TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 571 di Mercoledì 17 febbraio 2016

 
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INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA

   FAUTTILLI. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   ben 6500 medici competenti sarebbero stati cancellati nell'aprile del 2015 dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali per non aver soddisfatto il fabbisogno formativo previsto dal testo unico per la sicurezza sul lavoro decreto-legge n. 81 del 2008 (crediti Ecm adeguati, pari a 105 in medicina del lavoro) entro il 2013, nonostante la confederazione dei medici della dipendenza avesse chiesto al Ministero di posticipare tale decisione a gennaio 2016;
   il giudizio del medico competente è un documento che ha valore legale ed è utilizzato in contenziosi. La validità dei giudizi emessi dai colleghi cancellati potrebbe essere inficiata con aggravamento del contenzioso su malattie occupazionali, infortuni lavorativi ed altro;
   risulterebbe che in alcuni casi i provider non abbiano fatto a tempo a trasmettere i crediti regolarmente conseguiti, o non fossero accreditati a livello nazionale, o l'autocertificazione del medico non fosse pervenuta per un cattivo funzionamento del sistema di posta elettronica. Infine c’è chi non sarebbe arrivato per un soffio in un contesto in cui non ovunque l'offerta formativa è sufficiente;
   molti medici competenti sono anche dipendenti Asl e l'ospedale è il luogo deputato a una pronta diagnostica e terapia nelle procedure dei medici competenti;
   se 6500 medici non ottengono i crediti, vuol dire che le aziende non hanno fatto la loro formazione mentre sarebbe opportuno più tempo sia per i medici da formare, sia per le aziende. Si tratta di professionisti specializzati, di competenze che non possono essere cancellate per il mancato rispetto di una percentuale;
   l'obbligo di totalizzare il 70 per cento dei crediti in medicina del lavoro andava soddisfatto da fine 2013 ma era stato concesso un anno di proroga, mentre ad aprile 2015, è intervenuto il depennamento, e la revoca dell'incarico ai medici da parte di molti datori di lavoro;
   la Fnomceo ha messo in campo due corsi per aiutare un rapido recupero crediti e ha mediato con il Ministero della salute che sarebbe propenso a regolarizzare entro l'anno chi rientra in linea con i crediti, in pratica senza «sospenderlo» per il periodo in cui è stato depennato –:
   se non ritenga opportuno, al fine di non disperdere un patrimonio di professionalità riconosciute in nome di un fabbisogno di crediti solo sfiorato o di un sistema informatico da aggiornare, di adottare in tempi brevi iniziative volte a consentire per chi fa sorveglianza sanitaria di mettersi in linea con i crediti del triennio 2011-2013, aggiungendoli progressivamente a quelli del 2014-2016 in corso.
(3-02013)
(16 febbraio 2016)

   BALDELLI, POLVERINI, OCCHIUTO e POLIDORI. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   il 6 ottobre 2015 la Camera ha approvato all'unanimità la mozione, a prima firma del proponente del presente atto di sindacato ispettivo, recante iniziative per la tutela dei diritti dei consumatori nei confronti degli operatori del mercato dell'energia elettrica e del gas, protagonisti di comportamenti presumibilmente scorretti e attualmente oggetto di indagini, come l'emissione di maxibollette frutto di conguagli pluriennali, fatturazioni incongrue, basate su conteggi di consumi stimati, ma non effettivi, errori di valutazione, e mancate considerazioni delle autoletture;
   il testo del dispositivo approvato con un voto unanime dell'Assemblea e con il parere favorevole del Governo, impegnava il Governo stesso ad «intervenire nell'ambito delle proprie competenze, affinché fosse assicurata dagli operatori del settore una moratoria sulle recenti maxibollette derivanti da conguagli superiori a due anni, finché le autorità non abbiano completato gli accertamenti circa eventuali violazioni del codice del consumo»;
   per analoghe irregolarità, in data 25 gennaio 2016, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato ha condannato diverse società del settore idrico al pagamento di oltre due milioni di euro;
   nel frattempo, gli utenti interessati da tali «maxibollette e mega-conguagli» continuano a pagare, i più fortunati a rate, questi importi che pesano spesso come macigni sulle economie domestiche dei soggetti interessati;
   già una volta, successivamente all'approvazione della mozione di cui sopra, la mancata applicazione della moratoria è stata fatta oggetto di un'interrogazione a risposta immediata in X Commissione della Camera dei deputati e il Governo, in quella circostanza, rassicurò gli interroganti circa la volontà di mantenere l'impegno in tempi relativamente brevi;
   la senatrice Simona Vicari, Sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico a cui era stata assegnata la delega sulle materie di competenza della «Direzione generale per mercato, la concorrenza, il consumatore, la vigilanza e la normativa tecnica», che aveva seguito questo dossier e che il 7 gennaio 2016 aveva auspicato «entro gennaio obblighi stringenti a favore dei consumatori vittime dei maxiconguagli», è passata ad un altro dicastero, nell'ambito del recente «mini-rimpasto» e, attualmente, la delega risulta essere tornata in capo al Ministro interrogato –:
   quanto tempo ancora gli utenti destinatari di «maxibollette e mega-conguaglio» dovranno aspettare, pagando nel frattempo gli importi richiesti, prima che il Governo intervenga in modo finalmente risolutivo per mantenere l'impegno e far sì che gli operatori stessi «assicurino» al più presto la suddetta moratoria. (3-02014)
(16 febbraio 2016)

   PICCONE, BOSCO e MINARDO. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   il servizio di collegamento veloce alla rete internet attraverso un'infrastruttura di rete a banda ultralarga è ormai diventato elemento indispensabile di competizione economica, oltre che di modernizzazione della società;
   per chiunque utilizzi strumenti informatici e telematici la possibilità di accedere alla rete con collegamenti veloci e affidabili è di fondamentale importanza (mercato consumer, accesso ai servizi pubblici, formazione, cultura e ricerca), ma una robusta ed efficiente infrastruttura telematica sarà sempre di più – nel prossimo futuro – un fattore competitivo di primaria importanza per lo sviluppo del sistema produttivo italiano e per la collocazione vincente nelle nostre imprese all'interno delle catene di valore;
   il ritardo del nostro Paese nella realizzazione di una rete digitale a banda larga ultraveloce non può quindi essere sottovalutato: esso rappresenta (oggi in modo ancora non evidente) uno dei maggiori fattori frenanti di una concreta prospettiva di crescita economica del Paese nel futuro prossimo e nel medio termine;
   purtroppo questo ritardo perdura e gli esiti dell'ultimo monitoraggio della Commissione europea sullo stato di avanzamento dell'Agenda digitale lo evidenziano in maniera assai eloquente (venticinquesima posizione nella classifica dei 28 Stati membri dell'Unione europea);
   quasi un anno fa il Governo ha lanciato «Piano per la banda ultralarga», insieme alla «Strategia per la crescita digitale 2014-2020». Il Governo ha dimostrato in tal modo una sensibilità ai temi della crescita digitale e una volontà di rimediare al gap infrastrutturale con un'azione pubblica decisa, nella consapevolezza che gli operatori privati delle telecomunicazioni non hanno – da soli – una capacità (e una volontà) di investimento adeguata all'esigenza del sistema-Paese di recuperare in tempi rapidi il ritardo accumulato;
   questa scelta decisa è del tutto condivisibile e lungimirante ma dal marzo 2015 non si è registrata una analoga capacità decisionale nella definizione dei successivi passaggi attuativi del Piano: incertezza sui fondi pubblici disponibili, mancata definizione delle modalità di erogazione dei contributi pubblici, lunghe schermaglie con e fra gli operatori privati coinvolti;
   una volta definite le risorse pubbliche a disposizione – fondi europei FESR e FEASR e Fondo di sviluppo e coesione, per complessivi 6 miliardi di euro, a cui si dovrebbero sommarsi i fondi collegati del piano Juncker – sono rimasti in sospeso gli altri aspetti, il cui chiarimento è stato più volte preannunciato;
   intorno a Natale si sono verificate alcune novità in merito alla partecipazione di Enel all'operazione, oggetto fino ad allora solo di ipotesi di studio: il cambio di oltre trenta milioni di contatori nelle case degli italiani potrebbe diventare un'occasione per portare la fibra fino a dentro le case (FTTH) a costi contenuti;
   parallelamente il Comitato per la banda ultralarga di palazzo Chigi (Cobul) cambiava indirizzo in merito ai finanziamenti pubblici a fondo perduto (originariamente ipotizzati) delineando una modalità di realizzare la rete fissa – nelle aree a fallimento di mercato – con proprietà pubblica. Il Sottosegretario Giacomelli dichiarava in proposito che si realizzerebbe in tal modo un vero e proprio ritorno dello Stato nell'industria delle telecomunicazioni con 4 miliardi di investimenti stanziati per portare la fibra in 7.300 comuni;
   nel frattempo Enel costituiva la newco Enel open fiber, che dovrebbe avere come proprio core business proprio la stesura della fibra «spenta» e la cura della sua manutenzione, mentre Infratel, società in house del Ministero dello sviluppo economico, resterebbe proprietaria della rete –:
   quali saranno le modalità di erogazione dei finanziamenti pubblici verso le quali il Governo è orientato (considerate le dinamiche attualmente in atto nel mercato delle telecomunicazioni, nonché il nuovo ruolo assunto da Enel con la creazione di Enel open fiber) e se non intenda impegnarsi anche, per le aree a fallimento di mercato, a ricorrere ad una gara unica nazionale (cioè per tutte le zone a fallimento di mercato, o regione per regione o per più regioni). (3-02015)
(16 febbraio 2016)

   MARTELLA, TARANTO, BENAMATI, ARLOTTI, BARGERO, BASSO, BECATTINI, BINI, CAMANI, CANI, DONATI, GALPERTI, GINEFRA, IMPEGNO, MONTRONI, PELUFFO, SCUVERA, SENALDI, TENTORI, VICO, BURTONE, BRATTI, AMODDIO, CARRA, MARIANO, MOGNATO, GIOVANNA SANNA, ZAPPULLA e CINZIA MARIA FONTANA. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   in data 12 gennaio 2016 presso il Ministero dello sviluppo economico si è riunito il tavolo alla presenza di organizzazioni sindacali ed Eni circa il futuro di Versalis e della intera filiera chimica presente in Italia;
   in data 14 gennaio 2016 sempre in relazione a suddetta vertenza si è svolto un ulteriore incontro presso il Ministero dello sviluppo economico con la presenza dei Governatori delle regioni interessate;
   gli esiti degli incontri sono stati interlocutori e, comunque, Eni ha confermato la volontà di trovare un partner per Versalis;
   in data 20 gennaio 2016 si è svolto uno sciopero generale di tutti i lavoratori Eni del comparto chimico con una grandissima partecipazione, che in alcune realtà, come ad esempio Gela, hanno coinvolto un'intera comunità;
   il Ministro interrogato nel corso dell'incontro, pur nel rispetto dell'autonomia gestionale dell'Eni, ha affermato che non intende assistere ad alcun ridimensionamento del suddetto settore industriale e continua ad auspicare che si realizzi un progetto valido in grado di assicurare prospettive di crescita e di tutela dei livelli occupazionali;
   ad essere interessati sono ben 8 siti industriali, tra cui Marghera, e 6000 lavoratori diretti;
   da Eni non è venuta che una generica assicurazione di voler rispettare il prosieguo degli investimenti in corso, nonché gli accordi di programma che riguardano prevalentemente il settore della chimica verde, fattore ritenuto insufficiente da parte di sindacati e governi locali;
   le regioni hanno richiesto un ulteriore nuovo incontro per avere certezza sul piano industriale e sugli investimenti nel ramo chimico dell'ente nazionale e avere conferme sugli impegni assunti da Eni-Versalis;
   il 16 dicembre 2015 la Commissione attività produttive della Camera dei deputati ha approvato una risoluzione che impegna il Governo a vigilare sugli sviluppi aziendali e societari di Versalis in considerazione della assoluta strategicità del comparto della chimica per il Paese ed in particolare per siti come Marghera;
   i media riportano da tempo la notizia di un possibile interessamento del fondo statunitense Sk Capital e, in data 10 febbraio 2016, si è svolto un incontro, presso il Ministero dello sviluppo economico, tra il Ministro interrogato, il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Claudio De Vincenti, ed i rappresentanti di Sk Capital, che, nella circostanza, avrebbero confermato – secondo quanto riportato da organi di stampa – l'interesse all'acquisizione di una partecipazione del 70 per cento di Versalis per un valore di 1,2 miliardi di euro con l'obiettivo di assicurare lo sviluppo di una grande compagnia chimica indipendente;
   SK Capital – sempre secondo quanto riportato da organi di stampa – è una società finanziaria che opera secondo il modello del private equity, gestendo risorse di terzi per 1,5 miliardi di dollari e partecipazioni in una decina di società del settore chimico, con un giro d'affari di 8 miliardi di dollari e con circa 9 mila occupati;
   la prospettata cessione del 70 per cento di Versalis a SK Capital registra la determinata risposta delle organizzazioni sindacali con un serrato programma di mobilitazione, che muove dalla denuncia di una strategia Eni volta al ridimensionamento del perimetro delle attività domestiche e in particolare, in riferimento all'ipotesi SK Capital, dalla considerazione che «la chimica – così si osserva in un documento unitario di Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil – ha una redditività di medio e lungo periodo e ha bisogno di investimenti e ammodernamenti: un fondo di quelle dimensioni e caratteristiche non può garantire la prosecuzione della chimica italiana»;
   di fronte a tale ipotesi le organizzazioni sindacali hanno indetto ulteriori 8 ore di sciopero per il 19 febbraio 2016, richiedendo, con nota del 10 febbraio 2016, un incontro urgente al Presidente del Consiglio dei ministri ed al Ministro interrogato e rinnovando la «proposta di intervento del Fondo strategico della Cassa depositi e prestiti, prima che sia troppo tardi»;
   negli anni ’90 si è già assistito ad un progressivo indebolimento di un asset industriale molto importante per l'economia del Paese e l'Italia non può assolutamente permettersi di vedere ulteriormente ridimensionato un comparto come quello della chimica;
   questa incertezza rischia di pregiudicare molti progetti industriali tra cui appunto quelli di Porto Marghera, di Porto Torres, di Gela nell'ambito di una prospettiva di rilancio nel segmento della chimica verde con significativi investimenti –:
   quali nuove ulteriori iniziative il Governo intenda intraprendere nell'ambito di tale vertenza, anche alla luce dell'incontro con i rappresentanti di SK Capital e delle mobilitazioni che si sono registrate e si continuano a registrare nei vari territori interessati, affinché il settore industriale della chimica rimanga strategico e perché Eni rispetti gli accordi di rilancio industriale già sottoscritti per i vari siti a salvaguardia delle prospettive industriali e dei livelli occupazionali. (3-02016)
(16 febbraio 2016)

   BALDASSARRE, ARTINI, SEGONI, BECHIS e TURCO. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   nel 2001, il Ministero delle attività produttive ha richiesto all'Autorità per l'energia elettrica e il gas di riservare una quota della capacità disponibile sulle linee di interconnessione dell'Italia con l'estero, nella misura massima di 50 megawatt, per lo Stato della Città del Vaticano, ai sensi di quanto previsto dal «decreto Bersani» n. 79 del 1999 e dai successivi accordi assunti dallo Stato italiano;
   nel 2000 richiesta analoga era avvenuta per la Repubblica di San Marino, per la quale è stato disposto che, per il periodo 2002-2010, venisse riservata una quota di capacità di trasporto sull'interconnessione pari a 54 megawatt;
   dagli inizi degli anni 2000, gli Stati sopra citati indicano di anno in anno la società di fornitura di energia elettrica. Per la Repubblica di San Marino la società scelta è Enel, mentre per lo Stato del Vaticano è Acea;
   Acea acquista energia elettrica dalla Francia ad un costo inferiore rispetto a quella prodotta in Italia, grazie alla capacità di trasporto internazionale messa a disposizione dall'impianto normativo, e vende poi allo Stato del Vaticano secondo il prezzo di mercato italiano, usufruendo del rimborso per tale capacità di importazione, ossia si tratta del rimborso dei costi di trasporto, stornati da Terna, che vengono – solo in questi due casi – rimborsati e scaricati poi sulle bollette degli italiani;
   dunque, Acea guadagna dalla differenza tra i prezzi di vendita allo Stato del Vaticano, ovvero i prezzi di vendita di un normale cliente italiano e i prezzi di acquisto dal mercato francese (molto più bassi), visto che la componente relativa alla capacità di trasporto viene totalmente stornata da Terna, che poi la spalma sulle bollette elettriche dei cittadini italiani;
   tutto questo potrebbe essere spiegato da un'impalcatura normativa che garantisce a questi soggetti margini elevatissimi a fronte di un rischio di impresa praticamente nullo;
   tuttavia, oltre ai sostanziosi margini guadagnati vendendo allo Stato del Vaticano, la società capitolina ha scelto di crearsi un extra-margine non rispettando i decreti ministeriali che specificano che il rimborso della capacità di importo deve essere effettuato solo per la quota parte di energia consumata dallo Stato del Vaticano. Questo significa che se il Vaticano consumasse solo il 40 per cento della capacità assegnatagli, come effettivamente risulta, il rimborso dovrebbe riguardare solo quel 40 per cento di capacità di trasporto. Invece Acea, con l'aiuto del suo distributore Acea Distribuzione, detentore dei dati di consumo effettivi del Vaticano, non mette a disposizione di Terna i dati di consumo che annualmente servono a rinnovare la fornitura del Vaticano;
   Terna, quindi, non è in grado di effettuare le verifiche dei reali consumi, così come sarebbe imposto dai decreti ministeriali, e in tal modo Acea Distribuzione può falsare i dati di consumo, facendo risultare l'intero slot di capacità come rimborsabile dal sistema italiano, compreso quindi il 60 per cento di energia importata e non consumata. Questo avviene a danno dei consumatori italiani che si ritrovano a dover pagare nelle loro bollette questo extra-profitto «abusivo», pari, ad esempio, a 5.488.000 euro per il solo 2013;
   l'energia non fornita al Vaticano – e rimborsata attraverso le bollette dei cittadini – rimane nella disponibilità di Acea, che la rivende ai clienti finali;
   il Governo Renzi nel 2015 ha ridotto del 10 per cento la capacità assegnata al Vaticano e rimborsabile per Acea, ma non ha voluto indagare ulteriormente e più in dettaglio sulla questione, a discapito dei costi inseriti nelle bollette dei cittadini;
   San Marino ha invece circa 32mila abitanti con un consumo annuo del 60 per cento dell'elettricità (270 mila megawatt su circa 470 mila), alla quale avrebbe diritto grazie alla riserva garantita dallo Stato italiano. Tutto questo vanta un diritto decennale, ribadito da un accordo con l'Italia del 2011, e che in teoria potrebbero andare avanti fino al 2020 –:
   se il Ministro interrogato non reputi urgente assumere iniziative volte a permettere a Terna di effettuare le verifiche dei reali consumi, per l'anno 2015 e per gli anni avvenire, dello Stato del Vaticano e dello Stato di San Marino, come imposto dai decreti ministeriali, affinché non solo possa renderli pubblici, ma anche in modo che sia rimborsata la sola capacità di energia consumata dai due Stati, in modo da non addebitare in bolletta ai consumatori italiani l'extra-profitto non lecito dei distributori di energia Acea ed Enel.
(3-02017)
(16 febbraio 2016)

   BOMBASSEI e GALGANO. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   gli elevati ritardi di pagamento delle pubbliche amministrazioni rappresentano una disfunzione grave, su cui sarebbe stato opportuno intervenire ben prima della crisi globale; in numerosi casi la mancata o ritardata riscossione dei crediti ha determinato, infatti, la definitiva chiusure delle aziende coinvolte;
   il nostro Paese è già stato messo in mora dalle istituzioni europee in ragione dei tempi eccessivamente dilatati nei pagamenti delle pubbliche amministrazioni. Da ciò si rende necessaria l'adozione di interventi di natura duratura e strutturale;
   il ritardo di pagamento nelle transazioni commerciali trova la propria disciplina nel decreto legislativo n. 231 del 2002, adottato in attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Il sintagma «transazioni commerciali», utilizzato in sede comunitaria, va inteso in senso atecnico e si riferisce ai contratti che comportano la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo;
   la normativa europea si prefigge l'obiettivo di tutelare il creditore nel caso in cui questi non riceva il corrispettivo nei tempi dovuti; si mira ad evitare il ripetersi di abusi da parte del debitore. Le modalità adottate dal legislatore per raggiungere tale risultato si sostanziano nell'aumento dei tassi di mora, nel risarcimento del danno subito dal creditore e nello snellimento del processo esecutivo;
   il problema del ritardo nei pagamenti riguarda segnatamente la contrattazione con la pubblica amministrazione i cui ritardi, spesso, sono stati una concausa del dissesto di molte imprese. La normativa prevede l'applicazione di un tasso di interessi elevato e l'automatica decorrenza degli stessi senza necessità della previa messa in mora;
   l'articolo 7 del decreto legislativo n. 231 del 2002, infatti, prevede una forma di nullità volta a colpire gli accordi tra le parti aventi ad oggetto la data del pagamento e del conseguente ritardo. Al di fuori di questi due aspetti, le parti possono derogare convenzionalmente alla disciplina normativa e la libertà contrattuale dei contraenti rimane inalterata. Il «rafforzamento» consiste, dunque, nella comminatoria della nullità. In particolare, il citato articolo 7 colpisce le clausole contrattuali considerate gravemente inique a danno del creditore ed oltre alla nullità dispone l'integrazione legale delle clausole nel contratto ai sensi dell'articolo 1339 del codice civile;
   in materia, stante la recrudescenza del fenomeno del ritardo nei pagamenti, è intervenuta la direttiva 2011/7/UE del 16 febbraio 2011, la quale ha differenziato la disciplina applicabile a seconda che i contratti riguardino solo le imprese o le imprese e le pubbliche amministrazioni. Il decreto legislativo n. 231 del 2002, così come modificato dal decreto legislativo n. 192 del 2012, include nella definizione di pubblica amministrazione anche l'amministrazione aggiudicatrice: tale espressa menzione dirime i dubbi esegetici sorti nel tempo circa l'applicabilità della normativa anche agli appalti pubblici;
   circa i termini di pagamento, l'articolo 4 del decreto legislativo n. 231 del 2002, come modificato dal decreto legislativo n. 192 del 2012 e dalla legge n. 161 del 2014, dispone che le imprese private devono ricevere il corrispettivo entro trenta giorni dalla consegna del bene o dalla prestazione del servizio. Il dies a quo decorre rispettivamente dalla data di ricevimento della fattura o dalla richiesta di pagamento del creditore, dalla consegna della merce o dalla prestazione del servizio, dalla data di accettazione della merce o del servizio. La suddetta disciplina è dispositiva ma rafforzata. Le parti, infatti, possono derogarvi con dei limiti. Il termine di adempimento può essere portato sino a 60 giorni (ma non oltre) ed è richiesta la forma scritta ad probationem. Naturalmente questa clausola, come le altre, rimane soggetta al limite della grave iniquità di cui all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 231 del 2002;
   il decreto legislativo n. 192 del 2012 ha aumentato la misura del tasso di mora con un palese intento sanzionatorio: in tal senso deve vedersi anche l'ulteriore aggravio di 40,00 euro disposto per ogni giorno di ritardo a titolo di risarcimento delle spese di recupero (articolo 6 del decreto legislativo n. 231 del 2002). Inoltre, l'articolo 7-bis, introdotto dalla legge 30 ottobre 2014, n. 161 (recante «Disposizioni per l'adempimento degli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea»), prevede altresì il risarcimento del danno che va ad aggiungersi alla comminatoria di nullità per le predette clausole. In particolare, la norma prevede un diritto del creditore alla pretesa risarcitoria allorché le clausole relative al tasso di interesse o al risarcimento per i costi di recupero risultino gravemente inique;
   i dati Eurostat evidenziano che, anche dopo gli interventi varati a partire dalla primavera del 2013, nel 2014 l'Italia rimane il Paese europeo con il più alto debito commerciale verso le imprese per beni e servizi – per la sola parte di spesa corrente – e pari al 3,0 per cento del prodotto interno lordo, la più alta dell'Unione europea;
   anche una recente analisi della Banca d'Italia indica che «il fenomeno dei debiti commerciali delle amministrazioni pubbliche non è ancora stato ricondotto entro limiti fisiologici»; nel 2014 nel nostro Paese i debiti commerciali della Pubblica amministrazione ammontavano a 71,6 miliardi di euro;
   il fenomeno dei ritardi di pagamento della pubblica amministrazione assume dimensioni che non hanno pari rispetto agli altri Stati europei. Alcune ricerche confermano che per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega 41 giorni in più della Spagna, 50 giorni in più del Portogallo, 82 giorni in più della Francia, 115 giorni in più della Germania e 120 giorni in più del Regno Unito;
   la criticità dei tempi di pagamento appare confermata dall'analisi dei dati Istat e del Ministero dello sviluppo economico a novembre 2015 (elaborata dall'Ufficio studi di Confartigianato) sui pagamenti delle pubbliche amministrazioni relative agli ambiti delle amministrazioni periferiche dello Stato, enti del servizio sanitario nazionale, enti locali e regioni e province autonome, da cui emerge che il tempo medio di pagamento in media nazionale è di 99 giorni, ancora lontano dai termini legali. Infatti, considerando un limite di 60 giorni per acquisti del servizio sanitario nazionale e di 30 giorni per gli altri settori della pubblica amministrazione, il limite massimo dei pagamenti della pubblica amministrazione dovrebbe essere in media di 43 giorni, ben 56 giorni in meno dei 99 giorni rilevati;
   in base a tali dati, l'analisi dei tempi di pagamento per territorio evidenzia ampie differenze nelle varie regioni, con punte più elevate nel Mezzogiorno con 114 giorni e nel Centro Italia con 108 giorni, mentre nel Nord Ovest con 89 giorni e nel Nord Est con 86 giorni i tempi risultano sotto la media. L'effetto negativo del maggiore ritardo nei pagamenti delle pubbliche amministrazioni nel Mezzogiorno viene amplificato dal maggiore costo del denaro che, secondo i dati diffusi da Confartigianato, a giugno 2015 registra uno spread di 208 punti base rispetto al Centro Nord. Si tratta di 12,9 milioni di fatture complessive, per un importo medio di circa 5.500 euro e un totale di oltre 71 miliardi di euro. Nel dettaglio regionale si osservano i tempi di pagamenti più lunghi in Calabria con 149 giorni medi, seguiti da Campania con 128 giorni, Lazio con 119 giorni, Sicilia con 117 giorni, Puglia, Abruzzo e Piemonte, tutte e tre con 110 giorni. Tempi più contenuti e inferiori ai 90 giorni si registrano in Lombardia con 89 giorni, Veneto con 81 giorni, Umbria con 71 giorni e Trentino-Alto Adige con 62 giorni;
   nonostante l'Italia abbia recepito ormai da tre anni la direttiva comunitaria che fissa a trenta giorni i termini di pagamento e nonostante l'obbligatorietà di strumenti come la fatturazione elettronica, i tempi di pagamento sono piuttosto lunghi;
   secondo i dati del Ministero dell'economia e delle finanze, gli enti virtuosi «veri», cioè quelli che effettivamente pagano entro i limiti di legge (in media in 20 giorni), rappresentano solo il 13,4 per cento della spesa complessiva. Al contrario, dopo 34 mesi dall'entrata in vigore della normativa, per l'86,6 per cento della spesa totale rimangono ancora disattese le prescrizioni della direttiva europea;
   un ulteriore indicatore significativo è che per gli enti virtuosi «veri» l'importo medio della fattura è di 11.196 euro, mentre quello degli altri enti (che in media pagano dopo 141 giorni) la fattura media scende a 5.111 euro, a dimostrazione che a soffrire di queste tempistiche di pagamento sono proprio le realtà produttive di micro dimensione, che più spesso rimangono invischiate tra le maglie dei ritardi della pubblica amministrazione;
   a fronte del trend negativo sopra descritto riguardante le transazioni commerciali tra imprese e pubblica amministrazione, gli ultimi dati pubblicati dall'osservatorio di Cerved Gruop, aggiornati al terzo trimestre del 2015, che analizzano le abitudini di pagamento su un panel di circa tre milioni di aziende italiane, evidenziano un netto miglioramento nella tempistica di liquidazione delle fatture tra imprese con standard pari a quelli registrati nel 2012; il saldo arriva, infatti, in media a 76 giorni, quasi due giorni in meno del 2014 con un calo del ritardo che è di poco superiore alle due settimane, al minimo da tre anni. In flessione risulta essere anche la casistica dei gravi ritardi (di oltre due mesi) che nel terzo trimestre del 2015 sono stati pari al 6,6 per cento;
   i dati pubblicati evidenziano, altresì, una diminuzione sensibile del numero di società protestate pari a 13.200 nel terzo trimestre del 2015, un quinto in meno rispetto all'anno precedente e al di sotto della quota 15.000 che rappresentava la media nel 2007. I settori maggiormente coinvolti risultano essere il manifatturiero e dei servizi, meno virtuosi il sistema moda (-2,5 per cento), i prodotti intermedi (-4,5 per cento), il largo consumo (-8 per cento). Per quanto attiene, invece, le condizioni concordate tra le aziende, la formula più utilizzata è quella dei 60 giorni. Dall'analisi per classe dimensionale – secondo i dati «payline» di Cerved Gruop – emerge anche un incremento della puntualità delle microimprese e le piccole e medie imprese, tradizionale anello debole della filiera della fornitura. I tempi medi si riducono nell'industria e nel terziario mentre c’è una battuta d'arresto al miglioramento nelle costruzioni. Le imprese della distribuzione hanno limato di 2,6 giorni i ritardi, quelle della logistica di 1,5 giorni e i servizi non finanziari di un giorno. Stabili le costruzioni e in controtendenza i media e l'intrattenimento (+0,6 giorni), i servizi finanziari (+1,5) e l'immobiliare (+5,2 giorni). Nel manifatturiero il saldo arriva dopo 80,3 giorni grazie a un calo dei ritardi che nella meccanica è molto consistente (-6 giorni) e nel largo consumo (-4,8). In alcuni casi l'allungamento dei tempi concordati, come si è visto nel Nord Est, viene letto come il segno di una maggiore flessibilità dei fornitori che concedono scadenze un po’ più lunghe;
   nonostante gli ultimi dati diffusi e nonostante le evoluzioni normative, l'obbligo europeo ed il continuo richiamo a normalizzare nel nostro Paese sul tema dei tempi di pagamento, la situazione in Italia resta ancora grave con migliaia di aziende che rischiano il fallimento a causa di crediti non pagati;
   l'incertezza sulla tempistica di pagamento non solo rende problematici i rapporti commerciali, ma rischia anche di allontanare le imprese più rappresentative del nostro Paese e di favorire comportamenti non corretti, pesando per di più sui costi dei servizi per le Amministrazioni, in quanto le aziende incorporano nei prezzi l'onere atteso dei ritardi;
   la mancata corresponsione di quanto dovuto alle imprese dalla pubblica amministrazione genera, altresì, una spirale che si ripercuote sui fornitori ed i dipendenti, con gravi conseguenze sul nostro tessuto produttivo già profondamente vessato dalla profonda crisi economica che ha colpito il nostro Paese –:
   a quanto ammontino allo stato attuale e quali siano i tempi medi di pagamento dei debiti commerciali delle pubbliche amministrazioni, quale sia l'ammontare dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione maturati al 31 dicembre 2015 e ad oggi non riscossi, anche se certificati, nonché quali misure il Governo ritenga opportuno adottare al fine di potenziare e rendere più efficaci gli strumenti normativi finora adottati di riduzione dei tempi medi di pagamento delle pubbliche amministrazioni e di recupero dei crediti vantati dalle imprese, al fine di consentire alle stesse di competere alla pari con i principali partner europei ed internazionali, in questa fase delicata di rilancio del tessuto produttivo italiano, dell'occupazione e, in generale, dell'economia nazionale. (3-02018)
(16 febbraio 2016)

   PAGLIA, FASSINA, SCOTTO, AIRAUDO, FRANCO BORDO, COSTANTINO, D'ATTORRE, DURANTI, DANIELE FARINA, FAVA, FERRARA, FOLINO, FRATOIANNI, CARLO GALLI, GIANCARLO GIORDANO, GREGORI, KRONBICHLER, MARCON, MELILLA, NICCHI, PALAZZOTTO, PANNARALE, PELLEGRINO, PIRAS, PLACIDO, QUARANTA, RICCIATTI, SANNICANDRO, ZARATTI e ZACCAGNINI. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   al fine di tutelare e ristorare coloro che avevano investito in modo inconsapevole i propri risparmi in strumenti finanziari subordinati emessi dalle quattro banche poste in risoluzione alla fine di novembre 2015 (Banca delle Marche, Banca popolare dell'Etruria, Cassa di risparmio di Ferrara e Cassa di risparmio di Chieti), i commi da 855 a 861 dell'articolo 1 della legge n. 208 del 2015 (legge di stabilità per il 2016), istituiscono un Fondo di solidarietà alimentato dal Fondo interbancario di tutela dei depositi, con una dotazione di 100 milioni di euro che opererà, in conformità con la normativa europea in tema di aiuti di Stato, soltanto nel limite di spesa della stessa. Le stesse disposizioni, poi, rimandano a provvedimenti di rango secondario (decreti del Presidente del Consiglio dei ministri e decreti ministeriali) la definizione delle modalità di gestione del Fondo e delle condizioni di accesso al rimborso, tenendo conto della vulnerabilità socioeconomica dei danneggiati, dei rendimenti ottenuti nel tempo e del tasso dei prodotti sottoscritti;
   la dotazione del Fondo, pur essendo di per sé considerevole, è comunque pari a meno di un terzo del totale delle perdite subite dai sottoscrittori dei bond subordinati; infatti secondo stime presentate in Parlamento il valore azzerato nel settore retail sfiora i 350 milioni di euro così distribuiti: 150 milioni di euro in capo ai 4.700 obbligazionisti di Banca Etruria, per un importo medio pro capite di 31.900 euro; 49 milioni di euro in capo ai 4.150 obbligazionisti di Carife, per un importo medio pro capite di 11.800 euro; 26 milioni di euro in capo ai 718 obbligazionisti di Carichieti, per un importo pro capite di 36.200, infine 105 milioni di euro in capo a 930 obbligazionisti di Banca Marche, per un importo medio pro capite pari a 112.900 euro;
   il 21 gennaio 2016 il Sottosegretario all'economia e alle finanze, Enrico Zanetti, rispondendo ad un'interrogazione a risposta immediata in Commissione finanze della Camera dei deputati, ha dichiarato che: «qualora dovesse emergere che la stima delle perdite sia stata effettuata in termini eccessivamente prudenziali ed emergessero plusvalenze finali ulteriori rispetto all'impegno finanziario sostenuto dal Fondo di risoluzione, il Governo si impegna, nel rispetto della vigente normativa nazionale e comunitaria, a intraprendere ogni utile iniziativa affinché le eventuali plusvalenze possano essere destinate a coprire in parte le obbligazioni subordinate, ed in caso di ulteriore surplus, a soddisfare anche gli azionisti». Nella medesima occasione il Sottosegretario, interrogato sul motivo per il quale il Governo si fosse rifiutato di inserire in una norma di rango primario, cioè in sede di esame della legge di stabilità per il 2016, una disposizione che avesse stabilito con chiarezza quanto si era appena impegnato a fare attraverso un atto normativo di rango secondario, ha ritenuto sufficiente richiamare il principio generale stabilito dal decreto legislativo n. 180 del 2015, il quale afferma che, nel caso di applicazione di una procedura di risoluzione di banche, agli azionisti e agli obbligazionisti non si può applicare un trattamento peggiorativo rispetto a quello che sarebbe spettato loro nel caso di liquidazione coatta amministrativa della banca interessata;
   non è possibile con norme di rango secondario, quali sono i decreti ministeriali o i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, aumentare i livelli di rimborso già stabiliti da una norma di rango primario, nella fattispecie dalle disposizioni di cui ai citati commi da 855 a 861 dell'articolo 1 della legge n. 208 del 2015 (legge di stabilità per il 2016). Secondo il principio di legalità, infatti, essi devono essere pienamente conformi alla legge dalla quale discendono;
   il Governo aveva manifestato pubblicamente l'intenzione di inserire la definizione più puntuale delle modalità di rimborso e della composizione del collegio arbitrale nel decreto-legge 14 febbraio 2016, n. 18, recante la riforma delle banche di credito cooperativo, la garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze, il regime fiscale relativo alle procedure di crisi e la gestione collettiva del risparmio, salvo poi escluderlo in ultima istanza e rimandare tutto ai decreti ministeriali già previsti –:
   se tale scelta sia da intendersi come evidenza della volontà del Governo di limitare il quantum dei rimborsi ai soli 100 milioni di euro previsti dalla legge di stabilità per il 2016, quale dotazione del Fondo di solidarietà alimentato dal Fondo interbancario di tutela dei depositi o, diversamente, con quale provvedimento abbia intenzione di stabilire che lo stesso sia alimentato da eventuali plusvalenze derivanti dalla cessione degli asset e dei crediti delle quattro banche sottoposte a procedura di risoluzione. (3-02019)
(16 febbraio 2016)

   GUIDESI, FEDRIGA, ALLASIA, ATTAGUILE, BORGHESI, BOSSI, BUSIN, CAPARINI, GIANCARLO GIORGETTI, GRIMOLDI, INVERNIZZI, MOLTENI, GIANLUCA PINI, RONDINI, SALTAMARTINI e SIMONETTI. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere — premesso che:
   il «giallo» di via XX settembre sulla possibilità – ovvero necessità – di una manovra correttiva, alla luce dei dati Istat sul prodotto interno lordo peggiori rispetto alle stime del Governo, ha riempito le notizie stampa degli ultimi giorni;
   durante il programma «L'Intervista», il Vice Ministro Zanetti ha detto che è «prematuro» parlare di una manovra correttiva, ma «non è escluso che possano essere necessari piccoli aggiustamenti»; immediata la smentita dell'altro Vice Ministro, Morando, per il quale quello degli «aggiustamenti è un problema che non esiste. Non vedo proprio perché in una fase come questa, in cui in Europa dobbiamo chiudere sulle clausole di flessibilità, dobbiamo parlare di aggiustamenti»;
   è chiaro dunque che al momento il Ministero dell'economia e delle finanze è in attesa del giudizio della Commissione europea, ma è anche un dato di fatto che lo 0,6 per cento di incremento del prodotto interno lordo certificato per il 2015 è inferiore alle attese del Governo e quindi rende credibile l'indiscrezione di una «manovra light» sui conti pubblici da 2-4 miliardi di euro;
   una manovra correttiva che agirà interamente sulle spese preoccupa non poco gli interroganti, specie in ragione dell'altro mistero di questi giorni circa la volontà del Governo di tagliare le pensioni di reversibilità, qualificandole come prestazione assistenziale, invece che previdenziale, ed agganciando il trattamento all'Isee della famiglia –:
   quale sia la posizione ufficiale ed univoca del Governo in merito all'ipotesi di una manovra correttiva, come intenda procedere qualora fossero necessari interventi per bilanciare lo scostamento rispetto alle previsioni formulate nel documento di economia e finanza e se l'ipotesi di una revisione in senso penalizzante dell'istituto della reversibilità trovi conferma. (3-02020)
(16 febbraio 2016)

   L'ABBATE, PESCO, RUOCCO, ALBERTI, VILLAROSA e PISANO. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   il 4 dicembre 2013 la Commissione europea ha comminato sanzioni per un totale di 1,7 miliardi di euro a carico di alcuni istituti finanziari (tra cui Deutsche Bank, Société Générale, Royal Bank of Scotland, JP Morgan e Citigroup), ritenuti colpevoli – al termine di un'indagine condotta dalla stessa Commissione – di aver costituito cartelli illegali allo scopo di manipolare due tassi interbancari, l'Euribor e il Libor, utilizzati nel mercato dei mutui immobiliari e dei derivati. In particolar modo, le azioni irregolari contestate sono due: a) la prima posta in essere dal 2005 al 2008 consistente nella manipolazione del tasso Euribor relativamente ai derivati denominati in euro; b) la seconda posta in essere mediante un cartello attivo tra il 2007 e il 2010 e consistente nella manipolazione del tasso Libor relativamente ai derivati denominati in yen;
   l'Euribor ed il Libor sono due dei tre principali tassi di riferimento per il mercato dei derivati e dei mutui che vale il 53 per cento del prodotto interno lordo europeo, condizionano i prezzi di strumenti finanziari e influenzano diversi miliardi di trattative. Un'intesa tra le banche per orientare il loro valore produce profitti immensi con l'effetto di generare anche pesanti perdite per consumatori e investitori, distorsioni nell'economia reale ed una crescente sfiducia verso le istituzioni, nazionali ed europee, preposte alla vigilanza in materia;
   la manipolazione dei suddetti tassi interbancari costituisce una condotta anticoncorrenziale in violazione dell'articolo 101 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Il Commissario europeo per la concorrenza Joaquìn Almunia – investito della questione – ha dichiarato: «Quel che è scioccante non è solo la manipolazione degli indici, ma anche la collusione tra banche che si suppone siano concorrenti»;
   da quanto si apprende da fonti stampa e dalle indagini effettuate dalle competenti istituzioni europee gli accordi che conducevano alla definizione di un determinato tasso per una certa quantità di derivati in vendita in una certa data erano stilati direttamente tra i trader degli istituti bancari, mascherati con «nomi d'arte» e pronti a sfruttare anche chatroom delle piattaforme finanziarie (a partire da piattaforma di Bloomberg);
   la condotta degli istituti bancari ha determinato una rilevante distorsione del sistema economico e finanziario e le sanzioni comminate dalla Commissione europea non implicano nessuna forma di risarcimento per lo Stato italiano, gli enti locali ed i cittadini che utilizzano quotidianamente strumenti finanziari parametrati ai tassi Euribor e Libor;
   da fonti stampa si apprende che la sentenza di condanna nei confronti delle banche risulti ancora non pubblica, o meglio segreta. La pubblicazione della sentenza potrebbe determinare una crescita esponenziale dei ricorsi ed il conseguente risarcimento del danno da parte di enti pubblici ed ignari cittadini e ciò determinerebbe un'esposizione per diversi miliardi di euro degli istituti di credito colpevoli. Da una stima la sola manipolazione dell'Euribor riguarderebbe prodotti finanziari per un valore superiore a 400 mila miliardi di euro pari ad oltre 200 volte il debito pubblico italiano. Un eventuale risarcimento – da parte delle banche interessate – del solo 1 per cento del valore stimato sarebbe bari a 4 mila miliardi di euro. Nel caso dello Stato italiano dal 2005 al 2008 il valore complessivo dei mutui a tasso variabile contratti dai cittadini italiani è pari a circa 230 miliardi di euro e la relativa quota interessi parametrata al tasso Euribor è pari a 30 miliardi di euro. Secondo le stime effettuate da diverse associazioni di categoria almeno 16 dei 30 miliardi di euro dovrebbero essere restituiti ai cittadini. In particolar modo l'Adusbef sostiene che le violazioni commesse potrebbero implicare la nullità dei contratti e qualora questa ipotesi dovesse verificarsi le banche dovrebbero restituire il valore complessivo della quota interessi (30 miliardi di euro);
   alla presentazione della richiesta di accesso agli atti – al fine di prendere visione della suddetta sentenza – il direttore generale della direzione concorrenza, il tedesco Johannes Laitenberger, ha dichiarato che la pubblicazione del documento potrebbe arrecare pregiudizio alle indagini ancora in corso e che la normativa europea tutela la riservatezza delle banche condannate. La stessa direzione aggiunge che tale riservatezza potrebbe venir meno solo in relazione ad una manifestazione di interesse pubblico che non sembrerebbe dimostrata nelle istanze presentate. Quindi si evince che, nonostante la truffa e la violazione della concorrenza riguardi cittadini, istituzioni pubbliche e tutto il sistema economico e finanziario europeo, le competenti istituzioni europee non reputano tali circostante rilevanti per la dichiarazione di pubblico interesse;
   in sede di risposta all'interrogazione n. 5/01728 a prima firma del deputato Daniele Pesco, il Ministero dell'economia e delle finanze ha dichiarato che: «(...) la Commissione vigila perché siano applicati i principi fissati dagli articoli 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Istruisce, a richiesta di uno Stato membro o d'ufficio e in collegamento con le autorità competenti degli Stati membri che le prestano assistenza, i casi di presunta infrazione ai principi suddetti. Qualora accertasse l'esistenza di violazioni, propone i mezzi per porvi termine. Inoltre, anche l'articolo 105, comma 1, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea prevede che la Commissione europea vigili affinché siano applicati i principi fissati dallo stesso Trattato con riguardo alla tutela della concorrenza. Spetta quindi alla Commissione europea di constatare l'esistenza di infrazioni. Il ruolo degli Stati membri nella fattispecie viene circoscritto dallo stesso Trattato al solo richiedere che la Commissione agisca, ove essa non ne avesse già preso atto d'ufficio, o al prestare assistenza alla stessa nello svolgimento di tale compito» –:
   se il Governo abbia richiesto ovvero intenda richiedere la pubblicazione della decisione di condanna della Commissione europea relativa alla manipolazione del tasso Euribor al fine di tutelare gli interessi pubblici e di agevolare i cittadini italiani e gli enti locali nel proporre le istanze di risarcimento del danno nelle competenti sedi giudiziarie, quali siano i mezzi proposti dallo Stato italiano e quali mezzi intenda proporre alle competenti istituzioni europee per porre rimedio alle violazione dei principi fissati dal Trattato sul funzionamento dell'Unione europea da parte degli istituti di credito e se intenda proporre, nelle opportuni sedi, un intervento dello Stato italiano al fine di prestare assistenza alla Commissione nello svolgimento dei preposti compiti in materia. (3-02021)
(16 febbraio 2016)