TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 558 di Venerdì 29 gennaio 2016

 
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INTERPELLANZE URGENTI

A)

   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, per sapere – premesso che:
   il Sole 24 Ore del 17 agosto 2015 ha pubblicato un articolo riguardante l'andamento dei buoni lavoro, detti anche voucher, utilizzati per il pagamento delle prestazioni accessorie, già disciplinate – in passato – dagli articoli 70-73 del decreto legislativo n. 276 dei 2003: «Non si ferma l’exploit dei voucher per i mini-lavori occasionali. Complici la crisi e l'allargamento del raggio di azione, i “buoni” – introdotti nel 2008 per le attività stagionali e come veicolo di emersione del “nero” – hanno varcato a giugno la soglia di 200 milioni di vendite, l'equivalente di 2 miliardi di euro. Dalla sperimentazione in agricoltura hanno preso progressivamente quota anche in altri settori, a partire da commercio e turismo»;
   il quotidiano economico riporta una serie di dati molto significativi: «Secondo l'ultimo monitoraggio dell'Inps, nel primo semestre del 2015 sono stati venduti quasi 50 milioni di tagliandi del valore nominale di 10 euro, con un aumento del 74,7 per cento rispetto allo stesso periodo del 2014, con punte del 95,2 per cento e dell'85,3 per cento rispettivamente nelle isole e nel Meridione. Sono proprio tre regioni del Mezzogiorno a guidare la classifica degli aumenti: Puglia (+98,3 per cento), Sicilia (+96,6 per cento) e Sardegna (+94,2 per cento). Anche se la maggior parte delle vendite resta concentrata al Nord (65 per cento), nel Sud e nelle isole è circolato quest'anno quasi un quinto del totale dei voucher, un balzo in avanti rispetto a qualche anno fa, quando le regioni di quest'area non raggiungevano nemmeno il 10 per cento»;
   il decreto legislativo n. 81 del 2015, entrato in vigore il 25 giugno 2015, ha previsto, all'articolo 48, l'aumento dei tetto massimo dei compensi pagati con i voucher alla stessa persona portandolo dal 5 mila euro previsti in precedenza ai 7 mila euro netti l'anno;
   secondo i recenti dati dell'osservatorio sul precariato dell'Inps, infatti, nei primi undici mesi del 2015 sono stati venduti 102,4 milioni di buoni da 10 euro, il 67,5 per cento in più rispetto al corrispondente periodo del 2014, con punte del 97,4 per cento in Sicilia, dell'85,6 per cento in Liguria e dell'83,1 per cento e 83 per cento rispettivamente in Abruzzo e in Puglia;
   il valore netto del voucher di 10 euro nominali, cioè l'importo netto intascato dal lavoratore, è pari a 7,50 euro;
   il boom nell'utilizzo dei voucher – lungi da rappresentare un indice di una ripresa dell'occupazione – rappresenta una forma «spinta» di lavoro precario e con tutele minime: a) è stata allargata la platea dei destinatari e i settori di impiego: possono essere pensionati, giovani, studenti in vacanza, cassintegrati e disoccupati, lavoratori part time, extracomunitari in possesso di permesso di soggiorno addetti a qualunque lavoro: dal settore agricolo al settore dei commercio e del turismo, dal volantinaggio fino ai servizi per la persona e domestici, alle manifestazioni sportive, al giardinaggio e alle pulizie; b) il lavoratore occupato con il voucher non matura il trattamento di fine rapporto, non ha ferie, non ha diritto alle indennità di malattia e di maternità né agli assegni familiari; c) per il lavoratore non è prevista alcuna formazione ad esempio sulle norme di sicurezza e di igiene; d) i controlli sulla corretta applicazione del voucher sono di difficile attuazione: secondo la procedura Inps non occorre indicare il giorno e l'ora dell'utilizzo dei voucher e l'ispettore del lavoro non può verificare l'orario di inizio e di fine del lavoro, dovendosi limitare alla verifica che sono stati pagati i contributi;
   anche la procedura dell'Inps di accredito dei contributi lascia a desiderare; come denunciato nelle trasmissione televisiva Report del 22 novembre 2015, molti lavoratori si sono collegati al sito dell'Inps e non hanno trovato nemmeno l'accredito dei contributi dovuti per i voucher;
   anche la Cgil ha denunciato: «Il boom dei voucher è anche un boom di mancati introiti per il fisco e per l'Inps. E rappresenta l'ultima frontiera per trasformare il lavoro occasionale, che è quello che dovrebbe essere pagato con i voucher in un lavoro del tutto simile a quello a tempo pieno, solo pagato molto meno e con zero garanzie» (da www.gazzettadimantovagelocal.it del 29 agosto 2015);
   il presidente dell'Inps, nel corso della nota trasmissione televisiva Report del 22 novembre 2015, ha dichiarato che: «L'attività ispettiva è limitata. Noi possiamo intervenire unicamente per controllare che venga rispettato, in virtù di circolari ministeriali. Noi possiamo intervenire soltanto per controllare che venga rispettato il limite. Voi sapete che ci sotto due limiti. Il limite massimo che è stato elevato a 7 mila euro per il singolo lavoratore, E poi dei singolo committente a 2 mila euro. Noi possiamo intervenire per controllare e questo venga rispettato. Non possiamo entrare nel merito della prestazione lavorativa»;
   lo stesso presidente nazionale dell'Inps, infine, è stato molto esplicito: «I voucher sono la nuova frontiera del precariato: il loro incremento può significare problemi futuri ed è bene guardare questo fenomeno con grande attenzione. Non sono uno strumento che si aggiunge agli altri, per alcuni i voucher sono l'unica prestazione lavorativa»;
   si rende necessario un intervento del Governo volto a sanzionare e reprimere l'uso improprio dei voucher e «un ripensamento» dello strumento volto ad innalzare la tutela del dipendente destinatario del voucher al pari degli altri lavoratori che svolgono medesime mansioni –:
   quali iniziative o misure correttive – anche di tipo normativo – intenda promuovere il Governo per un «ripensamento» dello strumento del voucher alla luce delle criticità esposte, anche innalzando le tutele previste e fornendo agli organi preposti ai controlli adeguati strumenti normativi per accertare, sanzionare e reprimere l'uso improprio dei voucher medesimi, così favorendo la lotta al lavoro nero e all'evasione fiscale, al fine di offrire un rapporto di lavoro, con le necessarie garanzia, ai lavoratori precari di cui in premessa.
(2-01237)
«Ciprini, Tripiedi, Chimienti, Cominardi, Dall'Osso, Lombardi, D'Incà».
(26 gennaio 2016)

B)

   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro della giustizia, per sapere – premesso che:
   con sentenza del 14 aprile 2015, ricorso n. 66655/13, Contrada c. Italia (n. 3), la Corte europea dei diritti dell'uomo ha accertato, all'unanimità, la violazione del principio di legalità dei delitti e delle pene sancito dall'articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (di seguito «CEDU») con riferimento alla condanna di Bruno Contrada per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso ai sensi degli articoli 110 e 416-bis del codice penale;
   nello specifico, la Corte ha valutato se, all'epoca dei fatti ascritti al ricorrente (ricompresi nell'arco temporale 1979-1988), «la legge applicabile definisse chiaramente il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso», e cioè se, «a partire dal testo delle disposizioni pertinenti e con l'aiuto dell'interpretazione della legge fornita dai tribunali interni, il ricorrente potesse conoscere le conseguenze dei suoi atti sul piano penale» (cfr. ivi, § 64);
   dopo aver ricordato le profonde divergenze giurisprudenziali esistenti in merito a tale autonoma figura criminosa, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che soltanto a partire dalla sentenza Demitry resa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione il 5 ottobre 1994 quest'ultima avesse «fornito, per la prima volta, una elaborazione della materia controversa, esponendo gli orientamenti che negano e quelli che riconoscono l'esistenza del reato in questione e, nell'intento di porre fine ai conflitti giurisprudenziali in materia, ha finalmente ammesso in maniera esplicita l'esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell'ordinamento giuridico interno» (cfr. ivi, § 69);
   all'esito di una valutazione complessiva del quadro normativo e giurisprudenziale italiano concernente il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, la Corte europea è, dunque, giunta alla conclusione che tale figura criminosa «costituisce il risultato di un'evoluzione giurisprudenziale che ha avuto inizio verso la fine degli anni ’80 del secolo scorso e si è consolidata soltanto nel 1994 con la sentenza Demitry» (cfr. ivi, § 74);
   dal momento che il contenuto essenziale del diritto convenzionalmente riconosciuto è costituito dall'accessibilità e prevedibilità della norma, ciò che risulta determinante è, infatti, non solo l'intelligibilità della fonte formale, ma anche la sua applicazione giudiziale: ed è proprio da questo ultimo punto di vista che la Corte di Strasburgo rileva come l'evoluzione giurisprudenziale che ha partorito il concorso esterno, dopo un iniziale «silenzio» protrattosi dall'introduzione nel 1982 del delitto di associazione di tipo mafioso fino alla prima sentenza della Corte di cassazione nel 1987, risulta contraddistinta da ripetuti capovolgimenti, almeno fino al 1994 con l'intervento «stabilizzatore» delle Sezioni Unite;
   pertanto, alla luce dei consolidati principi espressi dalla giurisprudenza europea in tema di legalità dei reati, «all'epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest'ultimo», con la conseguenza che egli, non poteva conoscere nel caso di specie la pena cui sarebbe andato incontro per le condotte dallo stesso poste in essere (cfr. ivi, § 75);
   tale pronuncia, adottata all'unanimità dai sette giudici della Camera, è divenuta definitiva il 14 settembre 2015, a seguito della decisione con cui un collegio di cinque giudici della Grande Camera ha rigettato l'istanza di riesame del caso formulata dal Governo italiano ai sensi dell'articolo 43 della CEDU;
   ai sensi dell'articolo 46 § della CEDU, gli Stati contraenti sono obbligati a conformarsi alle sentenze definitive della Corte europea sulle controversie nelle quali sono parti, obbligo che non si esaurisce nel pagamento delle somme eventualmente liquidate alla parte lesa a titolo di equa soddisfazione, ma esige altresì l'adozione di tutte le «misure di carattere individuale» necessarie per porre fine alla violazione e per eliminare tutte le conseguenze pregiudizievoli che essa continui eventualmente a produrre ai danni della vittima, nonché di tutte le «misure di carattere generale» necessarie a rimuovere le cause «strutturali» della violazione riscontrata, allorché essa tragga origine da un difetto sistemico dell'ordinamento interno, e ad evitare così il ripetersi di violazioni identiche o analoghe;
   allorché la violazione accertata dalla Corte scaturisca, come nel caso Contrada, da una «difetto sistemico» dell'ordinamento interno, e cioè un problema di natura generale o strutturale che trascende il singolo caso oggetto di esame, le autorità statali hanno l'obbligo di adottare le necessarie misure rimediali in favore di tutti i soggetti che abbiano subito gli effetti della stessa violazione, in modo tale che, nel rispetto del principio di sussidiarietà, la Corte europea non sia chiamata a reiterare le sue constatazioni di violazione in una serie successiva di casi identici;
   l'estensibilità degli effetti delle sentenze della Corte europea nei confronti di tutti i soggetti che versino nella medesima situazione contemplata da tali sentenze e che abbiano, dunque, subito la medesima violazione è stata pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza della Suprema Corte di cassazione e della Corte costituzionale (rispettivamente, per tutti, Corte di cassazione Sezioni Unite ordinanza 19 aprile-20 settembre 2012, Ercolano; e Corte costituzionale, sentenza n. 210 del 3 luglio 2013);
   ai sensi dell'articolo 5, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, così come modificato dall'articolo 1 della legge 9 gennaio 2006, n. 12, il Presidente del Consiglio dei ministri, direttamente o conferendone delega ad un ministro, «promuove gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo emanate nei confronti dello Stato italiano»;
   in occasione della Conferenza di alto livello sul futuro della Corte europea, svoltasi a Brighton il 20 aprile 2012, l'Italia ha assunto l'impegno solenne a dare piena attuazione alle sentenze della Corte europea all'interno del proprio ordinamento, adottando, ove necessario, le misure di carattere generale volte a risolvere i «problemi di natura sistemica» e sviluppando «meccanismi interni per assicurare la pronta esecuzione delle sentenze della Corte» (si confronti la Dichiarazione di Brighton, 20 aprile 2012, paragrafi 26-28);
   la sentenza Contrada lascia aperti non pochi interrogativi sul fronte delle conseguenze giuridiche per l'interessato e per tutti coloro che versano nella medesima situazione e, cioè, che siano stati condannati per concorso esterno in associazione mafiosa in relazione a fatti anteriori al 1994 cosiddetti «fratelli minori di Contrada»);
   tali interrogativi sono stati ulteriormente accentuati da una recente decisione con cui la corte d'appello di Palermo ha ritenuto che, pur in presenza di situazioni identiche a quella oggetto della sentenza Contrada, non si possa dare luogo alla revoca o declaratoria di ineseguibilità della sentenza di condanna sulla scorta dei principi ivi enunciati per «difetto di una previsione normativa che consenta al Giudice dell'esecuzione di revocare una sentenza di condanna in presenza di una sentenza della Corte EDU, pronunciata (...) nei confronti di un soggetto diverso e nell'ambito di altra procedura» (ordinanza n. 639 del 18-23 novembre 2015);
   stando a tale decisione, dunque, l'ordinamento italiano sarebbe carente di un apposito rimedio che permetta di dare piena attuazione alla sentenza della Corte europea rispetto a coloro che abbiano subito la medesima violazione dell'articolo 7 della CEDU, e ciò anche nel caso in cui trattasi di persone tuttora detenute in espiazione pena –:
   quali siano le iniziative di competenza che il Governo intende adottare, e con quale tempistica, al fine di porre rimedio alla situazione secondo gli interpellanti di «illegalità convenzionale» venutasi a determinare, per effetto della sentenza Contrada, rispetto a tutti coloro che siano stati condannati in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti commessi anteriormente al consolidamento giurisprudenziale in materia avutosi a partire dalla sentenza Demitry del 1994, e ciò anche al fine di evitare che l'Italia sia nuovamente condannata per violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.
(2-01241)
«Brunetta, Palmizio, Archi, Bergamini, Biasotti, Biancofiore, Carfagna, Castiello, Catanoso, Luigi Cesaro, Crimi, De Girolamo, Fabrizio Di Stefano, Gregorio Fontana, Riccardo Gallo, Garnero Santanchè, Gelmini, Giacomoni, Giammanco, Alberto Giorgetti, Gullo, Laffranco, Lainati, Martinelli, Milanato, Nizzi, Occhiuto, Palmieri, Petrenga, Picchi, Polidori, Polverini, Prestigiacomo, Ravetto, Romele, Russo, Santelli, Sarro, Sandra Savino, Sisto, Squeri, Valentini, Vella, Vito».
(26 gennaio 2016)

C)

   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, il Ministro della giustizia, per sapere – premesso che:
   da notizie uscite su vari organi di informazione si è appreso che la rete televisiva francese Canal plus trasmetterà lunedì 25 gennaio 2016 un documentario dal titolo «Il disastro di Ustica: un errore francese ?», firmato dal giornalista francese, Emmanuel Ostian;
   l'inchiesta rilancia l'ipotesi secondo la quale l'abbattimento del DC 9 nella notte del 27 giugno 1980 sarebbe avvenuto, come sostenuto anche dall'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ad opera di alcuni aerei da caccia dell'aviazione francese, avvalorando questa tesi con testimonianze di militari in servizio all'epoca che smentirebbero almeno due delle affermazioni rese al tempo dalle autorità di Parigi;
   dal documentario, infatti, risulterebbe innanzitutto falsa la dichiarazione resa dalle autorità francesi in merito alle presunta chiusura della base militare di Solenzara, in Corsica, a partire dalle 17.00 del pomeriggio del 27 giugno 1980, ossia ben quattro ore prima che il DC 9 precipitasse; secondo quanto dichiarato, infatti, da militari presenti nella base, vi sarebbe invece stata una intensa attività al suo interno fino a tarda sera, con «decine di aerei» decollati dalla Corsica, mentre il DC 9 di Itavia era in volo tra Bologna e Palermo;
   l'inchiesta televisiva smentirebbe, altresì, l'affermazione resa dalle autorità francesi che «nessuna portaerei era in mare il giorno della tragedia»; secondo la ricostruzione degli autori del programma in mare vi sarebbe stata invece la portaerei «Foch», come risulterebbe da documenti inediti che certificherebbero l'attività della nave il 27 giugno del 1980;
   trascorsi più di trentacinque anni dalla tragedia di Ustica, è un documentario francese a riproporre la ricostruzione, da molto tempo ormai chiara, secondo la quale le 81 vittime di quella strage, di cui ben 13 bambini, furono in realtà una sorta di «danno collaterale» di un'operazione militare in corso, nella quale i caccia francesi intendevano abbattere un Mig libico che stava seguendo da vicino il DC 9 e lanciando un missile avrebbero colpito per errore l'aereo di linea Itavia;
   tuttavia, la Francia ha continuato a mantenere una sorta di segreto di Stato sui fatti avvenuti quella sera e le rogatorie internazionali avanzate più volte dei magistrati italiani non hanno ottenuto risposta –:
   quali iniziative urgenti, anche sul piano politico-diplomatico, il Governo intenda adottare al fine di ottenere, anche sulla scorta delle nuove rivelazioni e conferme rese dall'inchiesta francese, un quadro finalmente chiaro di quanto realmente avvenne la notte del 27 giugno 1980 sopra i cieli di Ustica, restituendo così, sia pur con trentacinque anni di ritardo, almeno una parte di verità ai familiari delle vittime di quella tragedia.
(2-01242)
«Verini, De Maria, Bolognesi, Fabbri, Lenzi, Zampa, Censore, Argentin, Ascani, Benamati, Stella Bianchi, Borghi, Capozzolo, Cenni, Coscia, D'Ottavio, Ermini, Fiano, Fontanelli, Fossati, Giorgis, Laforgia, Misiani, Nardi, Orfini, Peluffo, Giuditta Pini, Quartapelle Procopio, Rampi, Realacci, Rocchi, Rossomando, Rostan, Rubinato, Scuvera, Valiante, Zoggia».
(26 gennaio 2016)

D)

   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Ministro della salute, il Ministro dello sviluppo economico per sapere – premesso che:
   il 21 dicembre 1985, nella zona di San Giovanni a Teduccio, periferia orientale di Napoli, un'esplosione nel deposito di carburante dell'Agip provocò la morte di 5 persone, il ferimento di altre 165, oltre ad una serie di drammatiche conseguenze sul piano socio-economico e, soprattutto, sulla salute delle persone;
   dalla prima metà degli anni ottanta in poi le raffinerie dell'area furono via via dismesse, permanendo tuttavia negli anni successivi le attività di deposito di idrocarburi, oli combustibili e GPL nei pressi della darsena Petroli, nonostante i ripetuti quanto vani tentativi di delocalizzazione delle stesse;
   l'aria, il suolo e l'acqua di San Giovanni a Teduccio, Barra e buona parte della periferia est sono letteralmente devastati, ormai da decenni. Nei terreni e nelle falde acquifere si annidano sostanze pericolosissime (fenoli, cromo esavalente, piombo, nichel, benzene, stirene, benzopirene, arsenico, piombo, mercurio, per citarne alcune), l'aria è irrespirabile, soprattutto di notte a causa della pulizia dei silos, l'acqua dai rubinetti talvolta fuoriesce oleosa o nera, come avvenuto nei giorni tra novembre e dicembre del 2015, senza che alcuna autorità o istituzione preposta abbia fornito ai cittadini una spiegazione dell'accaduto;
   i livelli di inquinamento della zona hanno determinato l'inclusione dell'area «Napoli Orientale» fra i siti di interesse nazionale (SIN) per i quali sono necessari interventi di bonifica, ai sensi dell'articolo 1, comma 4, della legge n. 426 del 1998;
   abnormi livelli di contaminazione delle acque e del suolo sono stati riconosciuti, più recentemente, anche sul piano istituzionale, nell'ambito della conferenza di servizi decisoria propedeutica all'approvazione di progetti di bonifica concernenti il SIN «Napoli Orientale» (nella fattispecie, si trattava dell’iter amministrativo relativo all'ex deposito AgiPetroli e all'area ex Feltrinelli), tenutasi presso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare in data 31 maggio 2013, alla presenza di rappresentanti del Ministero della salute e del Ministero dello sviluppo economico;
   pur in mancanza di dati e statistiche ufficiali, si può affermare che l'incidenza dei tumori, anche fra i giovani, nell'area di San Giovanni a Teduccio sia fortissima, oltre qualsiasi «ragionevole» soglia, come del resto qualunque residente della zona ha potuto, per esperienza diretta, constatare;
   la delocalizzazione dei depositi di idrocarburi e oli combustibili presenti nell'area, della quale per anni s’è discusso, avrebbe dovuto inserirsi nel contesto di un'ampia riqualificazione della fascia costiera di San Giovanni a Teduccio e, più in generale, della zona orientale di Napoli, da realizzarsi in primo luogo attraverso gli strumenti di pianificazione urbanistica e dell'autorità portuale;
   con decreto del presidente della giunta regionale della Campania n. 323 del 2004 è stata approvata la variante al piano regolatore generale del comune di Napoli per la zona orientale, nella quale ricade l'ambito 13, occupato da attività produttive e industriali a rischio di incidente rilevante, quali quello della raffineria Q8 dismessa e da depositi di derivati petroliferi (fra i quali i due depositi della Kuwait Petroleum Spa: il Kupit e l'ex Benit);
   la variante di piano relativa all'area di San Giovanni a Teduccio si basa essenzialmente sulla delocalizzazione di tutti gli impianti petroliferi, in considerazione del loro impatto ambientale e della loro pericolosità in relazione ad un'area ad elevata urbanizzazione;
   i progetti di bonifica del sito di Napoli orientale sono oggetto di distinti procedimenti amministrativi in quanto distinte sono le proprietà delle aree e dei depositi da bonificare;
   il 15 novembre 2007 il Ministero dell'ambiente, la regione Campania e il comune di Napoli hanno sottoscritto un accordo di programma per la bonifica del SIN di Napoli orientale;
   il sito è suddiviso in quattro macro-aree, una delle quali è costituita dal polo petrolifero (circa 345 ettari) dove sono localizzate le principali aziende petrolchimiche, fra le quali la Kuwait Petroleum Italia Spa, che detiene la proprietà di un'area di circa 90 ettari (cosiddetto deposito fiscale) e gestisce gran parte della movimentazione di idrocarburi che dalle navi attraccate alla cosiddetta darsena Petroli vengono dirottati verso i depositi;
   in virtù del protocollo d'intesa siglato nel 2006 da regione Campania, comune di Napoli, Napoli orientale Scpa, Kuwait Petroleum Spa e Kuwait raffinazione e chimica Spa la permanenza delle attività di stoccaggio di prodotti petroliferi è stata assicurata, con piena operatività, fino al 2026 nell'ambito di una determinata area detta «di ripiegamento» o «operativa», che ha un'estensione di circa 53 ettari;
   ai sensi dell'articolo 143, comma 3, della variante al piano regolatore generale la restante parte del suoli dei siti di proprietà della Kuwait, pari a 37 ettari, è identificata come «area di immediata dismissione», ovverosia l'area da bonificare, ancora occupata da strutture industriali essenzialmente non attive;
   negli anni successivi la progettazione della bonifica s'incaglia nelle maglie procedurali, fra pareri non espressi e la mancante valutazione d'impatto ambientale relative ai macchinari individuati per la pulizia dei terreni. Rallentamenti e lacune che hanno causato una enorme dispersione di risorse pubbliche (gestite dalla Sogesid) e che nel 2013 hanno altresì dato luogo al sequestro da parte della magistratura di alcune aree interessate dalla bonifica;
   con nota dell'11 maggio 2015, tuttavia, la regione Campania ha consentito alla Kuwait Petroleum di «ritirare l'istanza di VIA a suo tempo formulata, in quanto non obbligatoria per legge»;
   a distanza di nove anni dall'avvio della progettazione di bonifica dei terreni della Kuwait, il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, con il decreto del 23 luglio 2015, ha approvato il «Progetto definitivo di bonifica dei suoli dei siti di proprietà Kuwait di Napoli», a condizione che fosse rispettata una fitta serie di prescrizioni concernenti, in particolare, le modalità di campionamento e di analisi, nonché il monitoraggio dei terreni oggetto di bonifica;
   per quanto riguarda l'area della Kuwait, ad alimentare la grave preoccupazione dei cittadini per la propria salute è la notizia, diffusa alcuni giorni fa dagli organi di stampa, del sequestro preventivo pari a 240 milioni di euro equivalente al vantaggio economico che l'azienda petrolifera avrebbe tratto dal mancato rispetto delle norme in materia di smaltimento delle acque oleose. Fra gli impianti attivi di proprietà della Kuwait rientra infatti anche un impianto per il trattamento delle acque reflue (WWT) mediante una procedura che, secondo quanto sostenuto dall'azienda nell'allegato tecnico alla domanda di rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale, consentirebbe il completo rispetto dei limiti imposti dalla tabella 3 dell'allegato V alla Parte III del decreto legislativo n. 152 del 2006 e successive modificazioni e integrazioni, nonché il rispetto delle norme relative all'immissione delle acque depurate nella fognatura pubblica;
   secondo gli inquirenti, invece, il trattamento delle acque oleose da parte della Kuwait sarebbe avvenuto in modo difforme da quanto dichiarato nell'allegato tecnico e, quindi, dalle prescrizioni di legge. L'ipotesi degli inquirenti è che le acque utilizzate per il lavaggio delle linee di importazione di benzina venissero trasferite in modo improprio da un serbatoio all'altro, trasformandosi esse stesse in un rifiuto liquido pericoloso che avrebbe dovuto pertanto essere smaltito nei modi stabiliti dalla legge e dunque attraverso un processo più oneroso;
   i residenti di San Giovanni a Teduccio e delle aree limitrofe sono fortemente provati, non soltanto a causa dei fenomeni inquietanti a cui non viene offerta loro una adeguata spiegazione (l'acqua nera dai rubinetti o, ancora recentemente, il fortissimo acre odore nell'aria), non soltanto per la nitida percezione che la zona sia funestata da un tasso elevatissimo di malattie tumorali, ma ora anche dalla notizia di acque oleose non correttamente depurate e immesse nella fognatura pubblica;
   la notizia di presunti reati commessi dalla Kuwait Petroleum è l'ennesimo «schiaffo» ad una terra già devastata dall'inquinamento, che attende da decenni interventi di bonifica di cui non si riesce a intravedere la fine, e in alcuni casi addirittura neanche l'inizio –:
   se il Governo non consideri improcrastinabile l'attivazione, per quanto di competenza, di uno screening sanitario nell'area di San Giovanni a Teduccio, con particolare riferimento al monitoraggio delle patologie neoplastiche che hanno colpito i residenti della zona;
   se il Governo non ritenga necessario superare la «parcellizzazione» degli interventi di bonifica del sito di interesse nazionale «Napoli Orientale» e, in caso affermativo, quali iniziative intenda assumere, nell'ambito delle proprie competenze, affinché tale processo sia svolto attraverso un coordinamento ed una visione d'insieme, invero ad avviso degli interpellanti fino ad oggi inesistenti, atteso che l'accorpamento dei procedimenti amministrativi relativi agli interventi di bonifica è possibile soltanto laddove le aree siano di proprietà della medesima società;
   quali iniziative urgenti il Governo intenda assumere al fine di dare definitivo impulso alla bonifica del sito di interesse nazionale «Napoli Orientale», una bonifica che costituisce la precondizione essenziale per sottrarre le future generazioni al rischio di sviluppare patologie neoplastiche strettamente connesse all'inquinamento dell'aria, del suolo e della falda acquifera di quest'angolo martoriato del capoluogo campano;
   se, in ossequio al principio della trasparenza dell'azione pubblica in materia ambientale sancito dalla Convenzione di Aarhus, il Governo non ritenga doveroso fornire ai cittadini, anche nei siti internet della Sogesid e del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, tutti i dati relativi al sito di interesse nazionale «Napoli Orientale» nonché tutti gli atti, lo stato di avanzamento e le stime della conclusione dei singoli interventi di bonifica e messa in sicurezza di cui all'accordo di programma citato in premessa;
   quante risorse siano state fino ad oggi assicurate alla Sogesid – rectius disperse, ad avviso degli interpellanti – per interventi di bonifica mai realizzati, in alcuni casi neppure progettati, e quante risorse la società pubblica abbia a sua volta appaltato a terzi;
   quali iniziative urgenti il Governo intenda adottare, nell'ambito delle proprie competenze, al fine di assicurare che qualsiasi attività ricadente nell'ambito del sito di interesse nazionale Napoli Orientale – ivi comprese quelle di smaltimento dei rifiuti pericolosi svolte dalla Kuwait Petroleum – avvenga nel rispetto della normativa ambientale e non sia tale da determinare ulteriori pericoli per la salute delle persone che vivono a San Giovanni a Teduccio e nelle aree limitrofe.
(2-01200)
«Fico, Mannino, Colonnese, Luigi Di Maio, Luigi Gallo, Silvia Giordano, Micillo, Pisano, Sibilia, Tofalo, Frusone, Gagnarli, Gallinella, L'Abbate, Liuzzi, Lombardi, Lupo, Marzana, Nesci, Parentela, Pesco, Petraroli, Rizzo, Paolo Nicolò Romano, Ruocco, Sarti, Sorial, Spessotto, Terzoni, Tripiedi, Vacca, Simone Valente, Vallascas, Vignaroli, Villarosa, Zolezzi».
(Presentata il 15 dicembre 2015)