XIX Legislatura

III Commissione

COMITATO PERMANENTE SULLA POLITICA ESTERA PER L'INDO-PACIFICO

Resoconto stenografico



Seduta n. 2 di Mercoledì 18 ottobre 2023

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Formentini Paolo , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA PROIEZIONE DELL'ITALIA E DEI PAESI EUROPEI NELL'INDO-PACIFICO
Formentini Paolo , Presidente ... 3 
Rossi Emanuele , analista di politica internazionale ... 3 
Formentini Paolo , Presidente ... 6 
Onori Federica (M5S)  ... 6 
Rossi Emanuele , analista di politica internazionale ... 6 
Formentini Paolo , Presidente ... 7 
Rossi Emanuele , analista di politica internazionale ... 7 
Formentini Paolo , Presidente ... 8 

Audizione di John Delury, professore di studi cinesi presso la Yonsei University Graduate School of International Studies (GSIS) di Seul:
Formentini Paolo , Presidente ... 8 
Delury John , professore di studi cinesi presso la Y ... 8 
Formentini Paolo , Presidente ... 12 
Giglio Vigna Alessandro (LEGA)  ... 12 
Formentini Paolo , Presidente ... 13 
Delury John , professore di studi cinesi presso la ... 13 
Formentini Paolo , Presidente ... 14 

(La seduta, sospesa alle 16, è ripresa alle 16.30) ... 14 

Audizione, in videoconferenza, di Alessio Patalano, professore di studi dell'Asia orientale presso il King's College di Londra:
Formentini Paolo , Presidente ... 14 
Patalano Alessio , professore di studi dell'Asia orientale presso il ... 14 
Formentini Paolo , Presidente ... 18 
Quartapelle Procopio Lia (PD-IDP)  ... 18 
Formentini Paolo , Presidente ... 18 
Billi Simone (LEGA)  ... 18 
Formentini Paolo , Presidente ... 18 
Patalano Alessio , professore di studi dell'Asia orientale presso il ... 19 
Formentini Paolo , Presidente ... 21 
Orsini Andrea (FI-PPE)  ... 21 
Formentini Paolo , Presidente ... 21 
Giglio Vigna Alessandro (LEGA)  ... 21 
Formentini Paolo , Presidente ... 22 
Patalano Alessio , professore di studi dell'Asia orientale presso il ... 22 
Formentini Paolo , Presidente ... 24

Sigle dei gruppi parlamentari:
Fratelli d'Italia: FdI;
Partito Democratico - Italia Democratica e Progressista: PD-IDP;
Lega - Salvini Premier: Lega;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Berlusconi Presidente - PPE: FI-PPE;
Azione - Italia Viva - Renew Europe: A-IV-RE;
Alleanza Verdi e Sinistra: AVS;
Noi Moderati (Noi con L'Italia, Coraggio Italia, UDC e Italia al Centro) - MAIE: NM(N-C-U-I)-M;
Misto: Misto;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-+Europa: Misto-+E.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
PAOLO FORMENTINI

  La seduta comincia alle 15.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante la resocontazione stenografica e la trasmissione attraverso la web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di Emanuele Rossi,
analista di politica internazionale.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle tematiche relative alla proiezione dell'Italia e dei Paesi europei nell'Indo-pacifico, l'audizione di Emanuele Rossi, analista di politica internazionale.
  Ricordo che la partecipazione da remoto è consentita alle colleghe e ai colleghi, secondo le modalità stabilite dalla Giunta per il Regolamento.
  Anche a nome dei componenti del Comitato, ringrazio per la disponibilità a prendere parte ai nostri lavori il Dottor Rossi e, considerati i tempi stretti dell'audizione, gli do subito la parola affinché svolga il suo intervento.

  EMANUELE ROSSI, analista di politica internazionale. Buon pomeriggio onorevoli, vi ringrazio per l'invito e per l'attenzione che questo Comitato sta mettendo nell'analizzare un quadrante cruciale per i destini del mondo, dunque anche per l'Italia.
  Per lungo tempo, l'attenzione geostrategica dell'Italia si è concentrata principalmente nella regione del Mediterraneo allargato, che com'è noto include il Medio Oriente, il Nord Africa, il Sahel e Hormuz, fino al taglio latitudinale dal Golfo di Guinea a quello di Somalia. È un perimetro da tenere a mente, perché ci sarà molto utile per ragionare anche di Indo-Pacifico. Quest'area del Mediterraneo allargato continua ad essere in cima alle priorità degli interessi strategici italiani, come dimostra il recente sforzo del Governo nel promuovere forme di dialogo e stabilizzazione nella crisi tra Israele e Hamas, oppure le iniziative riguardanti il cosiddetto «Piano Mattei». Tuttavia, l'importanza crescente dell'Indo-Pacifico, sia dal punto di vista economico che geopolitico, e la continuità con il nostro naturale quadrante di proiezione ci impongono anche il dovere di una riflessione strategica molto ampia.
  L'Italia, sottolineando l'importanza dell'ordine basato sulle regole e la promozione di iniziative multilaterali allineate con le priorità dell'Unione europea tanto quanto il suo interesse nazionale, sta sviluppando una propria visione strategica per la regione Indo-Pacifica, come l'esistenza stessa di questo Comitato all'interno di questa Commissione testimonia.
  Al centro di questa visione immagino che dovrebbe esserci il riconoscimento del valore dell'interconnessione tra quel Mediterraneo allargato che abbiamo prima perimetrato e appunto l'Indo-Pacifico, perché è in queste zone di continuità e fusione che l'Italia può essere più efficace nel perseguire i propri interessi. Non a caso, il Presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni, durante il suo discorso a Nuova Delhi, in occasione della visita ufficiale in India a marzo, ha sottolineato che «il Mar Mediterraneo e l'Indo-Pacifico sono interconnessi e noi vogliamo rafforzare sempre di più questa interconnessione». È stato Pag. 4proprio in quel momento che ho trovato particolarmente significativa la necessità di seguire la traiettoria strategica lungo questi assi.
  Per fare questo, l'Italia dovrebbe elevare a vettori di politiche internazionali proprietà comuni alle due regioni, come per esempio lo sviluppo dei Paesi più in difficoltà (il cosiddetto Global South, a cui appartengono nazioni di entrambi i quadranti geostrategici), la sicurezza marittima, la sicurezza alimentare, la sicurezza sanitaria, la sicurezza energetica e il controllo degli impatti climatici sulle collettività, e, infine, la connettività, anche attraverso infrastrutture, sia fisiche che digitali, come quella che recentemente – al G20 di Nuova Delhi – si è materializzata nell'India-Middle East-Europe Corridor, più noto con l'acronimo IMEC, su cui vorrei focalizzare parte della mia audizione.
  Quelli appena citati, compreso quest'ultimo della connettività, sono temi che, a quanto pare, Roma intende promuovere come base strutturale anche del G7 che ospiterà il prossimo anno. Temi che peraltro daranno continuità alla visione del G20 del 2021, quando la Presidenza italiana andava sotto il titolo «Persone, pianeta, prosperità», e all'idea indiana di «interconnessione del mondo come un'unica famiglia» che ha fatto da motto al recente G20 di settembre.
  Non a caso, l'India è uno dei partner strategici con cui l'Italia sta rinforzando la collaborazione, anche nell'ottica di quella che l'Ambasciatore Vincenzo De Luca ha definito la principale area di cooperazione tra Roma e Nuova Delhi, ossia lo sviluppo del Global South, area di mondo per cui l'Italia è terra di confine, ponte di collegamento, anche attraverso progetti come IMEC.
  È su questi temi che gli interessi mediterranei e indo-pacifici italiani si fondono, mentre l'Italia è già attivamente presente nel fornire sicurezza nelle aree geografiche geomorfologiche di fusione dei due quadranti, come il Golfo di Somalia, il Mar Arabico, il Mar Rosso e lo stretto di Bab el Mandab.
  Dicevo della necessità di focalizzarsi su IMEC, su questo progetto che assume in questo quadro un valore essenziale, perché diventa un corridoio di scorrimento di catene di approvvigionamento e collegamenti come l'Italia sta progettando di costruire con altri partner indo-pacifici – per esempio il Vietnam, il Bangladesh e l'Indonesia, oltre a India, Giappone, Corea del Sud e Taiwan – e IMEC diventa anche un elemento che disegna e perimetra il concetto geostrategico che potremmo definire Indo-Mediterraneo.
  Dunque, sebbene una strategia ufficiale dell'Italia per l'Indo-Pacifico non sia stata ancora completamente sviluppata – ed è in sviluppo, come questa riunione testimonia – appare già disegnata la dimensione su cui essa potrebbe basarsi: la continuità, e quindi la connessione, tra i due quadranti, Indo-Pacifico e Mediterraneo.
  Restano da valutare effettivamente diverse variabili – e poi ci arriveremo –, di cui forse la principale è il futuro dell'evoluzione delle relazioni con la Cina, maggiore sfida e complessità per l'Italia sia nell'impegno dell'Indo Pacifico, sia per i riflessi sul Mediterraneo allargato, dove Pechino si muove come rivale sistemico e competitivo.
  L'evoluzione delle relazioni tra Roma e Pechino si lega soprattutto alla decisione italiana sulla Belt and Road Initiative (BRI) e come è noto il Governo Meloni sta valutando una profonda riflessione riguardo al rinnovo del memorandum of understanding (MoU) per la Belt and Road Initiative e le possibili conseguenze, considerando anche il rischio di potenziali rappresaglie sotto forme di coercizione economica (sebbene occorra tener conto che l'Italia è un Paese del G7, il quale si è già impegnato pubblicamente per combattere quelle forme di coercizione economica). Anche in questo, IMEC ha il suo valore.
  A questo punto vorrei ricordare alcuni punti chiave del progetto, perché essi stessi contribuiscono ad evidenziare il valore sia tecnico-pratico che geostrategico, secondo quel costrutto teorico che abbiamo precedentemente definito Indo-Mediterraneo, lungo il quale scorre il cosiddetto «asse Pag. 5abramitico» delle relazioni, ossia l'insieme dei rapporti politici e geopolitici tra ebraismo, cristianesimo e islam.
  Allora, innanzitutto il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa è stato lanciato in occasione del vertice del G20 a Nuova Delhi e la scelta di tale palcoscenico, già di per sé, racconta ambizioni e aspirazioni su un potenziale che punta ad essere parte significativa della strategia Indo-Pacifica dell'Europa, con particolare attenzione all'India. L'IMEC è in linea con le priorità strategiche europee nella regione Indo-Pacifica e può tradurre le iniziative diplomatiche dell'UE in azioni concrete. Completa, infatti, anche iniziative come il Global Gateway e contribuisce a riequilibrare le relazioni commerciali tra l'UE e la Cina.
  Il cambiamento di strategia dell'UE nei confronti della Cina è dovuto a diversi fattori, tra cui la politica cinese degli Stati Uniti e l'invasione russa dell'Ucraina. La cooperazione con l'India e gli Stati Uniti nel Golfo e nel Medio Oriente può creare catene di approvvigionamento alternativo e rafforzare legami economici. L'impegno europeo con l'India è cresciuto, con leader come Ursula von der Leyen e i principali Stati membri dell'UE che hanno dato priorità alle relazioni con Nuova Delhi in vari settori, tra cui il commercio e la difesa. L'Italia dovrebbe quindi vedere l'IMEC come parte integrante della sua strategia Indo-Pacifica, in quanto si allinea con gli obiettivi in termini di interessi marittimi e relazioni con gli attori mediorientali.
  L'IMEC giunge in un momento cruciale, inoltre, per il nostro Paese, appunto quella rivalutazione della cooperazione con la Cina, che passa anche dalla conclusione potenziale dell'accordo di adesione alla Belt and Road Initiative (BRI) e mentre l'Italia cerca opportunità di vario genere in settori come quello energetico, dei trasporti e delle telecomunicazioni. Il corridoio enfatizza l'interconnettività energetica e l'Italia è particolarmente interessata a questo aspetto. L'attenzione italiana per la transizione energetica ed economica e l'Asia meridionale si allinea con la Global Biofuel Alliance, per esempio, che include anche l'India. Il coinvolgimento degli Emirati Arabi e dell'Arabia Saudita nell'IMEC rafforza, inoltre, le potenziali relazioni geoeconomiche sia per l'Europa, sia per l'Italia, sia per l'India.
  Le sfide includono lo squilibrio economico e commerciale fra le relazioni UE-India e UE-Cina, le diverse priorità politiche tra gli attori coinvolti e i potenziali rallentamenti economici nell'UE. La volontà politica è fondamentale per il successo dello sviluppo del segmento europeo dell'IMEC. Occorre ancora valutare alcuni elementi che sono caratterizzanti del progetto e stanno alla base della dimensione geostrategica che vi è dietro.
  L'Occidente vede l'IMEC come un modo per contrastare l'influenza cinese nella regione e offrire un'alternativa alla BRI. Tuttavia, gli attori del Golfo vedono questo progetto nel contesto di un nuovo ordine globale che si sta disegnando, in cui possono bilanciare i legami sia con la Cina, sia con l'Occidente, sia con l'India a proprio vantaggio.
  Le monarchie del Golfo non sono infatti preoccupate, come le nazioni occidentali, di una eccessiva dipendenza economica della Cina e dei legami energetici con la Russia. Esse si considerano degli hub globali grazie alla loro posizione strategica tra Asia, Africa ed Europa e mirano a migliorare la connettività di queste regioni.
  Gli Stati del Consiglio di cooperazione del Golfo si stanno avvicinando in vario modo alla Russia e alla Cina, soprattutto sfruttando il contesto della guerra russa in Ucraina come elemento di moltiplicazione e proiezione dei propri interessi. Resistono alle pressioni occidentali per allontanarsi da questi partenariati, come testimoniano i vari passaggi che riguardano i sauditi, gli emiratini e i qatarini.
  Questi Paesi vedono nell'attuale panorama geopolitico un'opportunità per avanzare richieste agli Stati Uniti, all'Unione europea e procedere con le loro attività di multi-allineamento. Tra l'altro, va ricordato che questi Stati condividono l'avversione alle sanzioni occidentali e stanno esplorando misure e forme di de-dollarizzazione.Pag. 6
  L'IMEC si inserisce nel solco della crescente influenza della Cina nella regione mediorientale, però, in quanto Pechino è la principale acquirente di petrolio e gas e ha investimenti significativi nelle infrastrutture digitali e nei porti regionali strategici. Se per Pechino è essenziale promuovere la BRI – che festeggia oggi i dieci anni dal suo lancio, con tutta la narrazione che si porta dietro – l'IMEC diventa effettivamente alternativa, dunque competitor, anche sul piano della narrazione strategica.
  È sicuro, o molto probabile, che l'IMEC non invertirà di colpo le dinamiche che si sono innescate nell'ultimo decennio nella Regione mediorientale a cavallo con la parte occidentale dell'Indo-Pacifico, ma può servire gli interessi europei cementando i partenariati economici e creando un effetto leva per incoraggiare il Golfo a rinunciare al rischio, percepito soprattutto nell'Occidente, dell'eccessiva esposizione a Pechino in alcuni settori.
  Questo significa che l'IMEC può portare ad un aumento dell'influenza dell'Europa accanto a quella della Cina, anziché sostituirla. Questo potrebbe essere un bene pubblico condiviso, a beneficio di più attori della regione, e promuovere una crescita economica inclusiva e stabilizzante.
  Per avere successo, i partecipanti all'IMEC devono impegnarsi ad affrontare le sfide logistiche e garantire che il progetto sia allettante da incentivare gli attori regionali e dovrebbero inoltre rimanere aperti ad estensioni per coinvolgere altri attori regionali, promuovendo una più ampia gamma di integrazione e la de-escalation.
  In sintesi, l'IMEC diventa un'iniziativa con implicazioni profonde sul piano geopolitico quanto economico per il Medio Oriente, per l'Europa e per l'Indo Pacifico. Riflette il cambiamento di un ordine internazionale, in cui gli attori delle due regioni di cui abbiamo finora parlato bilanciano i legami con le grandi potenze. Il successo dipenderà da aspettative realistiche, dall'impegno e da una visione di integrazione economica regionale inclusiva.
  Nell'immediato, però, c'è un grande problema da affrontare, il procedere del conflitto tra Israele e Hamas. Il rischio è che un rallentamento, dovuto appunto all'innescarsi della crisi in Medio Oriente, produca i presupposti per un'alterazione dei piani in futuro.
  Anche per questo la frenesia diplomatica di queste ore – proprio queste in cui ci stiamo parlando – è fondamentale per evitare tanto una preoccupante espansione regionale degli scontri e della guerra, quanto di alterare i piani strategici a lunga gittata.
  La mia opinione – e qui concludo – è che il quadro generale di stabilizzazione mediorientale, su cui convergono le varie «vision» degli attori regionali e dei grandi Paesi della regione, nonché gli interessi messi in piedi dall'India, dagli Stati Uniti e dall'Europa, siano ben più forti della crisi militare in Israele e dunque sebbene esista attualmente una pausa nel dialogo per la normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita (e un raffreddamento dei rapporti negli Accordi di Abramo), progetti come IMEC e le varie connettività collegate resteranno in piedi, e una volta superata la fase emergenziale critica attuale torneranno in marcia. Anche per questo, dunque, è importante, per un Paese come l'Italia, essere presenti nelle dinamiche regionali che si stanno dipanando in questo momento.
  Grazie della vostra attenzione.

  PRESIDENTE. Grazie mille. Ci sono interventi? Onori.

  FEDERICA ONORI. Grazie presidente, grazie al dottor Rossi per il suo intervento. Volevo chiederle, Lei ha toccato lateralmente il tema della Belt and Road Initiative e approfitterei della sua presenza per chiederle una valutazione, dal suo punto di vista, dell'ingresso dell'Italia in questo progetto rispetto all'economia regionale. Ovvero, la nostra presenza ha cambiato qualcosa - e, nel caso, cosa - e un nostro defilarci, invece, che tipo di conseguenza potrebbe avere a livello di rapporti geopolitici? Grazie.

  EMANUELE ROSSI, analista di politica internazionale. Grazie della domanda. Dal mio punto di vista, ma anche osservando gli elementi quantitativi che riguardano l'adesionePag. 7 italiana alla Belt and Road Initiative, in effetti non c'è stato un grande cambiamento né nelle nostre relazioni con la Cina, dal punto di vista economico-commerciale, degli scambi, né dal punto di vista delle relazioni politiche, che comunque restano allo stesso modo buone, come erano in precedenza; né – e questo è un elemento importante – la Belt and Road Initiative ha contribuito a sviluppare o favorire cooperazioni italo-cinesi in Paesi terzi, per esempio in ambienti come quelli della regione del Mediterraneo allargato, in Nord Africa e nel Medio Oriente.
  La Cina agisce all'interno di questi quadranti geostrategici non certo cercando cooperazioni, nemmeno con Paesi che fanno parte della BRI, anche perché con molti di questi Paesi – parlo per esempio dei Paesi del Golfo, banalmente, ma anche altri – la Cina ha firmato direttamente dei memorandum of understanding (MoU) simili a quelli che avevamo e abbiamo noi. Dunque, sotto questo punto di vista la Belt and Road Initiative non è stato un vettore di proiezione politica internazionale per l'Italia. Non lo è stato nei termini pratici, non lo è stato nei termini quantitativi degli scambi commerciali. Abbiamo rischiato di sembrare particolarmente esposti a quella che a me piace definire una «infrastruttura geopolitica», perché ai tempi in cui fu firmato il memorandum si parlava di un netto discernimento tra le attività commerciali e le attività politiche, ma poi noi sappiamo bene che in questo decennio la «securitizzazione» – generale e totale – delle relazioni internazionali ha toccato anche la sfera economica e, toccando la sfera economica, siamo passati a sovrapporre le attività commerciali con le attività di politica internazionale. Quindi, definire la BRI una cosa terza rispetto alla politica estera cinese mi sembra abbastanza azzardato, anche oggi come prima.
  Implicazioni dell'uscita: non lo so, francamente, al netto di quello che ci siamo detti finora, non credo che l'Italia trovi problemi nel proiettarsi nel Mediterraneo allargato, per esempio, perché è uscita dalla Belt and Road. La Cina è un attore competitivo e lo era anche con l'adesione italiana al progetto cinese. Non credo francamente che la Cina possa mettere in piedi grandi operazioni di coercizione economica contro l'Italia, per capirci quello che è successo con la Lituania, semplicemente perché l'Italia è un Paese del G7, ha una dimensione economica e politica globale superiore a quella che è la Lituania e perché – come dicevamo in precedenza – il G7 ha già affilato gli strumenti per rispondere a questa coercizione economica. Dunque, immagino che, anche davanti ad un'eventuale uscita, i rapporti tra Italia e Cina resteranno sufficientemente fluidi, anche perché noi il prossimo anno festeggeremo i venti anni dall'inizio della partnership strategica che fu firmata dal Governo Berlusconi nel 2004 e che, ad oggi, secondo le informazioni disponibili, nessuno ha intenzione di intaccare.

  PRESIDENTE. Prima di salutare, negli ultimi cinque minuti a disposizione, farei una domanda. Se si potesse sottolineare per punti qual è l'interesse italiano – come si è detto, c'è un interesse ovvio italiano –, cercare di enucleare un po' i punti di interesse non tanto ad aderire, ma a diventare parte, anzi terminale del corridoio dall'India, Paesi del Golfo e quindi, via Medio Oriente, all'Italia. Ovviamente - è sottinteso - quando la situazione cambierà, auspichiamo a breve.

  EMANUELE ROSSI, analista di politica internazionale. Grazie della domanda. IMEC è molto probabilmente la cosa più interessante delle relazioni internazionali globali in questo momento. Quello che si sta creando è un collegamento su tre su tre livelli, uno marittimo, uno ferroviario – quindi terrestre – e un altro in termini di connettività digitali e di pipelines che trasporteranno, molto probabilmente, le forme di energia che caratterizzano la transizione in corso, che siano elettricità o idrogeno.
  La presenza italiana è una presenza quasi scontata su più livelli: uno perché l'Italia ha una dimensione e una connotazione geostrategica eccellente per poter essere l'hub di arrivo del progetto del corridoio. Siamo una piattaforma geomorfologicaPag. 8 all'interno del Mediterraneo e in quanto tale una connettività che collega una parte di Indo-Pacifico con l'Europa non può che entrare da noi, non semplicemente passare. Noi potremmo essere la porta di questo progetto anche se abbiamo visto che ci sono altri Paesi europei che stanno discutendo questo ruolo.
  Poi abbiamo una ragione di carattere politico: IMEC si costruisce all'interno di quel costrutto indo-abramitico di cui abbiamo parlato in precedenza e ovviamente l'Italia è il rappresentante globale di una delle religioni abramitiche. Questo ci crea un collegamento di carattere culturale, di carattere sociologico, e quindi anche di carattere politico, con quel mondo che si sta costruendo attorno a IMEC; infine, in definitiva, se stiamo cercando una via strategica per affacciarsi all'Indo-Pacifico IMEC è probabilmente la via strategica che sta venendo verso di noi. La porta è aperta e io non vedo perché non dovremmo esserci, sotto tutti i punti di vista.

  PRESIDENTE. Grazie di cuore. Interessantissima audizione e ci vediamo presto. Se siamo pronti, procederei con la successiva. Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di John Delury, professore di studi cinesi presso la Yonsei University Graduate School of International Studies (GSIS) di Seul.

  PRESIDENTE. Buon pomeriggio. Proseguiamo. L'ordine del giorno reca, sempre nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle tematiche relative alla proiezione dell'Italia e dei Paesi europei nell'Indo-Pacifico, l'audizione del professore John Delury – azzardiamo una pronuncia – del Centro di studi cinesi presso la Yonsei University Graduate School of International Studies (GSIS) di Seul.
  Anche a nome dei componenti del Comitato, ringrazio per la disponibilità a prendere parte ai nostri lavori il professor Delury e gli do subito la parola affinché svolga il suo intervento. Grazie.

  JOHN DELURY, professore di studi cinesi presso la Yonsei University Graduate School of international Studies (GSIS) di Seul. Mi dispiace, non posso parlare bene l'italiano, passo quindi all'inglese. Grazie infinite per avermi invitato. Intanto vorrei congratularmi con la Commissione per l'indagine conoscitiva che sta conducendo, volta ad individuare le fondamenta sulle quali costruire una nuova strategia per la presenza dell'Italia nell'Indo-Pacifico, comprese chiaramente le sfide a livello di sicurezza e – come vedete dal titolo della mia presentazione – spero, appunto, che la mia presentazione e il nostro dibattito possano contribuire ai vostri sforzi.
  Desidero iniziare sottolineando che sono in Italia per la prima volta, essendo arrivato appena il mese scorso. Ripeto, sono arrivato in Italia da appena un mese e sono stato nominato primo Tsao Fellow in studi cinesi presso l'Accademia americana di Roma. Questo è un anno sabbatico dalla mia Università d'appartenenza.
  L'Accademia americana, come sapete, è stata fondata nel 1911 e da allora è un baluardo della presenza culturale americana in Italia. Ecco, mi sorprende il fatto che l'Accademia americana abbia scelto il sottoscritto, un sinologo, tra vari studiosi dell'Impero romano, del Rinascimento, dell'Italia moderna. Questo la dice lunga sul tema che affrontiamo e sulla crescente importanza della Cina e, per estensione, dell'Indo-Pacifico, anche in relazione ai legami transatlantici.
  Sono arrivato in Italia da poco, ma studio la Cina in modo molto intenso fin dalla mia prima visita lì nel '94; inoltre vivo nell'Indo-Pacifico da tredici anni. Sono arrivato alla facoltà della principale università privata della Corea del Sud, Yonsei, nel 2010, e vivo a Seul da allora. Mi sono recato regolarmente in diversi Paesi della regione: Giappone, Taiwan, Filippine, Vietnam, Thailandia, Australia, tra gli altri e, prima del COVID, mi recavo regolarmente anche in Cina. Ho effettuato diverse visite anche in Corea del Nord, negli anni di transizione dall'ex leader Kim Jong-il all'attuale leader Kim Jong-un. Sono stato coinvolto nella cosiddetta diplomazia track two – la diplomazia parallela – sul tema nucleare nord-coreano, a volte interloquendoPag. 9 anche con rappresentanti della Corea del Nord. Anche la Russia, in quanto Paese adiacente, fa parte dell'Indo-Pacifico, come purtroppo ci ricordano il recente Vertice tra Kim Jong-un e Vladimir Putin o la recente visita a Pyongyang di Lavrov. Prima dell'invasione dell'Ucraina ho viaggiato anche in Russia per affrontare il tema della sicurezza regionale. Sono costantemente in contatto con gli Stati Uniti, ci vado regolarmente, e quindi vorrei condividere con voi una serie di argomenti che nascono da dodici anni circa di osservazioni e di conversazioni nella regione dell'Indo-Pacifico.
  Per quanto riguarda le mie ricerche, di recente ho pubblicato un libro sulle relazioni tra Stati Uniti e Cina durante la guerra fredda, ho partecipato alla stesura di una storia generale della Cina moderna, che si intitola Wealth and Power, e scrivo regolarmente su temi di attualità dell'Asia orientale per testate come Foreign Affairs, Foreign Policy e il New York Times.
  Dato che sono uno storico di formazione e insegno storia, vorrei offrirvi un condensato dell'ultimo mezzo secolo di storia della regione.
  Quindi, parlerei un po' di storia per capire gli attuali sviluppi nell'Indo-Pacifico. Nei circa cinquant'anni trascorsi dal momento in cui il Presidente Nixon scese dall'aereo e strinse la mano al Primo Ministro della Repubblica Popolare cinese Chu Enlai, le fondamenta della sicurezza e della prosperità nell'Indo-Pacifico poggiarono sulla stabilità delle relazioni tra Stati Uniti e Cina. Ci sono stati alti e bassi, ma le relazioni furono sostanzialmente fondate sulla cooperazione ed ebbero per lo più un carattere amichevole. Questo per la seconda metà della guerra fredda fino all'inizio del XXI secolo. Quella fu un'era davvero straordinaria per tante parti dell'Indo-Pacifico, soprattutto per l'Asia dell'est, un periodo di miracoli economici che diedero vita alle cosiddette "Tigri asiatiche", invidiate dal mondo in via di sviluppo. Quella fu anche un'epoca in cui ci furono pochi, se non nessun conflitto armato nella regione. Si trattò di una situazione che gli esperti di relazioni internazionali studiano per capirne la natura. Si parlò di una cosiddetta «pace dell'Estremo Oriente», che è durata dal '79 fino ad oggi. La stabilità geopolitica e lo sviluppo economico di quel mezzo secolo di pax sino-americana sono il motivo per cui la maggior parte delle opinioni pubbliche e dei leader dell'Indo-Pacifico, anche se in linea di principio accolgono con favore e traggono benefici dall'ascesa della Cina, sono molto preoccupati per il peggioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Cina. Vorrebbero vedere, se non un miglioramento, perlomeno un livello minimo di relazioni tra Stati Uniti e Cina.
  Per usare un'altra analogia che sento utilizzare spesso a Seul, non vogliono essere costretti e scegliere tra Cina e Stati Uniti; questo è il sentimento diffuso nella regione, in particolare anche nella Corea del Sud, che ospita la più grande base militare americana al di fuori del territorio statunitense, ma è vicina alla Cina e dipende della Cina per un quarto della propria economia in termini di scambi commerciali e investimenti.
  Mi vengono in mente soltanto due Paesi, la Russia e la Corea del Nord, che potrebbero considerare un conflitto tra Stati Uniti e Cina come qualcosa che rientra nel loro interesse nazionale.
  Queste preoccupazioni circa le relazioni sino-statunitensi che sono nutrite da Seul a Singapore sono fondate. Le relazioni tra Stati Uniti e Cina sono in declino ormai da un decennio e purtroppo credo che peggioreranno ulteriormente nel prossimo decennio, con il pericolo di un deterioramento improvviso, uno scenario di deterioramento rapido.
  Gli esperti delle relazioni internazionali ne parlano spesso, ne avete sentito parlare, ma questo a mio avviso non è uno scenario inevitabile. Il motivo alla base di questo deterioramento non è una transizione di potere. Credo che gli Stati Uniti, che possiamo definire la potenza egemonica del mondo, siano in grado di adattarsi all'ascesa della Cina, così come è nell'interesse della Cina trovare un modus vivendi. Guardando la storia, fin dalla loro fondazione, alla fine del diciottesimo secolo, gli Stati Uniti hanno sempre avuto una politica amichevolePag. 10 rispetto alla Cina. L'eccezione sono stati gli anni '50 e '60, gli anni della guerra in Corea e in Vietnam. Dal '72 e fino agli anni recenti, si può dire che gli Stati Uniti hanno incoraggiato attivamente un'ascesa della Cina, anche se chiaramente la Repubblica popolare cinese stava colmando il divario come potenza nazionale e non dava alcun segno di voler diventare una democrazia. Quindi, cosa è cambiato? Perché le relazioni tra Stati Uniti e Cina ora sono basate sulla concorrenza, meno cooperative e più conflittuali? Gli sviluppi sono molto complicati, ma se dovessi dire la mia direi che la causa è Xi Jinping. La piega autocratica e reazionaria del regime di Xi Jinping ha sorpreso le migliori menti cinesi. E - per citare alcuni esempi disonorevoli - sotto Xi Jinping abbiamo visto una sistematica repressione della società civile, sempre meno spazio per la cooperazione internazionale, anche quella più benigna. Abbiamo visto una soppressione non-violenta, ma sistematica e coercitiva, dell'autonomia civica ad Hong Kong. Siamo stati testimoni dell'incarcerazione di massa tra gli uiguri e tra le minoranze religiose ed etniche nella provincia nord-occidentale dello Xinjiang, abbiamo visto l'ascesa di uno stato di sorveglianza ad alta tecnologia che monìtora la vita di un miliardo e 400 milioni di abitanti.
  Credo che Xi Jinping abbia goduto di grande popolarità tra i cittadini cinesi han, soprattutto nel suo primo mandato e per buona parte del secondo; ma abolendo il limite del suo mandato da Presidente – con la riforma costituzionale del 2018 – Xi si è firmato da solo un assegno in bianco, decidendo per quanto tempo rimanere al potere, e questa è una sconfitta, credo, consentita dal Partito comunista cinese. Nel 2007 si ritenne che Xi, scelto ed eletto in quell'anno, avrebbe svolto il proprio mandato regolarmente per dieci anni, ma poi nel 2017 Xi si rifiutò di trovare un successore che avrebbe dovuto condurre ad una ulteriore successione nel 2022. Ha spezzato la regola di ferro di Xiaoping, per cui non dovevano più esserci personaggi come Mao Tze Tung. E per i dieci anni successivi, e forse anche oltre, il Paese ed il partito ne pagheranno il prezzo. Lo sciismo è diventato talmente negativo l'anno scorso, tanto che gli analisti della Cina sono stati colti di sorpresa ancora una volta quando gli studenti hanno protestato nelle università di tutto il Paese. Anche i lavoratori hanno protestato, ma mi soffermerei sugli studenti, soprattutto nella università Xinhua, la più importante della Cina, dove io stesso ho studiato per un periodo da studente straniero.
  Ora, anche se gli scioperi degli studenti non sono una cosa di grande rilievo qui a Roma – mia figlia nel suo liceo ha già partecipato ad una occupazione – a Pechino, Shangai, Chengdu e altre città della Cina questi sono stati degli eventi storici e se ne parlerà a lungo in relazione a questo periodo. La loro importanza è facilmente intuibile se si considera che oggi, in Cina, nessuna delle testate controllate dal partito ha osato parlarne in alcun modo. Questo è un silenzio pregno della disperazione dei giovani cinesi cosmopoliti, che soffocavano non soltanto per il lock-down dovuto al COVID, ma anche per lo stato di sorveglianza che è stato instaurato durante la pandemia. Chiaramente è difficile, quasi impossibile sapere – non possiamo farlo dal punto di vista statistico –, ma io credo che Xi Jinping goda di meno popolarità oggi rispetto al primo anno del suo mandato, dieci anni fa, per esempio, e direi che la sua popolarità continuerà a diminuire, anche se il suo desiderio di rimanere al potere comunque non sembra voler calare. Questa, storicamente, tende ad essere una pessima combinazione, il che ci porta un po' alla questione fondamentale di quello che dovrebbe preoccuparci. Soprattutto per la vostra Commissione è necessario capire cosa si può fare in risposta a ciò, vale a dire cosa possono fare le società aperte, i Governi democratici come quello italiano, come gli Stati Uniti o la Corea del Sud e quindi sia in Europa che nell'Occidente e in altre parti del mondo. Comincerei col dire quale, secondo me, non è la minaccia principale per la sicurezza dell'Indo-Pacifico: alcuni esperti di sicurezza non sarebbero d'accordo con me – potreste non essere d'accordo anche voi –, ma io non credo che il Pag. 11maggior rischio della regione sia un'invasione di Taiwan da parte dell'Esercito Popolare di Liberazione o un'invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord. Xi Jinping viene spesso paragonato a Vladimir Putin e Taiwan viene dipinta come la prossima Ucraina, l'Ucraina dell'Indo-Pacifico; ma, diversamente da Putin, Xi non ha invaso altri Paesi, è molto cauto quando si tratta di impiegare l'Esercito popolare di liberazione all'estero.
  Prendiamo ad esempio le crisi più vicine, interne alla sfera di influenza cinese, come il colpo di stato in Myanmar nel 2021 o i disordini in Kazakistan nel 2022. È rilevante che i militari cinesi non sono intervenuti. Anche nel caso di Taiwan, che Pechino ha sempre considerato come parte del proprio territorio sovrano, nonostante l'ammasso di capacità militari a mio avviso non vi sono segni di un piano di invasione. Non sono d'accordo con quelli che sostengono che nei discorsi di Xi Jinping vi siano indicazioni di una volontà o di un piano di invasione di Taiwan. In realtà la sua retorica è simile a quella dei suoi predecessori, non mi sembra ci sia una campagna più ampia che possa preparare la popolazione cinese continentale ad una possibile ripresa della guerra civile cinese, ad uno spargimento di sangue cinese per catturare Taiwan, perché questa sarebbe la prospettiva per la Cina continentale. Il che non significa che Taiwan non sia minacciata o che non abbia bisogno di sostegno; si tratta di capire il tipo di minaccia e il tipo di sostegno. E quindi, invece che di un'invasione militare vera e propria, credo che ci si debba preoccupare dell'influenza insidiosa di un regime culturalmente reazionario e politicamente autocratico come quello di Xi Jinping, che ha un ruolo fondamentale e insostituibile nell'economia globale. Non credo che Xi Jinping avrebbe mai il coraggio di ordinare all'esercito cinese di attaccare Taiwan, ma forse farebbe nei confronti di Taiwan quello che ha fatto a Hong Kong, se ne avesse l'opportunità.
  Questo pericolo non si limita a Taiwan, dove è in gioco la sovranità territoriale. È una minaccia per l'Indo-Pacifico e per tutto il mondo, comprese l'Italia e l'Europa. La Cina di Xi ha dimostrato di essere pronta a usare la pressione economica, la sorveglianza invasiva ed una repressione transnazionale nei confronti di tutti i Paesi a livello globale.
  Ora che mi avvicino alla mia conclusione voglio parlarvi di una possibile risposta. Non voglio certo sedermi qui dopo appena cinque o sei settimane di permanenza nel vostro Paese e dire all'Italia cosa deve fare. Quello che voglio fare è proporre alcuni princìpi strategici che possano guidarvi nell'elaborazione di una strategia italiana per l'Indo-Pacifico. La sfida è affrontare la Cina, che ha un ruolo centrale in quella regione, continuerà a giocare un ruolo enorme nell'economia globale, ma è caratterizzata da strutture di Governo atrofizzate, trasferimenti stagnanti di potere tra generazioni, servilismo dell'informazione, un malcontento diffuso ben rilevato e ben represso.
  Cosa fare, allora? Cosa possono fare i Paesi come l'Italia? Permettetemi di offrire tre princìpi strategici.
  Primo: la trasparenza è fondamentale. Le società aperte e le democrazie liberali come l'Italia, gli Stati Uniti, la Corea del Sud – due mi sono note, e ora mi trovo nell'altra – devono prendere sul serio il pericolo di influenze maligne e contrastare questi pericoli con regole e abitudini di trasparenza. Garantire la trasparenza è un modo per proteggere le imprese italiane, ma anche le organizzazioni e gli individui che operano in Cina, così come i cittadini cinesi, che sono vulnerabili alle repressioni transnazionali.
  Secondo: è importante la solidarietà. Il Governo cinese ha praticato un'arte di governo di ritorsione economica, volta a colpire i Paesi uno alla volta. L'ostracismo della Norvegia dopo l'assegnazione del premio Nobel al dissidente politico Liu Xiaobo, le sanzioni alla Corea del Sud dopo la sua decisione di installare il sistema di difesa anti-missile Thaad; le sanzioni alla Lituania che ha aperto un ufficio di rappresentanza a Taiwan e i divieti sulle importazioni all'Australia dopo la sua richiesta di un'indagine sulle origini del COVID-19. Questi sono solo alcuni esempi. La Pag. 12migliore strategia di contrasto a lungo termine a questo genere di attività di coercizione economica, così come al problema generale delle operazioni di influenza condotte dalla Cina, consiste nel rafforzare il coordinamento tra le democrazie liberali ed essere pronti a sostenere con le risorse la retorica della solidarietà, in modo da contrastare le misure di ritorsione. La solidarietà può e deve includere la sfera militare, con dispiegamenti, esercitazioni congiunte, scali, che i Paesi europei, tra cui l'Italia, hanno realizzato o intendono realizzare nell'Indo-Pacifico. Ma la solidarietà politica, economica e tecnologica può essere più importante. Pertanto gli sforzi per migliorare ed espandere l'impegno diplomatico, economico e ad alta tecnologia con l'intera gamma di Paesi affini nell'Indo-Pacifico dovrebbero essere la pietra angolare di una strategia per la regione.
  Terzo punto: è importante tenere fede agli impegni assunti, nonostante quelli che io considero discorsi irrealistici e anche irresponsabili sul disaccoppiamento e anche le teorie più prudenti sul de-risking mirato. Mentre la mano destra si difende dalle influenze maligne, la mano sinistra deve protendersi verso una maggiore interazione, uno scambio, una partnership, soprattutto con quegli attori, numerosi, all'interno della Repubblica popolare cinese che vogliono un futuro aperto e cosmopolita per il loro Paese. Una potenza culturale come l'Italia può svolgere un ruolo di particolare importanza.
  Ora, abbiamo anche un paradosso: è necessaria una certa finezza per restare solidali con i Paesi affini contro le tendenze regressive e allo stesso tempo rimanere impegnati con la controparte cinese nel mondo degli affari, dell'istruzione, della cultura e delle arti. Ma questa risposta complessa è proprio quella che siamo chiamati a fornire nel prossimo decennio.
  Per concludere, in quanto storico della Cina vorrei richiamare la vostra attenzione sulla mia fallibilità, ma voi siete chiamati ad avere una certa dose di flessibilità nell'elaborare la vostra strategia.
  Infatti, anche uno studio sommario della storia moderna della Cina rivela che si tratta di un Paese e di una cultura che, nonostante l'incredibile spessore e la continuità della sua civiltà, conserva una eccezionale capacità di cambiamento. Questo a volte arriva in maniera improvvisa e drammatica e i cambiamenti colgono di sorpresa gli osservatori. Quando Mao Tse Tung assunse la guida del Partito Comunista Cinese negli anni '30, durante la Lunga Marcia, pochi osservatori esterni avrebbero previsto che sarebbe stato il leader principale di una Cina riunificata quindici anni dopo e, nel '49, quando proclamò appunto la Repubblica popolare cinese, pochi avrebbero potuto immaginare quanto il suo regime sarebbe diventato autarchico ed erratico nel suo ultimo decennio di potere, durante la Grande rivoluzione culturale proletaria. Ancora meno persone avrebbero previsto, alla fine degli anni '70, la rapidità con cui Deng Xiaoping avrebbe esorcizzato i fantasmi del maoismo e guidato la Cina nella direzione opposta, lontano dalle lotte politiche e verso lo sviluppo economico.
  Ci troviamo ora in un altro periodo di cambiamenti imprevisti, di accelerazione dell'autocrazia sotto Xi Jinping e la storia ci ricorda che anche questo passerà e le nostre strategie devono tener conto delle possibilità del futuro visto in questi termini. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie professore. Ci sono interventi? Presidente Giglio Vigna, prego.

  ALESSANDRO GIGLIO VIGNA. Grazie, professore, per la sua puntuale e interessantissima relazione. Io vorrei esporre la mia domanda partendo da dove ha terminato la sua relazione.
  È chiaro che, come ha detto Lei, non si può fare a meno di avere a che fare con una super potenza mondiale come la Cina ed è anche giusto tenere un certo tipo di rapporti, ad esempio culturali, ad esempio il mondo dell'arte, mi viene in mente il mondo dell'accademia e poi – è ovvio – tutte le interconnessioni di tipo imprenditoriale e commerciale.
  Ovviamente, da un punto di vista geostrategico è importante invece fare asse con Pag. 13quei Paesi che condividono i nostri valori e la nostra idea di mondo. Quindi iniziare già a dividere due piani: con la Cina dobbiamo evidentemente avere dei rapporti, con gli altri Paesi, che invece condividono la nostra sfera valoriale e la nostra identità culturale, vogliamo avere dei rapporti. Con la Cina, è giusto, vogliamo avere dei rapporti con una parte, con quella parte di Cina che potrebbe anche essere più affine a noi rispetto a quello che invece è oggi l'attuale Stato cinese.
  Parlava di un rapporto italiano anche culturale: io però volevo chiederle, in tutta questa sfera, in queste tipologie di rapporti, l'Europa come Comunità europea – ma in particolare l'Italia – quale ruolo può avere, quale può essere, nell'ambito dei Paesi occidentali, il nostro ruolo, sia come Unione europea, perché nell'ambito del mondo occidentale un conto sono gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia, un conto è forse la Gran Bretagna – che oggi è più in quella sfera che nella nostra, all'interno della macro-sfera occidentale –, un conto invece è l'Unione europea e in particolare l'Italia, che ruolo può avere in tutta questa serie di interconnessioni, questi diversi livelli di rapporto che dobbiamo e che vogliamo avere con quella parte di mondo.

  PRESIDENTE. Grazie mille. Prego professore.

  JOHN DELURY, professore di studi cinesi presso la Yonsei University Graduate School of International Studies (GSIS) di Seul. Grazie a Lei per le sue considerazioni e per la domanda che mi ha posto. Naturalmente Lei ed i suoi colleghi potrete elaborare delle idee più puntuali perché conoscete molto bene le risorse a disposizione dell'Italia, sempre in relazione ai rapporti con la Cina. Lei ha inquadrato molto bene il discorso ed è proprio questa l'essenza delle mie considerazioni. Ossia, voi potete capire quanto sia autocratico lo Stato cinese, però sarebbe un errore prendere le distanze dalla Cina. La cultura europea, e lo so anche da amici che ho in Cina, ha un grande rispetto per la civiltà cinese, che ha una propria forte identità anche risalendo ai tempi dell'antica Roma.
  L'interesse che il turismo cinese nutre per l'Italia e l'Europa è un altro aspetto molto importante. Esiste una dimensione economica del turismo, che può portare dei benefici reciproci, ma esiste anche un aspetto culturale e politico che tocca il turismo.
  L'Italia potrebbe forse affinare e irrigidire alcune delle proprie politiche, in linea con quanto hanno fatto altri Paesi in Europa, gli Stati Uniti e anche i Paesi dell'Indo-Pacifico, come per esempio l'Australia. Ma allo stesso tempo l'Italia potrebbe mettere insieme le risorse e trarre beneficio per esempio da mostre d'arte congiunte, aprirsi ad accogliere turisti cinesi, sostenere il flusso di italiani verso la Cina e dei cinesi verso l'Italia, sfruttando anche eventi. Anche il soft power, per esempio: ecco, io sono davvero felice di essere qui e cercherò di andare a Venezia per l'anniversario della morte di Marco Polo. Perché è un cliché – forse ho paura di dirlo – però è un'occasione che l'Italia ha come Paese per mandare dei segnali alla Cina. Anche se lascia l'iniziativa Belt and Road – la Via della seta –, si deve mandare comunque un messaggio importante. Non parliamo di contenimento, non parliamo di disimpegno, non vogliamo isolare la Cina anzi, al contrario, l'Italia ha un grande entusiasmo nel vedere il turismo che proviene dalla Cina. Quindi il mondo culturale italiano prova questo grande interesse, questo stimolo ad approfondire le relazioni culturali, perché sono millenarie.
  Non dobbiamo sottovalutare il potere che quel messaggio ha in Cina. Certo, è un momento difficile: noi – quando dico noi mi riferisco agli analisti della Cina, alle persone che si occupano di Cina da decenni, che hanno viaggiato, hanno studiato la lingua, hanno amici in Cina – è sempre più difficile sapere di cosa parlano i cinesi. Ossia di cosa parlano veramente quando si incontrano di persona, perché hanno paura anche di dire per telefono che cosa pensano. Ecco, con un impegno diretto abbiamo una grande occasione. Il popolo cinese è all'ascolto. Xi Jinping può essere un dittatore, però ascolta l'opinione pubblica. Lo abbiamo visto con le proteste studentesche: da un giorno all'altro la politica COVIDPag. 14 è stata cambiata. Vi sono diversi livelli di lotta globale relativa alla narrazione e al genere di mondo verso il quale ci stiamo muovendo.
  L'Italia e anche la Corea del Sud sono potenze culturali e quindi hanno un ruolo importante da svolgere, possono mandare dei segnali importanti ai cinesi. Noi vogliamo mandare per esempio i nostri studenti da voi e vogliamo ricevere gli studenti cinesi, noi vogliamo mandare i nostri turisti e ricevere i vostri: questi sono messaggi importanti, è il soft power appunto, un elemento essenziale che va di pari passo con l'hard power.

  PRESIDENTE. Grazie. Se i colleghi vogliono porre delle domande... Non ne vedo altre, quindi La ringrazio di cuore, professore, e ci teniamo in contatto. Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta, sospesa alle 16, è ripresa alle 16.30.

Audizione, in videoconferenza, di Alessio Patalano, professore di studi dell'Asia orientale presso il King's College di Londra.

  PRESIDENTE. Per concludere il ciclo odierno di audizioni nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle tematiche relative alla proiezione dell'Italia e dei Paesi europei nell'Indo-pacifico, l'ordine del giorno reca l'audizione, in videoconferenza, di Alessio Patalano, professore di studi dell'Asia orientale presso il King's College di Londra.
  Anche a nome dei componenti del Comitato, ringrazio per la disponibilità a prendere parte ai nostri lavori il professor Patalano, invitandolo a svolgere il proprio intervento. Prego, professore.

  ALESSIO PATALANO, professore di studi dell'Asia orientale presso il King's College di Londra (intervento in videoconferenza). In primo luogo, volevo ringraziare per l'opportunità di confrontarmi con la Commissione e, in particolare, chiedo scusa se l'ambiente attorno a me è un po' semplice, ma fino a cinque minuti fa ero nella stanza a fianco ad insegnare, quindi son riuscito a bloccare un'aula di insegnamento per avere un attimo tranquillo.
  Sulla questione del tema dell'Indo-Pacifico, quello che volevo cercare di proporre e di suggerire è una riflessione in termini quasi comparati con un'esperienza con la quale io sono più familiare, e cioè quella della realtà dell'Inghilterra, in particolare di riconfigurare e ripensare il ruolo di impegno e di ingaggio con l'Indo-Pacifico, come un punto di partenza per la riflessione che riguarda più specificatamente l'Italia.
  Quello che cercherò di fare è di offrire delle riflessioni generali per dieci minuti al massimo, in modo tale che poi possiamo avere un momento di confronto e io possa essere in grado, poi, di far seguito a delle domande, ad uno scambio che possa essere soddisfacente e cercare di articolare ed elaborare la prospettiva italiana, rispetto a questo Indo-Pacifico, in modo più dettagliato.
  Quello che voglio cercare di fare è di presentare tre punti fondamentali. Primo, per quanto riguarda il discorso europeo, c'è un cambio di atteggiamento e di attitudine: sicuramente, il dibattito in Inghilterra, che comincia nel 2019, sulla questione dell'Indo-Pacifico è un dibattito che è comune in più capitali europee: se pensiamo e ci soffermiamo per un attimo alla strategia per l'Indo-Pacifico sviluppata in Francia, se pensiamo alla integrated review che viene introdotta qui nel 2021, se pensiamo all'Unione europea, all'Olanda, alla Germania... mi è sembrato di aver compreso che nelle ultime settimane anche la Lituania ha annunciato la propria strategia sull'Indo-Pacifico; secondo me si può, alla luce di tutto ciò, fare una prima riflessione generale.
  L'Indo-Pacifico ormai non è così lontano come lo si pensava anche non più di cinque-sei anni fa, ma nell'ambito degli ultimi quattro-cinque anni è diventato un soggetto importante di dibattiti nazionali all'interno di diversi Paesi in Europa.
  Quello che distingue l'approccio tra la riflessione nell'ambito dell'Unione europea, quanto piuttosto quella nel contesto NATO, Pag. 15quindi l'approccio multilaterale in Europa all'Indo-Pacifico, rispetto ad alcune altre capitali, secondo me si basa sue due fattori principali. Primo, l'importanza economica che già all'inizio di questo dibattito la regione aveva per il Paese in questione. Banalmente, per la Germania la necessità di discutere l'Indo-Pacifico è una necessità che nasce da un legame economico profondo, un legame economico importante, e che in particolare negli ultimi quattro-cinque anni è evoluto in modo significativo.
  Per l'Inghilterra, per esempio, la questione è diversa, perché il dibattito sull'Indo-Pacifico nasce, in primo luogo, alla luce di un ripensamento di un rapporto economico che nasce negli anni del I e II Governo Cameron, e che però nel 2019 e nel 2020 comincia a prendere una piega molto più volta al problema di sicurezza che attori specifici nell'Indo-Pacifico presentano per l'Inghilterra.
  Ricordo qui a tutti il dibattito nella primavera-estate del 2020 sul 5G e sulle telecomunicazioni, diventa veramente l'inizio di un cambiamento di discorso, in cui ripensare l'Indo-Pacifico non è solamente una questione di opportunità economica, ma di un'opportunità economica che va vista e valutata nell'ambito di un problema di sicurezza nella regione, prevalentemente dettato dal cambiamento di comportamento della Cina, ma anche e soprattutto come quel comportamento ha ramificazioni in Europa.
  Se noi poniamo la dinamica tedesca e la dinamica inglese agli estremi dei margini di discussione e dibattito, secondo me si riesce a catturare bene questa prima dimensione. L'Indo-pacifico va, prima di tutto, discusso rispetto a quelli che sono gli interessi nazionali, che siano di carattere strategico, di carattere economico, di carattere diplomatico. Per Paesi come l'Inghilterra, l'esistenza di rapporti di cooperazione forte, non solo politico-diplomatica-economica, ma anche di difesa, con Paesi quali il Giappone e l'Australia hanno rappresentato un fattore significativo nel modo in cui il Paese ha dovuto riconfigurare e ripensare il proprio ingaggio con l'Indo-Pacifico.
  Il primo punto che vorrei mettere in evidenza è che, quando si pensa all'Italia e all'Indo-Pacifico, secondo me, la prima domanda da porsi è: qual è l'economia dei tipi di interessi strategici di carattere nazionale? Qual è l'equilibrio tra questi? Quelli di carattere politico-diplomatico, quelli di carattere economico e quelli di carattere più prettamente di sicurezza.
  Questo poi porta ad un secondo punto: l'ingaggio può essere un ingaggio che sia di carattere normativo, come lo prevede l'Unione europea, può essere di carattere di collaborazione su problemi di natura transazionale globale, che sia clamate change, piuttosto che la stabilità marittima e la cosiddetta maritime security, ma può essere anche rispetto a questioni di carattere più prettamente di sicurezza tradizionale. Questo poi si divide in due sub-sezioni: i problemi di sicurezza che esistono nella regione e i problemi di sicurezza che legano la regione al resto del mondo.
  Sicuramente il rapporto tra la Russia e la Cina, per esempio, sin dall'inizio dell'invasione russa in Ucraina ha allargato il numero di possibilità all'interno delle quali uno può pensare la sicurezza in termini più tradizionali per quanto riguarda l'Indo-Pacifico e l'Europa.
  Secondo me, però, è importante, all'interno di questa concettualizzazione dell'Indo-Pacifico e l'Europa, stabilire fino a che misura lo strumento militare nazionale è parte di un portafoglio più allargato di strumenti di ingaggio con la regione.
  Faccio un esempio banale: in Inghilterra la presenza di British territory overseas in Oceano Indiano, piuttosto che nel sud Pacifico, l'esistenza del cosiddetto British defence staff, che è un network che esiste per coordinare l'attività degli uffici militari in regione – che è stato poi allargato alla luce dell'integrated review con uno a Singapore e uno a Canberra, che si occupa del Pacifico del sud –, l'idea di mantenere in regione degli assetti in modo più o meno stabile, con i due offshore patrol vessel HMS Spey e HMS Tamar, rappresentano un pacchetto di opzioni per quanto riguarda la definizione dell'ingaggio che non tutti i Paesi europei hanno, non tutti i Paesi europeiPag. 16 possono apportare, ma che, allo stesso tempo, però, può diventare, dal punto di vista italiano, un importante punto di inizio per una conversazione su in che misura l'Italia può far scintillare la bandiera nazionale, diventando parte di queste forme di presenza europea allargate, di cui la Francia e l'Inghilterra sicuramente sono due pilastri importanti.
  Ritornerò su questo punto tra un momento, però vorrei enfatizzare: io a maggio ero a Singapore per la conferenza organizzata dalla Marina singaporese ai margini dell'expo di difesa che loro ospitano - IMDEX - e quindi ero lì quando la nave Morosini era a Singapore. Con i nuovi OPV (Offshore patrol vessel) di cui la Marina militare si è dotata, anche il Morosini, che ha la configurazione light delle tre potenziali configurazioni dello strumento, rappresenta un'opportunità molto importante, perché la configurazione di base diventa un'opportunità per mostrare il livello di avanguardia delle capacità in questo senso del settore difesa dell'Italia in quanto sistema Paese.
  Faccio un esempio banale: quando il Morosini era a Singapore c'era anche la Kumano, che è la nuova mini-fregata giapponese, e a fianco avevano una delle LCS (Littoral combat ship) americane. Devo essere sincero, mettere il Morosini, il Kumano e una delle LCS tutte quante nello stesso punto era una cosa che faceva quasi tenerezza, perché il livello di sofisticazione tecnologica del Morosini era veramente impressionante, sembrava come fare la comparazione tra la bella e la bestia, e lo si vedeva nel numero di persone che visitavano la nave. L'interesse per il Morosini, dal naval cockpit alle altre soluzioni per il management interno della nave, così come dei sistemi di combattimento, tra la Morosini e la Kumano si vedeva chiaramente che c'era un interesse per queste voci che magari non sono onnipresenti come quella statunitense, ma che sicuramente offrono delle alternative interessantissime.
  La visita del Morosini, in sé per sé, ci dice anche qualcosa di molto importante per quanto riguarda il tipo di scelta che si può fare quando si pensa ad un ingaggio che non abbia solamente una componente politico-diplomatica ed economica, ma anche un elemento militare aggiunto, e cioè la piattaforma navale ha un flessibilità di impiego e una capacità di sostenersi, se viene provveduta del necessario supporto logistico, che non hanno equipollenti in nessun altro aspetto di un arsenale nazionale e che hanno una versatilità in termini di ingaggio con un numero di Paesi che è nettamente superiore. Questo è sicuramente ciò che l'esperienza inglese suggerisce. Al di là del deployment del Carrier Strike Group (CSG) nel 2021, che è stato sicuramente importante, porta nel quotidiano grande differenza a livello di potenziamento dell'espressione di ingaggio politico-diplomatico, nonché economico, attraverso gli OPV, in un modo assolutamente significativo. Per cui, un momento di riflessione importante per l'Italia e l'Indo-Pacifico.
  Una volta che uno ha risposto alla prima domanda «Quali sono gli interessi nazionali strategici e che tipo di domande presentano?», poi si passa a questo secondo aspetto: «Quali sono gli strumenti?». Lo strumento militare italiano ha oggigiorno nella Marina una capacità di proiezione e una capacità di sofisticatezza tecnologica che permetterebbe all'Italia di poter coprire un insieme di funzioni e di missioni, che vanno dalla risposta ai disastri naturali, che sono un'impellenza significativa nella regione, al maritime security, capacity building, piuttosto che showcasing dell'industria nazionale, che secondo me non ha paragoni.
  C'è pertanto, secondo me, una riflessione importante da fare su come rivedere un utilizzo, se vogliamo, più internazionale, al di là dei margini del Mediterraneo allargato, di questo strumento di proiezione nazionale, che, anche nella sua versione più light, quella degli OPV della classe Morosini, ha tante opzioni da offrire per potenziare e rafforzare il discorso «sistema nazionale» che uno poi segue attraverso i canali tradizionali di diplomazia e di relazioni politiche ed economiche.
  Questo mi porta all'ultimo punto che vorrei affrontare. Quando si pensa a come ingaggiare l'Indo-Pacifico, certo bisogna chiedersi quali sono le priorità, certo bisogna Pag. 17riflettere in che modo lo strumento militare può sostenere; però c'è anche un'altra riflessione molto importante, e cioè: qual è il baseline, le circostanze di oggi sulle quali uno può capitalizzare e sulle quali è importante investire, perché sono delle realtà già esistenti?
  In questo contesto, secondo me, il rapporto con Giappone e India sono due relazioni molto importanti sulle quali riflettere, per cercare di massimizzare quella che può essere un'offerta italiana, non solo in ambito nazionale, ma in quanto parte di questo conglomerato europeo che sta cominciando ad emergere.
  Ritornerò su questa questione della dimensione europea tra un attimo. Faccio qui riferimento a due punti significativi. Primo, GCAP (global combat air programme), che è stato messo in itinere dal Governo italiano e sul quale c'è un importante investimento, perché non solo riguarda una capacità militare che avrà un ruolo significativo per una serie di decenni, ma è anche un'opportunità significativa per portare delle riflessioni di più ampio respiro in contesto nazionale, rispetto alle necessità di accesso di basi e scambio di informazioni con le controparti giapponesi. Io qui parlo delle controparti giapponesi perché mi permetto di dire che, dal punto di vista dei rapporti italo-inglesi in difesa e sicurezza, quelli sono fortissimi, che sia nell'ambito difesa industriale o attraverso NATO, per me quello è un assunto del nostro discorso.
  Qui la questione è che adesso abbiamo un'opportunità industriale, per una capacità che sarà molto importante per i nostri rispettivi Paesi e anche per opportunità di esportazione, in che modo creare le condizioni migliori per realizzare questa capacità può servire anche opportunità più immediate e nel medio-corto periodo per potenziare la capacità di presenza dell'Italia nell'Indo-Pacifico, se si considera una tale opzione importante.
  In questo contesto, in modo diverso, ma ugualmente interessante, dobbiamo parlare del discorso con l'India. Da osservatore distante – e chiedo scusa se non sono particolarmente ferrato nelle dinamiche nazionali – mi è sembrato di aver visto un investimento importante da parte di questo Governo nello sviluppare i rapporti con l'India. È tutto un insieme di movimenti che sono molto importanti e che, secondo me, sono stati visti molto bene in contesto indiano. Anche quello rappresenta un'opportunità. D'altronde, il Mediterraneo allargato finisce nell'Oceano Indiano occidentale, un'area in cui l'India è già presente. Sicuramente noi abbiamo degli elementi di storia recente nei rapporti con l'India non felici – e qui chiaramente faccio riferimento alla storia dei marò – però oggi ci troviamo di fronte ad una situazione in cui possiamo rivedere il recente passato in chiave di trasformazione e sicuramente pensare come utilizzare questo nascente rapporto con l'India – sicuramente la parte economica e la parte politica – come un'opportunità per rafforzare anche quella che è già una presenza di lunga durata dell'Italia nell'Oceano Indiano, almeno nella parte occidentale.
  Questo mi porta all'ultima riflessione – e con questo concludo – sull'aspetto europeo. Il summit che ha avuto luogo tra Rishi Sunak e Emmanuel Macron in primavera ha fatto un riferimento abbastanza significativo su come la Francia e l'Inghilterra cercheranno di diventare, insieme, lo scheletro di una più stabile presenza o forma di ingaggio europea in difesa e sicurezza con l'Indo-Pacifico. C'è stato poi, quando il Presidente del Consiglio ha visitato Londra, un riferimento sugli F-35B italiani, che sarebbero stati imbarcati sul Princes of Wales per Carrier Strike Group nel 2025.
  Io penso che questo tipo di linea di ragionamento sia non solo molto importante, ma sia assolutamente essenziale, perché permette a chiunque abbia un certo tipo di capacità – e secondo me l'Italia è assolutamente in quello spazio dal punto di vista dello strumento militare – di partecipare ad un'ambizione europea. Qui non si parla di dimenticare quelle che sono le ambizioni nazionali: no, tutti hanno le proprie ambizioni, ma c'è anche un progetto Indo-Pacifico di stabilità che riguarda tutti e che è molto importante, in particolare in relazione al rapporto che ognuno di noi ha Pag. 18con gli Stati Uniti e nel quale contribuire, qualunque sia il livello di capacità a livello nazionale, al discorso collettivo, secondo me ha il potenziale di offrire più vantaggi di quanto non il contributo individuale potrebbe offrire all'inizio. Per cui trovo molto importante che, al di là del discorso normativo che avviene a Bruxelles nell'ambito normativo, al di là del discorso economico del rapporto con l'Indo-Pacifico, che avviene sicuramente nell'ambito dell'Unione europea per quanto riguarda l'Italia, c'è un discorso di resa e sicurezza – e la visita del Morosini in Indo-Pacifico è stata una prova del nove in questo senso – che non solo suggerisce che l'Italia sia perfettamente in condizione di poter partecipare alla definizione di questo rapporto tra l'Europa e l'Indo-Pacifico, ma l'Italia può trarre vantaggio da opportunità come GCAP, relazioni con l'India e la sofisticatezza di aspetti marittimi del proprio strumento militare, per essere una voce anche importante, con sforzi relativamente contenuti e che non mettano poi in discussione gli impegni primari nel Mediterraneo, così come nel resto dell'Europa.
  Su questa nota mi fermo qui. Ringrazio per l'attenzione e attendo le vostre domande.

  PRESIDENTE. Grazie professore. Ci sono diversi colleghi interessati che vogliono porre domande. Chiedo ai colleghi da remoto, per correttezza, se vogliono intervenire. L'onorevole Quartapelle sarà la prima.
  Mi lasci soltanto dire che nella passata legislatura da questa Commissione avevamo auspicato ci fosse una presenza di naval diplomacy, comunque una presenza della Marina italiana nell'Indo-Pacifico. Questo è successo, e auspichiamo che continui. Si parla di una presenza nell'area della Cavour l'anno prossimo. Speriamo che accada e che l'Italia sia protagonista anche in quest'area. Prego, onorevole Quartapelle.

  LIA QUARTAPELLE PROCOPIO (intervento in videoconferenza). Grazie presidente, ringrazio anche il professor Patalano. Una questione: siccome la sua relazione è soprattutto focalizzata sul ruolo della nostra Marina, come si integra la strategia della Marina italiana rispetto alle strategie della Marina indiana e giapponese in particolare? Che tipo di complementarietà e invece che tipi di sovrapposizione ci possono essere? Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie mille. Ha chiesto la parola anche l'onorevole Billi. Prego, onorevole Billi.

  SIMONE BILLI. Grazie presidente. Anche io ringrazio il professor Patalano. Professore, io Le volevo chiedere, considerando che i Paesi europei solo probabilmente nell'ultimo quinquennio, come ha accennato Lei, sembrano focalizzarsi su quest'area del mondo, mentre, per esempio, gli Stati Uniti hanno adottato una politica di disimpegno dal Middle East, per andare proprio nell'Indo-Pacifico già circa quindici anni fa, nel Paese dove Lei lavora, al King's College di London, io sarei interessato a capire un po' meglio come la Brexit abbia influito.
  Con la Brexit il Regno Unito si dice volgere la propria strategia non più al nostro continente, ma alle proprie ex colonie e quindi fare leva sulle proprie ex colonie, sia come partner commerciale – basti pensare all'Australia, all'India e a Singapore –, anche con tanti accordi che hanno firmato in questi ultimi anni, l'AUKUS, il partenariato con undici Paesi, dal punto di vista militare le esercitazioni della loro portaerei, la Queen Elizabeth, nell'area; quindi diciamo che il Regno Unito - in collaborazione, poi mi dica se mi sbaglio, più o meno stretta con gli Stati Uniti - sta portando avanti una strategia molto precisa e sta rivolgendo i propri interessi in modo molto preciso verso quest'area del mondo.
  Quindi, come si sta sviluppando la presenza del Regno Unito in questa regione, dal suo punto di vista, con la sua esperienza a Londra, in questo Paese?

  PRESIDENTE. Ci sono altre domande, prima di passare la parola per la replica al professore? Per ora no. Magari allora facciamo un primo giro. Prego, professore.

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  ALESSIO PATALANO, professore di studi dell'Asia orientale presso il King's College di Londra (intervento in videoconferenza). Grazie per le domande. A livello di complementarietà, sicuramente c'è un elemento di complementarietà, nel senso che la stabilità del dominio degli spazi marittimi, il cosiddetto dibattito sul maritime security, è un dibattito che è molto importante, è molto sentito ed è sicuramente centrale nella strategia indiana e nella strategia giapponese. Da questo punto di vista, c'è un elemento non solo di complementarietà, ma addirittura io suggerirei che c'è un'esperienza italiana che può rappresentare un importante momento di confronto e di dialogo con gli indiani e con i giapponesi. Noi abbiamo un'esperienza molto importante nell'Adriatico, all'indomani della trasformazione geopolitica dei Balcani, con nuovi Paesi, problemi di negoziazione di territori marittimi. Abbiamo una situazione nell'Egeo, ancora oggi, tra Grecia e Turchia che richiede un investimento importante. Abbiamo rapporti importanti con il Nord Africa.
  Lo spazio marittimo diventa uno spazio significativo in cui la strategia marittima italiana e l'esperienza della Marina italiana può diventare un fattore, proprio per la complementarietà di questo problema e della presenza di questo problema nelle strategie di India e di Giappone, può diventare un importante spunto di dialogo e di confronto. Come noi abbiamo approcciato queste questioni, può sicuramente fornire punti di riferimento a come nell'Oceano Indiano, piuttosto che in parte dell'Oceano Pacifico, il Giappone e l'India stanno guardando la questione.
  Mi permetta di utilizzare un riferimento all'ammiraglio Fioravanzo e l'idea del Mediterraneo, che poi viene ripresa anche da Braudel, questa idea dei "Mediterranei": il mondo, in realtà, dal punto di vista marittimo, per quanto riguarda il problema del maritime security, è un insieme collettivo di "Mediterranei". Ognuno di noi li chiama in un modo diverso, però i problemi all'interno, soprattutto di carattere transnazionale, sono qualcosa di molto importante. L'Italia condivide con il Giappone e l'India la responsabilità di essere un punto di riferimento nel suo bacino marittimo principale per altri attori statali. Da questo punto di vista, secondo me, la collaborazione e la conversazione è molto importante.
  Un altro elemento di convergenza e di complementarietà è quello che riguarda la necessità di lavorare in modo integrativo e interchangeable con gli Stati Uniti e con altri partner. Questa è una cosa che per i giapponesi sta diventando un elemento di priorità significativo. Il lavoro di investimento è sviluppare rapporti con altri Stati, altri Paesi, in aggiunta agli Stati Uniti – che sia l'Australia, piuttosto che l'Inghilterra e la Francia –, però mantenendo una capacità di essere completamente integrabili nel sistema americano, anche questo è un elemento molto importante. Sta diventando una realtà significativa per l'India ed è sicuramente una realtà importante per il Giappone.
  Quindi, in questo senso, l'Italia non solo ha un elemento di esperienza, ma ha anche un elemento di esperienza in capacità particolari. Parlo dell'F-35B: la conversazione con il Giappone, per esempio, riguardo all'utilizzo delle portaerei in contesto moderno, a livello nazionale, piuttosto che come contribuzione di multinational task group, che sia nel contesto NATO, piuttosto che in US lead coalition, non è che cambia a livello pratico. Presenta problemi simili in termini di certificazione dei velivoli, mantenimento dei velivoli, così come sviluppo dottrinale. Questi elementi, secondo me, sono molto interessanti, anche perché creano delle opportunità di conversazione sullo sviluppo delle capacità che potrebbe portare poi ad ulteriori collaborazioni nel settore della difesa industriale. Creare questo tipo di opportunità e sinergie tra le istituzioni è fondamentale per riuscire a comprendere e far realizzare ad altri Paesi che tipo di conversazione avviene in Paesi diversi dagli Stati Uniti e vedere come, in realtà, ci sono degli elementi di similitudine che diventano estremamente importanti.
  Il concetto di maritime security è il ruolo che ha la necessità di mantenere lo strumento militare, che sia capace di integrarsiPag. 20 perfettamente in realtà multilaterali e sicuramente con gli Stati Uniti, sono due punti iniziali che, secondo me, sono essenziali. Ripeto, questi non sono punti di conversazione, in cui si dice: «Bisogna avere una strategia di lungo termine per sviluppare il rapporto». No, assolutamente. Secondo me questi sono chiari elementi presenti nelle strategie nazionali, in India e in Giappone, con le quali si può cominciare ad avere un discorso già da ora.
  Seconda domanda, riguardo Brexit e la trasformazione dell'Inghilterra. Per ragioni di chiarezza: io sono stato il primo specialist advisor per la Commissione affari internazionali del Parlamento inglese per l'Indo-Pacifico e ho mantenuto un rapporto di collaborazione diretto con il Ministero della difesa e il Commonwealth and development office per quanto riguarda le fasi iniziali di sviluppo dei concetti relativi all'Indo-Pacifico, per cui quello che sto per dire riflette, in parte, un tipo di dinamica che esiste nel contesto inglese, per cui il mondo universitario accademico, o parte del mondo universitario accademico, è costantemente coinvolto in aspetti di conversazione rispetto allo sviluppo della strategia nazionale in questo Paese.
  Nell'ambito di questa riflessione, il dibattito inglese va sicuramente compreso nell'ambito di Brexit. Brexit non ha creato l'Indo-Pacific tilt, come si chiama qui il framework di ingaggio con l'Indo-Pacifico, ma ne ha accelerato il dibattito. Il fatto che Boris Johnson fosse il Ministro degli esteri quando si è cominciato a parlare di un ampliamento del rapporto di ingaggio con l'Indo-Pacifico e il fatto che poi lui sia diventato Primo Ministro e sia anche un esponente fondamentale nel discorso Brexit e nello sviluppo del cosiddetto «Global Britain», dà questa impressione che l'Indo-Pacifico è diventata la risposta per muoversi e cercare opportunità al di fuori del contesto europeo. Secondo me non è necessariamente così, e l'abbiamo visto in Ucraina, in cui l'intervento e il ruolo non solo di Boris Johnson, ma del Governo britannico, è stato significativo e sicuramente molto importante, sin dai primi momenti.
  Ciò detto, è assolutamente vero che nel contesto della politica interna britannica rispetto a Brexit, alcune delle pietre miliari del tilt – che sia diventare membro del CPTPP (Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership), ASEAN dialog partner member e anche l'avanzamento dei rapporti con il Giappone, prima e dopo GCAP, e AUKUS – sicuramente sono diventati un po' il signposting events di questo post-Brexit. Alcune delle cose che si sono realizzate erano comunque già in itinere, tipo ASEAN dialog partner member, così come il discorso sul diventare membro del CPTPP.
  Ripeto, io lo presenterei non più come una manifestazione dell'Inghilterra che sta cercando un posto al sole al di fuori dell'Europa, quanto piuttosto Brexit ha accelerato la necessità di ampliare gli orizzonti di impegno politico-diplomatico, al di là del rapporto con l'Unione europea, che è una cosa diversa dal rapporto con l'Europa, che rimane molto forte e molto significativo.
  Il summit tra Rishi Sunak e Emmanuel Macron, secondo me, va letto anche in questa chiave. Una chiave di ripensare un rapporto con l'Europa, che utilizza particolari rapporti bilaterali, e la presenza nella NATO dei pilastri fondamentali della politica estera britannica.
  Ciò detto, quello che Lei osserva in termini di azioni specifiche è assolutamente vero, ma dal punto di vista dell'Inghilterra era il metodo per riuscire ad acquisire credibilità, in quanto attore europeo, nell'Indo-Pacifico. Lei, quindi, in questo senso deve presentare l'argomento in quanto investimento iniziale per creare l'attenzione sul fatto che l'Inghilterra si sta orientando in Indo-Pacifico, per cui, prima ancora della portaerei, dal gennaio 2018 l'Inghilterra ha mantenuto in rotazione una presenza continuativa e ininterrotta di asset militari in regione, partendo con la nave Sutherland e nel 2018 l'Inghilterra è diventato anche il primo Paese ad aver condotto, al di là degli Stati Uniti, una challenge of excessive maritime claims (o FONOP, come la chiamano gli americani), nel Mar della Cina meridionale, il 31 agosto 2018, con HMS Albion. Questo investimento poi è Pag. 21continuato con i due OPV ed è stato poi sublimato con la portaerei e il gruppo portaerei nel 2021.
  Però va visto proprio in termini di un investimento iniziale per attirare l'attenzione e creare le fondamenta per un discorso che poi viene seguito dalla presenza diplomatica in regione sulla base giornaliera, che dice: «Scusate, voi state qua e che cosa state facendo?», e le azioni che questi asset compiono giornalmente contribuiscono a portare parte della risposta. Quello poi diventa un tassello fondamentale per creare credibilità. Quella presenza continuativa, che diventa poi il passo successivo all'investimento, diventa il pilastro fondamentale di un progetto di credibilità, e una credibilità che, per essere tale, domanda anche un investimento diplomatico, economico e militare per riuscire a sviluppare la consapevolezza nel sistema inglese di dove bisogna e di cosa bisogna fare per continuare a mantenere quella credibilità e far sì che un Paese piccolo come l'Inghilterra, rispetto agli attori in regione, e con capacità e presenza militare relativamente modesta, riesca comunque ad avere una capacità di interlocuzione con la maggior parte degli attori in regione relativamente significativa rispetto al proprio peso.
  Sono assolutamente d'accordo con Lei che Brexit è stato un importante acceleratore, piuttosto che un motivo fondamentale, e in quel contesto la partecipazione e la messa in atto di un insieme di attività dal punto di vista economico, diplomatico e militare, vanno viste in una fase iniziale, almeno fino al 2021, di investimento, e a partire dal 2020 fino a oggi di traduzione di quell'investimento iniziale in una continuità che aiuta a creare più grande credibilità e una capacità di interlocuzione più significativa.

  PRESIDENTE. Grazie professore. C'è l'onorevole Orsini che ha chiesto di intervenire, seguito dall'onorevole Giglio Vigna.

  ANDREA ORSINI. Grazie, professore, per questa sua analisi molto interessante. C'è una cosa che mi piacerebbe Lei spiegasse meglio, non perché io non la condivida, ma proprio perché mi interesserebbe capirla meglio. Come partner per una collaborazione strategica Lei ha scelto due Paesi, l'India e il Giappone. Scelta di cui mi piacerebbe capire meglio le ragioni e una priorità rispetto ad altri Paesi – e mi vengono in mente in questo momento, solo a titolo esemplificativo, la Corea del Sud e il Vietnam – con i quali abbiamo delle analogie geostrategiche. Vorrei capire la ragione specifica di questa priorità, anche alla luce del fatto che l'India ha questa collocazione internazionale, da un lato, interessante, perché è competitiva rispetto alla Cina, dall'altro, legata però a questo movimento dei cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che potrebbe esercitare un ruolo geopolitico competitivo, più che collaborativo con noi.
  Questa è un'ipotesi che sto facendo, non sto dicendo che debba andare così. Vorrei soltanto approfondire e capire meglio. Grazie.

  PRESIDENTE. Onorevole Giglio Vigna, prego.

  ALESSANDRO GIGLIO VIGNA. Grazie presidente. Grazie, professore, per la sua relazione. Partendo proprio dalle sue parole, partendo da quanto ci ha detto pochi minuti fa riguardo alla presenza inglese nell'area, quindi riguardo alla presenza di portaerei e anche di altri tipi di presenza, venendo al contesto italiano, al contesto nazionale, io Le sottoporrei nuovamente la riflessione del vicepresidente Formentini, riguardo a una possibile presenza dell'Italia, attraverso la portaerei Cavour, nei mari dell'area. Come potrebbe essere interpretato? Come vedrebbe Lei una presenza di questo tipo e che effetti avrebbe su tutta questa situazione? È venuta l'ora per l'Italia di affiancare la nostra eccellente diplomazia, i nostri eccellenti canali commerciali, culturali, il nostro famoso soft power, la nostra presenza in loco attraverso varie organizzazioni commerciali, ma anche di aiuto su certi territori? È venuta l'ora per l'Italia di porre in campo anche questa prerogativa e questa strategia geopolitica? È venuta l'ora per l'Italia – come accennavaPag. 22 Lei – di spostare la propria portaerei nell'area, per far sentire la nostra presenza a fianco dei partner occidentali e a fianco dei nostri partner in quell'area?

  PRESIDENTE. Grazie onorevole Giglio Vigna. Non vedo altre richieste di intervento. Prego, professore.

  ALESSIO PATALANO, professore di studi dell'Asia orientale presso il King's College di Londra (intervento in videoconferenza). Due ottime domande. Prima domanda: onorevole, Lei ha assolutamente ragione. Io chiedo scusa, perché forse è giusto che sottolinei il fatto che questa è la prima relazione che faccio sull'Indo-Pacifico in italiano da quando lavoro in questa università, per cui se a volte la scelta di vocabolario mi vede un po' riflessivo è dovuto più al fatto che non sono abituato a parlare in italiano di queste cose.
  Assolutamente non vorrei dare l'impressione che la scelta o l'indicazione di priorità debba avvenire a scapito di continuare ad esplorare ed investire in altre relazioni, quanto piuttosto l'argomento in favore del Giappone e dell'India è – come dicevo prima – in base alle circostanze di oggi, nel senso che assolutamente la Corea del Sud e il Vietnam sono Paesi importantissimi in regione, io addirittura aggiungerei l'Indonesia, e Paesi con i quali la nostra diplomazia ha fatto un lavoro esemplare nel corso degli anni, quindi assolutamente.
  Ciò detto, a livello di complessità e potenziale del rapporto che uno può cominciare a sviluppare con il Giappone, secondo me GCAP ha creato delle condizioni diverse. Il discorso che io facevo era in termini di organizzare le priorità rispetto alle opportunità che si sono venute a creare al momento, e in questo contesto GCAP offre delle opportunità che prima semplicemente non esistevano, per cercare di allineare la diplomazia politica ed economica nell'ambito di rapporti con un Paese quale il Giappone – io all'origine sono uno specialista del Giappone, sono un laureato de L'Orientale di Napoli – che sono molto importanti, che l'Italia ha mantenuto da sempre. Paradossalmente, io dico sempre ai miei studenti che il primo traduttore di lord Macartney, quando dall'Inghilterra è andato in Cina per cercare di aprire i rapporti diplomatici con la Cina nel 1793, era un missionario gesuita che veniva dal collegio dei cinesi, che oggi è L'Orientale. In questo senso noi abbiamo una grande tradizione.
  Quello a cui facevo riferimento prima, per cercare di articolare quella che è assolutamente una legittima domanda, e cioè «Perché il Giappone, rispetto a un altro Paese?», è perché in questo momento le circostanze sono tali che con il GCAP abbiamo un'opportunità di sviluppare una relazione profonda. Per riuscire a sviluppare una capacità come quella di un sixth generation fighter jet, c'è una necessità di allineare le pratiche di gestione di sicurezza dell'informazione, le pratiche di dottrina militare, che in realtà, se uno non ha una necessità ben precisa, è difficile prevedere che possa succedere con altri Paesi della regione in futuro. Il discorso sulla questione Giappone era prevalentemente legato al fatto che, nell'ambito di una serie di relazioni, che secondo me vanno tutte nella direzione di una continuità dello sviluppo – tra cui Corea del Sud e Vietnam, sono assolutamente d'accordo con Lei –, però il Giappone in più ha questa opportunità creata dal GCAP, che ci permette di associare un'opportunità industriale con un'opportunità strategica per l'Italia di pensare fino a che punto ciò che devo mettere in atto per far funzionare il GCAP può diventare un'opportunità per incrementare la visibilità e la capacità di proiettare l'Italia, in quanto sistema Paese, nell'Indo-Pacifico. Quel tipo di opportunità che ti offre il GCAP, secondo me, non si può avere con altre realtà.
  Ripeto, è una questione di opportunità, dare priorità a un caso piuttosto che dimenticare gli altri, assolutamente no. Sono completamente d'accordo con Lei, bisogna mantenere un certo livello di equilibrio nel proseguimento dei discorsi economico-diplomatici con la regione.
  L'India: anche qui è una questione di opportunità. Il Governo italiano ha fatto un investimento importante nel visitare l'India Pag. 23e nel cercare di cominciare a intavolare un discorso più profondo e più di ampio respiro con l'India. Mi sembra che, da quello che ho potuto osservare, in India c'è un interesse e c'è un appetito per portare avanti questo discorso. Anche lì, non è una questione di enfatizzare un esempio rispetto ad altri, ma più che altro è perché adesso siamo in un momentum politico di attenzione tra Italia e India; quindi perché non continuare a battere l'incudine adesso che è caldo e cercare di maturare il più possibile? In particolare, in un contesto in cui, nella riconfigurazione delle cosiddette supply chains a livello internazionale, l'India sta cominciando a diventare un soggetto di discussione molto più significativo, e quindi diventa anche una conversazione in termini di opportunità rispetto a quelli che sono degli equilibri di interdipendenza economica che stanno cambiando.
  Ripeto, assolutamente d'accordo con Lei che l'impegno non può cominciare e finire con due Paesi o focalizzare solamente due priorità; le priorità devono essere maggiori, credo assolutamente Corea del Sud, Vietnam, ma addirittura il rapporto con ASEAN è un rapporto molto significativo. Però, allo stesso tempo, quello che cercavo di enfatizzare è l'opportunità creata da recenti spunti di carattere di interazione politica con il Giappone e l'India, che offrono opportunità, in ragione di un modo diverso, che vale la pena esplorare e sulle quali cercare di capitalizzare al momento.
  Veniamo al discorso della Cavour: è giunto il momento per l'Italia di associare la componente di difesa al lavoro splendido che fa la sua componente diplomatica e commerciale? L'Italia già lo fa, in un certo senso, in altre parti del mondo, che fanno parte della propria strategia nazionale, che sia il Mediterraneo allargato, piuttosto che in ambito europeo o della NATO, ci sono scelte che vengono già fatte. Forse quello che ci dovremmo chiedere è in che misura l'Italia può trovare beneficio dal fare anche nell'Indo-Pacifico quello che già fa in altre parti del mondo.
  Ora, da questo punto di vista, facciamo una riflessione di più ampio respiro: in ambito europeo lo strumento militare italiano è uno dei più equilibrati, è uno dei più bilanciati che si può trovare, soprattutto dal punto di vista marittimo-navale. Se uno pensa in termini di effetti nell'Indo-Pacifico di cercare di portare una dimensione europea, che non sia semplicemente una dimensione europea costruita alle spalle delle iniziative nazionali di un qualunque Paese – che sia la Francia, l'Inghilterra o quant'altro – ma sia l'Europa in quanto Unione europea, in quel contesto, al di là dell'Italia e, in un certo senso, della Spagna, non ci sono altre realtà che possono provvedere una portaerei al centro di un task group multinazionale che ha anche quella connotazione UE.
  In questo senso la riflessione dice: «Vale la pena mandare la Cavour?». Ma certo che vale la pena! Però vale la pena cominciare a pensare da adesso in che misura quell'opportunità non solo diventa un momento per integrare in modo più ravvicinato lo strumento economico, politico e diplomatico con quello militare, e alla luce di quello cominciare a riflettere: quali sono le opportunità che intraprendere questa avventura ci può permettere di capitalizzare? Diventare uno dei Paesi leader in Europa nel definire quello che l'Unione europea può fare a livello di sicurezza nell'Indo-Pacifico? Oppure, data l'esperienza dell'Italia in termini di risposta a calamità naturali, disastri – il cosiddetto capacity building –, queste sono cose che la Marina italiana assolutamente può fare, ed è una delle Marine all'avanguardia nel mondo.
  Già in questo senso, quando Lei parlava degli effetti, gli effetti sono il risultato di una riflessione sul cosa noi vogliamo ottenere. Se l'Italia vuole ottenere a livello europeo di diventare un punto di riferimento dell'ingaggio con l'Indo-Pacifico allora, forse, la portaerei è il messaggio più importante. Ma se l'Italia vuole anche diventare un Paese di riferimento – come l'Inghilterra e la Francia – in termini nazionali, un referente di interazione importante, allora capacity building, disaster response, medical support: queste sono attività per le quali non c'è bisogno di una portaerei in linea di principio, se ce l'hai Pag. 24meglio, ma uno può perseguire questo tipo di scelte anche con navi più piccole.
  Il caso giapponese e il caso dell'Inghilterra sono molto interessanti in questo senso. Entrambi hanno cominciato a partecipare ad attività di squadra che erano prevalentemente in capacity building, disaster response, medical opportunity; banalmente fare medical check e portare dottori in zone remote di arcipelaghi del sud-est asiatico, fa una differenza incredibile. Quella diventa una modalità non solo per rafforzare il discorso nazionale a livello politico-diplomatico, ma per rafforzare anche il soft power.
  Alla base, la conversazione preliminare da avere è: quali sono gli effetti che uno vuole generare e come questi effetti riflettono il tipo di percezione che l'Italia vuole creare di se stessa, in quanto Paese e in quanto Paese europeo in quello spazio? Una volta che abbiamo un'idea di come rispondere a questa domanda, allora sicuramente in certe situazioni la Cavour diventa un'opportunità significativa e, a quel punto, l'investimento è cercare di avere il maggior numero possibile di bandiere europee nel contesto del deployment della Cavour, ma nell'altra è la continuità dei mezzi disponibili per mantenerli o proiettarli in regione, in modo da continuare a creare e a sostenere la credibilità dell'Italia in quanto Paese nazionale che si proietta nell'Indo-Pacifico e cerca di raggiungere obiettivi, che possono essere quelli della stabilità dei mari attraverso il maritime security, piuttosto che di supporto in caso di disastri, o di sviluppo medico o altrimenti di qualcosa di più robusto.
  La domanda fondamentale, alla quale io non posso rispondere, perché è più un discorso di carattere politico nazionale che deve essere svolto in Italia, è: quali sono gli effetti, qual è l'obiettivo di questa strategia nei prossimi due-tre anni, con i deployments che uno sta pensando?
  Secondo me, questo discorso di Paese europeo e di identità nazionale non sono contraddittori e lo strumento marittimo nazionale ha lo spessore, la capacità e la sofisticatezza tecnologica per riuscire a fornire una risposta che sia articolata e piena di sfumature.

  PRESIDENTE. Grazie professore. Dopo le sue parole, non possiamo che auspicare che la Cavour raggiunga presto l'Indo-Pacifico. Grazie di cuore. Dichiaro concluso il ciclo odierno di audizioni.

  La seduta termina alle 17.30.