto noi era un rapporto paritario tra i rappresentanti politici e quelli delle imprese.
  A un certo punto io l'ho definito «dazione ambientale» sulla scorta di diverse dichiarazioni messe a verbale da alcuni indagati che mi colpirono particolarmente.
  Ad esempio, riferendosi ad un imprenditore, un indagato mi disse: «Quel disgraziato era venuto a portarmi la bustarella alle cinque e mezza di mattina perché doveva andare a caccia. Gli risposi: “La prossima volta non presentarti prima delle nove a portarmela”».
  Un altro così si giustificò: «Mentre uscivo dall'ufficio, a un certo punto, mi sono trovato la tasca ingrossata e ho visto che erano Pag. 15soldi, me ne sono accorto in ascensore e mi sono vergognato a tornare indietro».
  Un'altra volta ho mandato un poliziotto a convocare una persona mentre ne stavo interrogando un'altra che stava riferendo di lui e quello dal citofono ha detto al poliziotto prima ancora di scendere le scale: «Sì, è vero quello che stanno dicendo di me, confesso, confesso».
  Tutti ci dicevano che a Milano eravamo «bravi» a investigare, ma in realtà per noi fu facile come tagliare la torta.
  A Palermo vi era una situazione ambientale diversa, seppure Mafiopoli e Tangentopoli fossero due facce della stessa medaglia, non so se mi spiego.
  A Palermo si seguiva l'ordine stabilito dal «tavolino». Chi non seguiva quell'ordine, chi non rispettava quell'ordine faceva la fine di Lima.
  In quest'ottica, io capisco, quindi, che il vostro interesse è sapere se e chi poteva avere interesse all'eliminazione del giudice Borsellino.
  Per quanto mi riguarda, io posso dare il mio contributo man mano che me lo chiedete, per come me lo chiedete e con i limiti della mia conoscenza.
  Mi chiedo e chiedo: se dal 1993 in poi io vengo visto ...mi si apre una strada investigativa e riesco anch'io a scoprire il collegamento tra la mafia e le imprese nella gestione degli appalti, sarà questo il motivo per cui anche io vengo fermato?
  Torno a ripetere, perché sono importanti queste tre città, Roma, Milano e Palermo? Mi lasci dire questo, presidente. Tutte le Autorità giudiziarie hanno fatto il loro dovere, ma tre procure della Repubblica erano quelle più esposte: Roma, Milano e Palermo. Perché se vuoi scoprire quel fenomeno che si era creato, cioè il cartello delle imprese, il sistema dei partiti, il «tavolino» gestito dalla mafia, sono soprattutto le Autorità giudiziarie di queste tre città che lo potevano sviluppare: a Roma c'è il sistema politico per prendere decisioni, a Milano c'è la sede legale delle maggiori aziende italiane, a Palermo c'è appunto la specificità del referente mafioso locale e credo anche nazionale che gestiva il controllo e la spartizione degli appalti.
  Ora le domande che dobbiamo porci sono: è vero o non è vero che c'è stata una parte del sistema imprenditoriale italiano che voleva comprare anche gli appalti in Sicilia? La risposta è: sì. È vero o non è vero che questa parte del sistema imprenditoriale italiano per accaparrarsi anche gli appalti in Sicilia è entrata a patti con la mafia? La risposta è: sì. È vero o non è vero che alcune di queste imprese avevano la loro sede legale ed operativa al Nord? Sì. Infine, è possibile che tutto questo possa aver generato la volontà di convincere qualcuno ad aizzare chi già voleva ammazzare Falcone e Borsellino? E – se così fosse – tale impulso è stato trasmesso dal sistema della politica corrotta o delle imprese corruttrici? E da chi, in particolare? A queste domande spero che possiate dare voi una risposta.
  Il problema però è anche un altro: vi è sufficiente scandagliare quel che è successo a Palermo o vi è necessario esaminare un altro aspetto, ovvero quel che è successo a chi stava svolgendo lo stesso tipo di indagini a Milano?
  La mia riflessione che pongo alla vostra attenzione è la seguente: se è vero come è vero che a Roma non si poteva indagare perché, al di là del «porto delle nebbie» che avvolgeva quegli uffici giudiziari, c'era l'articolo 68 della Costituzione che rendeva problematico svolgere le indagini sulla politica; se è vero come è vero che a Palermo era difficoltoso indagare perché, con tutti gli sforzi che facevano, non hanno ammazzato solo Falcone e Borsellino, tanti altri ne hanno ammazzati, tanti altri ne volevano ammazzare e tanti altri non sono morti solo perché non sono riusciti ad ammazzarli, lì non era come a Milano; se è vero come è vero che a Milano stavamo arrivando alle stesse conclusioni a cui voleva arrivare il giudice Borsellino con una tecnica investigativa innovativa molto semplice: perché avevamo invertito il tipo di indagine. L'indagine Mani Pulite non era diretta ad individuare prioritariamente sui fatti di corruzione, ma i reati di falso in bilancio. Personalmente, non ho mai contestato l'articolo 416 c.p., perché volevo soprattutto e innanzitutto scoprire il reato Pag. 16presupposto, mandarlo poi all'autorità competente in modo che questa potesse poi ulteriormente circostanziare il fatto e contestare, se del caso, l'articolo 416 o l'articolo 416-bis c.p.
  A mio avviso, non era la procura di Milano che doveva indagare sui reati associativi, anche perché per stabilire la competenza territoriale bisognava accertare dove operava il cartello delle imprese?
  Il cartello era una realtà indistinta, ed era difficile comprendere chi fosse a capo del cartello e dove potesse avere la sede operativa, e quindi io – nel mio sistema investigativo, sapendo che dovevo correre prima che venissi fermato, io immaginavo e ancora oggi ritengo che ai vertici del cartello ci fossero «quelli che la girano ma non la toccano» – come si si dice in gergo – con ciò riferendomi a coloro i cui comportamenti non hanno, non potevano avere rilevanza penale.
  Faccio un esempio: io ho indagato su molte società del Gruppo FIAT. Vi consegno un'intervista di Cesare Romiti in cui dice: «Tutti pagavamo». In una realtà così io dovrei immaginarmi l'ingenuo Giovanni Agnelli che solcava i mari col suo veliero senza sapere niente. Non riesco a immaginarlo. Però penalmente non è stato possibile contestargli nulla.
  Un altro esempio: la struttura politica che governava il Paese era il pentapartito e il Governo italiano di allora si reggeva sul pentapartito, ma all'interno del pentapartito chi decideva era soprattutto il CAF (Craxi, Andreotti e Forlani).
  Nella indagine Mani Pulite ne manca uno, perché Craxi l'ho indagato e pure Forlani (ed entrambi sono stati condannati), ma ne manca uno.
  Quindi nella mia attività investigativa io cercavo di chiudere il cerchio e cercavo di chiuderlo partendo dalle imprese. Questo era il livello dell'indagine che stavo svolgendo all'epoca, sbagliata o giusta che fosse non lo so, però le sentenze nel frattempo intervenute e passate in giudicato hanno dichiarato la prescrizione del reato associativo addebitato a Giulio Andreotti perché risalente a prima del 1981.
  Questo era il meccanismo investigativo da me messo in piedi. Mi sono detto: è inutile, questi non parleranno mai, non parleranno mai. L'unico modo per farli parlare è andare a frugare nelle loro tasche. La mia investigazione, dico mia perché l'investigazione l'ho fatta io, con tutto il rispetto per quello che hanno fatto gli altri; gli altri hanno fatto veramente tanto, va fatto loro un monumento, sia per le indagini bancarie, fiscali, sia sugli intuiti processuali di Davigo, perché riusciva a «mettere una toppa» su tutto.
  Insomma, Mani Pulite è stata un'investigazione sui falsi in bilancio basata sul seguente presupposto logico: poiché il denaro necessario per pagare le tangenti non è paragonabile ad una questua, poiché è necessario creare la provvista con fondi neri, è più facile scovare tutte le volte che qualche imprenditore ha commesso un falso in bilancio per poi dirgli: «Ora devo per forza procedere, a meno che tu...», ciò che potevo giuridicamente fare perché all'epoca il codice penale prevedeva il reato di concussione per induzione e il codice civile prevedeva il reato di falso in bilancio.
  Con quel meccanismo molti imprenditori – spesso a ciò incoraggiati dai loro difensori – decisero di rompere il patto fiduciario che avevano preso con il sistema dei partiti.
  In fondo, il reato di corruzione – seppure preveda la compartecipazione obbligatoria di almeno due persone – non è come il matrimonio (che è un atto di amore), ma è un matrimonio d'interesse e quindi al corruttore dapprima ed al corrotto poi conveniva fare il pentito processuale perché aveva tutto da guadagnarci.
  In una prospettiva di questo genere, quindi, io piano piano, piano piano stavo arrivando al punto cruciale del rapporto tra mafia, appalti e politica, cioè ero arrivato a Gardini per intenderci cioè a colui che aveva foraggiato illecitamente tutto il pentapartito e le sue imprese avevano stretto contatti con il modo mafioso siciliano.
  Per intenderci, ero arrivato a sapere dove erano transitati ben 93 miliardi dei 150 costituenti la tangente Enimont: allo IOR. 150 miliardi, di cui 93 miliardi allo Pag. 17IOR. Ho fatto la rogatoria a Città del Vaticano però nessuno mi ha risposto.
  Anzi mi ha risposto... Non mi ricordo come si chiamava, forse De Bonis, non mi ricordo. Però ci sono i riscontri agli atti che vi ho consegnato.
  Resta il fatto che il mio obiettivo era proprio quello di scoprire – anche attraverso la rogatoria allo IOR – chi fossero tutti i destinatari dei soldi provenienti dalla tangente Enimont.
  E perché io mi ero focalizzato proprio su questo filone di indagine?
  Perché 5 miliardi della tangente Enimont erano andati a finire all'onorevole Salvo Lima e Lima era il referente di Giulio Andreotti in Sicilia.
  E perché a me interessava valutare il ruolo di Andreotti?
  Soprattutto perché avevo scoperto che, quando avveniva la distribuzione della tangente (ho a vostra disposizione decine e decine di verbali di interrogatori che lo dimostrano) vi era spesso una quota destinata specificatamente alla corrente andreottiana del territorio.
  Nessuno mi ha detto che i soldi andavano ad Andreotti, quindi penalmente non c'era niente nei suoi confronti, però andavano alle persone che lo rappresentavano territorialmente.
  Nel sentire raccontare questi episodi dagli imprenditori di Milano, di Torino, di Napoli, di Palermo e di altre città mi sono chiesto: «Ma questa corrente andreottiana sarà mica un po'collegata ed una realtà a parte? Chi è che decide poi alla fine chi deve stare lì, in quel determinato territorio in rappresentanza di Andreotti e prende le mazzette forte del politico che rappresenta? Chi deve stare in quell'altro territorio? E chi deve stare in quell'altro territorio ancora?»
  Questa era la domanda finale a cui volevo dare una risposta, dopodiché io mi sono ritrovato (e mi fermo qua nel racconto che mi riguarda personalmente) a novembre del 1994 con questo dossieraggio spaventoso nei miei confronti, confezionato e posto in essere dalle persone indicate nelle due Relazioni al Copasir che vi ho consegnato e nella sentenza di assoluzione del tribunale di Brescia a carico di Previti + altri che pure vi ho consegnato.
  Cosa era successo?
  Il dossieraggio venne archiviato dall'Ispettorato del Ministero il giorno dopo che io mi sono dimesso.
  Poi, a partire da marzo-aprile del 1995 quello stesso dossier è arrivato alla procura di Brescia (insieme a tanti altri dossier, anche anonimi, che covavano nella cenere e di cui io non avevo conoscenza) e il dottor Fabio Salamone ha ritenuto di fare un'indagine pazzesca su di me, a tal punto che ci sono state tre richieste, non c'è stata alcuna archiviazione, ci sono state tre richieste di rinvio a giudizio e tre ordinanze di proscioglimento, è una cosa un po' diversa.
  Vi prego di leggere le tre ordinanze di proscioglimento, dove risulta non solo che il fatto non sussiste, quello è troppo poco, risulta che quelle indagini non dovevano essere svolte nel modo con cui sono state svolte. Questo è il tema.
  Non c'entra niente il dottor Fabio Salamone, ripeto, non c'entra niente con le indagini Mafia e Appalti che avevo svolto da magistrato, era il fratello Filippo Salamone la persona su cui avevo indagato.
  Si sa che il dottor Fabio Salamone andò a cercare consiglio e considerazione da Paolo Borsellino pochi giorni prima della sua morte e questa circostanza mi fa pensare pure cosa potesse aver detto a Paolo Borsellino, perché non credo che quel giorno fosse andato da lui solo per salutarlo. Infatti, Fabio Salamone aveva ricevuto tutta una serie di esposti da parte dei componenti della procura di Caltanissetta, non so se ve lo ricordate, perché non si sentivano in grado di poter interloquire con lui come GIP in quanto sostenevano sostanzialmente: «Noi dobbiamo procedere su fatti che riguardano ambienti a lui familiari, come facciamo se lui sta qua all'ufficio GIP?» Quindi questo povero cristo si è trovato costretto a decidere di andarsene. Così immagino sia maturato il suo trasferimento e mi dispiace anche per lui.
  Vi voglio lasciare, però, le tre ordinanze di proscioglimento del GIP di Brescia, da cui potete rilevare non come ha sbagliato ad accusarmiPag. 18 il dottor Salamone, non me ne importa niente, ha esercitato l'azione penale su una notizia di reato che gli è arrivata.
  Io credo che sugli anonimi ci si dovrebbe pensare due volte prima di esercitare l'azione penale, però devo dire la verità che ha esercitato l'azione penale anche nei confronti di Dinacci, di Previti e compagnia bella, cioè di quelli che avevano messo in piedi l'indagine disciplinare nei miei confronti nel novembre 1994, ma che hanno archiviato il giorno dopo le mie dimissioni senza nemmeno protocollare la pratica.
  Dopo che il GIP mi ha prosciolto da tutte le accuse contenute in quei dossier, il dottor Salamone ha aperto un fascicolo nei confronti degli ispettori e di chi aveva mandato quegli ispettori, cioè Previti, a fare quell'indagine e a chiuderla il giorno dopo. Anche questo è stato archiviato, anche nei confronti di tutte queste persone è stata emessa sentenza di assoluzione, ove è stata sancita processualmente che, alla fin fine, l'allora PM Di Pietro si era dimesso per sua libera scelta.
  Ed io lo ripeto anche qui in questa sede quel che dissi allora: le mie dimissioni sono state sì una scelta libera, ma non una libera scelta.
  Da qui possiamo fare un romanzo. Ripeto, l'ho deciso io, non me l'ha ordinato nessuno né me l'ha chiesto nessuno, ma io ho capito che era l'unico modo perché quello che poi è uscito ad aprile dell'anno successivo (1995) e che io ho potuto controbattere da semplice cittadino, senza più il rischio che qualcuno mi accusasse di inquinamento probatorio, perché la mattina dovevo fare delle indagini su alcuni specifici imputati del calibro di Pacini Battaglia mentre ero accusato di concorso di reati proprio con Pacini Battaglia, era un po' difficile rendere credibile questa indagine. Quindi io ho detto pubblicamente: la mia decisione di dimettermi è stata una scelta libera, ma non libera scelta.
  Allora io chiedo a questa Commissione e mi fermo qua: vi basta per capire se e chi ha impedito a Borsellino di completare le sue indagini sul rapporto Mafia e Appalti che a mio avviso andava oltre la storia esposta nel rapporto del 1991 del ROS?
  Vi basta? Oppure se volete ragionare anche sul perché ogni volta che qualcuno cerca di arrivare nella zona grigia (quella di chi «la gira ma non la tocca») arriva o un quintale di tritolo o la delegittimazione e l'inchiesta viene fermata, questo è il tema che sottopongo alla vostra attenzione.
  Se volete soltanto la prima parte io la prossima volta vi porto i documenti e mi fermo, se avete bisogno di qualcosa in più ci vuole più tempo, molto più tempo.

  PRESIDENTE. Grazie mille, dottor Di Pietro. Purtroppo dobbiamo per forza interrompere.

  ANTONIO DI PIETRO. Se c'è qualche domanda io rispondo.

  PRESIDENTE. No, perché la Camera e il Senato si riuniscono in contemporanea alle 15 e quindi devo dare il tempo ai colleghi di andare, però, a nome di tutti ovviamente, credo di poterle chiedere di tornare, innanzitutto per permettere a tutti i commissari di rivolgerle delle domande. Noi siamo partiti dalla prima delle domande che lei ci fa, che sappiamo essere una delle più difficili, altrimenti dopo trentuno anni non saremmo qui ad occuparcene, ma penso di parlare a nome di tutti i commissari nel dire che, se da questo dovesse emergere la necessità di qualsiasi altro approfondimento, nessuno in questa Commissione si vorrebbe sottrarre. Quindi penso che anche alla sua domanda risponderemo di sì dopo un ufficio di presidenza che valuterà il da farsi. Grazie.

  ANTONIO DI PIETRO. Con i suoi uffici possiamo fare una nota di ciò che deposito adesso, in modo da averlo anche io agli atti.

  PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Di Pietro. La seduta è conclusa.

  La seduta termina alle 14.50.