TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 640 di Mercoledì 22 giugno 2016

 
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MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE A FAVORIRE L'ACCESSO AGLI STUDI UNIVERSITARI, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AD UN'EQUA RIPARTIZIONE DELLE RISORSE SUL TERRITORIO NAZIONALE

   La Camera,
   premesso che:
    l'Italia nel 2014 è stato lo Stato membro dell'Unione europea con la minore percentuale di giovani laureati: con il 23,9 per cento si colloca, purtroppo, all'ultimo posto fra i 28 Stati membri, paragonato al 49,9 per cento della Svezia, al 47,7 per cento del Regno unito, ma anche al 31,3 per cento del Portogallo e al 25 per cento della Romania;
    sono dati inquietanti che fanno riflettere profondamente sullo stato di salute delle nostre università italiane e sulle scelte fatte negli ultimi vent'anni con la consapevolezza della necessità, non più procrastinabile, di analisi più approfondite sull'argomento ma anche di un complessivo ripensamento dell'indirizzo di governo che riguardi l'istruzione superiore che significa produzione culturale del Paese, formazione delle classi dirigenti e, in particolare, di quel capitale umano di qualità che è il fattore produttivo decisivo nell'economia di un Paese, specialmente in un paese così diverso al suo interno come l'Italia;
    l'Europa si è data l'obiettivo, nel 2020, di avere il 40 per cento di giovani laureati. L'obiettivo italiano alla stessa data è pari al 26-27 per cento, che continuerebbe a collocarla all'ultimo posto, rischiando di essere superata anche dalla Turchia. La regione con la percentuale maggiore di laureati, il Lazio (31,6 per cento), si colloca su livelli pari al Portogallo. Quattro regioni italiane, tutte del Mezzogiorno, sono fra le ultime dieci nella graduatoria delle 272 europee; la Sardegna (17,4 per cento) è penultima: la sua percentuale di giovani laureati è superiore solo alla regione ceca dello Severozápad;
    il nostro Paese nel giro di pochi anni, ha vissuto un disinvestimento molto forte nella sua università, in totale controtendenza rispetto a tutti i paesi avanzati che continuano invece ad accrescere la propria formazione superiore. Mentre il finanziamento pubblico delle nostre università italiane si contraeva del 22 per cento, in Germania cresceva del 23 per cento; persino i paesi mediterranei più colpiti dalla crisi hanno ridotto di meno il proprio investimento sull'istruzione superiore;
    i fondi del diritto allo studio universitario sono distribuiti alle regioni secondo criteri che generano gravi sperequazioni a danno delle regioni del Sud;
    per effetto di tale distribuzione il 75 per cento degli studenti che, secondo la Costituzione italiana, avrebbero diritto a beneficiare di borse di studio e non ne beneficiano sono iscritti nelle università del Sud;
    il rapporto della Fondazione Res, recentemente presentato, fotografa la condizione degli atenei italiani, da Nord a Sud, come un costante, inesorabile declino a cominciare dalla caduta delle immatricolazioni: dal 2003-04 si riducono di oltre 66 000 unità, fino a meno di 260 000 nel 2014-15 (-20,4 per cento). Fra tutti i Paesi avanzati solo la Svezia e l'Ungheria sperimentano un decremento più forte. Al contrario, gli immatricolati crescono sensibilmente nella media dei Paesi dell'Ocse e a ritmi particolarmente sostenuti, oltre che negli emergenti, in Germania e Regno unito. Il calo delle immatricolazioni, sempre dal 2003-04, è poi differenziato per territori: è particolarmente intenso nelle isole (-30,2 per cento), nel Sud continentale (-25,5 per cento) e nel Centro (-23,7 per cento, specie nel Lazio); più contenuto al nord (-11 per cento);
    è grave il fenomeno migratorio di diplomati che, in numero di 24 mila, ogni anno abbandonano le regioni del Sud per studiare in università del Centro e del Nord e questo aggrava la già depressa situazione del Meridione;
    la mobilità studentesca è un fenomeno estremamente positivo, perché rappresenta un'esperienza di vita indipendente per i giovani, consente la scelta del corso di studio più adatto e una competizione sana tra atenei, ma è una mobilità a senso unico, da Sud verso Nord. Nel 2014-15 oltre 55 000 studenti si sono immatricolati in una regione diversa da quella di residenza;
    al Nord questo fenomeno riguarda il 17,8 per cento degli immatricolati, che rimangono quasi tutti (5/6) all'interno della circoscrizione. Al Centro è meno rilevante (14,5 per cento degli immatricolati), specie per gli studenti toscani e laziali, ma orientata di più verso l'esterno: metà di chi cambia regione va al nord, un terzo rimane al Centro, un sesto va al Sud;
    al Sud la mobilità è molto maggiore: riguarda il 28,9 per cento degli immatricolati, 4 su dieci si spostano al Nord e altri 4 al Centro. È la mobilità dei circa 29 000 immatricolati (in un anno) meridionali il fenomeno più importante, con una mobilità interna al Mezzogiorno assai contenuta e un flusso in uscita dalla circoscrizione a cui non corrisponde un flusso in entrata;
    la mobilità solo in direzione d'uscita è negativa perché genera da una parte una perdita per le aree di origine in termini di capitale umano, dall'altra un trasferimento di reddito a favore delle regioni di entrata per il mantenimento dei figli fuori sede sostenuto dalle famiglie. La scelta del trasferimento è riconducibile a più fattori e, in particolare, a una più elevata capacità attrattiva di singoli atenei centro-settentrionali, nonché alle maggiori prospettive occupazionali nei mercati del lavoro del nord una volta conseguita la laurea;
    Molise (49,5 per cento), Trentino Alto Adige (47,8), Abruzzo (41,3) sono le regioni più piccole che nell'anno accademico 2014-15, hanno mostrato indici di attrattività più elevati spiegabili soprattutto con la qualità della vita urbana (Trento) o con la posizione geografica, come nel caso di Abruzzo e Molise. Le regioni medie e medio-grandi maggiormente attrattive sono tutte localizzate al nord: spiccano in particolare l'Emilia Romagna e la Lombardia. Al contrario risulta estremamente ridotta l'attrattività delle università meridionali, tutte largamente al di sotto della metà della media nazionale, ad eccezione della Basilicata che sfiora il 20 per cento, grazie alla specificità di alcuni indirizzi di studio;
    altro punto di grande criticità è quello dei docenti universitari che fra il 2008 e il 2015 si sono ridotti del 17,2 per cento; il calo è stato notevolmente più intenso di quello registrato in ogni altro comparto del pubblico impiego, ben cinque volte maggiore di quanto avvenuto nella scuola. La diminuzione del personale docente di ruolo è stata dell'11,3 per cento al nord, ma del 18,3 per cento nel Mezzogiorno e del 21,8 per cento nelle università del Centro a causa dei blocchi del ricambio, in presenza dei pensionamenti. Ad esempio nel triennio 2012-14 il turn over (assunzioni in percentuale dei pensionamenti) è stato pari al 27,3 per cento. Il blocco del turn over negli atenei ha comportato un sensibile invecchiamento del personale docente, attualmente i dati disponibili ci dicono che un terzo dei professori ordinari ha più di 65 anni;
    la spesa totale (pubblica e privata) per l'istruzione universitaria, riportata dal rapporto annuale Education at a Glance dell'Ocse (2014) e misurata rispetto al Pil (2011), è in Italia sui livelli più bassi fra tutti i Paesi dell'Ocse: gli unici paesi con livelli comparabili sono Ungheria e Brasile; per tutti gli altri, europei ed extraeuropei, il livello è significativamente superiore. Nel 2011 il totale della spesa (pubblica e privata) era in Italia dell'1 per cento del Pil, contro una media ocse dell'1,6 per cento e dei paesi europei membri dell'Ocse pari all'1,4 per cento: i grandi paesi europei si collocano fra l'1,2 per cento e l'1,5 per cento; la stessa Turchia è all'1,3 per cento; gli scandinavi su livelli superiori, gli Stati uniti sono al 2,7 per cento;
     il fondo di finanziamento ordinario delle università (Ffo), nasce nel 1993, come veicolo di finanziamento «omnibus» all'interno del quale fare ricadere sia gli interventi per il funzionamento sia allocazioni «premiali» ed è stato proprio questo l'errore di fondo, sarebbe stato meglio fin da allora prevedere due diversi canali di finanziamento: uno destinato, appunto, alle spese ordinarie e un altro, con funzione premiale e incentivante. Fino al 2008 la dimensione del fondo cresce, anche se aumentano le quote relative degli atenei del Nord e del Sud, rispetto a quelli del Centro e delle isole. Con i provvedimenti presi a partire dal 2008, con la cosiddetta Riforma Gelmini (legge n. 240 del 2010), l'investimento destinato alle università si riduce drasticamente. Il fondo di finanziamento ordinario diminuisce ai livelli di metà anni novanta. Sul totale delle entrate degli atenei diminuisce sensibilmente il peso delle risorse attribuite dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca (e in particolare del fondo di finanziamento ordinario), a vantaggio della contribuzione studentesca e di finanziamenti di soggetti terzi, specie privati. Questo cambiamento produce un significativo impatto territoriale, perché colpisce in particolare le università collocate nelle aree meno ricche del Paese;
    l'analisi di tutti questi dati porta a delle conclusioni chiare, risulta necessario ed urgente ripensare questi meccanismi di finanziamento, basandosi su una distinzione netta fra fondi destinati al funzionamento del sistema universitario e fondi premiali destinati alla ricerca, ripristinando una sufficiente quota di finanziamento per tutti gli atenei, a copertura delle funzioni di didattica e di ricerca di base, e con l'allocazione di risorse aggiuntive, finalizzate alle grandi priorità di ricerca del paese, sulla base di criteri di valutazione della ricerca, abbandonando formule e algoritmi onnicomprensivi che hanno dimostrato negli ultimi anni di non essere adeguati alla complessità della realtà,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per incrementare il fondo del diritto allo studio;
   ad assumere iniziative per modificare i criteri di distribuzione del fondo per il diritto allo studio applicando la regola delle quote capitarie e suddividendo quindi il fondo tra le regioni esclusivamente in base al numero di idonei ai benefici;
   ad assumere iniziative per incrementare sensibilmente il fondo di finanziamento ordinario delle università per avvicinarlo a quello degli altri Paesi europei;
   a promuovere una radicale revisione dei meccanismi di finanziamento per le attività di ricerca;
   ad assumere iniziative per immettere nuovi docenti e ricercatori a copertura dei previsti pensionamenti;
   ad adottare iniziative per applicare una deroga temporanea di almeno 5 anni per le università del Sud, in relazione alle norme restrittive inerenti al rapporto tra numero di docenti e attivazione dei corsi di studio, consentendo di attivare corsi di studio, indipendentemente dal numero dei docenti, per dare risposte alle esigenze ogni anno manifestate dai diplomati.
(1-01192)
(Nuova formulazione) «Pisicchio, Palese».
(9 marzo 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    gli articoli 33 e 34 della Costituzione pongono i princìpi fondamentali relativi all'istruzione con riferimento, rispettivamente, all'organizzazione scolastica e universitaria e ai diritti di accedervi e di usufruire delle prestazioni che essa è chiamata a fornire. Organizzazione e diritti sono aspetti speculari della stessa materia, l'una e gli altri implicandosi e condizionandosi reciprocamente. Non c’è organizzazione che, direttamente o almeno indirettamente, non sia finalizzata a diritti, così come non c’è diritto a prestazione che non condizioni l'organizzazione;
    l'articolo 33, dopo aver stabilito, al primo comma, che «l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento» e, al secondo comma, che la «Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi», prevede, tra gli altri per le università, «il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato». «Secondo la Costituzione, l'ordinamento della pubblica istruzione è dunque unitario ma l'unità è assicurata, per il sistema scolastico in genere, da “norme generali” dettate dalla Repubblica; in specie, per il sistema universitario, in quanto costituito da “ordinamenti autonomi”, da “limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”»;
    gli «ordinamenti autonomi» delle università, cui la legge, secondo l'articolo 33 della Costituzione, deve fare da cornice, non possono considerarsi soltanto sotto l'aspetto organizzativo interno, manifestantesi in amministrazione e in normazione statutaria e regolamentare. Per l'anzidetto rapporto di necessaria reciproca implicazione, l'organizzazione deve considerarsi anche sul suo lato funzionale esterno, coinvolgente i diritti e incidente su di essi. La necessità di leggi dello Stato, quali limiti dell'autonomia ordinamentale universitaria, vale pertanto sia per l'aspetto organizzativo, sia, a maggior ragione, per l'aspetto funzionale che coinvolge i diritti di accesso alle prestazioni;
    in questo modo, all'ultimo comma dell'articolo 33 viene a conferirsi una funzione, per così dire, di cerniera, attribuendosi alla responsabilità del legislatore statale la predisposizione di limiti legislativi all'autonomia universitaria relativi tanto all'organizzazione in senso stretto, quanto al diritto di accedere all'istruzione universitaria, nell'ambito del principio secondo il quale «la scuola è aperta a tutti» (articolo 34, primo comma) e per la garanzia del diritto riconosciuto ai «capaci e meritevoli, anche, se privi di mezzi» «di raggiungere i gradi più alti degli studi» (articolo 34, terzo comma);
    la conclusione cui così si perviene attraverso la specifica interpretazione degli articoli 33 e 34 della Costituzione è, del resto, confermata e avvalorata dai «principi generali informatori dell'ordinamento democratico, secondo i quali ogni specie di limite imposto ai diritti dei cittadini abbisogna del consenso dell'organo che trae da costoro la propria diretta investitura» e dall'esigenza che «la valutazione relativa alla convenienza dell'imposizione di uno o di altro limite sia effettuata avendo presente il quadro complessivo degli interventi statali nell'economia inserendolo armonicamente in esso, e pertanto debba competere al Parlamento, quale organo da cui emana l'indirizzo politico generale dello Stato» (si confronti la sentenza n. 383 del 1998 della Corte costituzionale);
    non può negarsi che il diritto costituzionale allo studio, come ricostruito dalla riportata giurisprudenza costituzionale, imponendo scelte pubbliche d'insieme, inerenti alla determinazione delle risorse necessarie per il funzionamento delle istituzioni universitarie, per la garanzia del diritto alla formazione culturale (sancita dall'articolo 2 della Costituzione) e alle scelte professionali di ciascuno (articolo 4) risulti, soprattutto negli ultimi anni, drammaticamente compromesso;
    il sistema di finanziamento pubblico del diritto allo studio universitario avviene attraverso tre voci ovvero:
     a) il fondo integrativo statale;
     b) il gettito derivante dalla tassa regionale per il diritto allo studio;
     c) le risorse proprie delle regioni, pari almeno al 40 per cento dell'assegnazione del fondo integrativo statale;
    negli ultimi anni il diritto allo studio universitario è stato umiliato a causa del sempre più frequente fenomeno dello studente idoneo a percepire la borsa di studio ma non beneficiario a causa delle insufficienti risorse stanziate dallo Stato;
    nonostante le nuove regole sul diritto allo studio, conseguenti alla «riforma Gelmini» dell'università, abbia causato un numero di studenti idonei a percepire la borsa di studio inferiore rispetto al passato, le regioni non riescono, comunque, ad assegnare le borse a tutti i richiedenti che ne hanno diritto;
    l'Italia si colloca negli ultimi posti in Europa per investimenti sul diritto allo studio, tant’è che in diversi Stati dell'Unione europea l'iscrizione all'università è gratuita e la borsa di studio garantisce tutti gli studenti privi di mezzi;
    in Italia, a beneficiare di borse di studio è circa il 7 per cento degli studenti, per una spesa complessiva pubblica 258 milioni di euro, contro il 25,6 per cento della Francia (1,6 miliardi di euro), il 30 per cento della Germania (2 miliardi di euro) e il 18 per cento della Spagna (943 milioni di euro);
    in particolare, l'importo della tassa per il diritto allo studio è stabilito dalle regioni e dalle province autonome e può essere articolato in 3 fasce. La misura minima della fascia più bassa della tassa è fissata in 120 euro e si applica a coloro che presentano una condizione economica non superiore al livello minimo dell'indicatore di situazione economica equivalente corrispondente ai requisiti di eleggibilità per l'accesso ai livelli essenziali delle prestazioni (lep) del diritto allo studio. I restanti valori della tassa minima sono fissati in 140 euro e 160 euro per coloro che presentano un indicatore di situazione economica equivalente rispettivamente superiore al livello minimo e al doppio del livello minimo previsto dai requisiti di eleggibilità per l'accesso ai livelli essenziali delle prestazioni del diritto allo studio. Il livello massimo della tassa per il diritto allo studio è fissato in 200 euro;
    l'attuale normativa prevede che l'impegno delle regioni in termini economici maggiori rispetto a quanto previsto dall'articolo 18, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, sia valutato attraverso l'assegnazione di specifici incentivi nel riparto del fondo integrativo statale di cui al comma 1, lettera a), dello stesso decreto legislativo, e del fondo per il finanziamento ordinario alle università statali che hanno sede nel rispettivo contesto territoriale;
    i criteri per il riparto del fondo integrativo per la concessione di prestiti d'onore e di borse di studio sono stabiliti dall'articolo 16 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 9 aprile 2001;
    analogo discorso, circa i limiti che il legislatore statale deve porre all'autonomia degli atenei al fine di garantire la piena attuazione della Costituzione, deve riferirsi alla determinazione delle tasse d'iscrizione all'università. Attualmente anche la contribuzione richiesta agli studenti rappresenta, infatti, un ostacolo alla formazione;
    il decreto del Presidente della Repubblica n. 306 del 1997 regolamenta la disciplina in materia di tasse di iscrizione all'università a carico degli studenti. Tale regolamento prevede che ogni università abbia piena autonomia nella determinazione dell'entità e delle regole della tassazione studentesca rispettando criteri di equità, solidarietà e progressività, tenendo in considerazione la condizione economica dello studente;
    oltre ai contributi universitari, ogni studente è tenuto a versare all'università anche la tassa di iscrizione, fissata inizialmente in trecentomila lire ed aggiornata annualmente con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. L'importo della tassa di iscrizione è identica per tutti gli atenei italiani;
    la contribuzione totale versata dallo studente universitario è la risultante della somma tra la tassa di iscrizione definita annualmente dal Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca e i contributi universitari decisi autonomamente da ogni singola università;
    come contrappeso all'autonomia delle università, per evitare che queste possano stabilire importi contributivi troppo alti, il regolamento stabilisce che la somma delle contribuzioni versate da ogni singolo studente ogni anno alla propria università non possa eccedere il 20 per cento del finanziamento ordinario dello Stato all'ateneo;
    il citato regolamento stabilisce alcuni principi, seguendo criteri più specifici, che prevedono anche la garanzia dell'accesso ai capaci e ai meritevoli privi di mezzi e la riduzione del tasso di abbandono degli studi;
    tale disciplina in materia di contributi universitari è rimasta inalterata fino alle modifiche apportate dalla normativa sulla spending review (decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135), che ha disposto (con l'articolo 7, comma 42) l'introduzione dei commi 1-bis, 1-ter, 1-quater e 1-quinquies dell'articolo 5 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 306 del 1997;
    le modifiche apportate dal citato decreto-legge n. 95 del 2012 entrano nel merito dei limiti della contribuzione studentesca modificando i criteri per individuare la tassazione massima a carico dello studente. In sostanza, viene modificato il calcolo del limite del 20 per cento dell'ammontare della contribuzione studentesca totale (la somma di tutte le tasse pagate dagli studenti in un singolo ateneo) rispetto al finanziamento ordinario assegnato dallo Stato alla singola università;
    con le novelle introdotte dal decreto-legge n. 95 del 2012, ai fini del calcolo della contribuzione studentesca totale, è stata scorporata la contribuzione degli studenti fuori corso. Come conseguenza non sono più considerate, ai fini del calcolo della contribuzione totale versata dagli studenti alle università, le somme pagate dagli studenti fuori corso che, in media, rappresentano il 40 per cento degli iscritti;
    tale novità comporta, di fatto, un aumento del limite massimo di contribuzione sia per gli studenti in corso che per quelli fuori corso; inoltre, è eliminato qualsiasi limite alla determinazione dell'importo della contribuzione studentesca per gli studenti fuori corso;
    il citato decreto-legge n. 95 del 2012 prevede, inoltre, entro tre anni dalla entrata in vigore, un aumento significativo della tassazione per tutti gli studenti;
    il fondo per il finanziamento ordinario delle università (ffo) è relativo alla quota a carico del bilancio statale delle spese per il funzionamento e le attività istituzionali delle università, comprese le spese per il personale docente, ricercatore e non docente, per l'ordinaria manutenzione delle strutture universitarie e per la ricerca scientifica e della spesa per le attività sportive universitarie;
    negli ultimi anni il fondo per il finanziamento ordinario è sensibilmente diminuito; per questa ragione, le università che si sono trovate a superare il limite del 20 per cento sono numerose, ben due delle università statali su tre nell'anno accademico 2011/2012;
    alcune università (Insubria, Milano statale, Milano Bicocca, Napoli Partenope, Urbino, Venezia Ca’ Foscari, Venezia Iuav) hanno superato anche il 30 per cento e una (Bergamo) addirittura il 40 per cento;
    di fatto le modifiche apportate dal decreto-legge n. 95 del 2012 al decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306, scaricano sugli studenti i tagli apportati al fondo per il finanziamento ordinario nel corso degli anni dai vari Governi alla guida del nostro Paese;
    gli atenei che, fino al 2013, non hanno rispettato il tetto massimo degli introiti derivanti da tasse e contribuzione studentesche previste dal decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306, sono stati avvantaggiati dal reclutamento e dalle quote premiali, nonostante fossero in difetto fino all'entrata in vigore delle disposizioni normative introdotte dal decreto-legge n. 95 del 2012;
    dal 2007 alcune associazioni studentesche universitarie hanno avviato una serie di ricorsi amministrativi contro quegli atenei che superavano il limite del 20 per cento stabilito dall'articolo 5, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306;
    dopo l'accoglimento, nel marzo del 2011, del primo ricorso sulla contribuzione studentesca presentato nel 2007 (registro generale 599) al tribunale amministrativo regionale dell'Abruzzo contro l'Università di Chieti Pescara, si sono moltiplicati i ricorsi in vari atenei italiani;
    di fatto, le disposizioni normative introdotte dal decreto-legge n. 95 del 2012 hanno rappresentato una sanatoria per le università che fino al 2012 non rispettavano quanto stabilito dal decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306;
    si ritiene necessario, in considerazione di quanto esposto, prevedere l'esonero dal pagamento (della contribuzione studentesca per gli studenti meno abbienti introducendo una no tax area per indicatori della situazione economica equivalente al di sotto dei 20 mila euro. Secondo i dati forniti dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca l'ammontare del fondo di finanziamento ordinario 2017 si attesta intorno ai 7.003 milioni di euro, mentre il gettito complessivo della contribuzione studentesca intorno ai 1.497 milioni di euro;
    al fine di non ridurre le già esigue risorse destinate al sistema universitario, risulta doveroso rimborsare alle università il mancato gettito derivante dall'introduzione della no tax area attraverso un incremento dedicato del fondo di finanziamento ordinario,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative volte a modificare la disciplina attualmente vigente sulla contribuzione studentesca alle università statali stabilendo un'area di reddito entro cui lo studente sia esente dal pagamento della contribuzione (fascia no-tax) per tutti gli studenti con Isee al di sotto dei 20.000 euro;
   a dare pronta attuazione a quanto previsto dall'articolo 20 del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, attivando l'osservatorio nazionale per il diritto allo studio universitario e, in particolare, creando un sistema informativo, correlato a quelli delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano, per l'attuazione del diritto allo studio, anche attraverso una banca dati dei beneficiari delle borse di studio;
   ad assumere iniziative normative, a garanzia dell'effettività del diritto allo studio sancito dalla Costituzione, volte ad incrementare le risorse destinate al diritto allo studio universitario con l'obiettivo di far sì che gli strumenti e i servizi per il conseguimento del pieno successo formativo nei corsi di istruzione superiore siano a disposizione di una platea di studenti che sia almeno corrispondente ad un quarto degli iscritti, in modo da allinearsi agli standard della Germania e della Francia;
   al fine di implementare l'utilizzo delle nuove tecnologie nonché di agevolare lo studio universitario a distanza, ad assumere iniziative per incrementare le risorse destinate alla didattica universitaria digitale;
   al fine di garantire il diritto alla prosecuzione degli studi e alla soddisfazione professionale di ciascuno, ad assumere iniziative per rimodulare l'attuale sistema di accesso per i corsi di laurea a numero programmato.
(1-01268)
«Vacca, D'Uva, Brescia, Simone Valente, Luigi Gallo, Marzana, Di Benedetto, D'Incà».
(13 maggio 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    le norme in materia di diritto allo studio universitario trovano il loro fondamento nella Costituzione che all'articolo 3, comma 2, affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese e, all'articolo 34, prevede, tra l'altro, che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi e stabilisce che la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso;
    la Costituzione stabilisce, all'articolo 117, comma 2, lettera m), che è competenza dello Stato stabilire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;
    alle regioni spetta in via esclusiva la potestà legislativa in materia di diritto allo studio;
    la legge delega n. 240 del 2010, cosiddetta riforma Gelmini, in attuazione delle norme costituzionali è intervenuta in materia prevedendo la revisione della normativa in materia di diritto allo studio e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere erogate dalle università italiane;
    tra gli obiettivi principali perseguiti dalla legge n. 240 del 2010 ci sono stati quelli di rafforzare le opportunità di accesso all'istruzione superiore per gli studenti provenienti da situazioni socioeconomiche sfavorite e di promuovere il merito tra gli studenti;
    in attuazione della delega è stato approvato il decreto legislativo n. 68 del 2012, che prevede la partecipazione di soggetti diversi, ciascuno nell'ambito delle proprie competenza, ad un sistema integrato di strumenti e servizi al fine di garantire il diritto allo studio;
    il finanziamento per il diritto allo studio universitario riesce a coprire appena il 73 per cento circa delle richieste e questa percentuale registra una tendenza a diminuire: dal 74,25 per cento del 2013/14 si è passati al 73,89 per cento del 2014/15;
    questi dati rappresentano la situazione a livello nazionale, ma la percentuale di copertura delle richieste non risulta omogenea tra le varie regioni e la distribuzione del fondo per il diritto allo studio evidenzia forti sperequazioni al livello regionale;
    il meccanismo di ripartizione dei fondi statali alle regioni è basata sulla loro ricchezza per cui quelle che riescono ad assegnare un maggior numero di borse di studio perché più ricche ottengono paradossalmente maggiori fondi dallo Stato; tale distribuzione attiva un circolo vizioso per cui alle regioni del Sud vanno meno risorse rispetto a quelle del Nord;
    un alto grado di istruzione rappresenta un aspetto fondamentale per il progresso sia economico sia sociale di un Paese, tanto più in un'economia globalizzata e basata sulla conoscenza, nella quale è necessario disporre di una forza lavoro qualificata per poter competere in termini di produttività, qualità e innovazione; livelli bassi di istruzione terziaria, infatti, agiscono da ostacolo per la competitività e possono compromettere la capacità del nostro Paese di generare «crescita intelligente»;
    ampliare l'accesso all'istruzione superiore aumentando la partecipazione ai corsi di istruzione terziaria in particolare del membri dei gruppi svantaggiati, appare una scelta necessaria anche in considerazione degli obiettivi che l'Unione europea ha indicato ai propri stati membri. La strategia Europa 2020 è stata adottata per innovare Lisbona 2001, per rispondere alle nuove priorità che la crisi economica ha posto e che hanno portato l'Unione europea a riconoscere l'urgenza di promuovere una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva caratterizzata da alti livelli di occupazione, produttività e coesione sociale. La Strategia Europa 2020 si è posta cinque obiettivi, tra questi investire in istruzione, innovazione e ricerca, per sviluppare una economia basata sulla conoscenza e sulla innovazione, indicando tra i traguardi prioritari da raggiungere entro il 2020 quello di portare almeno al 40 per cento la percentuale di popolazione in possesso di un diploma universitario o di una qualifica simile in età 30-34 anni;
    conoscenza, ricerca, sviluppo appaiono quindi quali tasselli fondamentali di un quadro strutturale generale volto a rispondere alle carenze strutturali che l'economia europea ha mostrato ma per poter raggiungere questi risultati l'Europa richiede ai Paesi membri di adottare a livello nazionale provvedimenti che si adattino alla specifica situazione locale; attraverso la crescita del livello generale di istruzione;
    la quota di popolazione con un'istruzione terziaria nella Unione europea dei 28 è in costante aumento ma tra i territori in cui si registra un andamento di segno inverso ci sono quattro regioni che si trovano nell'Italia meridionale: Basilicata, Campania, Sardegna e Sicilia;
    secondo il rapporto Education at a glance 2015 in Italia solo il 34 per cento dei giovani, a fronte di una media Ocse del 50 per cento, consegue un diploma d'istruzione terziaria,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative volte a garantire pari opportunità di accesso all'alta formazione universitaria, all'alta formazione artistica e musicale, agli istituti tecnici superiori, attraverso una effettiva implementazione del diritto allo studio, che valorizzi i talenti delle studentesse e degli studenti in linea con gli obiettivi della Strategia UE 2020 e i livelli europei ed internazionali;
   ad assumere le iniziative necessarie a portare l'investimento della quota di prodotto interno lordo nel comparto universitario al livello degli altri Paesi dell'Ocse, dell'Unione europea e del Consiglio d'Europa, potenziando le sinergie tra atenei, istituti per l'alta formazione ed istituti tecnici superiori, e tessuto produttivo, anche attraverso l'attuazione di un sistema duale sul modello europeo.
(1-01283) «Centemero, Occhiuto».
(23 maggio 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    la Costituzione all'articolo 3, secondo comma, sancisce che: «la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; questo è il principio cardine da cui nasce il diritto allo studio; mentre all'articolo 34, la Costituzione prevede che: «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso»;
    per quanto attiene all'organizzazione necessaria a rendere effettivi i diritti suddetti, la Costituzione statuisce, all'articolo 117, secondo comma, lettera m), che è competenza dello Stato stabilire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Alle regioni spetta in via esclusiva la potestà legislativa in materia;
    il finanziamento per il diritto allo studio universitario, a livello nazionale, copre poco più del 70 per cento delle richieste effettive, con una continua tendenza al ribasso, con forti disparità tra le regioni del Paese;
    in Italia solo il 34 per cento dei giovani, contro una media Ocse del 50 per cento, consegue la laurea; secondo quanto emerge dai dati raccolti dal Censis, le università italiane stanno perdendo sempre più immatricolati, 78.000 in meno negli ultimi dieci anni, trend che continua ad allontanare l'Italia dalla possibilità di raggiungere il 40 per cento di laureati entro il 2020 come stabilito a livello europeo;
    le cause di tale calo di immatricolazione sono molteplici: il restringimento dei canali di accesso all'università, il numero programmato dei corsi di laurea, programmi di studio troppo antiquati e carenza di adeguati finanziamenti regionali;
    allarmante è non soltanto l'emorragia dei giovani studenti universitari, ma anche la fuga di coloro che hanno già conseguito una laurea, a riprova che, sempre più spesso, chi possiede qualità e titoli sceglie di massimizzarli puntando dove maggiori sono le opportunità economiche e d'impiego. Il trasferimento degli studenti italiani post-laureati, peraltro, rappresenta una perdita non soltanto in termini di risorse umane ma anche in termini economici, il cui costo è stato stimato in 23 miliardi di euro,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per prevedere un impegno sempre maggiore di risorse, attraverso il costante aumento dell'investimento di quote di prodotto interno lordo nel comparto universitario, per portarlo al livello degli altri Paesi dell'Ocse, al fine di migliorare la situazione attuale che accresce il divario tra i ceti sociali ed economici, in netto contrasto con il dettato costituzionale.
(1-01289)
«Borghesi, Allasia, Attaguile, Bossi, Busin, Caparini, Castiello, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Invernizzi, Molteni, Picchi, Gianluca Pini, Rondini, Saltamartini, Simonetti».
(25 maggio 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    la Costituzione italiana prevede il principio di uguaglianza sostanziale, in base al quale «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese»;
    la medesima Costituzione prevede quale specificazione, all'articolo 34, quarto comma, che «La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso»;
    tra il 2008 e il 2014, secondo i dati dell’European university association public funding observatory, l'investimento pubblico si è ridotto del 21 per cento in termini reali e tra il 2014 (unico anno in cui il livello di investimenti aveva ripreso a crescere almeno rispetto al 2013) al 2015 si è assistito a una nuova riduzione;
    secondo l’«Education at a glance 2015», l'annuale pubblicazione Ocse che analizza i sistemi di istruzione dei trentaquattro Paesi membri e di altri Stati partner, l'Italia destina soltanto lo 0,9 per cento del prodotto interno lordo all'istruzione terziaria, la seconda quota più bassa tra i Paesi dell'Ocse dopo il Lussemburgo, mentre Paesi come Canada, Cile, Corea, Danimarca, Finlandia, Stati Uniti, hanno dedicato quasi il 2 per cento, o una quota superiore, del prodotto interno lordo all'istruzione terziaria;
    in particolare, i fondi destinati alla copertura delle borse di studio, che rappresenterebbero, in diretta attuazione del dettato costituzionale, uno strumento per garantire l'accesso agli studi universitari anche da parte di chi non può permetterselo in base al reddito familiare e alle proprie forze, sono sempre insufficienti e infatti ci sono molti aventi diritto che ne rimangono privi;
    negli ultimi anni, infatti, il diritto allo studio universitario è stato privato di effettività a causa del sempre più frequente fenomeno per cui uno studente risulti idoneo a percepire la borsa di studio ma non possa esserne beneficiario a causa delle insufficienti risorse stanziate dallo Stato (tanto da avere fatto notizia la circostanza per cui una regione nel 2016 risulterebbe in grado finalmente di avere la copertura del 100 per cento per l'erogazione delle borse di studio);
    infatti, nonostante le nuove regole sul diritto allo studio, conseguenti alla «riforma Gelmini» dell'università, abbiano causato un numero di studenti idonei a percepire la borsa di studio inferiore rispetto al passato, le regioni non riescono, comunque, ad assegnare le borse a tutti i richiedenti che ne hanno diritto;
    sullo specifico fondamentale punto del diritto allo studio è in corso una mobilitazione studentesca alla quale anche Alternativa libera-Possibile ha fornito il proprio apporto al fine di presentare una proposta di legge di iniziativa popolare per garantire l'effettività e l'omogeneità delle prestazioni, destinate ad assicurare la copertura totale delle borse di studio, l'efficienza e l'adeguatezza dei servizi e la fascia di esenzione dalle tasse; definire l'ammontare della borsa di studio sulla base di parametri oggettivi e prevedere ulteriori interventi di attuazione del principio di uguaglianza sostanziale ed effettività del diritto allo studio universitario (dall'assistenza sanitaria gratuita nella regione in cui ha sede l'università, anche se non si tratta di quella di residenza, alla tariffa agevolata per la mensa e altro);
    secondo i dati dell'anagrafe del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca il numero degli immatricolati è passato da trecentotrentaseimila nell'anno accademico 2003/2004 a duecentosettantamila nel 2014/2015 e dati simili risultano da studi dell'Ocse (dai trecentotrentacinquemila del 2004/2005 a duecentosettantamila del 2014/2015); risulta che siano stati persi circa quattrocentosessantatremila studenti in dieci anni;
    negli ultimi anni c’è stato peraltro anche un sensibile calo delle immatricolazioni: secondo il rapporto Res «Università in declino. Un'indagine sugli atenei da Nord a Sud», a cura di Gianfranco Viesti, «rispetto al momento di massima dimensione (databile, a seconda delle variabili considerate, fra il 2004 e il 2008) al 2014-2015 gli immatricolati si riducono di oltre 66 mila unità, passando da circa 326 mila a meno di 260 mila (con una riduzione del 20 per cento), tanto da portare alla conclusione che “l'Italia ha compiuto, nel giro di pochi anni, un disinvestimento molto forte nella sua università”»;
    secondo gli obiettivi «Europa 2020» fissati dalla Commissione europea, tra quattro anni dovrebbero esserci, nell'Unione europea, il 40 per cento di giovani laureati, ma l'obiettivo italiano alla stessa data è pari al 26-27 per cento (partendo dal 21,7 per cento del 2012), che continuerebbe a collocarla all'ultimo posto,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per prevedere una maggiore e crescente destinazione di risorse al comparto universitario per portarlo al livello degli altri Paesi dell'Ocse;
   ad assumere iniziative normative a garanzia dell'effettività del diritto allo studio universitario previsto dalla Costituzione, aumentando in particolare le risorse destinate al relativo fondo.
(1-01293)
«Brignone, Civati, Andrea Maestri, Pastorino, Matarrelli, Artini, Baldassarre, Bechis, Segoni, Turco».
(7 giugno 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo l'edizione 2015 del rapporto internazionale Education at a glance prodotto dall'Ocse, solo il 42 per cento degli italiani inizia gli studi universitari, valore che è il più basso in Europa (a parte il Lussemburgo che non ha università) e il penultimo nell'Ocse (davanti solo al Messico), a fronte di una media europea del 63 per cento e di valori massimi che superano l'80 per cento; gli studenti universitari italiani dovrebbero, quindi, aumentare almeno di metà anche solo per raggiungere la media europea, addirittura raddoppiare per raggiungere i Paesi europei più avanzati;
    secondo il medesimo rapporto, l'Italia, per percentuale di laureati nella fascia 25-34 anni, occupa adesso l'ultimo posto nell'Ocse con il 24 per cento (dopo essere stata a lungo penultima davanti alla Turchia), a fronte di una media europea del 39 per cento; il numero dei laureati italiani dovrebbe, quindi, aumentare di oltre il 60 per cento per raggiungere la media europea, mentre l'obiettivo del 40 per cento fissato da «Europa 2020» è ormai del tutto irraggiungibile per il nostro Paese;
    la percentuale di laureati italiani scende poi al 17 per cento nella fascia 25-64 anni, di nuovo la più bassa nell'Ocse, e, se si analizza il dato su base regionale come ha fatto il gruppo di ricerca coordinato da Gianfranco Viesti nel suo recente rapporto «Università in declino» pubblicato da Donzelli nel 2016, si vede che ai valori più alti (20 per cento) toccati dal Lazio, comunque pur sempre ben lontani dalla media europea, vi sono valori inferiori addirittura al 14 per cento in Puglia e in Sicilia, dello stesso ordine di quelli di Cina, Indonesia o Sudafrica;
    nemmeno l'andamento recente delle immatricolazioni induce a ben sperare poiché, come già evidenziato dal Consiglio universitario nazionale sin dal 2013 e come documentato un mese fa dal XVIII rapporto Almalaurea appena pubblicato, dopo l'aumento registratosi dal 2000 al 2003, legato soprattutto al rientro nel sistema universitario di fasce di popolazione adulta dopo la riforma dell'ordinamento degli studi nel 1999, si è verificato un vistoso calo del 20 per cento dal 2003 al 2015 (in valori assoluti si sono perse circa 70.000 matricole), solo in piccola parte mitigato dal leggero aumento del 2 per cento registrato nell'ultimo anno accademico;
    il dato delle immatricolazioni è anch'esso molto differenziato tra le regioni: infatti il calo di matricole tocca il -30 per cento al Sud, il -22 per cento al Centro ed è pari solo al -3 per cento al Nord; del resto anche il rapporto di Viesti valuta che circa i due terzi delle matricole mancanti abitino nel Meridione e nelle Isole, mentre, in valori assoluti, le università campane e quelle siciliane hanno avuto 6.500 matricole in meno tra il 2009 e il 2013, 5.000 in meno quelle pugliesi;
    tali dati evidenziano, tra l'altro, un accresciuto flusso di giovani meridionali che vanno a studiare nelle università del Centro-Nord – fenomeno di mobilità di per sé non negativo nella misura in cui consente ai giovani di esprimere al meglio il proprio talento e le proprie capacità in sedi e tipologie di studi che ritengono più consone alle loro aspirazioni – ma che si sta trasformando in una vera e propria emigrazione intellettuale;
    a questo proposito il rapporto Almalaurea, relativamente ai laureati magistrali a 5 anni dal conseguimento del titolo, evidenzia che, tra i residenti nel Nord Italia, l'88 per cento ha svolto gli studi universitari e attualmente lavora nella propria area di residenza, mentre l'unico flusso uscente di una certa consistenza (7 per cento) dipende dal trasferimento all'estero; invece, tra i laureati di origine nell'Italia meridionale, il 53 per cento ha trovato lavoro al Nord, mentre solo l'11 per cento di chi si è laureato al Nord rientra dopo gli studi nella propria regione di origine;
    dati sostanzialmente simili riguardo alla mobilità interregionale durante gli studi universitari sono stati ricavati anche da un gruppo di ricerca guidato da Pasqualino Montanaro, ricercatore presso la Banca d'Italia, utilizzando l'Anagrafe nazionale degli studenti universitari nell'ambito del progetto Achab (Affording college with the help of asset building), gestito da un consorzio di enti pubblici o privati senza fini di lucro e finanziato dall'Unione europea;
    il basso numero di studenti e laureati italiani dipende anche da un inefficace sistema di orientamento pre-universitario: il rapporto Anvur 2016 sullo stato del sistema universitario, presentato il 24 maggio 2016, certifica un tasso di abbandoni che tocca il 38,5 per cento a dieci anni dall'immatricolazione e soprattutto che tocca il 19,6 per cento a soli due anni dall'immatricolazione (abbandoni precoci), anche se si registra un piccolo miglioramento rispetto al rapporto 2014;
    lo stesso rapporto evidenzia che il tasso di abbandoni precoci è maggiormente concentrato tra i diplomati degli istituti tecnici e processionali e tra gli studenti del Meridione e delle Isole;
    tra le ragioni che spiegano il basso numero di studenti e di laureati deve sicuramente annoverarsi anche il limitato impegno nazionale nel campo del diritto allo studio universitario, nonostante il recente e molto significativo aumento dello stanziamento statale che è passato dai 162 milioni del 2015 ai 217 del 2016: infatti nel 2014/2015 solo l'8,2 per cento degli studenti italiani ha ottenuto la borsa di studio e solo il 10,3 per cento è stato destinatario di un qualche intervento di diritto allo studio, a fronte di valori superiori al 30 per cento in Francia, Inghilterra e Svezia, superiori addirittura all'80 per cento in Olanda, Danimarca, Finlandia;
    è ancora purtroppo sussistente la categoria degli idonei non beneficiari, cioè studenti valutati come idonei, per ragioni di reddito e di merito, a ottenere la borsa di studio ma che non la ricevono per mancanza di fondi, categoria di cui fa parte circa un quarto degli idonei (oltre 45.000 studenti); anche in questo caso si registrano notevoli differenze a livello regionale: la percentuale di idonei non beneficiari è inferiore al 10 per cento in tutte le regioni del Nord e del Centro, salvo Piemonte e Lazio, mentre è superiore al 40 per cento in Piemonte, Campania, Calabria, Sardegna, con un picco negativo di oltre il 65 per cento in Sicilia;
    eppure la borsa di studio si dimostra strumento abbastanza efficace: come mostra una ricerca condotta dall'Osservatorio regionale del Piemonte sotto la guida di Federica Laudisa, i borsisti abbandonano gli studi universitari il 13 per cento di volte in meno dei non borsisti e conseguono in media 13 crediti formativi in più ogni anno rispetto ai non borsisti;
    anche sul fronte delle contribuzioni alle università da pagare da parte degli studenti (le cosiddette tasse universitarie), le università italiane si dimostrano alquanto esose con i loro studenti: per entità delle tasse pagate dagli studenti, l'Italia è al terzo posto in Europa dopo la Gran Bretagna e l'Olanda, con poco meno di 2.000 euro annui in media, mentre in molti Paesi europei, tra cui la Germania e tutte le nazioni scandinave, l'istruzione universitaria è gratuita o quasi;
    il risultato è che nel nostro Paese le condizioni economiche e culturali delle famiglie di origine pesano molto più che in altri sul successo scolastico e sul reddito dei figli: ad esempio il rapporto annuale dell'Istat valuta che il livello professionale del capo famiglia e la proprietà della casa di abitazione porta ai figli un vantaggio reddituale del 14 per cento in Italia ma dell'8 per cento in Francia, mentre il figlio di un genitore laureato dispone in Italia di un reddito mediamente superiore del 29 per cento al figlio di genitori con la licenza media;
    riguardo, infine, all'efficacia sociale di possedere un titolo di studio universitario, non solo i laureati hanno una speranza di vita maggiore di 3,8 anni rispetto a chi ha raggiunto solo la licenza media, ma, nonostante la lunga crisi economica globale, hanno ancora oggi occasioni di occupazione e livello di reddito ben maggiori dei diplomati; ad esempio il rapporto annuale dell'Istat certifica che nel 2007 la disoccupazione nella fascia 25-34 anni era del 9,5 per cento tra i laureati ma del 13,1 per cento tra i diplomati, mentre nel 2014 (dopo sette anni di crisi) ambedue le percentuali erano molto cresciute attestandosi al 17,7 per cento per i laureati, ma ben al 30 per cento per i diplomati; dati simili sono forniti anche dal XVIII rapporto Almalaurea che indica nel 67 per cento il tasso di occupazione dei laureati magistrali a un anno dal conseguimento del titolo, in piccola ripresa dopo la lunga crisi che lo ha fatto scendere dall'82 per cento del 2008 al 66 per cento del 2014;
    il XXI rapporto sulle retribuzioni, pubblicato recentemente dal gruppo privato OD&M consulting, mostra altresì che il neolaureato in ingresso guadagna di più di un lavoratore senza laurea con alle spalle già 3-5 anni di anzianità; inoltre il titolo di laurea mitiga anche il differenziale retributivo tra uomini e donne rispetto a quello presente tra i non laureati;
    i dati esposti nelle premesse, provenienti da agenzie internazionali e da accurate ricerche, acclarano il fatto che l'Italia soffre di un serio ritardo nella diffusione della formazione universitaria nella popolazione, sia in generale, sia nella fascia più giovane, e che non si registrano purtroppo segnali di inversione di tendenza e di recupero;
    gli stessi dati evidenziano ancora una volta il profondo divario sociale ed economico che caratterizza le regioni italiane: a pagare il prezzo più elevato di questo depauperamento di capitale umano sono le regioni del Mezzogiorno, continentali e insulari, dove si registra la diminuzione più marcata di immatricolati e i flussi più significativi di mobilità giovanile unidirezionale verso le altre regioni, ma non mancano segni di difficoltà anche nelle aree interne e marginali del Settentrione e del Centro;
    nonostante che la ripresa sia stata finalmente agganciata dopo la lunga crisi globale, grazie alle politiche del Governo sul mercato del lavoro e ad altre specifiche scelte di natura sociale ed economica per incrementare la domanda interna, occorre anche tener conto che la disuguaglianza nella distribuzione del reddito è aumentata nel primo decennio del secolo e quindi sembra opportuno realizzare interventi redistributivi che incidano, in particolare, sui meccanismi che conducono alla formazione dei redditi primari e, quindi, aiutino gli individui a dotarsi di capacità meglio remunerate sul mercato del lavoro, come, ad esempio, tutte le politiche dell'istruzione;
    ciò che è stato realizzato nell'ambito scolastico con gli ingenti investimenti e le riforme messe in campo dalla legge n. 107 del 2015, deve ora essere esteso alla formazione post-secondaria, in quanto conseguire un titolo di studio superiore non solo permette di realizzare l'apprezzabile obiettivo di una società forte di competenze di cittadinanza, competitiva e dinamica, ma porta evidenti vantaggi ai singoli cittadini interessati;
    occorre, dunque, rimuovere gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di quest'obiettivo, agendo sia sul lato del diritto allo studio che su quello della contribuzione universitaria per dare supporto alle famiglie di studenti universitari che devono affrontare i costi degli studi; la gracilità degli attuali sistemi determina una perdita netta di talenti e di opportunità, individuali e per l'intero Paese, e perpetua l'immobilità sociale ed economica, la rigidità delle rendite di posizione e la sclerosi delle corporazioni di cui soffre l'Italia;
    in questo ambito, una particolare attenzione deve essere rivolta alle sperequazioni esistenti tra le diverse aree territoriali del Paese, a danno soprattutto delle regioni meridionali e delle aree interne e marginali, che sono probabilmente tra le cause delle gravi difficoltà economiche e sociali di queste aree e della loro maggiore difficoltà di ripresa;
    a seguito dell'entrata in vigore delle norme del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 159 del 2013 adesso si dispone di uno strumento raffinato ed efficace, l'indicatore della situazione economica equivalente o Isee, per valutare il reddito e il patrimonio di chi richiede di accedere alle prestazioni sociali, in particolare delle famiglie degli studenti universitari, ai quali è specificamente destinato l'articolo 8 del sopra citato provvedimento di riforma dell'Isee;
    a seguito dell'entrata in vigore del decreto ministeriale n. 893 del 2014, è entrato in funzione nel 2015 uno strumento introdotto dalla legge n. 240 del 2010, cioè il costo standard per studente, che è certamente un metodo molto innovativo e trasparente per ripartire una parte della quota base del fondo di finanziamento ordinario delle università statali, metodo certamente da consolidare e potenziare dopo aver provveduto ad individuare e a correggere gli aspetti che si fossero rivelati più deboli rispetto agli obiettivi e alle prescrizioni della legge;
    tra gli aspetti del costo standard per studente che si sono rivelati più problematici vi sono:
     a) la quantificazione dei costi di studenti in ritardo, perché studenti part-time, rispetto all'attuale sistema on-off (1 gli studenti in corso, 0 gli studenti fuori corso);
     b) l'addendo perequativo, che dovrebbe essere per legge commisurato ai differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali in cui opera l'università, ma che nel 2015 ha pesato per una percentuale minima sul costo standard totale: meno del 6 per cento per la Sicilia, circa del 3 per cento per la Sardegna, rispetto alla Lombardia;
     c) la dimensione delle classi ottimali, uniforme in tutta Italia in modo indipendente dai territori e quindi dalle diverse densità di popolazione e disponibilità di infrastrutture per la mobilità e l'ospitalità degli studenti, che si riflette pesantemente sul finanziamento assegnato alle università con corsi di studio di dimensioni sub-ottimali,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per stabilizzare definitivamente il fondo integrativo per il diritto allo studio al valore stanziato per il 2016 dall'ultima legge di stabilità, come primo passo per consolidare il diritto allo studio universitario e per garantire la borsa di studio a tutti gli idonei, con l'obiettivo di una crescita graduale del fondo per raggiungere almeno i valori medi europei;
   ad emanare quanto prima, superando la normativa pregressa che risale al 2001, il decreto ministeriale previsto dall'articolo 7, comma 7, del decreto legislativo n. 68 del 2012, con un duplice obiettivo: da un lato aggiornare e rendere maggiormente omogenei a livello nazionale i requisiti di merito dello studente e di reddito e patrimonio della famiglia (Isee) per accedere alle prestazioni del diritto allo studio universitario; da un altro lato, stabilire i criteri di ripartizione del fondo integrativo sulla base del fabbisogno regionale – come stabilito dall'articolo 18, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 68 del 2012 – rendendo altresì vincolante per le regioni lo stanziamento di risorse proprie, oltre al gettito della tassa regionale per il diritto allo studio, in misura pari ad almeno il 40 per cento del fondo integrativo statale ricevuto;
   nel rispetto dell'autonomia delle università e con l'intento di rendere più equa e progressiva l'imposizione, a valutare la possibilità di assumere iniziative per passare dall'attuale sistema di controllo della contribuzione universitaria nelle università statali collegato ad un limite massimo sul gettito totale (articolo 5, commi 1, 1-bis e 1-ter, del decreto del Presidente della Repubblica n. 306 del 1997) ad un nuovo sistema collegato invece ad un limite massimo della contribuzione che deve essere pagata da ciascuno studente di famiglia con Isee medio-basso, fino anche a pervenire, per Isee bassi, ad annullare tale contribuzione con una specifica no-tax area;
   ad assumere iniziative per disporre che una quota del fondo di finanziamento ordinario delle università statali, nonché, relativamente alle regioni dell'obiettivo convergenza, una quota del fondo di sviluppo e coesione previsto dal decreto legislativo n. 88 del 2011 sia destinata alle università a parziale compensazione della riduzione di gettito che deriva loro dagli studenti che non pagano contribuzioni o le pagano in misura molto ridotta, anche per diminuire l'effetto finanziario disincentivante dell'immatricolazione di studenti di famiglie poco abbienti;
   a valutare la possibilità di rivedere, dopo il primo anno di applicazione, le modalità di calcolo del costo standard dello studente, in particolare per quanto riguarda:
    a) il calcolo degli studenti part-time, per i quali è ancora mancante una chiara normativa di riferimento;
    b) l'addendo perequativo, per tener meglio conto, come prescrive la legge n. 240 del 2010, dei «differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali» in cui operano le università;
    c) il calcolo del finanziamento spettante a ciascun ateneo in presenza di corsi di studio con numero di studenti iscritti in corso inferiore alla dimensione ottimale;
    d) una migliore articolazione, rispetto alle diverse classi di corsi di laurea e ai diversi territori di riferimento delle università, delle dimensioni ottimali dei corsi di studio in termini di numero di studenti;
   ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per ampliare e pluralizzare l'offerta formativa universitaria e per rafforzare le attività di orientamento pre-universitario per contrastare il fenomeno del calo delle iscrizioni e soprattutto degli abbandoni precoci, con particolare riguardo agli studenti del Mezzogiorno e tenendo anche conto delle caratteristiche e delle aspirazioni dei diplomati degli istituti tecnici e professionali.
(1-01294)
«Ghizzoni, Coscia, Vezzali, Covello, Dallai, Piccoli Nardelli, Ascani, Blazina, Bonaccorsi, Carocci, Coccia, Crimì, D'Ottavio, Iori, Malisani, Malpezzi, Manzi, Narduolo, Pes, Rampi, Rocchi, Sgambato, Ventricelli, Vico, Molea, Paola Boldrini».
(7 giugno 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo l'ultimo rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca dell'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR 2016), nonostante la crescita degli ultimi anni, l'Italia rimane tra gli ultimi Paesi in europa per quota di popolazione in possesso di un titolo d'istruzione terziaria, anche tra la popolazione più giovane (24 per cento contro 37 per cento della media UE e 41 per cento media OCSE nella popolazione 25-34 anni); così il nostro Paese ha colmato la distanza in termini di giovani che conseguono un diploma di scuola secondaria superiore, ma presenta tassi di accesso all'istruzione terziaria ancora più bassi della media europea e OCSE (42 per cento contro 63 per cento nella media UE, 67 per cento media OCSE);
    nonostante si sia realizzata in un contesto di tagli al diritto allo studio – spesso operati a livello regionale – che intaccano l'uguaglianza delle opportunità richiesta dalla Costituzione, la mobilità degli studenti tra atenei è recentemente aumentata in tutte le aree del Paese, specialmente a livello di lauree magistrali; così la quota di quanti studiano fuori regione è salita dal 18 per cento del 2007-2008 al 22 per cento nel 2015-2016 a beneficio soprattutto degli atenei del Centro-Nord;
    secondo i dati OCSE (Education at a Glance 2015) la spesa in istruzione terziaria in Italia risulta inferiore a quella media OCSE, sia in rapporto al numero degli studenti iscritti sia in rapporto al prodotto interno lordo; così, nel 2015, le somme stanziate dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca per il finanziamento del sistema universitario e per il sostegno agli studenti e al diritto allo studio ammontano a 7,25 miliardi di euro, mentre nel 2016 l'ammontare previsto è di 7,34 miliardi di euro – valori simili a quelli del 2013 e 2014, ma lontani dal massimo raggiunto nel 2009 di 8,44 miliardi di euro;
    la principale criticità del sistema di diritto allo studio è rappresentata dalla cronica carenza di risorse, dal fatto che quelle disponibili non sempre vengono erogate in maniera tempestiva, e dall'incertezza circa la permanenza del sostegno da un anno all'altro. Inoltre, permane una eterogeneità (tra regioni e, all'interno delle stesse, tra i diversi atenei) nei requisiti di accesso e nei tempi di erogazione dei benefici; il 47,3 per cento della spesa regionale per gli interventi di sostegno agli studenti è così coperto dalla tassa universitaria regionale e, negli ultimi anni, quest'ultima è stata elevata a 140 euro nella maggior parte delle regioni;
    senza un aumento complessivo delle risorse investite nella formazione terziaria e nella ricerca e una maggiore diversificazione dell'offerta appare difficile conseguire gli obiettivi della strategia «Europa 2020» e si rischia di rimanere lontani dagli altri Paesi europei, che si prefiggono di investire il 3 per cento del Pil nella ricerca (a fronte dell'obiettivo nazionale dell'1,5 per cento) e di conseguire una quota pari al 40 per cento di giovani con titolo di formazione terziaria (contro il 26 per cento in Italia),

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative volte a migliorare la ripartizione delle risorse, sostenendo con più decisione aspetti come il diritto allo studio e le prospettive di carriera dei migliori giovani studiosi e delle migliori giovani studiose;
   a valutare l'opportunità di assumere iniziative volte a differenziare il sistema nazionale di istruzione terziaria affinché non solo aumenti l'impegno nella riduzione degli abbandoni e nel recupero dei ritardi, ma si arrivi anche a un ampliamento dell'offerta didattica in direzione tecnico-professionale e non solo universitaria.
(1-01295)
«Marzano, Nesi, Marcolin, Matteo Bragantini, Prataviera, Labriola, Faenzi, Parisi, D'Alessandro, Lainati, Locatelli, Di Lello, Prodani, Pastorelli».
(7 giugno 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    per vivere in una società complessa come quella attuale, è indispensabile elevare il livello di formazione degli individui;
    il diritto allo studio universitario si manifesta nel nostro sistema giuridico come una delle declinazioni del principio generale di uguaglianza sostanziale di cui all'articolo 3, secondo comma, della Costituzione, che impone alla Repubblica di rimuovere tutti quegli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono agli individui di sviluppare ed esprimere pienamente la propria personalità nella società civile. Questo principio trova inoltre il suo esplicito fondamento negli ultimi due commi del successivo articolo 34, laddove si afferma che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi economici, hanno il diritto di accedere ai gradi più alti dell'istruzione e della formazione e che la Repubblica deve garantirne l'esigibilità attraverso l'attribuzione, per concorso, di borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze;
    in seno alla stessa Assemblea costituente fu, infatti, osservato che: «Uno dei punti al quale l'Italia deve tenere è che nella sua Costituzione, come in nessun'altra, sia accentuato l'impegno di aprire ai capaci e meritevoli, anche se poveri, i gradi più alti dell'istruzione. Alla realizzazione di questo impegno occorreranno grandi stanziamenti; ma non si deve esitare; si tratta di una delle forme più significative per riconoscere, anche qui, un diritto della persona, per utilizzare a vantaggio della società forze che resterebbero latenti e perdute, di attuare una vera e integrale democrazia»;
    il diritto allo studio, oltre a rappresentare un diritto sociale costituzionalmente garantito, è dunque uno strumento per garantire i diritti inviolabili dell'individuo nelle formazioni sociali, al quale corrisponde un preciso dovere della collettività di assicurare a tutti i capaci e meritevoli uguali punti di partenza ed uguali possibilità di portare a compimento i percorsi formativi prescelti;
    eppure da alcuni anni in ambito europeo si va affermando un'idea di economia della conoscenza, ossia uno sviluppo del tessuto produttivo mirato all'estrazione di valore sulla base di una forte innovazione e dell'elevazione del livello generale di formazione, che sta portando alcuni Paesi membri, incluso il nostro, a smantellare il tradizionale meccanismo di assegnazione delle suddette provvidenze, in favore di un sistema nuovo, riservato a pochi eccellenti, attraverso un innalzamento dei soli criteri di merito ed un'aumentata competitività tra studenti;
    a rendere, inoltre, la formazione universitaria un percorso irto di ostacoli sono stati i continui e pesanti definanziamenti, nonché tutte quelle politiche scarsamente inclusive ed incapaci di rispondere alle esigenze della popolazione studentesca attraverso la pianificazione di servizi, agevolazioni ed interventi che, direttamente o indirettamente, contribuiscono a migliorare la condizione dei soggetti in formazione, siano essi residenti, fuorisede, italiani o stranieri;
    nel nostro Paese il diritto allo studio universitario non ha mai ricevuto quell'attenzione che invece meriterebbe, anche a causa di una legislazione che si è evoluta lentamente rispetto alle reali necessità e spesso in maniera confusa ed inadeguata. La stessa costituzionalizzazione del diritto allo studio non ne ha garantito in tutti questi decenni la piena ed immediata effettività, avendo conosciuto un significativo riconoscimento normativo solo dopo il trasferimento delle competenze a favore delle regioni avvenuto negli anni ’70, cui seguirono tuttavia una frammentazione ed una stratificazione di leggi regionali molto eterogenee tra loro perfino riguardo alla definizione di welfare studentesco, tanto da delineare l'assenza di una reale volontà politica di investire nell'accesso ai percorsi formativi e da sfociare in un mancato rispetto dello stesso principio di eguaglianza. A ciò si aggiunga che l'incapacità delle regioni di garantire l'esercizio del diritto allo studio è storicamente imputabile ad una serie di fattori, primo fra tutti quello delle inadeguate risorse finanziarie trasferite loro dallo Stato, risorse che per croniche difficoltà strutturali di bilancio le stesse regioni non sono state in grado di integrare attraverso fondi propri;
    d'altra parte, anche la successiva legge quadro, la n. 390 del 1991, ha aggravato la confusione del contesto normativo, essendosi caratterizzata, da un lato, per l'attribuzione di funzioni importanti agli organi centrali dello Stato, nel tentativo di porre freno alla eterogeneità delle risposte locali, e dall'altro, per il trasferimento di alcune competenze dalle regioni alle università;
    successivamente, a seguito della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, e secondo il decreto legislativo n. 68 del 2012, il diritto allo studio universitario, non rientrando tra le materie attribuite in via esclusiva allo Stato né tra quelle di natura concorrente, si è collocato come ambito di competenza legislativa residuale delle regioni, competenza che, pur incontrando attualmente un limite molto importante imposto dall'articolo 117, comma 2, lettera m), della Costituzione, e sulla base del quale lo Stato deve stabilire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, tra i quali rientrano a pieno titolo le provvidenze legate al diritto allo studio, può riprodurre quel quadro di interventi e di frammentazione normativa antecedenti all'approvazione della legge quadro n. 390 del 1991, capaci di inficiare il principio di uguaglianza sancito dal suddetto articolo 3 della Costituzione. Inoltre, lo stesso diritto, rimanendo in parte di competenza regionale, è soggetto alle incerte e fluttuanti disponibilità finanziarie delle singole regioni, con risultati tutt'altro che lusinghieri. Oggi infatti, grazie a strumenti di welfare studentesco di tipo assistenziale che, seppur fondamentali, non bastano alla promozione dell'autonomia del soggetto in formazione, solo pochissime regioni, quelle peraltro più virtuose, riescono ad attribuire a tutti gli idonei le borse di studio, mentre rimangono ancora inadeguati ed insufficienti rispetto al numero degli aventi diritto gli alloggi e le forme di reddito indiretto, come mobilità gratuita, mense agevolate, misure per l'accesso alla cultura e, laddove esistono, luoghi di aggregazione culturale sui territori;
    altro punto dolente è rappresentato dall'ottica assistenzialista con cui le amministrazioni hanno fino ad oggi gestito la materia, quasi che vigesse la logica della «beneficenza» piuttosto che l'obbligo, da parte delle istituzioni, di garantire un diritto. Lo stesso ruolo delle amministrazioni comunali, delegate dalle regioni all'assegnazione delle borse di studio, ha fallito gran parte degli obiettivi preposti e auspicati. In sostanza, la mancanza di parametri e principi comuni di riferimento ha fatto sì che vigesse l'arbitrio delle singole istituzioni di competenza che, invece di investire sulle vere priorità, hanno sempre considerato la questione del diritto allo studio come secondaria;
    sul fronte dei finanziamenti l'Italia, secondo quanto riportato dall'ultimo rapporto sull'educazione dell'Ocse, spende per l'università circa lo 0,9 per cento del proprio prodotto interno lordo, di cui solo una quota pari allo 0,04 destinata al diritto allo studio universitario; in secondo luogo, come rivelato dall'ultimo «Rapporto Istat sulla povertà nel nostro Paese», sono stimate in 2.737.000 le famiglie che si trovano in condizione di povertà relativa rappresentando l'11,3 per cento delle famiglie residenti. A fronte di questo scenario risulta desolante il confronto delle politiche economiche nazionali per il diritto allo studio con quelle degli altri Paesi europei, dove invece la presenza di un più forte stato sociale e politiche per l'accesso ai canali formativi hanno meglio garantito altissimi livelli di istruzione e formazione e, conseguentemente, migliori condizioni di vita: se l'80 per cento degli studenti italiani non riceve una borsa di studio, in Francia la percentuale è del 70 per cento; la percentuale scende al 60 per cento in Germania, mentre in Olanda addirittura al 4 per cento; rispetto alle residenze universitarie, in Italia solo il 2 per cento degli studenti ha diritto ad un alloggio, mentre in Francia la percentuale sale all'8 per cento, in Germania al 10 per cento, ed in Svezia addirittura al 17 per cento. Si tratta di dati che chiariscono come in Italia vi sia uno dei tassi di abbandono universitario tra i più alti d'Europa, il 18,5 per cento, ben al di sopra di altri Stati come Olanda, pari al 7 per cento, o Gran Bretagna, pari all'8,5 per cento;
    dunque, accanto ad una normativa lacunosa, anche la scelta trasversale degli ultimi Governi di trascurare l'investimento in formazione superiore ha fatto sì che i fondi destinati dallo Stato al riconoscimento delle borse di studio siano sempre insufficienti a garantire la copertura totale degli idonei e che il diritto allo studio pesi ormai per oltre il 42 per cento sulle spalle degli studenti stessi che vi provvedono tramite la tassa regionale per il diritto allo studio, diventandone così essi stessi i principali finanziatori. Se si guarda, infatti, al decennio che va dal 2002 al 2012 si scopre che, a fronte di un numero quasi costante di studenti dichiarati idonei alla borsa di studio, una larga parte di essi, oltre 25.000, a causa della carenza di fondi è stata confinata nel limbo degli idonei che non l'hanno percepita, andando così ad allargare la platea dei cosiddetti «idonei non beneficiari», ossia di coloro che, pur soddisfacendo i requisiti di accesso sanciti dal bando dell'ufficio regionale competente, non ricevono alcuna borsa a causa dell'insufficienza delle risorse;
    poiché la concessione delle borse di studio è assicurata a tutti gli studenti aventi i requisiti di eleggibilità nei limiti delle risorse disponibili nello stato di previsione del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, lo stesso Stato, pur vincolando le regioni a versare per tale finalità il 40 per cento del contributo statale, non vincola in alcun modo se stesso allo stanziamento atto a coprire la spesa di tutte le borse in concorso, dimostrando in tal modo di non attribuire al diritto allo studio quel carattere inderogabile e prioritario che invece gli impone la Costituzione;
    a complicare la situazione interviene lo stesso meccanismo previsto dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, 9 aprile 2001 che, a garanzia del prioritario utilizzo delle risorse statali da parte delle regioni, prevede che le stesse possano ricorrervi solo dopo aver esaurito le proprie e quelle derivanti dalla tassa regionale per il diritto allo studio, pena la riduzione di pari importo della quota loro spettante del fondo integrativo;
    tutte le suddette carenze generano anche profonde sperequazioni tra le diverse zone d'Italia che si traducono nella penalizzazione degli studenti che provengono dalle aree più povere del Paese, in particolare dal meridione. Ogni anno, infatti, le università meridionali registrano una costante riduzione delle immatricolazioni e circa 29.000 diplomati al sud emigrano al Centro-nord per iscriversi a corsi universitari, una riduzione che ovviamente condiziona anche il numero dei laureati. Anche i criteri di riparto del fondo integrativo per la concessione delle borse di studio penalizzano in maniera evidente da oltre 13 anni il meridione, sottraendo ogni anno importanti risorse economiche agli studenti, il 75 per cento dei quali, pur essendo idonei non ricevono le agevolazioni per la prosecuzione dei loro studi;
    sempre l'Ocse, nel suo rapporto annuale « Education at a glance», pubblicazione che analizza i sistemi di istruzione di 34 Paesi membri e li elabora con i dati relativi ai tassi di occupazione e disoccupazione per livello di studio, ha sottolineato la stretta correlazione tra il numero di laureati e lo sviluppo economico di un territorio e come la riduzione del numero dei laureati meridionali produca ripercussioni negative sulla situazione economica e culturale di quell'area del Paese;
    l'articolo 5, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n.306, («Regolamento recante disciplina in materia di contributi universitari») stabilisce che la quota totale di contribuzione con la quale gli studenti concorrono alla copertura del costo dei servizi offerti dalle università non può eccedere il 20 per cento dell'importo del finanziamento ordinario annuale dello Stato a ciascuna di esse. A causa della sensibile diminuzione delle risorse del fondo per il finanziamento ordinario, molte università a fronte di una conseguente diminuzione di risorse, per garantire il medesimo livello dei servizi, sono state costrette a superare tale limite (a volte fino ad elevarlo al 40 per cento) e ad elevare le tasse;
    in tutti i Paesi dell'Unione europea, tranne Italia e Grecia, esistono forme di reddito diretto per i soggetti in formazione. Si tratta di uno strumento che supera il modello assistenzialistico e rende lo studente libero e responsabile delle proprie scelte, favorendone la partecipazione e la creatività giovanile, stimolando l'opportunità di formarsi culturalmente al di là dei luoghi classici della formazione, in grado di slegare i soggetti in formazione dalla famiglia e dalla propria condizione sociale, imprimendo un'accelerazione alla mobilità sociale;
    quanto premesso promuove un modello sociale che rischia di esacerbare le disuguaglianze e di annullare ogni opportunità di autodeterminazione dei soggetti impegnati in percorsi di alta formazione,

impegna il Governo

   ad adottare ogni iniziativa di competenza, relativa al diritto allo studio universitario, volta:
    a) alla definizione di un sistema di welfare studentesco nazionale che garantisca l'effettiva rimozione degli ostacoli di natura economica per gli studenti capaci e meritevoli, consentendo loro di accedere e completare i corsi di studio universitario;
    b) alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni connesse al diritto allo studio, di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, capaci di abbattere le attuali disuguaglianze sociali e disomogeneità territoriali;
    c) all'adozione di un piano straordinario di finanziamenti strutturali per il diritto allo studio, al fine di raggiungere la copertura totale dei fondi destinati alle borse di studio da erogare a tutti gli idonei per risolvere definitivamente il diffuso ed inaccettabile fenomeno degli idonei non vincitori di borsa;
    d) all'ampliamento delle fasce di reddito degli aventi diritto alle provvidenze attualmente previste che al peggiorare della situazione economica si rivelano sempre più inadeguate;
    e) alla garanzia del pieno godimento dei diritti di cittadinanza agli studenti universitari anche attraverso misure di agevolazione della mobilità sui mezzi di trasporto pubblico, canoni calmierati per la locazione di immobili nel comune in cui ha sede l'ateneo, ed assistenza sanitaria gratuita nella regione in cui ha sede l'università;
    f) ad un regime sperimentale che riconosca il reddito di formazione a tutti quegli studenti che vivono in condizioni economiche particolarmente disagiate;
    g) ad una più equa ripartizione della contribuzione studentesca attuata anche attraverso la previsione di una «no tax area» per quei soggetti con Isee al di sotto dei 20.000 euro, che, a causa di condizioni economiche disagiate, sono potenzialmente più esposti al rischio di abbandono degli studi;
    h) all'estensione agli studenti immigrati di tutte le agevolazioni riservate agli studenti di cittadinanza italiana in materia di diritto allo studio;
    i) all'istituzione della carta di cittadinanza studentesca al fine di favorire i consumi culturali;
    j) allo stanziamento di ulteriori risorse finanziarie finalizzate a rendere effettivo su tutto il territorio nazionale il diritto allo studio universitario.
(1-01298)
«Pannarale, Giancarlo Giordano, Carlo Galli, Paglia, Nicchi, Gregori, Scotto».
(8 giugno 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    il diritto allo studio è riconosciuto dagli articoli 3 e 34 della Costituzione; nell'articolo 34 della nostra Costituzione è chiaramente affermato che i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. I mezzi per rendere effettivo questo diritto non mancano: borse di studio, assegni alle famiglie e altri aiuti economici, servizi come collegi universitari, mense e altro;
    la Costituzione italiana stabilisce che tutti i cittadini hanno diritto all'istruzione e che a tutti deve essere data la possibilità di raggiungere i più alti livelli dell'istruzione. Per rendere effettivo il diritto di ogni persona ad accedere e frequentare ogni grado del sistema scolastico e formativo, Stato regioni ed enti locali promuovono interventi per rimuovere gli ostacoli di ordine economico, sociale e culturale a tale diritto. In seguito alla riforma costituzionale del 2001, in particolare le regioni esercitano funzioni di programmazione, indirizzo, coordinamento e sperimentazione in tale materia, ripartiscono i fondi a favore delle province e definiscono le modalità di attuazione degli interventi, anche in relazione ad intese con enti locali e scuole;
    oltre a un concreto aiuto economico, il sostegno alle famiglie nel diritto allo studio prevede altre linee d'azione. Promuovere interventi a sostegno delle famiglie e dei ragazzi, vuol dire non solo rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che si frappongono al pieno godimento di tali diritti, ma favorire la prevenzione e il recupero del disagio giovanile, sostenere la qualificazione del sistema formativo integrato per il diritto allo studio, prevenire casi di dispersione scolastica, vuol dire raccordare istituzioni e servizi educativi, scolastici e culturali. Ma, soprattutto, vuoi dire garantire a tutti pari opportunità di successo scolastico e formativo;
    oltre alle ragioni deontologiche, di etica pubblica e di rispetto dei diritti individuali, esistono valide ragioni utilitaristiche per supportare il diritto all'istruzione, anche universitaria. Tuttavia, a fronte di un ampio consenso sulla sua importanza, vi sono opinioni divergenti su come attuarlo: l'articolo 34, pur suggerendo alcuni strumenti attuativi («la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso»), lascia alcune questioni indeterminate: come sono definiti (e da chi) gli studenti «meritevoli ma privi di mezzi» a cui si deve garantire questo diritto; in che modo (e da chi) sono definiti gli importi delle borse di studio, e quali sono le altre provvidenze; ed è questo lo spazio che la politica deve occupare per elaborare risposte coerenti al contesto concreto in cui si trovano gli studenti, le loro famiglie e il mondo universitario;
    diritto allo studio significa centralità dello studente e centralità della scuola; è necessario che la scuola tenga conto delle ineguaglianze delle condizioni di partenza e in genere delle condizioni personali, familiari, ambientali, economiche, sociali e culturali degli alunni, e disponga pertanto di mezzi idonei a compensare per quanto possibile le suddette ineguaglianze, in misura inversamente proporzionale alle risorse dell'utenza;
    il rapporto OSCE sull'istruzione del 2015 rileva un quadro abbastanza grave sull'esiguo numero di laureati e sui bassi tassi di iscrizione all'università del nostro Paese. Infatti, l'Italia è tutt'ora indietro rispetto ai 34 Paesi più industrializzati del mondo;
    se da un lato il rapporto OSCE sull'istruzione segnala che il 20 per cento dei giovani italiani (più tre rispetto alla media) consegue una laurea a ciclo unico, dall'altro sottolinea che soltanto il 42 per cento dei diplomati opta per la prosecuzione degli studi intraprendendo un percorso universitario. Quest'ultimo dato pone l'Italia al terz'ultimo posto tra i Paesi OSCE dopo il Lussemburgo ed il Messico;
    tuttavia, la nota più grave del rapporto è, ancora una volta quella relativa alla percentuale di laureati nella fascia d'età tra i 25 ed i 64 anni. Infatti, in Italia tale percentuale si ferma al 17 per cento come il Brasile, il Messico e la Turchia. Ma a differenza di questi paesi, dove un laureato arriva a guadagnare anche il 160 per cento in più rispetto ad un diplomato, nella nostra Nazione aver conseguito un titolo di studio universitario fa mediamente innalzare lo stipendio solo del 43 per cento;
    il nostro Paese inoltre, pur avendo compiuto significativi miglioramenti negli ultimi dieci anni, ha deboli strategie dirette a far sì che i giovani laureati o diplomati entrino nel mondo del lavoro. Infatti il tasso di occupazione dei nostri laureati italiani è simile a quello di molti Paesi meno industrializzati;
    in Italia, pertanto, si riscontra una notevole difficoltà per i laureati di accedere ad una professione o ad un impiego;
    nel nostro Paese, altresì, si registra che solo un numero esiguo di diplomati scelgono di proseguire gli studi universitari. Infatti, il citato rapporto OSCE rileva un crescente disinteresse dei giovani italiani per la formazione, tanto che i dati del rapporto dimostrano anche un aumento della dispersione scolastica;
    risulta poi assai grave il fenomeno migratorio dei diplomati che in numero sempre più crescente ogni anno abbandonano le regioni del Sud per intraprendere i propri studi nel Centro o nel Nord del nostro Paese. Ciò determina un effetto economico e sociale negativo per il nostro Mezzogiorno che perde giovani talenti in grado di favorire la crescita e lo sviluppo delle regioni meridionali; regioni nelle quali, peraltro, si segnala un pesante calo delle immatricolazioni;
    sono sempre più urgenti risorse economiche che consentano di dare slancio a quell'ascensore sociale che ha visto emergere intelligenze brillanti e veri talenti per la ricerca anche tra persone di fascia economico-sociale più modesta, perché solo così è possibile interrompere quella catena che privilegia le persone che hanno alle spalle famiglie abbienti; il fondo di finanziamento ordinario delle università (Ffo), nato nel 1993, come veicolo di finanziamento « omnibus» non ha permesso di distinguere tra un finanziamento orientato al merito e il fondo destinato al funzionamento ordinario, per cui quest'ultimo ha assorbito completamente le risorse disponibili sottraendole al diritto allo studio per studenti meritevoli a basso reddito;
    con la cosiddetta riforma Gelmini (legge n. 240 del 2010), l'investimento destinato alle università si riduce drasticamente e il fondo di finanziamento ordinario diminuisce ai livelli di metà anni novanta; diminuisce il peso delle risorse attribuite dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca a vantaggio della contribuzione studentesca e di finanziamenti di soggetti terzi, specie privati; in altri termini aumentano le tasse a carico degli studenti, che non solo si vedono privati degli aiuti economici di cui avevano goduto fino a quel momento sotto diverse modalità, ma debbono pagare a caro prezzo il loro ingresso in università. Questo cambiamento produce un significativo impatto territoriale, perché colpisce in particolare le università collocate nelle aree meno ricche del Paese;
    occorre rivedere l'intero meccanismo di finanziamento delle università, individuando anche formule di collaborazione con enti privati sotto forma di borse di studio, attivando anche fondi premiali destinati alla ricerca, sulla base di criteri di valutazione della ricerca, che rispondano di più ai moderni criteri di valutazione-accreditamento-finanziamento;
    in tale contesto si rileva come la legge di stabilità per il 2016 abbia incrementato il fondo integrativo statale per la concessione di borse di studio agli studenti universitari. Sempre con la legge di stabilità sono state inoltre introdotte agevolazioni fiscali e contributive per coloro che usufruiscono di borse di studio erogate nel corso del programma Erasmus Plus;
    la stessa legge di stabilità ha incrementato il Fondo per il finanziamento ordinario delle università (di 6 milioni di euro per il 2016 e di 10 milioni di euro dal 2017) destinato, tra l'altro, all'assunzione di ricercatori a tempo determinato. Inoltre viene istituito in via sperimentale il Fondo per le cattedre universitarie «del merito» con una dotazione di 38 milioni di euro nel 2016 e di 75 milioni di euro nel 2017 per il reclutamento straordinario a «chiamata diretta» e per un elevato merito scientifico di professori di prima e di seconda fascia,

impegna il Governo:

   a valutare la possibilità, oltre alle misure già previste nella legge di stabilità, di assumere iniziative per incrementare il fondo per il diritto allo studio;
   a valutare l'opportunità di favorire gli studenti che si trovano in una situazione di disagio economico assumendo iniziative per l'introduzione di borse di studio specifiche per gli stessi;
   a valutare l'opportunità, in un futuro provvedimento, di ridurre le tasse universitarie in modo da favorire gli studenti in stato di disagio economico che vogliono iscriversi all'università;
   a valutare la possibilità di assumere iniziative per escludere dal calcolo dell'ISEE i trattamenti a sostegno del diritto allo studio come le borse di studio, i premi di studio, i premi di laurea, le borse per la mobilità internazionale e le altre provvidenze a sostegno del diritto allo studio.
(1-01299) «Buttiglione, Binetti, Bosco».
(10 giugno 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    in Italia sono ancora troppo pochi i giovani che scelgono di intraprendere gli studi universitari, e l'edizione 2015 del rapporto «Education at a Glance», pubblicato dall'Organizzazione per la cooperazione e lo Sviluppo Economici, ha dimostrato come sotto questo aspetto l'Italia invece di migliorare stia continuando ad arretrare rispetto agli altri Stati membri;
    la percentuale di italiani che inizia gli studi post-secondari è, infatti, la più bassa in Europa, pari ad appena il 42 per cento, e la penultima nell'OCSE, davanti solo al Messico, mentre la media europea e quella dell'OCSE sono più alte, rispettivamente, di 21 e 25 punti percentuali, attestandosi la prima sul 63 per cento, e la seconda sul 67 per cento;
    ancora più critiche appaiono le cifre relative agli studenti che riescono a concludere il ciclo di studi universitari, pari ad appena il 24 per cento, valore più basso tra tutti i Paesi facenti parte dell'OCSE, e che rende un traguardo oramai irraggiungibile la quota del quaranta per cento di laureati nella fascia di età compresa tra i 30 e i 34 anni fissato nell'ambito della strategia «Europa 2020»;
    stando al rapporto Alma Laurea su «Il Profilo e la condizione occupazionale dei laureati», presentato lo scorso mese di aprile a Napoli, «il costante calo delle immatricolazioni, che negli ultimi anni ha interessato l'intero sistema universitario italiano, sta interessando in modo differenziato i diversi territori. A pagare il prezzo più elevato sono le regioni del Sud, non solo per la diminuzione più marcata di immatricolati, ma anche per i costanti flussi di mobilità dei giovani che dal Mezzogiorno scelgono di spostarsi per studiare nelle altre regioni del Paese»;
    l'andamento delle immatricolazioni mostra, infatti, che dal 2003 al 2015 le università hanno perso nel complesso quasi settantamila nuovi iscritti, con una diminuzione che nel Mezzogiorno è stata pari al trenta per cento, nelle regioni del centro si è fermata al ventidue per cento, mentre in quelle settentrionali è stata di appena il tre per cento;
    ad aggravare ulteriormente questa situazione, sulla quale pesa come elemento affatto trascurabile anche il calo demografico che negli ultimi decenni ha ridotto di quasi la metà la platea dei giovani possibili studenti universitari, si è andata recentemente ad aggiungere la questione relativa alla revisione delle modalità di calcolo dell'isee, in vigore dal 1o gennaio 2015 in applicazione del DPCM 5 dicembre 2013, n.159, recante il «Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell'Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)»;
    le modifiche al sistema di calcolo dell'Isee e dell'Ispe (Indicatore della situazione patrimoniale equivalente) e all'individuazione delle rispettive soglie per accedere alle borse di studio hanno determinato l'esclusione del venti per cento degli studenti risultati fino ad oggi idonei dai benefici del diritto allo studio a parità di condizioni economiche reali;
    questi studenti vanno ad aggiungersi alla già numerosa platea degli studenti idonei non beneficiari, fenomeno tutto italiano che dipende dalla mancata erogazione di fondi adeguati da parte dello Stato e delle regioni, che nell'anno accademico 2013/2014 sono stati più di quarantaseimila, vale a dire un quarto di tutti gli aventi diritto, e che non hanno, invece, percepito la borsa di studio a causa della mancanza di fondi;
    la percentuale di copertura delle borse di studio, inoltre, non risulta omogenea tra le varie regioni, e accade quindi che in alcune regioni la percentuale di studenti beneficiari rispetto agli idonei rimanga addirittura al di sotto del sessanta per cento, fino ad arrivare ad un minimo del trentadue per cento di copertura da parte della Regione Sicilia;
    il sottofinanziamento del sistema universitario italiano emerge chiaramente dal confronto con gli altri Paesi europei, ove si può vedere come la percentuale di prodotto interno lordo destinata dall'Italia, pari allo 0,4 per cento, è nettamente inferiore a quello impegnato da parte di Nazioni come la Germania e la Francia, rispettivamente, lo 0,99 per cento e lo 0,98 per cento, ma anche del Regno Unito e della Spagna, che versano lo 0,51 per cento e lo 0,73 per cento;
    l'esiguità delle risorse destinate dall'Italia alla formazione universitaria si manifesta anche nella spesa media per studente e, di contro, nell'elevata tassazione studentesca, che negli ultimi sette anni è aumentata del cinquanta per cento, mentre rispetto all'atteggiamento tenuto dalle singole Nazioni negli anni della crisi economica l'Italia si contraddistingue per essere l'unica che ha operato una riduzione dei finanziamenti al sistema universitario;
    l'articolo 18 del decreto legislativo 68 del 2012 ha previsto la creazione di un nuovo fondo integrativo statale per la concessione di borse di studio, da ripartire tra le regioni e che ha assorbito il fondo precedentemente destinato alle medesime finalità;
    rispetto alla ripartizione ed erogazione delle risorse giacenti sul Fondo integrativo si registrano pesanti ritardi, che mettono a rischio la concreta erogazione da parte delle regioni delle rate delle borse di studio;
    il diritto allo studio, oltre a discendere dal principio di uguaglianza sancito dall'articolo 3 della Costituzione, trova un esplicito rilievo costituzionale nell'articolo 34 che prevede espressamente che «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi», e che «la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso»,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per assicurare la piena realizzazione del diritto allo studio, attraverso la rimozione degli ostacoli economici e sociali che limitano l'accesso agli studi universitari e a garantire l'uniformità su tutto il territorio nazionale dei benefici in materia di diritto allo studio universitario;
   a promuovere il conseguimento dei più alti livelli formativi da parte di tutti i giovani, in condizioni di pari opportunità, valorizzando prioritariamente il merito degli studenti capaci e privi di mezzi;
   ad assumere iniziative per realizzare una riforma dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) che possa garantire l'accesso alle prestazioni relative al diritto allo studio ad una quantità maggiore di studenti, avvicinando il rapporto tra studenti beneficiari e studenti iscritti a quello degli altri Stati europei;
   ad assumere iniziative per realizzare un incremento della quota di prodotto interno lordo destinato al sistema universitario, anche al fine di determinare una significativa riduzione delle tasse a carico degli studenti, nonché ad adottare politiche volte a rendere più efficiente l'apparato burocratico, riducendo gli sprechi ed eliminando i disservizi;
   ad adottare le opportune iniziative volte a definire in modo chiaro i termini temporali per la ripartizione e l'erogazione delle risorse del fondo integrativo statale per la concessione di borse di studio, nonché a disporre un aumento delle risorse del medesimo fondo che possa risolvere in via definitiva la problematica degli studenti idonei non beneficiari;
   ad assumere iniziative per prevedere meccanismi di sgravi fiscali che permettano alle famiglie di detrarre integralmente le spese sostenute per la frequenza universitaria.
(1-01301)
«Rampelli, La Russa, Giorgia Meloni, Petrenga, Taglialatela, Cirielli, Maietta, Nastri, Rizzetto, Totaro».
(10 giugno 2016)

INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA

   RAMPELLI, GIORGIA MELONI, CIRIELLI, LA RUSSA, MAIETTA, NASTRI, PETRENGA, RIZZETTO, TAGLIALATELA e TOTARO. – Al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione. – Per sapere – premesso che:
   Roma capitale ha la rete di servizi all'infanzia per bambini di età compresa tra tre mesi e sei anni più ampia d'Europa, ma ciononostante non riesce a soddisfare appieno le necessità delle famiglie;
   per tali servizi il corretto funzionamento e il rispetto degli standard di qualità sono caratteristiche imprescindibili anche in un momento storico come quello attuale, segnato dalle esigenze di contenimento della spesa;
   il riconoscimento dei diritti dell'infanzia e la tutela dei minori si misurano anche nelle opportunità di cura e di educazione garantite all'interno dei nidi e delle scuole dell'infanzia pubbliche, sia a gestione diretta sia indiretta, e sono aspetti che passano attraverso la continuità e la stabilità delle figure di riferimento dei bambini, educatrici e maestre;
   è da molto tempo che il comune di Roma non garantisce più queste condizioni e ha, anzi, creato un vero problema di precariato, aggravato dalla recente sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea in merito al divieto di reiterazione dei contratti a tempo determinato;
   la legge n. 107 del 2015 di riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione ha affrontato il problema del precariato scolastico negli istituti statali, ma ha tralasciato la questione delle strutture educative e scolastiche degli enti locali;
   l'attuale commissario dell'amministrazione capitolina ha deliberato un piano straordinario di assunzioni che sarà, tuttavia, insufficiente a risolvere la problematica in esame a causa dei vincoli imposti dalle norme sul turn-over negli enti locali;
   in un'intervista rilasciata nei primi giorni di giugno 2016 il Ministro interrogato ha affermato che sarebbe in itinere un provvedimento volto a permettere le stabilizzazioni del personale precario del settore educativo e scolastico all'interno degli enti locali, dichiarando espressamente che «la norma sblocca il turnover e consente di attingere alle graduatorie comunali per assumere personale in base a un piano triennale; nelle more si può continuare a reclutare i precari con contratto a tempo determinato»;
   un siffatto provvedimento è indispensabile al fine, da un lato, di rassicurare le famiglie in ordine alla continuità educativa nelle strutture frequentate dai propri figli e, dall'altro, per porre fine alla incertezza lavorativa delle educatrici e insegnanti, che svolgono un ruolo di fondamentale importanza –:
   quando sarà adottato il provvedimento di cui in premessa. (3-02329)
(21 giugno 2016)

   CALABRÒ e BINETTI. – Al Ministro della salute. – Per sapere – premesso che:
 l'articolo 1, comma 593, della legge n. 190 del 2014 stanziava un fondo per i farmaci innovativi per la cura dell'epatite C pari a 500 milioni di euro per ciascuno degli anni 2015 e 2016;
   l'articolo 1, comma 570, della legge n. 208 del 2015, al fine di consentire l'accesso ai trattamenti innovativi stabiliva che il Ministero della salute, sentita l'Agenzia italiana del farmaco, doveva predisporre ogni anno un programma strategico diretto a definire le priorità di intervento, le condizioni di accesso ai trattamenti, i parametri di rimborsabilità sulla base di risultati clinici significativi, il numero dei pazienti potenzialmente trattabili e le relative previsioni di spesa, le condizioni d'acquisto, gli schemi di prezzo condizionati al risultato e gli indicatori di performance degli stessi, gli strumenti a garanzia e trasparenza di tutte le procedure, le modalità di monitoraggio e valutazione degli interventi in tutto il territorio nazionale;
   l'Agenzia italiana del farmaco ha annunciato l'arrivo sul mercato di oltre 25 farmaci innovativi che hanno già ottenuto la revisione prioritaria per la cura di patologia altamente diffuse, quali: il cancro al seno, l'ipercolesterolemia e l'insufficienza cardiaca;
   le regioni hanno elaborato una proposta di governance farmaceutica che prevede una relazione tra prezzi e volumi di vendita nonché una maggiore concorrenza dell'intero settore;
   il Ministro interrogato ha recentemente annunciato la necessità di rifinanziare per gli anni a venire il fondo per i farmaci innovativi includendo anche quelli oncologici;
   il direttore dell'Agenzia italiana del farmaco, Luca Pani, ha evidenziato la necessità di nuova governance del farmaco basata sul payment by results, la rimborsabilità dei farmaci dal Servizio sanitario nazionale all'industria solo per quei pazienti che rispondono alla terapia;
   molte regioni hanno riscontrato notevoli difficoltà nell'erogazione dei farmaci innovativi, non avendo ricevuto i fondi ma ottenuto un rimborso attraverso note di credito farmaceutiche;
   è urgente dare risposta ai pazienti oncologici che si sono visti sospesa la somministrazione di terapie innovative non più considerate in regime d'uso compassionevole e, quindi, non più disponibili nelle aziende sanitarie, con grave danno per i pazienti stessi –:
   come si intenda garantire un equo, uniforme e immediato accesso alle terapie innovative, considerando l'urgenza e la necessità di definire i criteri di utilizzo e le fonti di finanziamento. (3-02330)
(21 giugno 2016)

   SCOTTO, AIRAUDO, FRANCO BORDO, COSTANTINO, D'ATTORRE, DURANTI, DANIELE FARINA, FASSINA, FAVA, FERRARA, FOLINO, FRATOIANNI, CARLO GALLI, GIANCARLO GIORDANO, GREGORI, KRONBICHLER, MARCON, MARTELLI, MELILLA, NICCHI, PAGLIA, PALAZZOTTO, PANNARALE, PELLEGRINO, PIRAS, PLACIDO, QUARANTA, RICCIATTI, SANNICANDRO, ZARATTI e ZACCAGNINI. – Al Ministro della salute – Per sapere – premesso che:
   la crisi economica non è finita e il peso dei costi che le famiglie devono sostenere nella sanità per le cure e per la prevenzione diventano sempre più gravose per le famiglie;
   l'8 giugno 2016 è stata presentata una ricerca Censis-Rbm relativa agli anni 2013-2015, dalla quale si evince drammaticamente che è aumentato il numero degli italiani che rinunciano alle cure mediche a causa di difficoltà economiche;
   rispetto al 2012, anno nel quale le persone che risultavano costrette alla rinuncia o al rinvio delle prestazioni sanitarie erano 9 milioni, queste nel 2015 sono diventate 11 milioni;
   in particolare, il problema riguarda 2,4 milioni di anziani e 2,2 milioni di millennials, ovvero i nati tra il 1980 e il 2000. Non a caso, secondo il report presentato in occasione del Welfare day, nell'ultimo anno è inoltre aumentata la spesa sanitaria privata nel 2015 pari 34,5 miliardi di euro, ovvero +3,2 per cento negli ultimi due anni;
   secondo gli esperti che hanno curato la ricerca del Censis-Rbm, l'universo della sanità negata tende a dilatarsi, tra nuovi confini e difficoltà nell'accesso al pubblico, e, di fatto, l'obbligo di comprare o compartecipare alla spesa per accedere alle prestazioni sanitarie. In tale contesto meno sanità significa meno salute per chi ha difficoltà economiche o comunque non riesce a pagare di tasca propria le prestazioni nel privato o in intramoenia;
   il Censis rivela che in Italia nel 41,7 per cento delle famiglie almeno una persona in un anno ha dovuto rinunciare ad una prestazione sanitaria, le cause sarebbero le lunghe liste di attesa nella sanità pubblica e i costi proibitivi di quella privata. L'istituto di ricerca ha inoltre aggiunto che sono tre milioni gli italiani non autosufficienti, con una spesa annua per le famiglie di circa dieci miliardi di euro;
   i dati dell'indagine «Bilancio di sostenibilità del welfare italiano» del Censis rivelano che gli italiani pagano di tasca propria oltre 500 euro pro capite all'anno. Una cifra pari al 18 per cento della spesa sanitaria totale contro il 7 per cento della Francia e il 9 per cento dell'Inghilterra. Lo stesso studio afferma inoltre che «il 53,6 per cento degli italiani dichiara che la copertura dello stato sociale si è ridotta e paga di tasca propria molte delle spese che un tempo venivano coperte dal sistema di welfare nazionale»;
   dalla ricerca Censis-Rbm è emerso che, nell'ultimo anno, più di 5 milioni di italiani hanno ricevuto prescrizioni di farmaci, visite o accertamenti diagnostici che si sono rivelati inutili. Tuttavia, oltre il 51,3 per cento si dichiara contrario a sanzionare i medici protagonisti di condotte del genere. Le liste d'attesa rimangono un vero incubo e la conseguenza è che 10 milioni di italiani ricorrono di più al privato e 7 milioni all’intramoenia perché non possono permettersi di aspettare mesi e mesi a volte per accertamenti necessari e improcrastinabili;
   nel commentare i dati della ricerca del Censis-Rbm la Ministra interrogata ha dichiarato: «È chiaro che il sistema sanitario deve fare i conti con la grave crisi economica che le famiglie stanno vivendo e che questa indagine Censis ci conferma la necessità di difendere l'aumento previsto del fondo sanitario per il 2017-18», ma ha anche dichiarato che «deve essere chiaro a tutti che non si possono fare le nozze con i fichi secchi»;
   la questione rilevante è che, di fatto, i Governi che si sono succeduti hanno piegato il diritto alla salute dei cittadini alle compatibilità economiche e di bilancio, in questo modo il diritto alla salute, sancito dall'articolo 32 della Costituzione, è stato reso subalterno alle risorse disponibili, oltretutto continuamente ridotte, aprendo un'autostrada al privato come evidenziato dall'aumento considerevole della spesa sanitaria privata, questo proprio a scapito, ad esempio, dello sblocco del turn over nella sanità, dello sviluppo dei servizi territoriali, per le non autosufficienze ed altro;
   è di tutta evidenza che chi ne ha fatto le spese sono gli italiani, che non solo devono far fronte alla crisi economica, ma che, proprio a causa di questo e dell'affermarsi che la salute la curi solo se paghi, sono stati anche costretti a ridurre o addirittura a rinunciare alle cure e alle prestazioni;
   mentre il patto per la salute 2014-2016 fissava per il 2015 un finanziamento pari a poco oltre 112 miliardi di euro e per il 2016 pari a 115,4 miliardi di euro, la legge di stabilità per il 2016 ha fissato il finanziamento a 111 miliardi di euro con un taglio rispetto al patto firmato con le regioni da parte del Governo di oltre 5 miliardi di euro, con pesantissime ricadute sociali rese esplicite dalla ricerca del Censis-Rbm;
   si considera, infine, che il gruppo parlamentare Sinistra italiana-SEL si è sempre battuto in Parlamento per l'affermazione della piena funzionalità del servizio sanitario pubblico universale, nonché per la drastica riduzione dei ticket e delle liste di attesa e, quindi, per una risposta non privatistica, bensì pubblica alla tutela del diritto fondamentale alla salute ex articolo 32 della Costituzione –:
   se il Governo non ritenga necessario abbandonare le politiche di tutela della salute dei cittadini subalterne alle compatibilità di bilancio ed ottemperare agli impegni presi a partire da quelli previsti dal patto per la salute 2014-2016 per dotare il Servizio sanitario nazionale di risorse congrue, al fine di evitare che i cittadini, in particolare quelli maggiormente colpiti dalla crisi economica, siano costretti a rinunciare al diritto costituzionale alle cure e alle prestazioni senza che questo dipenda dalle risorse disponibili, ma garantendo ciò attraverso l'individuazione delle risorse necessarie. (3-02331)
(21 giugno 2016)

   BALDELLI, BRUNETTA, POLIDORI e OCCHIUTO. – Al Ministro dello sviluppo economico. – Per sapere – premesso che:
   l'Autorità garante della concorrenza e del mercato ha concluso quattro procedimenti, avviati a luglio 2015 sulla base di numerose segnalazioni giunte da singoli consumatori e da diverse associazioni, ed emesso sanzioni per oltre 14 milioni di euro nei confronti di cinque aziende che operano nel settore dell'energia: Acea, Edison, Eni, Enel energia ed Enel servizio elettrico;
   i provvedimenti riguardano i meccanismi di fatturazione, i conguagli pluriennali, le ripetute richieste di pagamento per bollette non corrispondenti a consumi effettivi, gli ostacoli frapposti alla restituzione dei rimborsi e altre pratiche considerate scorrette;
   dopo che sono state presentate diverse interrogazioni da parte di Forza Italia alla Camera dei deputati sul tema delle maxi-bollette e dei megaconguagli per sollecitare il Governo ad intervenire a tutela dei consumatori, ad ottobre 2015 è stata approvata alla Camera dei deputati la mozione 1-00967 che ha impegnato il Governo ad intervenire, nell'ambito delle proprie competenze, affinché venisse assicurato dagli operatori del settore una moratoria sulle recenti maxi-bollette derivanti da conguagli superiori a due anni, finché le autorità non avessero completato gli accertamenti circa eventuali violazioni del codice del consumo, e «ad intervenire, per quanto di competenza, anche eventualmente a livello legislativo, stabilendo che, nel caso in cui le autorità competenti ravvisino comportamenti illegittimi da parte dei gestori dei servizi, i consumatori coinvolti non siano obbligati al pagamento dei conguagli considerati errati o delle fatture basate su consumi stimati per le quali il cliente abbia già comunicato i dati sull'autolettura o questi siano stati teleletti, ovvero ricevano tempestivamente il rimborso delle somme eventualmente già versate ma non dovute»;
   le multe elevate dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato hanno giustamente sanzionato le pratiche commerciali delle aziende operanti nel settore dell'energia ritenute aggressive e scorrette, ma solo un intervento legislativo può sollevare i cittadini dal pagamento di fatture frutto di comportamenti sanzionati dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato –:
   se il Governo non intenda intervenire al più presto a livello legislativo stabilendo che i consumatori che, secondo quanto stabilito dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato, abbiano subito pratiche commerciali ritenute scorrette ed aggressive siano esentati dal pagamento degli importi richiesti dalle aziende citate in premessa, ovvero che ricevano tempestivamente il rimborso delle somme già eventualmente versate. (3-02332)
(21 giugno 2016)

   CAPELLI. – Al Ministro dell'economia e delle finanze. – Per sapere – premesso che:
   con delibera del commissario n. 2 del 6 maggio 2016, il commissario straordinario dell'Automobil Club di Sassari deliberava di rinviare l'approvazione del bilancio di esercizio dalla prevista data del 30 aprile 2016 al 30 giugno 2016;
   con successiva delibera (n. 9 del 27 maggio 2016), il commissario straordinario ha approvato lo schema di bilancio di esercizio 2015, «comprensivo di tutta la documentazione di sua competenza»;
   in data 14 giugno 2016 si è riunita l'assemblea dei soci dell'Automobil Club Sassari per discutere, tra l'altro, dell'approvazione del bilancio di esercizio 2015;
   nella suddetta riunione, il commissario straordinario ha ritenuto di non poter far procedere all'approvazione del bilancio di esercizio 2015, mancando la relazione del consiglio dei revisori dei conti;
   a detta del commissario, infatti, questo adempimento non era stato compiuto, stante la decadenza dei revisori eletti e la richiesta del revisore indicato dal Ministero dell'economia e delle finanze di essere sostituito;
   si starebbe, quindi, procedendo alla nomina di un collegio di revisori straordinario;
   ora, all'interrogante non risulta che vi sia alcuna richiesta da parte del revisore indicato dal Ministero di essere sostituito;
   inoltre, a parere dell'interrogante non esiste decadenza dei revisori eletti, i quali restano in carica sin quando non si procede alla nomina dei nuovi revisori;
   infine, come risulta anche dall'atto di sindacato ispettivo n. 4-13151 indirizzato al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, il commissario straordinario era stato nominato per espletare «i necessari adempimenti procedurali per il rinnovo degli organi di ordinaria amministrazione dell'ente» (articolo 1, punto 2, del decreto ministeriale n. 227 del 29 aprile 2016), non apparendo, quindi, chiara l'eventuale competenza del commissario stesso relativamente al bilancio di esercizio 2015 –:
   se al Ministro interrogato risulti la richiesta di sostituzione da parte del revisore indicato dal Ministero dell'economia e delle finanze e quali tempi siano previsti per la nomina del collegio dei revisori straordinario. (3-02333)
(21 giugno 2016)

   PRATAVIERA, MATTEO BRAGANTINI, CAON e MARCOLIN. – Al Ministro dell'economia e delle finanze. – Per sapere – premesso che:
   la situazione debitoria è stata da tutti avvertita come una vera e propria emergenza sociale che ha indotto il legislatore ad introdurre la possibilità di rateizzare le somme iscritte a ruolo fino a un massimo di dieci anni (la rateizzazione ordinaria prevede un massimo di 72 rate mensili, mentre la rateizzazione straordinaria estende il numero delle rate fino ad un massimo di 120 mensili), dando così respiro a famiglie ed imprese;
   attualmente, secondo i dati forniti dall'amministratore delegato di Equitalia nel corso dell'audizione presso la Commissione di vigilanza sull'anagrafe tributaria del 9 marzo 2016, le dilazioni di pagamento hanno rappresentato, negli ultimi anni, un fenomeno in costante crescita: attualmente, sono attive circa 30 milioni di rateizzazioni per un controvalore di circa 38 miliardi di euro;
   si tratta, quindi, di un valido strumento adatto a sostenere la ripresa: il legislatore, non a caso, invero, è già più volte intervenuto sull'articolo 19 del decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973, con la finalità di snellire il procedimento di accesso alla rateizzazione del debito e di rendere maggiormente fruibile la ripartizione del pagamento in rate;
   in particolare, per ben due volte, nel corso dell'anno 2014, il legislatore ha emanato, peraltro, disposizioni di carattere eccezionale per consentire ai soggetti decaduti da un piano di dilazione di riprendere nuovamente a pagare a rate (l'articolo 11-bis del decreto-legge n. 66 del 2014 cosiddetto milleproroghe e l'articolo 10 del decreto-legge n. 192 del 2014): in base a tali disposizioni, i debitori decaduti dal beneficio della rateazione entro e non oltre il 31 dicembre 2014 sono stati riammessi, a richiesta, al pagamento rateale;
   con l'articolo 15, comma 7, del decreto legislativo, n. 159 del 2015 («Misure per la semplificazione e razionalizzazione delle norme in materia di riscossione, in attuazione dell'articolo 3, comma 1, lettera a), della legge 11 marzo 2014, n. 23»), il legislatore ha ulteriormente esteso la possibilità di riprendere la rateizzazione a beneficio dei decaduti. In particolare, è stato disposto che, su semplice richiesta del debitore, da presentare entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo di cui sopra, cioè dal 22 ottobre 2015, potessero essere ripartite, fino ad un massimo di 72 rate mensili, le somme iscritte a ruolo non ancora versate, oggetto di piani di rateizzazione concessi dagli agenti della riscossione e decaduti nei 24 mesi antecedenti alla suddetta data;
   sempre con il decreto legislativo n. 159 del 2015 è stato, inoltre, previsto che, in caso di decadenza dai piani di ammortamento concessi a decorrere dal 22 ottobre 2015, i debitori in difficoltà possano ottenere, a differenza di quanto accadeva in precedenza, un nuovo piano di rateizzazione, a condizione che, al momento della presentazione della relativa istanza, le rate del precedente piano – già scadute a tale data – venissero integralmente saldate;
   i debitori che hanno ottenuto un piano di rateizzazione prima del 22 ottobre 2015, per i quali la decadenza continuerà a verificarsi solo in caso di mancato pagamento di 8 rate, anche non consecutive, anziché 5 (previste per i piani accordati dal 22 ottobre 2015), una volta decaduti, non potranno, invece, essere più riammessi al beneficio;
   coloro che non hanno presentato istanza entro il 21 novembre 2015, data di scadenza per chiedere la «riammissione» alla rateizzazione si trovano ora esposti a gravi conseguenze economiche;
   le imprese che dovranno fronteggiare tale situazione, non potendo ottemperare ai propri debiti, saranno esposte al rischio del fallimento;
   un'ultima possibilità, in termini temporali, viene data con la legge di stabilità per il 2016 (articolo 1, commi da 134 a 138, della legge n. 208 del 2015) che consente anche ai contribuenti decaduti dal beneficio della rateizzazione di somme dovute a seguito di accertamenti con adesione di essere riammessi, a specifiche condizioni, al piano originario di dilazione; in particolare, il predetto beneficio spetta ai contribuenti decaduti nei trentasei mesi antecedenti al 15 ottobre 2015, per i quali la riammissione è effettuata al piano di rateizzazione inizialmente concesso, riguarda il solo versamento delle imposte dirette ed è condizionata alla ripresa, entro il 31 maggio 2016, del versamento della prima rata scaduta;
   in ogni caso quest'ultima disposizione normativa, che peraltro è limitata, non risolve il problema di tutte quelle imprese e famiglie che ancora hanno una situazione debitoria in essere;
   la raccomandazione a trovare soluzioni adeguate deriva dalle parole dello stesso amministratore delegato di Equitalia il quale, nel corso dell'audizione di cui sopra, ha sottolineato che, grazie ai pagamenti a rate, infatti, le famiglie e le imprese in difficoltà economica riescono, nel tempo, a regolarizzare il loro debito con l'erario e, di conseguenza, a Equitalia di riscuotere le somme che gli enti creditori le affidano, nel modo meno invasivo possibile, facilitando il rapporto con i debitori interessati e favorendo, al contempo, un clima di minor tensione sociale e di maggiore fiducia nelle istituzioni. Sulla stessa materia si ricorda anche la recente risoluzione n. 7-00976 approvata il 24 maggio 2016 in Commissione finanze della Camera dei deputati –:
   quali iniziative urgenti il Ministro interrogato abbia intenzione di adottare al fine di prevedere che i contribuenti decaduti dai piani di rateizzazione concessi, ai sensi dell'articolo 19 del decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973, in data precedente o successiva a quella di entrata in vigore del decreto legislativo n. 159 del 2015, possano ottenere, a semplice richiesta, la concessione di un nuovo piano di rateizzazione ai sensi dello stesso articolo 19, superando in tal modo le limitazioni rappresentate dalla presentazione di un'apposita istanza entro un termine perentorio già stabilito. (3-02334)
(21 giugno 2016)

   GALGANO, MATARRESE, VECCHIO, LIBRANDI, BOMBASSEI, OLIARO, CATANIA, SOTTANELLI, MOLEA, VARGIU, DAMBRUOSO, VEZZALI, CAPUA e D'AGOSTINO. – Al Ministro dell'economia e delle finanze. – Per sapere – premesso che:
   nonostante il crollo del costo del petrolio registrato negli ultimi tempi, i prezzi della benzina in Italia non sono diminuiti in proporzione in quanto a gravare in maniera decisiva sui prezzi alla pompa sono soprattutto le imposte;
   considerate le quotazioni attuali del greggio, il cui costo è sceso del 19 per cento rispetto al 2008, il prezzo del carburante alla pompa non dovrebbe superare i 44 centesimi, se si escludessero le imposte che gravano sul costo totale;
   negli ultimi anni il peso fiscale sui carburanti è cresciuto in modo vertiginoso ed inarrestabile, fino ad arrivare alla situazione attuale in cui le imposte (accise ed Iva) rappresentano ben oltre i due terzi del costo di un litro di benzina alla pompa;
   facendo qualche calcolo, si potrebbe dire che, neanche se il prezzo del petrolio dovesse raggiungere il suo minimo storico, che fu toccato il 10 dicembre 1998 quando le quotazioni del greggio calarono a 9 dollari e 55 centesimi, la benzina costerà meno di un euro al litro, in quanto attualmente circa il 70 per cento del prezzo totale del carburante è destinato all'erario;
   la pervicacia del fisco sui carburanti emerge da un confronto fatto dall'ufficio studi della Confartigianato fra i prezzi attuali e quelli di sette anni fa, quando il costo del greggio sui mercati internazionali era pressoché agli stessi livelli;
   nel dicembre 2008, tenendo conto che la moneta europea era decisamente più forte di oggi sul dollaro, le quotazioni del brent si attestavano intorno ai 29 euro e il prezzo medio alla pompa del gasolio per autotrazione era di un euro e 111. Oggi, con un costo medio del petrolio a circa 30 euro, il prezzo medio della nafta è invece di un euro e 251, con un aumento complessivo del 12,6 per cento. E questo nonostante il prezzo al netto delle imposte sia sceso del 18,8 per cento;
   questo significa che nel corso degli ultimi sette anni si è verificato un rincaro del gasolio del 31,4 per cento esclusivamente attribuibile alle imposte: nel dettaglio, in questo arco di tempo le accise sono aumentate del 46 per cento e il peso dell'Iva è cresciuto del 21,8 per cento. Va poi rilevato che l'Iva non si calcola sul prezzo netto del carburante, ma anche sulle accise, con il risultato surreale che sulle imposte grava un'altra imposta;
   proseguendo nel confronto, alla fine del 2008 le imposte toccavano 60,82 centesimi, rappresentando il 54,7 per cento del prezzo finale del gasolio, mentre ad inizio 2016 si è arrivati a 84,31 centesimi e la percentuale è salita al 67,4 per cento del totale. Si tratta di una differenza di oltre 23 centesimi al litro che, considerando i 22 milioni di tonnellate di gasolio che ogni anno vengono consumate in Italia, determina per il fisco un maggiore introito di quali 5,2 miliardi di euro ogni dodici mesi. Il solo effetto delle imposte sulle imposte è di quasi 14 centesimi al litro, pari a circa 3 miliardi di euro sui consumi totali di gasolio;
   se si considerano i prezzi della benzina le cose non vanno meglio: su ogni litro le accise gravano per quasi 73 centesimi e, se si aggiunge anche l'Iva (con il solito meccanismo dell'imposta sulle imposte), il prelievo fiscale è praticamente di un euro su un costo alla pompa di 1,421 euro. Dato che, escludendo le imposte e con le quotazioni attuali del greggio, un litro di benzina non dovrebbe costare più di 44 centesimi, se ne deduce che poco meno del 70 per cento del prezzo finale va al fisco;
   l'analisi dell'ufficio studi della Confartigianato dimostra che i consumatori italiani pagano il gasolio più caro in Europa, con le uniche eccezioni di Svezia e Regno Unito, nonostante il prezzo netto italiano sia appena al ventesimo posto nel continente. Anche il prezzo italiano della benzina è il più alto in Europa (solo nei Paesi Bassi è maggiore). Nel nostro Paese un litro costa 1,421 euro, mentre la media europea è di 1,273 (tralasciando i prezzi negli Stati Uniti, 47 centesimi, e Arabia Saudita, 23 centesimi) e la differenza è interamente dovuta al meccanismo dell'imposta sull'imposta, ovvero dell'Iva anche sulle accise. Negli Stati Uniti un litro costa solo 47 centesimi di euro, in Arabia Saudita 23 centesimi;
   come denunciato dalle associazioni dei consumatori, le attuali imposte applicate sui carburanti in Italia si traducono in un pesante aggravio per i cittadini «pari a ben +72 euro annui in termini diretti (vale a dire per i pieni di carburante) e a +59 euro annui in termini indiretti (a causa all'impatto del costo dei carburanti sui prezzi dei beni di prima necessità che, nel nostro Paese, sono distribuiti per l'86 per cento su gomma)». Un totale che ammonta a 131 euro annui –:
 alla luce di quanto esposto in premessa, quali iniziative il Governo intenda intraprendere per evitare che in Italia il prezzo totale del carburante, sia in termini di benzina che di gasolio, nonostante il costo del greggio sia negli ultimi tempi notevolmente diminuito, continui ad essere tra i più cari in Europa, nonché quali iniziative intenda adottare affinché le imposte non gravino in maniera così pesante sui prezzi alla pompa e, soprattutto, si eviti quel meccanismo perverso dell'imposta sulle imposte, ossia dell'Iva calcolata anche sulle accise. (3-02335)
(21 giugno 2016)

   FEDRIGA, ALLASIA, ATTAGUILE, BORGHESI, BOSSI, BUSIN, CAPARINI, CASTIELLO, GIANCARLO GIORGETTI, GRIMOLDI, GUIDESI, INVERNIZZI, MOLTENI, PICCHI, GIANLUCA PINI, RONDINI, SALTAMARTINI e SIMONETTI. – Al Ministro dell'economia e delle finanze. – Per sapere – premesso che:
   il canone di abbonamento Rai è un'imposta dovuta per la semplice detenzione di un apparecchio televisivo, indipendentemente da quanto lo si usa o dalla possibilità di ricevere i canali nazionali;
   viene, quindi, chiamato canone di abbonamento al servizio radiotelevisivo pubblico, quello che in realtà si configura come un'imposta sul possesso della tv, dichiarata tale anche dalla Corte costituzionale;
   la stessa Corte costituzionale ha inoltre chiarito come non sussista alcuna relazione diretta tra le entrate che derivano dal canone e quelle che poi vengono effettivamente destinate alle reti Rai, dal momento che il maggiore beneficiario dell'imposta non è la Rai, bensì lo Stato;
   per i portatori di handicap indicati all'articolo 3 della legge n. 104 del 1992 lo Stato prevede giustamente numerose agevolazioni fiscali, fra cui quelle sugli acquisti degli ausili tecnici e informatici che possono facilitare le attività giornaliere migliorando le condizioni di vita;
   con l'avanzare del progresso tecnologico, oggi in commercio ci sono molte apparecchiature elettroniche di consumo che possono essere utilizzate come ausilio per le persone diversamente abili, come ad esempio gli apparecchi che hanno come principale caratteristica l'integrazione di funzioni e di servizi legati a internet all'interno di apparecchi televisivi;
   per le persone con grave disabilità, che non sono nelle condizioni di poter utilizzare strumenti informatici, la televisione rappresenta spesso il principale mezzo di informazione e di compagnia, pertanto gli interventi e i programmi relativi ai servizi pubblici, che la legge n. 104 del 1992 prevede vengano determinati con priorità per le situazioni riconosciute gravi, dovrebbero prevedere anche la gratuità dell'accesso al servizio radiotelevisivo;
   è doveroso sviluppare progetti a sostegno delle persone diversamente abili con l'obiettivo prioritario di migliorare il più possibile la loro qualità di vita e quella delle loro famiglie: è necessario pensare alle persone non autosufficienti in termini di centralità del bisogno per fornire risposte efficaci –:
   in virtù del ruolo che l'apparecchio televisivo riveste nella vita delle persone diversamente abili sia come strumento tecnologico in grado di facilitare le comunicazioni col mondo esterno sia come strumento ricreativo, se il Governo non ritenga doveroso assumere iniziative per prevedere specifiche esenzioni dal pagamento del canone di abbonamento alla concessionaria radiotelevisiva pubblica per i portatori di handicap indicati all'articolo 3 della legge n. 104 del 1992. (3-02336)
(21 giugno 2016)

   MARCHI, BOCCADUTRI, PAOLA BRAGANTINI, CAPODICASA, CENNI, DELL'ARINGA, FANUCCI, CINZIA MARIA FONTANA, FREGOLENT, GIAMPAOLO GALLI, GINATO, GIULIETTI, GUERRA, LAFORGIA, LOSACCO, MARCHETTI, MELILLI, MISIANI, PARRINI, PILOZZI, PREZIOSI, RUBINATO, MARTELLA e BINI. – Al Ministro dell'economia e delle finanze. – Per sapere – premesso che:
   il 23 giugno 2016 gli elettori britannici sono chiamati ad esprimersi sulla cruciale possibilità che il loro Paese possa o meno continuare a far parte dell'Unione europea; al termine di una campagna elettorale intensa e tesa, caratterizzata perfino da drammatici risvolti, l'esito della consultazione popolare pare assai incerto;
   all'esterno della Gran Bretagna la campagna referendaria è stata seguita con altrettanta partecipazione e l'andamento dei mercati finanziari dell'intera Europa è stato caratterizzato da una significativa volatilità dei titoli, con perdite fortemente correlate al rischio di una crisi politica dovuta alla vittoria del voto favorevole all'uscita;
   una eventuale Brexit richiederà la messa in atto di un complesso processo di negoziazione che sia funzionale alla continuità dei rapporti economici, nonché delle alleanze politiche e militari di comune interesse; tale scenario avrebbe sicuramente conseguenze finanziarie, anche se è difficile prevederne la durata e la gravità;
   se invece vincesse il remain, lo scenario risulterebbe meno critico, ma le scelte dei leader europei ancor più delicate per quanto concerne le prospettive future dell'Unione europea, che si trova nella fase più delicata dalla sua fondazione;
   in ogni caso, i vertici della Banca centrale europea dichiarano con fermezza di essere preparati a fronteggiare, con efficaci misure, le turbolenze finanziarie cui saranno sottoposti i Paesi dell'Unione europea;
   oltre agli strumenti di politica monetaria e indipendentemente dall'esito del referendum, appare più che mai ad oggi necessario rilanciare con forza il processo di integrazione, attraverso meccanismi concreti per un coordinamento, una convergenza e una solidarietà più solidi tra le politiche economiche di tutti Paesi membri, anche al fine di promuovere una dimensione maggiormente democratica dell'Unione europea che contrasti la diffusa disaffezione verso il progetto europeo –:
   nell'auspicata ipotesi che prevalga la volontà britannica di continuare a far parte dell'Unione europea, quali iniziative intenda promuovere il Governo per rafforzare gli obiettivi di rilancio della crescita e dell'occupazione a livello comunitario, anche in relazione alle proposte italiane contenute nell'ampia agenda strategica presentata nel mese di febbraio 2016, così da far recuperare lo spirito di progresso sociale ed economico per l'intero continente proprio dell'originario progetto europeo. (3-02337)
(21 giugno 2016)

   PESCO, GRILLO, ALBERTI, FICO, PISANO, RUOCCO e VILLAROSA. – Al Ministro dell'economia e delle finanze. – Per sapere – premesso che:
   il Corpo della Guardia di finanza, che fa parte delle Forze armate della Repubblica italiana, dipende dal Ministero dell'economia e delle finanze; la Guardia di finanza opera in molti settori delicati quali polizia tributaria, polizia economico-finanziaria, contrasto al traffico di sostanze stupefacenti, repressione dei reati di criminalità organizzata, riciclaggio del denaro;
   tutti gli appartenenti alla Guardia di finanza sono tenuti ad attenersi in maniera rigorosa al principio della neutralità della pubblica amministrazione; tali principi si applicano vieppiù anche alle strutture apicali del Corpo per ovvie ragioni etiche, anche per stimolare nell'istituzione lo spirito dell'ammirazione verso i superiori gerarchici; pertanto, è tanto più tenuto al rigore nel proprio curriculum e nella propria azione quotidiana chi assume la carica di comandante della Guardia di finanza;
   su Il Fatto quotidiano del 18 giugno 2016 (articolo intitolato «Inchiesta Sopaf, la mail di Toschi: “Mio fratello comanderà a Roma. Quanto di più utile per noi”», a firma di Giorgio Mielettie e Valeria Pacelli) si legge testualmente: «La famiglia Toschi ottimizzava le sinergie, come direbbe un bravo manager. C’è Giorgio, il fratello maggiore, pezzo grosso della Guardia di finanza, lanciato in una carriera che lo porterà nella primavera 2016, anno III dell'era renziana, sulla poltrona di comandante generale. C’è Andrea, il più giovane, impegnato nella finanza milanese, nel gruppo Sopaf dei numerosi e attivissimi fratelli Magnoni, figli di Giuliano, socio e consuocero di Michele Sindona. A capo della Adenium Sgr (società di gestione del risparmio), Toschi junior è particolarmente attivo nei rapporti con le casse previdenziali, in particolare con Enpam (medici) e Inpgi (giornalisti). Il 18 giugno 2011 Andrea Toschi scrive un'ispirata mail a uno dei suoi capi, Giorgio Magnoni: “Ho appena appreso da ’familiari’ che dal prox anno la Guardia di finanza avrà anche il compito di sorvegliare e verificare la documentazione relativa agli investimenti finanziari e ai processi organizzativi relativi a tutte le casse di previdenza. La Guardia di finanza collaborerà con la Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione). (...) Meglio di così!! (...) Saluti” (...). Andrea Toschi è stato arrestato nel maggio 2014 e oggi è a processo con Aldo Magnoni e altri per associazione a delinquere: «Si associavano tra loro allo scopo di commettere più delitti di bancarotta fraudolenta, truffa aggravata, appropriazione indebita, frode fiscale, trasferimento fraudolento di valori finalizzato ad agevolarne il riciclaggio». Andrea Toschi è accusato dal giudice per le indagini preliminari di aver sfruttato «la propria rete di relazioni esterne per agevolare la realizzazione di operazioni illecite e conseguire i relativi guadagni». (...) Ma i magistrati hanno in mano un rapporto della Banca d'Italia, precisamente dell'Uif (Unità d'informazione finanziaria). C’è scritto che alla Banca di credito cooperativo di Anagni, che aveva fatto una «segnalazione di operazione sospetta», Toschi «si sarebbe presentato in banca affermando di essere il fratello del comandante generale della Guardia di finanza Giorgio Toschi». Barbara Rossato, responsabile del controllo rischi e funzione antiriciclaggio della Banca di credito cooperativo di Anagni, ha raccontato ai magistrati che Fabrizio Carracoi (anche lui a processo) chiese alla banca una fidejussione a garanzia di un progetto finanziario. L'operazione apparve «anomala». «A parere della banca – racconta Rossato – l'anomalia era dettata dal fatto che era risaputo che il Carracoi non era una persona che finanziariamente potesse sostenere una operazione del genere. La cosa che più ha insospettito la banca è stato il fatto che spendessero il nome di Andrea Toschi, presentato come fratello di un generale della Guardia di finanza». Su questo insieme di impressioni e mezze frasi deve fare chiarezza il tribunale di Milano. Ma il sospetto che Toschi junior usasse il nome del fratello per aggirare gli ostacoli sul suo cammino è confermato da un'altra mail privata che Il Fatto quotidiano ha potuto leggere. Il 21 febbraio 2010 Toschi scrive al collega e amico Alberto Ciaperoni, oggi a giudizio con lui. All'interno di un lungo sfogo sui rapporti con la famiglia Magnoni, che non sembrano andare per il meglio, parte la cannonata: «Desidero anche informarti (mi raccomando la max riservatezza...) che proprio ieri ho avuto notizia (la notizia era già nell'aria da un po’...) che il mio fratellone con greca e stelle d'argento, verrà a Roma (entro giugno) a comandare quanto di più importante e utile per noi. Ti dico solo che tutti gli organi di vigilanza, gli istituzionali, il gotha romano, faranno la fila per essere da lui ricevuti ed invitati (...) Camporese e Falconi si sono già proposti per incontrarlo quanto prima. Secondo te io posso sbagliare? Possiamo sbagliare?». Puntualmente la notizia in anteprima trova conferma. A giugno Giorgio Toschi lascia il comando regionale della Toscana per approdare alla capitale come comandante della scuola di polizia tributaria della Guardia di finanza. Posizione prestigiosa: prende il posto di Saverio Capolupo, che in breve tempo diventerà comandante generale. E subito incontra Camporese, come il giornalista riferisce ai magistrati.»;
   d'altronde, come si riscontra su Rainews 24 in merito a Camporese, «il giudice per l'udienza preliminare di Milano rinvia a giudizio altre nove persone per il crack della Sopaf Inpgi: rinvio a giudizio per il presidente Camporese. Accusato di truffa e corruzione. Il giudice per l'udienza preliminare di Milano ha rinviato a giudizio il presidente dell'Inpgi Andrea Camporese e altre nove persone coinvolte in un filone dell'inchiesta sul crack della holding Sopaf dei fratelli Magnoni»;
   sempre dall'articolo riportato su Il Fatto quotidiano, si apprende poi delle «perplessità» sulla nomina di Toschi, manifestate da altre cariche istituzionali: «La resistenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a firmare la nomina di Toschi è stata piegata dal Premier Matteo Renzi, lasciando interdetti gli esponenti politici di peso che «per le vie brevi» avevano segnalato al Quirinale il sospetto che Andrea usasse il nome del fratello per mettere il turbo agli affari. Dopo l'arresto, Toschi ha respinto con vigore l'accusa. Nel primo interrogatorio, il 12 maggio 2014, i pubblici ministeri di Milano gli contestano il fatto: «Lei va in banca e dice “sono il fratello di un grosso generale della Guardia di finanza”». Lui reagisce: «E allora mi devono dire quali sono queste banche. Io non mi sono mai vantato. Mai nella mia vita, mai, di una situazione familiare. Mai» –:
   se non sia il caso di riconsiderare la recente nomina del generale Toschi al vertice della Guardia di finanza, in considerazione dell'inopportunità della sua posizione in ordine ai fatti descritti in premessa, che può nuocere all'onore e portare disdoro all'istituzione del Corpo della Guardia di finanza. (3-02338)
(21 giugno 2016)