TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 633 di Martedì 7 giugno 2016

 
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INTERROGAZIONI

A)

   TERZONI, ZOLEZZI, MICILLO, DAGA, DE ROSA, MANNINO, BUSTO, VIGNAROLI, AGOSTINELLI e CECCONI. – Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e al Ministro della salute. – Per sapere – premesso che:
   nella regione Marche, come nel resto del territorio nazionale, si susseguono notizie di ritrovamenti di discariche abusive nelle quali, oltre ad altri materiali, vengono molto spesso individuati inerti contenenti amianto;
   è del 3 marzo 2016 la notizia dell'ultima individuazione, in ordine di tempo, di una discarica abusiva lungo le rive del fiume Esino in località Sant'Elena del comune di Serra San Quirico in provincia di Ancona, nella quale erano appunto presenti residui di amianto. In questo caso gli agenti del Corpo forestale dello Stato di Genga hanno posto sotto sequestro un'area di circa 2 mila metri quadri adiacenti il corso del fiume;
   benché in Italia sia vietato l'impiego di amianto dal 1992, ai sensi della legge 27 marzo 1992, n. 257, compresa la sua importazione, sussistono su tutto il territorio nazionale diversi milioni di tonnellate di materiali contenenti amianto, localizzati in siti industriali e residenziali, pubblici e privati;
   in attuazione della citata legge sono stati emanati numerosi provvedimenti volti, tra l'altro, a definire le modalità di predisposizione dei «piani regionali amianto» (previsti dall'articolo 10 della legge), di valutazione del rischio amianto e di gestione dei manufatti contenenti amianto, nonché le tipologie di interventi per la bonifica;
   ai fini della mappatura, di cui alla legge n. 93 del 2001, e successive integrazioni e modifiche, le regioni e le province autonome hanno obbligo di trasmettere al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare i dati relativi alla presenza di amianto, aggiornando i dati entro il 30 giugno di ogni anno, ed inoltre è stata predisposta dall'Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro (Inail), su apposita convenzione con il Ministero, una banca dati relativa all'amianto;
   nel marzo 2013 il Governo ha effettuato un'analisi che si muove in 3 direzioni: tutela della salute, tutela dell'ambiente e aspetti di sicurezza sul lavoro e previdenziali. Dal punto di vista ambientale, nel definire gli obiettivi e le azioni contro l'amianto da intraprendere a tutti i livelli, sia nazionale che locale, il piano individua tra le priorità la mappatura dei materiali contenenti amianto, l'accelerazione dei processi di bonifica, l'individuazione dei siti di smaltimento e la razionalizzare della normativa di settore;
   dai dati in possesso degli interroganti sembrerebbe che il piano nazionale amianto predisposto all'inizio del 2013 sia stato successivamente sospeso per mancanza di copertura finanziaria;
   dai dati resi noti dal sito del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, nella sezione dedicata al piano nazionale amianto, aggiornato a novembre 2014, risulterebbe che i siti di amianto in Italia attualmente censiti sono 38.000. I dati sono ampiamente incompleti a causa dell'incompletezza delle informazioni relative a molte regioni e per l'assenza dei dati relativi ai siti attualmente esistenti nelle regioni Calabria e Sicilia, perché le suddette regioni non hanno trasmesso alcun dato in merito; di questi 38.000 siti solo 1.957 sono stati bonificati, 571 parzialmente bonificati ed oltre 35.000 sono i siti da bonificare;
   tra l'altro, dal dossier elaborato dall'associazione Legambiente («Liberi dall'amianto», Roma, 28 marzo 2015) si evince che non tutte le regioni hanno approvato il piano regionale amianto, a distanza di 23 anni dalla legge n. 257 del 1992 che lo prevedeva entro 180 giorni dalla sua entrata in vigore: mancano ancora all'appello l'Abruzzo, la Calabria, il Lazio, il Molise, la Puglia e la Sardegna;
   il censimento delle coperture in amianto resta uno strumento imprescindibile che consente di ottenere la fotografia reale della situazione su tutto il territorio nazionale e poter così controllare eventuali smaltimenti illeciti;
   ogni anno in Italia muoiono circa 4.000 persone per malattie asbesto correlate, con oltre 15.000 casi di mesotelioma maligno diagnosticato dal 1993 al 2008 secondo i dati del registro nazionale mesotelioma di Inail;
   il Governo in tema di interventi a favore dei lavoratori colpiti da patologie correlate all'amianto e per la bonifica dei siti a rischio ha accolto, tra gli altri, i seguenti ordini del giorno:
    a) 9/02679-bis-B/07 a prima firma Terzoni, con il quale il Governo si è impegnato «a verificare che sia terminata la mappatura dell'amianto in tutti gli altri locali pubblici e aperti al pubblico entro il 31 dicembre 2016»;
    b) 9/03444-A/185 a prima firma Zolezzi, con il quale il Governo si è impegnato «a valutare l'opportunità di prevedere una strategia di defiscalizzazione eventualmente utilizzando anche il credito fiscale per gli interventi che riguardino la rimozione e la bonifica dell'amianto nell'intero comparto di edilizia privata, purché le regioni interessate siano dotate di un piano di gestione amianto, comprensivo in particolare di mappatura e di siti di inertizzazione o discarica di capienza adeguata ai quantitativi di amianto stimati sul rispettivo territorio regionale»;
    c) 9/02679-bis-B/073 a prima firma Busto, con il quale il Governo si è impegnato «a verificare, d'intesa con le regioni, che entro il 30 giugno 2015 sia eseguita la mappatura dell'amianto contenuto nelle scuole, per tutte le regioni italiane, e si proceda entro il 1o gennaio 2020 alla rimozione dello stesso»;
    d) 0/2111/7/13 presentato da Vilma Moronese il 3 novembre 2015 e modificato mercoledì 4 novembre 2015, seduta n. 185, con il quale il Governo si è impegnato ad assumere iniziative per incrementare, compatibilmente con gli attuali vincoli di finanza pubblica, le risorse assegnate al fondo per le vittime dell'amianto, istituito dalla legge n. 244 del 2007 (legge finanziaria per il 2008), per garantire benefici ai lavoratori colpiti da patologie correlate all'amianto, nonché per estendere le prestazioni del fondo non solo a coloro che abbiano contratto una patologia correlata per esposizione professionale all'amianto, ma anche ai familiari delle vittime o a coloro che, pur non lavorando direttamente con l'amianto, siano stati comunque esposti, avendo poi contratto tali patologie; ad approvare definitivamente il piano nazionale amianto, con una conseguente mappatura della sua presenza sul territorio nazionale, e ad attivarsi, per quanto di competenza, in accordo con le regioni, affinché, in tempi congrui, sia concluso il programma dettagliato di censimento dei materiali contaminati tramite i piani regionali amianto;
    e) 9/1676/23 presentato da Vilma Moronese il 3 novembre 2015, seduta n. 534, con il quale il Governo si è impegnato a far sì che il Ministero dell'ambiente e della tutela e del territorio e del mare e il Ministero della salute procedano alla pubblicazione, in «open data» sul proprio sito ufficiale, della mappa dettagliata di tutti i siti a rischio censiti dalle regioni, anche se incompleta, insieme a una precisa e scadenzata «road map» per il completamento della mappatura nazionale; alla predisposizione di un'area web sul proprio sito istituzionale, dedicata ai cittadini, al fine di offrire loro strumenti di informazione adeguati –:
   se intendano assumere ogni iniziativa di competenza per avere un quadro completo e aggiornato dei dati necessari per il completamento del piano nazionale amianto, in modo da poter avere una completa catalogazione e gestione delle informazioni sulle reali situazioni di rischio amianto presenti su tutto il territorio nazionale, come richiesto anche dall'Unione europea in materia di censimento;
   se reputino opportuno predisporre un'area web dedicata ai cittadini, al fine di offrire loro strumenti adeguati, ad esempio attraverso procedure informative semplificate e frequently asked questions (faq) con moduli per la raccolta delle segnalazioni, per permettere agli stessi di riconoscere e denunciare la presenza sul territorio di prodotti contenenti amianto, e conseguentemente intervenire nel modo più efficiente possibile rimuovendo e bonificando le zone dei ritrovamenti;
   quali iniziative, nei limiti delle proprie competenze, intendano intraprendere per promuovere l'avvio delle bonifiche dei siti industriali e la rimozione dell'amianto dagli edifici, attraverso l'attuazione di quanto previsto nel piano nazionale, con priorità per le aree ad alta frequentazione pubblica (scuole, impianti sportivi e infrastrutture) con la più alta priorità di rischio (classe di priorità del rischio 1);
   se non ritengano necessario assumere iniziative, anche a livello normativo, per uniformare su tutto il territorio nazionale i metodi di censimento delle coperture in amianto;
   se siano in grado di relazionare rispetto allo stato di attuazione delle misure e degli impegni derivanti dagli ordini del giorno accolti dal Governo ricordati in premessa. (3-02124)
(17 marzo 2016)

B)

   VENTRICELLI. – Al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. – Per sapere – premesso che:
   è notizia attuale, riportata in questi ultimi giorni dalle maggiori testate giornalistiche nazionali, che già da sette anni l'Unione europea solleciterebbe l'Italia a prendere misure finalizzate a risolvere il problema delle discariche abusive, attualmente concentrate soprattutto a sud della penisola;
   a seguito di una richiesta di condanna della Corte di giustizia europea da parte dell'avvocato generale dell'Unione europea per la continua utilizzazione delle discariche abusive, il nostro Paese corre il rischio di pagare una multa giornaliera di 158.200 euro fino alla piena esecuzione della sentenza del 2007, oltre a una sanzione forfettaria di 60 milioni di euro;
   tale richiesta è stata determinata dall'entrata in vigore della direttiva europea del 2006, in base alla quale gli Stati membri dell'Unione europea avevano l'obbligo di creare una rete integrata e adeguata di impianti di smaltimento: impegno mai rispettato dall'Italia;
   l'Italia ha violato la direttiva comunitaria in materia di smaltimento di rifiuti e, sempre secondo quanto appreso, la richiesta di Bruxelles avrebbe potuto essere retroattiva con un conto enorme per le casse dello Stato, ma la Commissione europea ha preferito procedere per gradi: prima la censura, poi il taglio dei fondi e, infine, dopo i solleciti caduti nel vuoto, una multa che scatterà con il passaggio in giudicato della causa avviata a fine marzo 2015, motivo per il quale è essenziale agire con la massima celerità per porre rimedio a tale situazione;
   le norme violate sono la vecchia direttiva in materia di rifiuti, la direttiva relativa ai rifiuti pericolosi e quella sulle discariche, e, a quanto appreso, la Commissione europea avrebbe inizialmente individuato la presenza di 422 discariche illegali, contestandone in battuta finale solo due, ovvero quella di Matera/Altamura Sgarrane, al confine tra Puglia e Basilicata, e un'ex discarica comunale, la Reggio Calabria/Malderiti in Calabria;
   secondo quanto risulta anche nelle conclusioni di Juliane Kokott, avvocato generale della Corte di giustizia dell'Unione europea, è riportata la controreplica secondo cui l'Italia specificava che nell'area della presunta discarica Matera/Altamura Sgarrane, alla luce di più recenti analisi condotte in situ, non sarebbe stata constatata alcuna ex discarica; mentre, nel caso della presunta discarica Reggio Calabria/Malderiti, l'Italia riferiva che in passato vi erano stati abbandonati effettivamente rifiuti, che però già da molto tempo erano stati rimossi –:
   se non ritengano necessario, dopo aver fatto tutte le verifiche del caso soprattutto rispetto alla reale esistenza delle discariche in oggetto, intervenire affinché vengano messe al più presto in atto tutte le specifiche del caso per debellare le due discariche abusive ed evitare così che la Corte di giustizia dell'Unione europea accolga le conclusioni dell'accusa, determinando il pagamento richiesto. (3-02293)
(7 giugno 2016)
(ex 5-03508 del 10 settembre 2014)

C)

   GAGNARLI, GALLINELLA, L'ABBATE, MASSIMILIANO BERNINI e TERZONI. – Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. – Per sapere – premesso che:
   dopo anni in cui il lupo in Italia ha rischiato di estinguersi, numericamente ridotto a pochi branchi insediati prevalentemente in Appennino centrale, oggi è presente dalla Calabria fino a diversi settori delle Alpi, si possono distinguere una popolazione appenninica e una alpina con situazioni ecologiche e dinamiche diverse ma che necessiterebbero comunque una gestione coordinata e a larga scala;
   la direttiva «habitat» (92/43/CEE), recepita dall'Italia con decreto del Presidente della Repubblica dell'8 settembre 1997, n. 357, inserisce il lupo negli allegati B, specie la cui conservazione richiede la designazione di zone speciali di conservazione, e D, specie prioritaria, di interesse comunitario che richiede una protezione rigorosa, proibendone la cattura, l'uccisione, il disturbo, la detenzione, il trasporto, lo scambio e la commercializzazione;
   la convenzione di Berna inserisce il lupo nell'allegato II (specie strettamente protette), prevedendone quindi una speciale protezione e proibendone in particolare la cattura, l'uccisione, la detenzione ed il commercio;
   l'articolo 1, comma 1, della legge 11 febbraio 1992, n. 157, recante «norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio», stabilisce che la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell'interesse della comunità nazionale ed internazionale. All'articolo 2, comma 1, lettera a), inoltre, si riconosce il lupo tra le specie «particolarmente protette»;
   nel 1995 il Wwf internazionale ed il Consiglio d'Europa hanno istituito un gruppo di esperti «Large carnivore initiative for europe» (Lcie) dedicato alla gestione e conservazione dei grandi carnivori del nostro continente. Il Lcie ha lo scopo di «conservare, in coesistenza con l'uomo, popolazioni vitali di grandi carnivori come parte integrante degli ecosistemi e dei paesaggi europei»;
   la consistente presenza di cani vaganti costituisce un pericolo per il rischio di ibridazione ed aumenta il conflitto con gli allevatori per i danni che possono essere attribuiti erroneamente al lupo;
   l'attuale quadro normativo, di cui all'articolo 1 della legge 14 agosto 1991, n. 281, in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo, prevede: «Lo Stato promuove e disciplina la tutela degli animali di affezione, condanna gli atti di crudeltà contro di essi, i maltrattamenti ed il loro abbandono, al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l'ambiente». Al successivo articolo 2, comma 6, si stabilisce che i cani ricoverati in canili e rifugi per cani «possono essere soppressi, in modo esclusivamente eutanasico, ad opera di medici veterinari, soltanto se gravemente malati, incurabili o di comprovata pericolosità»;
   in Italia il lupo è stato oggetto dello svolgimento di 18 progetti cofinanziati dalla Commissione europea, concentrati su due aspetti principali: la qualità dell’habitat ed il conflitto con le attività umane;
   nei rilievi effettuati nell'ambito del progetto Life Medwolf (LIFE11 NAT/IT/069) risulta che sul territorio toscano, per buona parte interessato, le predazioni sono messe in atto da cani mal gestiti e tra le aziende zootecniche che hanno subito predazioni nel 2014 il 98 per cento non è sorvegliata dal pastore, l'85 per cento non ha recinti anti predatore, il 57 per cento non ha cani da guardia, il 41 per cento ha solo 2 cani ogni 500 pecore;
   il medesimo progetto Life Medwolf, sulla base del registro ufficiale delle predazioni, indica in appena 0,3 per cento la percentuale del patrimonio zootecnico ovino colpito dalle predazioni nel 2014;
   già nel febbraio 2014 la Commissione europea ha espresso la sua preoccupazione considerando le azioni nei confronti dei lupi «una minaccia per la salute dell'ambiente naturale, in particolare per il conseguimento degli obiettivi della direttiva habitat e del primo obiettivo della strategia dell'Unione europea per la biodiversità. È di competenza degli Stati membri assicurare il rispetto delle norme sulla protezione delle specie previste dalla direttiva habitat»;
   la Commissione europea garantisce che gli Stati membri si conformino a tale obbligo. Essa ha condotto una serie di attività volte a promuovere un dialogo costruttivo tra le parti interessate nella speranza di ridurre i conflitti sulla questione dei grandi carnivori e ha direttamente sostenuto vari progetti e misure con il medesimo obiettivo. Inoltre, ha finanziato diversi progetti nell'ambito del programma Life, mirati specificamente alla conservazione del lupo in Italia (risposta all'interrogazione parlamentare E-002258-14);
   negli ultimi tempi, come denunciato dalla prima firmataria del presente atto di sindacato ispettivo nell'interrogazione n. 5-06442 del 28 settembre 2015, ancora in attesa di risposta, si sono registrati un aumento degli atti di bracconaggio, che rappresenta probabilmente la principale causa di mortalità del lupo in Italia, del numero complessivo di lupi rinvenuti morti e della successiva esposizione intimidatoria delle carcasse;
   manca uno schema di monitoraggio nazionale e quindi un quadro univoco e condiviso della popolazione del lupo, in termini numerici e di distribuzione reale;
   il primo piano quinquennale d'azione nazionale per la conservazione del lupo, redatto dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, già scaduto nel 2007, non è stato ancora rinnovato, ma è rimasto praticamente inapplicato. È attualmente in corso la revisione del piano di azione su iniziativa del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare dove sembra prospettarsi la concessione di deroghe come soluzione alla gestione delle popolazioni di lupi –:
   quali iniziative intenda mettere in atto al fine di prevenire azioni di bracconaggio nei confronti di lupi e ibridi;
   quali iniziative intenda, intraprendere al fine di garantire, anche all'interno della revisione del piano di azione, la tutela dei lupi. (3-02288)
(7 giugno 2016)
(ex 5-07599 del 2 febbraio 2016)

   GAGNARLI, L'ABBATE, GALLINELLA, PARENTELA, MASSIMILIANO BERNINI, PAOLO ROSSI, BUSTO, CIRACÌ, PESCO, LUPO, SPESSOTTO, LA MARCA, CARLONI, LOREFICE, COLONNESE, SIBILIA, D'UVA, CRISTIAN IANNUZZI e TERZONI. – Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali e al Ministro della salute. – Per sapere – premesso che:
   il fenomeno degli attacchi alle greggi da parte di lupi e canidi è recentemente utilizzato come pretesto per richiedere la possibilità di operare abbattimenti delle specie in questione;
   numerose sono le pressioni da parte di rappresentanti del mondo allevatoriale e di politici, in particolare dalla Toscana, ma non solo, per ottenere deroghe alla direttiva «habitat» al fine di definire quote di abbattimento di lupi o persino modificare la normativa europea in materia di tutela del lupo;
   il bracconaggio nei confronti del lupo e degli ibridi lupo-cane è già di per sé un fenomeno dalla portata certamente maggiore rispetto a quanto evidenziato dai ritrovamenti di carcasse esposte a scopo intimidatorio;
   il fenomeno dei danni da predazione da parte di lupi e ibridi alle attività zootecniche è da inquadrarsi nell'ambito di una presenza naturale della specie lupo sul territorio, tornata a crescere spontaneamente sulla base di misure di tutela e di buona gestione ambientale in tutta Europa, come attestato dalla Commissione europea nelle Key actions for large carnivore populations in Europe del gennaio 2015 («All populations are the results of natural dynamics as no wolf reintroduction has ever been carried out in Europe»);
   nel medesimo documento la Commissione europea stima in circa 800 animali la popolazione di lupi presente nella penisola italiana, includendo la specie nella categoria VU (vulnerabile);
   il lupo (canis lupus) è inserito tra le specie particolarmente protette nella legge n. 157 del 1992, specie protetta dalla direttiva 92/43 (direttiva «habitat») recepita in Italia con decreto del Presidente della Repubblica n. 357 del 1997 (modificato e integrato dal decreto del Presidente della Repubblica n. 120 del 2003);
   il cane – e conseguentemente tutti gli «ibridi» successivi fino alla quarta generazione – è tutelato dalla legge nazionale italiana n. 281 del 1991 e ne è vietata l'uccisione se non per elencati e comprovati motivi, in maniera eutanasica;
   in una lettera ai membri dell'Unione zoologica italiana del 25 febbraio 2015, a firma del professor Luigi Boitani, si è fatto riferimento a una richiesta del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di valutare eventuali quote di lupi abbattibili;
   nei rilievi effettuati nell'ambito del progetto Life Medwolf (LIFE11 NAT/IT/069) risulta che sul territorio toscano interessato una buona parte delle predazioni è messa in atto da cani mal gestiti e tra le aziende zootecniche che hanno subito predazioni nel 2014 il 98 per cento non è sorvegliato dal pastore, l'85 per cento non ha recinti anti predatore, il 57 per cento non ha cani da guardia, il 41 per cento ha solo 2 cani ogni 500 pecore;
   il medesimo progetto Life Medwolf, sulla base del registro ufficiale delle predazioni, indica in appena 0,3 per cento la percentuale del patrimonio zootecnico ovino colpito dalle predazioni nel 2014;
   già nel febbraio 2014 la Commissione europea ha espresso la sua preoccupazione considerando le azioni nei confronti dei lupi «una minaccia per la salute dell'ambiente naturale, in particolare per il conseguimento degli obiettivi della direttiva habitat e del primo obiettivo della strategia dell'Unione europea per la biodiversità» (in risposta all'interrogazione parlamentare E-002258-14) –:
   quale sia la posizione dei Ministri interrogati sulle proposte di deroghe alla direttiva «habitat» al fine di determinare eventuali quote di lupi abbattibili;
   quali siano le iniziative messe in atto dai Ministri interrogati per tutelare gli ibridi lupo-cane;
   quali iniziative intendano mettere in atto al fine di prevenire azioni di bracconaggio nei confronti di lupi e ibridi.
(3-02289)
(7 giugno 2016)
(ex 5-06442 del 23 settembre 2015)

   BENEDETTI e GAGNARLI. – Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. – Per sapere – premesso che:
   all'ordinanza emessa dal sindaco di Verona Flavio Tosi, che consente l'abbattimento dei lupi per 90 giorni a partire dal 25 settembre 2014, è seguita la denuncia del Corpo forestale dello Stato per avere autorizzato l'abbattimento di specie protetta;
   a mezzo stampa il sindaco difende il proprio operato, motivato dalla volontà di dare maggiori garanzie di sicurezza, riconoscendo al cittadino la libertà di difendersi in caso di attacchi o di situazioni di pericolo;
   con protocollo 0019543/PNM del 29 settembre 2014 il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare inviava una lettera alla regione Veneto, alla provincia di Verona, al Corpo forestale dello Stato e per conoscenza all'Ispra, chiedendo di «fornire ogni utile elemento informativo, anche in merito alle eventuali iniziative adottate sulla questione dalle amministrazioni in indirizzo alla luce dei compiti e responsabilità attribuiti dalla normativa vigente»;
   è parere degli interroganti che, nonostante gli avvenimenti siano di competenza regionale e provinciale, in tali gravi casi di emanazione di provvedimenti contrari a qualsiasi normativa vigente, l'autorità ministeriale possa e debba intervenire con risolutezza, anche al fine di evitare epiloghi tragici come la recente uccisione dell'orsa Daniza in Trentino –:
   se siano stati forniti gli elementi richiesti dal Ministro interrogato e se non ritenga di dover intervenire, nei limiti di competenza, in modo più incisivo nei confronti della delibera emanata dal primo cittadino di Verona, che appare agli interroganti contraria a qualsiasi normativa vigente per la tutela delle specie protette, al fine di scongiurare la sua attuazione.
(3-02290)
(7 giugno 2016)
(ex 5-03716 del 6 ottobre 2014)

   DALLAI e SANI. – Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. – Per sapere – premesso che:
   le rilevanti criticità determinate dai danni causati all'agricoltura ed alla zootecnia dagli animali selvatici hanno assunto negli ultimi anni dimensioni notevoli, con ripercussioni allarmanti che incidono negativamente, oltre che sui bilanci economici delle aziende agricole, anche sull'equilibrata coesistenza tra attività umane e specie animali;
   in particolare, da anni, si registrano ormai in tutta Italia attacchi di lupi e di ibridi ad aziende con particolare frequenza in Toscana, con particolare intensità nella provincia di Grosseto, ma con episodi che caratterizzano quasi tutte le province della regione;
   secondo i dati resi noti dal Corpo forestale dello Stato nel «2015, nella provincia di Grosseto, ci sono state 476 denunce di episodi di predazione, con mille e 210 capi morti (pecore e agnelli)»; «le aziende che hanno subito attacchi nel 2015 sono 193 su un totale di mille e trecento registrate». Nei primi quattro mesi del 2016 le denunce sono però dimezzate: «dalle 202 tra gennaio e aprile 2015 alle 101 dei primi quattro mesi di quest'anno»;
   l'incremento della frequenza di attacchi da parte di lupi agli allevamenti sta causando un inasprimento della tensione sociale, soprattutto tra le imprese e gli addetti interessati. Tale fenomeno assume, quindi, i connotati di una vera e propria emergenza, che sollecita l'avvio urgente di iniziative da parte delle istituzioni pubbliche, volte a prevedere un sistema adeguato di misure preventive e di contrasto;
   la regione Toscana sta mettendo in campo misure per ricercare un equilibrio tra le esigenze delle attività degli allevatori, che sono parte costitutiva dell'economia e dell'identità territoriale, e la tutela della biodiversità;
   a livello europeo, il lupo (definizione ufficiale canis lupus) è una specie identificata e tutelata dalla direttiva 92/43CE (cosiddetta direttiva habitat);
   nonostante l'articolo 12 di tale direttiva vieti «qualsiasi forma di cattura o uccisione deliberata sulle specie», è permesso comunque agli Stati membri di mettere in atto delle azioni di gestione in deroga. Azioni già intraprese, peraltro, negli anni scorsi, da Francia e Spagna;
   non esiste in Italia una legge nazionale che regoli la conservazione o la gestione delle specie protette. La legge n. 157 del 1992, infatti, indica solamente che le specie protette non possano essere sottoposte a prelievo venatorio;
   si apprende, da organi di informazione, che «la Conferenza Stato-regioni» stia «per decidere se autorizzare una quota annuale di abbattimenti di lupi. Nella bozza presentata dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare del nuovo piano di conservazione e gestione del lupo in Italia, si parla infatti della possibilità di autorizzarne l'eliminazione del 5 per cento del totale: in tutto, circolano circa 1.500 di lupi nella penisola (dopo il ripopolamento degli anni ’70), disseminati nelle aree protette dell'Appennino e delle Alpi. Con il via libera si potrebbe arrivare fino a un massimo di 60 esemplari in meno l'anno»;
   tali abbattimenti, sempre secondo la stampa, sarebbero disposti dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare per attenuare «il conflitto sociale connesso alla coesistenza uomo-lupo: conflitto che in questi anni si è manifestato in molteplici ambiti geografici e che ha concorso all'aumento di episodi di bracconaggio»;
   la presenza di lupi, legata alla crescita del randagismo dei canidi anche nelle campagne e nelle zone boschive, sta inoltre causando un notevole aumento del fenomeno dell'ibridazione, che rappresenta inevitabilmente una seria minaccia alla sopravvivenza stessa della specie genetica del lupo;
   uno studio effettuato dall'università La Sapienza di Roma ha, infatti, accertato la presenza di molti di questi esemplari nei boschi e nelle campagne del nostro Paese;
   in Toscana, esemplari ibridi sono stati confermati nel Mugello, nel Senese, nell'Amiata e nel Parco della Maremma;
   a causa degli incroci con il cane, il lupo rischia di perdere la sua identità genetica. Questo può comportare la perdita degli adattamenti acquisiti dal lupo nel corso di milioni di anni attraverso la selezione naturale. Il comportamento degli ibridi è del tutto simile a quello dei lupi, ma le caratteristiche degli ibridi, spesso simili a quelle di un cane, consentono a questi animali di avvicinarsi a paesi e animali domestici senza destare allarme. In tal modo, gli ibridi hanno un vantaggio sui lupi nell'attaccare il bestiame, mostrando un comportamento temerario;
   i danni causati dagli ibridi e dai cani vaganti sono del tutto simili a quelli causati dal lupo ed è oggettivamente difficile distinguerli; di conseguenza, la gran parte dei danni viene attribuita al lupo anche quando questo non ne è responsabile;
   gli ibridi non sono chiaramente identificati nell'attuale quadro normativo: non sono protetti dalla legge quadro sulla caccia (legge n. 157 del 1992), non sono contemplati dalla legge sul randagismo canino (legge n. 281 del 1991), né dai regolamenti per l'indennizzo dei danni, e ciò pone quindi seri problemi legali per la gestione sia degli animali ibridi, che dei danni da loro causati;
   è attivo il progetto «Ibriwolf», unico nel continente, le cui attività sono comprese nel piano d'azione per la gestione dei lupi in Europa (pubblicato dal Consiglio d'Europa nel 2000) e sono previste dal piano di gestione del lupo italiano in fase di sviluppo da parte del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare;
   il progetto «Ibriwolf» ha i seguenti obiettivi:
    a) identificare e rimuovere tutti gli ibridi da due aree pilota in Toscana, dove ne è stata riscontrata la presenza;
    b) diminuire la presenza di cani vaganti attraverso la loro rimozione ove possibile, sterilizzando e custodendo tutti gli individui catturati;
    c) aumentare nel pubblico la consapevolezza della minaccia rappresentata dagli ibridi – e dai cani vaganti – per i lupi e per la fauna in genere;
    d) creare una rete per contribuire allo sviluppo delle migliori soluzioni per affrontare il problema dell'ibridazione, anche nel lungo periodo;
    e) sviluppare linee guida per la gestione di ibridi lupo-cane;
    f) attrezzare delle aree in cui gli ibridi catturati possano essere tenuti in cattività ed essere visti dal pubblico;
    g) creare una rete di amministrazioni pubbliche, dove la presenza di ibridi è stata riscontrata, al fine di stimolare la replica di esperienze di successo e il miglioramento di queste attività sperimentali –:
   quali iniziative urgenti intenda intraprendere, anche di concerto con gli enti territoriali coinvolti, al fine di introdurre gli strumenti più idonei a garantire un giusto equilibrio tra la presenza del lupo e quella degli allevatori, per salvaguardare al tempo stesso le attività di reddito per le comunità locali e la conservazione e la valorizzazione delle peculiarità faunistiche ed ambientali del territorio;
   se le notizie citate in premessa e relative alle anticipazioni di stampa sul nuovo piano di conservazione e gestione del lupo in Italia corrispondano al vero;
   quali interventi urgenti, sempre in relazione a quanto esposto in premessa, stia promuovendo il Ministro interrogato per prevenire e contrastare il fenomeno dell'ibridazione lupo-cane e quali siano stati, fino ad oggi, i risultati ottenuti.
(3-02291)
(7 giugno 2016)
(ex 5-08686 del 16 maggio 2016)

   SANI e FAENZI. – Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. – Per sapere – premesso che:
   le rilevanti criticità determinate dai danni causati all'agricoltura ed alla zootecnia dai lupi hanno assunto negli ultimi anni dimensioni notevoli, con ripercussioni allarmanti che incidono negativamente, oltre che sui bilanci economici delle aziende agricole, anche sull'equilibrata coesistenza tra attività umane e specie animali;
   l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), attraverso l'elaborazione di specifiche ricerche, ha rilevato che nel nostro Paese i lupi, dopo aver rischiato l'estinzione, si sono riadattati a sopravvivere in raggruppamenti, localizzabili in alcune aree isolate dell'Appennino centrale e meridionale, riapparendo successivamente in vaste zone lungo l'intera dorsale appenninica e sulle Alpi marittime, interessando anche aree con grande vocazione rurale e densamente popolate dall'uomo e da attività zootecniche;
   si sono registrati, negli ultimi mesi, attacchi di lupi ad aziende soprattutto nel Centro Italia, ultima in ordine di tempo quella che ha colpito nel mese di ottobre 2013 un allevamento ovino nel comune di Scansano (provincia di Grosseto) dove sono state uccise oltre 70 pecore;
   dalla dinamica di tali episodi (verificatisi in strutture protette da appositi recinti rinforzati) e dalle conseguenze spesso drammatiche degli attacchi (interi allevamenti vengono distrutti se ai capi uccisi si aggiungono quelli feriti gravemente ed i conseguenti problemi di riproduzione) risulta evidente che non si tratta di incursioni di lupi isolati, ma di veri e propri branchi che potrebbero, se tale fenomeno venisse sottovalutato, rappresentare un problema di sicurezza anche per l'uomo, soprattutto nelle zone marginali;
   in alcune aree del territorio nazionale ad alta vocazione agricola, l'incremento della frequenza di attacchi da parte di lupi agli allevamenti sta quindi causando un inasprimento della tensione sociale, soprattutto tra le imprese e gli addetti interessati;
   tale fenomeno assume quindi i connotati di una vera e propria emergenza, che sollecita l'avvio urgente di iniziative da parte delle istituzioni pubbliche, volte a prevedere un sistema adeguato di misure preventive e di contrasto;
   è utile inoltre ricordare che il fenomeno dei danni causati dalla fauna selvatica alle aziende zootecniche ed agricole ha già indotto la Commissione agricoltura della Camera dei deputati a svolgere, nel corso della XVI legislatura, una specifica indagine conoscitiva dedicata al fenomeno, alla quale ha fatto seguito l'avvio dell'esame di proposte di legge volte ad adeguare il quadro normativo vigente, che tuttavia non è stato possibile portare a conclusione entro la fine della legislatura;
   il lupo è tutelato, a livello internazionale, dalla convenzione di Berna («Convenzione per la conservazione della vita selvatica e dei suoi biotopi in Europa»). L'articolo 9 della convenzione permette, in presenza di determinati presupposti, alcune deroghe alle rigorose disposizioni contemplate per le specie animali elencate; qualora non vi sia altra soluzione soddisfacente e la deroga non debba nuocere alla sopravvivenza della popolazione interessata, gli animali delle specie in questione possono essere abbattuti per prevenire, tra l'altro, danni significativi al bestiame;
   in base all'articolo 9 sopra citato, la Svizzera ha autorizzato l'abbattimento di alcuni lupi appartenenti alla popolazione presente nell'arco alpino e responsabili di gravi danni ad animali da reddito;
   a livello europeo il lupo (definizione ufficiale canis lupus) è una specie identificata e tutelata dalla direttiva 92/43CE (cosiddetta direttiva habitat);
   nonostante l'articolo 12 di tale direttiva vieti «qualsiasi forma di cattura o uccisione deliberata sulle specie», è permesso comunque agli Stati membri di mettere in atto delle azioni di gestione in deroga. L'uso di deroghe dipende interamente dalle autorità competenti degli Stati membri (in questo caso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare) e deve soddisfare tre condizioni:
    a) dimostrare che la deroga è necessaria;
    b) dimostrare che non ci sia alternativa soddisfacente all'azione in deroga;
    c) dimostrare che l'azione in deroga non abbia impatto negativo sullo stato di conservazione della specie;
   in Francia (altra nazione dove sono frequenti attacchi di lupi alle aziende agricole e zootecniche) è stato recentemente presentato dal Governo il «piano per il lupo 2013-2017», dove è stata introdotta la possibilità di catturare gli «esemplari» per scopo «educativo». Comunque, sulla base dei parametri stabiliti dalla convenzione di Berna, in Francia non si potranno abbattere più di 11 lupi l'anno;
   non esiste in Italia una legge nazionale che regoli la conservazione o la gestione delle specie protette. La legge n. 157 del 1992, infatti, indica solamente che le specie protette non possono essere sottoposte a prelievo venatorio;
   in Italia «il piano di azione nazionale per la conservazione dei lupi», redatto dall'Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, vigilato dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare), nel 2012 raccoglie una serie di raccomandazioni per gli enti locali da attuare in maniera sinergica e concordata. La sua validità era di 5 anni ed è quindi quanto mai necessario un aggiornamento capace di analizzare la situazione pregressa, anche al fine di elaborare protocolli di intervento che prevedano un monitoraggio continuo della popolazione ed azioni di prevenzione e salvaguardia capace di promuovere un'effettiva e persistente sostenibilità territoriale della presenza del lupo;
   è comunque necessario che ogni politica territoriale sulla gestione dei lupi sia basata su conoscenze scientifiche comprovate, su una pianificazione territoriale ampia e condivisa da tutti gli enti e le istituzioni preposte e su un compromesso sostenibile con l'ambiente, l'insediamento umano e le attività economiche e produttive inerenti;
   la Commissione agricoltura della Camera dei deputati ha approvato il 19 giugno 2013 una risoluzione congiunta (n. 8-00003: «Iniziative in materia di danni causati all'agricoltura dalla fauna selvatica o inselvatichita») che impegna il Governo, anche per ciò che concerne le politiche di gestione dei lupi, a proseguire iniziative di monitoraggio, studio e ricerca a livello nazionale coinvolgendo anche le istituzioni territoriali e le associazioni interessate, per promuovere misure efficaci e concordate di prevenzione e sostegno per i danneggiamenti subiti dalle aziende, utilizzando anche fondi europei. La risoluzione impegna inoltre l'Esecutivo ad «assumere in sede europea, previa verifica delle misure adottate da altri Paesi europei per fronteggiare problemi analoghi, le iniziative eventualmente necessarie per adeguare il quadro normativo vigente alle esigenze dell'agricoltura italiana, al fine di assicurare la sostenibilità delle attività agricole e zootecniche nel rispetto delle esigenze di tutela delle specie animali» –:
   se, alla luce di quanto espresso in premessa, non sia prioritario dare mandato all'Ispra di aggiornare «il piano di azione nazionale per la conservazione dei lupi» – comprensivo di un censimento dell'attuale presenza in Italia di tale specie animale – quale documento scientifico propedeutico a qualsiasi efficace e corretta politica di gestione di tale fenomeno;
   se non ritenga conseguentemente necessario, coerentemente con la risoluzione n. 8-00003, assumere provvedimenti urgenti al fine di introdurre gli strumenti più idonei a garantire un giusto equilibrio tra la presenza del lupo e quella degli allevatori, per salvaguardare al tempo stesso le attività di reddito per le comunità locali e la conservazione e la valorizzazione delle peculiarità faunistiche ed ambientali del territorio. (3-02292)
(7 giugno 2016)
(ex 5-01212 del 15 ottobre 2013)

   TURCO, ARTINI e SEGONI. – Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. – Per sapere – premesso che:
   nei comuni dell'Alta Lessinia in provincia di Verona viene segnalata sempre più spesso una progressiva presenza di lupi che si avvicinano alle abitazioni in cerca di cibo, attratti dagli allevamenti di bestiame che insistono nella zona;
   sempre più di frequente si assiste ad attacchi ai capi di bestiame portati, specialmente nelle ore notturne, da un branco di lupi che si è insediato nella zona da qualche anno e che a quanto è dato conoscere sarebbe giunto a 13 unità;
   la situazione rischia di divenire via via sempre più preoccupante in quanto nell'ultimo biennio sono stati 102 i capi di bestiame predati sui monti veronesi, numero quadruplicato rispetto alle annate 2012-2013, e gli allevatori sentono la presenza dei lupi come una crescente e concreta minaccia alla propria attività, nonché alla propria incolumità;
   il 22 febbraio 2016 si è svolto presso la provincia di Verona un incontro a cui hanno partecipato il presidente della provincia, il Sottosegretario per l'ambiente e la tutela del territorio e del mare Barbara Degani, oltre a deputati e consiglieri regionali e provinciali, il vicedirettore dell'Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), rappresentanti di molte associazioni ambientaliste e di allevatori, nonché i sindaci dei comuni montani veronesi interessati dagli attacchi del branco di lupi;
   l'incontro sicuramente è servito a mettere al corrente anche il Governo centrale della situazione che si sta vivendo nella zona veronese, della specificità della Lessinia e della difficile convivenza con la presenza di un branco di lupi così aggressivo;
   i soggetti coinvolti, tuttavia, non avrebbero manifestato ampia soddisfazione a seguito dell'incontro;
   il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, con la consulenza dell'Unione zoologica italiana, sta terminando di predisporre il piano di conservazione e gestione del lupo in Italia, che, a quanto riportato da alcuni media, sembrerebbe autorizzare l'uccisione di circa 60 esemplari ogni anno;
   la proposta andrà discussa nei prossimi mesi nella Conferenza Stato-regioni ed ha già attirato numerose polemiche e prese di posizione da parte di varie associazioni ambientaliste e associazioni di allevatori;
   i lupi sono tutelati dalla direttiva comunitaria «habitat» del 1992, recepita dall'ordinamento italiano con il decreto del Presidente della Repubblica n. 357 del 1997, che contiene norme relative a tutte le specie protette e che non verrebbero modificate;
   il nuovo piano del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare aggiungerebbe una serie di indirizzi per la gestione specifica del lupo sul territorio italiano e tra questi sarebbe inserita la possibilità di abbattimenti selettivi di esemplari particolarmente problematici;
   questa possibilità è già contemplata dalle leggi comunitarie, che consentono la richiesta di concessione, da parte degli Stati membri, di deroghe al divieto di abbattimento in presenza di quattro requisiti: negli ultimi anni Francia, Spagna e Svezia, se ne sono servite, ma, ad oggi, l'Italia non ha ancora applicato questo strumento;
   il piano del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare aggiungerebbe tre ulteriori requisiti, prevedendo che ogni singola richiesta venga trattata comunque come un caso speciale e fissando un limite preciso agli abbattimenti, anche nel caso in cui tutti i presupposti di legge fossero integrati: per ciascun anno il numero non potrebbe superare il 5 per cento della stima più conservativa sulla popolazione dei lupi e, quindi, verosimilmente mai più di 50/60 esemplari per anno;
   la popolazione di lupi in Italia, è stato stimato, si concentra principalmente nelle zone appenniniche dove il lupo è sempre stato presente, mentre nella zona alpina dagli anni ’20 non si rilevava più la presenza di questo predatore, riapparso, invece, negli ultimi anni;
   la sua presenza sui monti veronesi della Lessinia è relativamente recente, risale, infatti, al 2012, ma viene ad interferire con l'attività di allevamento che qui è particolarmente sviluppata;
   nella situazione attuale appare, quindi, quanto mai necessario un tentativo di mediazione tra chi vorrebbe arrivare all'eradicazione completa di questi animali dal nostro Paese e chi, al contrario, chiede che non siano toccati;
   ci si augura che nella Conferenza Stato-regioni possa essere implementato un percorso di mediazione che sia rivolto alla definizione di un accordo tra le parti interessate e ad oggi del tutto contrapposte, attraverso la ricerca di un punto di equilibrio fondato sulle esigenze della cittadinanza ed i valori ambientali, anche facilitando l'accesso ai rimborsi dei capi perduti da parte degli allevatori, per suddividere sulla collettività i costi della presenza di questo animale selvatico sul territorio italiano, al tempo stesso tutelandolo nella sua biodiversità e garantendo una convivenza pacifica tra lupi ed esseri umani –:
   se quanto esposto in premessa trovi conferma e in quali tempi il Ministro interrogato ritenga di poter rendere effettivo il piano di conservazione e gestione del lupo in Italia;
   se ed attraverso quali strumenti intenda facilitare i rimborsi a favore degli allevatori per i capi perduti a seguito della predazione da parte dei lupi;
   se e per mezzo di quali progetti intenda sviluppare azioni di prevenzione da parte dello Stato, con l'investimento di risorse e programmi di informazione che aiutino a garantire la convivenza pacifica tra questi animali e la specie umana.
(3-02294)
(7 giugno 2016)
(ex 5-08192 del 21 marzo 2016)

D)

   BRUGNEROTTO e D'INCÀ. – Al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. – Per sapere – premesso che:
   la legge 13 luglio 2015, n. 107 – recante la riforma nota come «la buona scuola» – stabilisce che a decorrere dall'anno scolastico 2016/2017 è costituito annualmente con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, un ulteriore contingente di posti non facenti parte dell'organico dell'autonomia, né disponibili, per il personale a tempo indeterminato, per operazioni di mobilità o assunzioni in ruolo. Inoltre, si prevede che per l'anno scolastico 2015/2016, il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca è autorizzato ad attuare un piano straordinario di assunzioni a tempo indeterminato di personale docente per le istituzioni scolastiche statali di ogni ordine e grado, per la copertura di tutti i posti comuni e di sostegno dell'organico di diritto, rimasti vacanti e disponibili all'esito delle operazioni di immissione in ruolo effettuate per il medesimo anno scolastico, ai sensi dell'articolo 399 del testo unico di cui al decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, al termine delle quali sono soppresse le graduatorie dei concorsi per titoli ed esami banditi anteriormente al 2012. Per l'anno scolastico 2015/2016, il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca è altresì autorizzato a coprire gli ulteriori posti di cui alla tabella 1 allegata alla suddetta legge;
   con l'interrogazione n. 4-10970 si sottoponeva all'attenzione del Governo il contrasto tra l'articolo 485 del decreto legislativo n. 297 del 1994, che prevede che, all'atto della ricostruzione di carriera di cui usufruiscono i docenti immessi in ruolo che hanno superato l'anno di prova, il periodo di precariato sia «riconosciuto come servizio di ruolo, ai fini giuridici ed economici, per intero, per i primi quattro anni e per i due terzi del periodo eventualmente eccedente, nonché ai soli fini economici per il rimanente terzo» e la direttiva comunitaria 1999/70/CE che prescrive il principio di non discriminazione del lavoro precario rispetto a quello a tempo indeterminato se non per ragioni oggettive;
   a seguito di detto contrasto tra la norma nazionale e comunitaria, il Ministero dell'istruzione dell'università e della ricerca è risultato più volte soccombente in sede giurisdizionale, avendo i giudici ritenuto che la richiamata normativa sia lesiva delle norme comunitarie sulla parità di trattamento del personale, a partire dalla direttiva suddetta;
   con l'interrogazione sopra citata si chiedeva ai Ministri se e quali iniziative normative il Governo intendesse adottare al fine di riconoscere per intero il periodo pre-ruolo per il personale della scuola neo-immesso in ruolo, ai fini della ricostruzione della carriera e della relativa progressione, così come previsto dalla normativa comunitaria, rivedendo conseguentemente gli effetti, anche ai fini contributivi, su pensioni e trattamento di fine rapporto;
   successivamente con l'accoglimento dell'ordine del giorno n. 9/03444-A/230, nella seduta dell'Assemblea della Camera dei deputati del 19 dicembre 2015, il Governo assumeva l'impegno a valutare l'opportunità di porre in essere tutte le iniziative, anche di carattere normativo, volte a garantire il diritto alla ricostruzione di carriera per intero dei docenti immessi in ruolo;
   essendo trascorsi quasi 5 mesi dall'approvazione dell'ordine del giorno citato ed in vista del passaggio di ruolo di numerosi insegnanti dal prossimo settembre 2016 previsto dal piano di assunzioni della legge 13 luglio 2015, n. 107 – recante la riforma de «la buona scuola» – non risultano agli interroganti attività concrete volte all'attuazione ed al rispetto degli impegni assunti dal Governo –:
   quale sia lo stato di attuazione dell'impegno assunto a seguito dell'accoglimento dell'ordine del giorno n. 9/03444-A/230, a garanzia del diritto alla ricostruzione di carriera per intero dei docenti immessi in ruolo, e quali iniziative normative intendano assumere al riguardo.
(3-02237)
(4 maggio 2016)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE A FAVORIRE L'ACCESSO AGLI STUDI UNIVERSITARI, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AD UN'EQUA RIPARTIZIONE DELLE RISORSE SUL TERRITORIO NAZIONALE

   La Camera,
   premesso che:
    l'Italia nel 2014 è stato lo Stato membro dell'Unione europea con la minore percentuale di giovani laureati: con il 23,9 per cento si colloca, purtroppo, all'ultimo posto fra i 28 Stati membri, paragonato al 49,9 per cento della Svezia, al 47,7 per cento del Regno unito, ma anche al 31,3 per cento del Portogallo e al 25 per cento della Romania;
    sono dati inquietanti che fanno riflettere profondamente sullo stato di salute delle nostre università italiane e sulle scelte fatte negli ultimi vent'anni con la consapevolezza della necessità, non più procrastinabile, di analisi più approfondite sull'argomento ma anche di un complessivo ripensamento dell'indirizzo di governo che riguardi l'istruzione superiore che significa produzione culturale del Paese, formazione delle classi dirigenti e, in particolare, di quel capitale umano di qualità che è il fattore produttivo decisivo nell'economia di un Paese, specialmente in un paese così diverso al suo interno come l'Italia;
    l'Europa si è data l'obiettivo, nel 2020, di avere il 40 per cento di giovani laureati. L'obiettivo italiano alla stessa data è pari al 26-27 per cento, che continuerebbe a collocarla all'ultimo posto, rischiando di essere superata anche dalla Turchia. La regione con la percentuale maggiore di laureati, il Lazio (31,6 per cento), si colloca su livelli pari al Portogallo. Quattro regioni italiane, tutte del Mezzogiorno, sono fra le ultime dieci nella graduatoria delle 272 europee; la Sardegna (17,4 per cento) è penultima: la sua percentuale di giovani laureati è superiore solo alla regione ceca dello Severozápad;
    il nostro Paese nel giro di pochi anni, ha vissuto un disinvestimento molto forte nella sua università, in totale controtendenza rispetto a tutti i Paesi avanzati che continuano invece ad accrescere la propria formazione superiore. Mentre il finanziamento pubblico delle nostre università italiane si contraeva del 22 per cento, in Germania cresceva del 23 per cento; persino i paesi mediterranei più colpiti dalla crisi hanno ridotto di meno il proprio investimento sull'istruzione superiore;
    i fondi del diritto allo studio universitario sono distribuiti alle regioni secondo criteri che generano gravi sperequazioni a danno delle regioni del Sud;
    per effetto di tale distribuzione il 75 per cento degli studenti che, secondo la Costituzione italiana, avrebbero diritto a beneficiare di borse di studio e non ne beneficiano sono iscritti nelle università del Sud;
    il rapporto della Fondazione Res, recentemente presentato, fotografa la condizione degli atenei italiani, da Nord a Sud, come un costante, inesorabile declino a cominciare dalla caduta delle immatricolazioni: dal 2003-04 si riducono di oltre 66 000 unità, fino a meno di 260 000 nel 2014-15 (-20,4 per cento). Fra tutti i Paesi avanzati solo la Svezia e l'Ungheria sperimentano un decremento più forte. Al contrario, gli immatricolati crescono sensibilmente nella media dei Paesi dell'Ocse e a ritmi particolarmente sostenuti, oltre che negli emergenti, in Germania e Regno unito. Il calo delle immatricolazioni, sempre dal 2003-04, è poi differenziato per territori: è particolarmente intenso nelle isole (-30,2 per cento), nel Sud continentale (-25,5 per cento) e nel Centro (-23,7 per cento, specie nel Lazio); più contenuto al nord (-11 per cento);
    è grave il fenomeno migratorio di diplomati che, in numero di 24 mila, ogni anno abbandonano le regioni del Sud per studiare in università del Centro e del Nord e questo aggrava la già depressa situazione del Meridione;
    la mobilità studentesca è un fenomeno estremamente positivo, perché rappresenta un'esperienza di vita indipendente per i giovani, consente la scelta del corso di studio più adatto e una competizione sana tra atenei, ma è una mobilità a senso unico, da Sud verso Nord. Nel 2014-15 oltre 55 000 studenti si sono immatricolati in una regione diversa da quella di residenza;
    al Nord questo fenomeno riguarda il 17,8 per cento degli immatricolati, che rimangono quasi tutti (5/6) all'interno della circoscrizione. Al Centro è meno rilevante (14,5 per cento degli immatricolati), specie per gli studenti toscani e laziali, ma orientata di più verso l'esterno: metà di chi cambia regione va al nord, un terzo rimane al Centro, un sesto va al Sud;
    al Sud la mobilità è molto maggiore: riguarda il 28,9 per cento degli immatricolati, 4 su dieci si spostano al Nord e altri 4 al Centro. È la mobilità dei circa 29 000 immatricolati (in un anno) meridionali il fenomeno più importante, con una mobilità interna al Mezzogiorno assai contenuta e un flusso in uscita dalla circoscrizione a cui non corrisponde un flusso in entrata;
    la mobilità solo in direzione d'uscita è negativa perché genera da una parte una perdita per le aree di origine in termini di capitale umano, dall'altra un trasferimento di reddito a favore delle regioni di entrata per il mantenimento dei figli fuori sede sostenuto dalle famiglie. La scelta del trasferimento è riconducibile a più fattori e, in particolare, a una più elevata capacità attrattiva di singoli atenei centro-settentrionali, nonché alle maggiori prospettive occupazionali nei mercati del lavoro del nord una volta conseguita la laurea;
    Molise (49,5 per cento), Trentino Alto Adige (47,8), Abruzzo (41,3) sono le regioni più piccole che nell'anno accademico 2014-15, hanno mostrato indici di attrattività più elevati spiegabili soprattutto con la qualità della vita urbana (Trento) o con la posizione geografica, come nel caso di Abruzzo e Molise. Le regioni medie e medio-grandi maggiormente attrattive sono tutte localizzate al nord: spiccano in particolare l'Emilia Romagna e la Lombardia. Al contrario risulta estremamente ridotta l'attrattività delle università meridionali, tutte largamente al di sotto della metà della media nazionale, ad eccezione della Basilicata che sfiora il 20 per cento, grazie alla specificità di alcuni indirizzi di studio;
    altro punto di grande criticità è quello dei docenti universitari che fra il 2008 e il 2015 si sono ridotti del 17,2 per cento; il calo è stato notevolmente più intenso di quello registrato in ogni altro comparto del pubblico impiego, ben cinque volte maggiore di quanto avvenuto nella scuola. La diminuzione del personale docente di ruolo è stata dell'11,3 per cento al nord, ma del 18,3 per cento nel Mezzogiorno e del 21,8 per cento nelle università del Centro a causa dei blocchi del ricambio, in presenza dei pensionamenti. Ad esempio nel triennio 2012-14 il turn over (assunzioni in percentuale dei pensionamenti) è stato pari al 27,3 per cento. Il blocco del turn over negli atenei ha comportato un sensibile invecchiamento del personale docente, attualmente i dati disponibili ci dicono che un terzo dei professori ordinari ha più di 65 anni;
    la spesa totale (pubblica e privata) per l'istruzione universitaria, riportata dal rapporto annuale Education at a Glance dell'Ocse (2014) e misurata rispetto al Pil (2011), è in Italia sui livelli più bassi fra tutti i Paesi dell'Ocse: gli unici paesi con livelli comparabili sono Ungheria e Brasile; per tutti gli altri, europei ed extraeuropei, il livello è significativamente superiore. Nel 2011 il totale della spesa (pubblica e privata) era in Italia dell'1 per cento del Pil, contro una media ocse dell'1,6 per cento e dei Paesi europei membri dell'Ocse pari all'1,4 per cento: i grandi Paesi europei si collocano fra l'1,2 per cento e l'1,5 per cento; la stessa Turchia è all'1,3 per cento; gli scandinavi su livelli superiori, gli Stati uniti sono al 2,7 per cento;
     il fondo di finanziamento ordinario delle università (Ffo), nasce nel 1993, come veicolo di finanziamento «omnibus» all'interno del quale fare ricadere sia gli interventi per il funzionamento sia allocazioni «premiali» ed è stato proprio questo l'errore di fondo, sarebbe stato meglio fin da allora prevedere due diversi canali di finanziamento: uno destinato, appunto, alle spese ordinarie e un altro, con funzione premiale e incentivante. Fino al 2008 la dimensione del fondo cresce, anche se aumentano le quote relative degli atenei del Nord e del Sud, rispetto a quelli del Centro e delle isole. Con i provvedimenti presi a partire dal 2008, con la cosiddetta Riforma Gelmini (legge n. 240 del 2010), l'investimento destinato alle università si riduce drasticamente. Il fondo di finanziamento ordinario diminuisce ai livelli di metà anni novanta. Sul totale delle entrate degli atenei diminuisce sensibilmente il peso delle risorse attribuite dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca (e in particolare del fondo di finanziamento ordinario), a vantaggio della contribuzione studentesca e di finanziamenti di soggetti terzi, specie privati. Questo cambiamento produce un significativo impatto territoriale, perché colpisce in particolare le università collocate nelle aree meno ricche del Paese;
    l'analisi di tutti questi dati porta a delle conclusioni chiare, risulta necessario ed urgente ripensare questi meccanismi di finanziamento, basandosi su una distinzione netta fra fondi destinati al funzionamento del sistema universitario e fondi premiali destinati alla ricerca, ripristinando una sufficiente quota di finanziamento per tutti gli atenei, a copertura delle funzioni di didattica e di ricerca di base, e con l'allocazione di risorse aggiuntive, finalizzate alle grandi priorità di ricerca del paese, sulla base di criteri di valutazione della ricerca, abbandonando formule e algoritmi onnicomprensivi che hanno dimostrato negli ultimi anni di non essere adeguati alla complessità della realtà,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per incrementare il fondo del diritto allo studio;
   ad assumere iniziative per modificare i criteri di distribuzione del fondo per il diritto allo studio applicando la regola delle quote capitarie e suddividendo quindi il fondo tra le regioni esclusivamente in base al numero di idonei ai benefici;
   ad assumere iniziative per incrementare sensibilmente il fondo di finanziamento ordinario delle università per avvicinarlo a quello degli altri Paesi europei;
   a promuovere una radicale revisione dei meccanismi di finanziamento per le attività di ricerca;
   ad assumere iniziative per immettere nuovi docenti e ricercatori a copertura dei previsti pensionamenti;
   ad adottare iniziative per applicare una deroga temporanea di almeno 5 anni per le università del Sud, in relazione alle norme restrittive inerenti al rapporto tra numero di docenti e attivazione dei corsi di studio, consentendo di attivare corsi di studio, indipendentemente dal numero dei docenti, per dare risposte alle esigenze ogni anno manifestate dai diplomati.
(1-01192)
(Nuova formulazione) «Pisicchio, Palese».
(9 marzo 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    gli articoli 33 e 34 della Costituzione pongono i princìpi fondamentali relativi all'istruzione con riferimento, rispettivamente, all'organizzazione scolastica e universitaria e ai diritti di accedervi e di usufruire delle prestazioni che essa è chiamata a fornire. Organizzazione e diritti sono aspetti speculari della stessa materia, l'una e gli altri implicandosi e condizionandosi reciprocamente. Non c’è organizzazione che, direttamente o almeno indirettamente, non sia finalizzata a diritti, così come non c’è diritto a prestazione che non condizioni l'organizzazione;
    l'articolo 33, dopo aver stabilito, al primo comma, che «l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento» e, al secondo comma, che la «Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi», prevede, tra gli altri per le università, «il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato». «Secondo la Costituzione, l'ordinamento della pubblica istruzione è dunque unitario ma l'unità è assicurata, per il sistema scolastico in genere, da “norme generali” dettate dalla Repubblica; in specie, per il sistema universitario, in quanto costituito da “ordinamenti autonomi”, da “limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”»;
    gli «ordinamenti autonomi» delle università, cui la legge, secondo l'articolo 33 della Costituzione, deve fare da cornice, non possono considerarsi soltanto sotto l'aspetto organizzativo interno, manifestantesi in amministrazione e in normazione statutaria e regolamentare. Per l'anzidetto rapporto di necessaria reciproca implicazione, l'organizzazione deve considerarsi anche sul suo lato funzionale esterno, coinvolgente i diritti e incidente su di essi. La necessità di leggi dello Stato, quali limiti dell'autonomia ordinamentale universitaria, vale pertanto sia per l'aspetto organizzativo, sia, a maggior ragione, per l'aspetto funzionale che coinvolge i diritti di accesso alle prestazioni;
    in questo modo, all'ultimo comma dell'articolo 33 viene a conferirsi una funzione, per così dire, di cerniera, attribuendosi alla responsabilità del legislatore statale la predisposizione di limiti legislativi all'autonomia universitaria relativi tanto all'organizzazione in senso stretto, quanto al diritto di accedere all'istruzione universitaria, nell'ambito del principio secondo il quale «la scuola è aperta a tutti» (articolo 34, primo comma) e per la garanzia del diritto riconosciuto ai «capaci e meritevoli, anche, se privi di mezzi» «di raggiungere i gradi più alti degli studi» (articolo 34, terzo comma);
    la conclusione cui così si perviene attraverso la specifica interpretazione degli articoli 33 e 34 della Costituzione è, del resto, confermata e avvalorata dai «principi generali informatori dell'ordinamento democratico, secondo i quali ogni specie di limite imposto ai diritti dei cittadini abbisogna del consenso dell'organo che trae da costoro la propria diretta investitura» e dall'esigenza che «la valutazione relativa alla convenienza dell'imposizione di uno o di altro limite sia effettuata avendo presente il quadro complessivo degli interventi statali nell'economia inserendolo armonicamente in esso, e pertanto debba competere al Parlamento, quale organo da cui emana l'indirizzo politico generale dello Stato» (si confronti la sentenza n. 383 del 1998 della Corte costituzionale);
    non può negarsi che il diritto costituzionale allo studio, come ricostruito dalla riportata giurisprudenza costituzionale, imponendo scelte pubbliche d'insieme, inerenti alla determinazione delle risorse necessarie per il funzionamento delle istituzioni universitarie, per la garanzia del diritto alla formazione culturale (sancita dall'articolo 2 della Costituzione) e alle scelte professionali di ciascuno (articolo 4) risulti, soprattutto negli ultimi anni, drammaticamente compromesso;
    il sistema di finanziamento pubblico del diritto allo studio universitario avviene attraverso tre voci ovvero:
     a) il fondo integrativo statale;
     b) il gettito derivante dalla tassa regionale per il diritto allo studio;
     c) le risorse proprie delle regioni, pari almeno al 40 per cento dell'assegnazione del fondo integrativo statale;
    negli ultimi anni il diritto allo studio universitario è stato umiliato a causa del sempre più frequente fenomeno dello studente idoneo a percepire la borsa di studio ma non beneficiario a causa delle insufficienti risorse stanziate dallo Stato;
    nonostante le nuove regole sul diritto allo studio, conseguenti alla «riforma Gelmini» dell'università, abbia causato un numero di studenti idonei a percepire la borsa di studio inferiore rispetto al passato, le regioni non riescono, comunque, ad assegnare le borse a tutti i richiedenti che ne hanno diritto;
    l'Italia si colloca negli ultimi posti in Europa per investimenti sul diritto allo studio, tant’è che in diversi Stati dell'Unione europea l'iscrizione all'università è gratuita e la borsa di studio garantisce tutti gli studenti privi di mezzi;
    in Italia, a beneficiare di borse di studio è circa il 7 per cento degli studenti, per una spesa complessiva pubblica 258 milioni di euro, contro il 25,6 per cento della Francia (1,6 miliardi di euro), il 30 per cento della Germania (2 miliardi di euro) e il 18 per cento della Spagna (943 milioni di euro);
    in particolare, l'importo della tassa per il diritto allo studio è stabilito dalle regioni e dalle province autonome e può essere articolato in 3 fasce. La misura minima della fascia più bassa della tassa è fissata in 120 euro e si applica a coloro che presentano una condizione economica non superiore al livello minimo dell'indicatore di situazione economica equivalente corrispondente ai requisiti di eleggibilità per l'accesso ai livelli essenziali delle prestazioni (lep) del diritto allo studio. I restanti valori della tassa minima sono fissati in 140 euro e 160 euro per coloro che presentano un indicatore di situazione economica equivalente rispettivamente superiore al livello minimo e al doppio del livello minimo previsto dai requisiti di eleggibilità per l'accesso ai livelli essenziali delle prestazioni del diritto allo studio. Il livello massimo della tassa per il diritto allo studio è fissato in 200 euro;
    l'attuale normativa prevede che l'impegno delle regioni in termini economici maggiori rispetto a quanto previsto dall'articolo 18, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, sia valutato attraverso l'assegnazione di specifici incentivi nel riparto del fondo integrativo statale di cui al comma 1, lettera a), dello stesso decreto legislativo, e del fondo per il finanziamento ordinario alle università statali che hanno sede nel rispettivo contesto territoriale;
    i criteri per il riparto del fondo integrativo per la concessione di prestiti d'onore e di borse di studio sono stabiliti dall'articolo 16 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 9 aprile 2001;
    analogo discorso, circa i limiti che il legislatore statale deve porre all'autonomia degli atenei al fine di garantire la piena attuazione della Costituzione, deve riferirsi alla determinazione delle tasse d'iscrizione all'università. Attualmente anche la contribuzione richiesta agli studenti rappresenta, infatti, un ostacolo alla formazione;
    il decreto del Presidente della Repubblica n. 306 del 1997 regolamenta la disciplina in materia di tasse di iscrizione all'università a carico degli studenti. Tale regolamento prevede che ogni università abbia piena autonomia nella determinazione dell'entità e delle regole della tassazione studentesca rispettando criteri di equità, solidarietà e progressività, tenendo in considerazione la condizione economica dello studente;
    oltre ai contributi universitari, ogni studente è tenuto a versare all'università anche la tassa di iscrizione, fissata inizialmente in trecentomila lire ed aggiornata annualmente con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. L'importo della tassa di iscrizione è identica per tutti gli atenei italiani;
    la contribuzione totale versata dallo studente universitario è la risultante della somma tra la tassa di iscrizione definita annualmente dal Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca e i contributi universitari decisi autonomamente da ogni singola università;
    come contrappeso all'autonomia delle università, per evitare che queste possano stabilire importi contributivi troppo alti, il regolamento stabilisce che la somma delle contribuzioni versate da ogni singolo studente ogni anno alla propria università non possa eccedere il 20 per cento del finanziamento ordinario dello Stato all'ateneo;
    il citato regolamento stabilisce alcuni principi, seguendo criteri più specifici, che prevedono anche la garanzia dell'accesso ai capaci e ai meritevoli privi di mezzi e la riduzione del tasso di abbandono degli studi;
    tale disciplina in materia di contributi universitari è rimasta inalterata fino alle modifiche apportate dalla normativa sulla spending review (decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135), che ha disposto (con l'articolo 7, comma 42) l'introduzione dei commi 1-bis, 1-ter, 1-quater e 1-quinquies dell'articolo 5 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 306 del 1997;
    le modifiche apportate dal citato decreto-legge n. 95 del 2012 entrano nel merito dei limiti della contribuzione studentesca modificando i criteri per individuare la tassazione massima a carico dello studente. In sostanza, viene modificato il calcolo del limite del 20 per cento dell'ammontare della contribuzione studentesca totale (la somma di tutte le tasse pagate dagli studenti in un singolo ateneo) rispetto al finanziamento ordinario assegnato dallo Stato alla singola università;
    con le novelle introdotte dal decreto-legge n. 95 del 2012, ai fini del calcolo della contribuzione studentesca totale, è stata scorporata la contribuzione degli studenti fuori corso. Come conseguenza non sono più considerate, ai fini del calcolo della contribuzione totale versata dagli studenti alle università, le somme pagate dagli studenti fuori corso che, in media, rappresentano il 40 per cento degli iscritti;
    tale novità comporta, di fatto, un aumento del limite massimo di contribuzione sia per gli studenti in corso che per quelli fuori corso; inoltre, è eliminato qualsiasi limite alla determinazione dell'importo della contribuzione studentesca per gli studenti fuori corso;
    il citato decreto-legge n. 95 del 2012 prevede, inoltre, entro tre anni dalla entrata in vigore, un aumento significativo della tassazione per tutti gli studenti;
    il fondo per il finanziamento ordinario delle università (ffo) è relativo alla quota a carico del bilancio statale delle spese per il funzionamento e le attività istituzionali delle università, comprese le spese per il personale docente, ricercatore e non docente, per l'ordinaria manutenzione delle strutture universitarie e per la ricerca scientifica e della spesa per le attività sportive universitarie;
    negli ultimi anni il fondo per il finanziamento ordinario è sensibilmente diminuito; per questa ragione, le università che si sono trovate a superare il limite del 20 per cento sono numerose, ben due delle università statali su tre nell'anno accademico 2011/2012;
    alcune università (Insubria, Milano statale, Milano Bicocca, Napoli Partenope, Urbino, Venezia Ca’ Foscari, Venezia Iuav) hanno superato anche il 30 per cento e una (Bergamo) addirittura il 40 per cento;
    di fatto le modifiche apportate dal decreto-legge n. 95 del 2012 al decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306, scaricano sugli studenti i tagli apportati al fondo per il finanziamento ordinario nel corso degli anni dai vari Governi alla guida del nostro Paese;
    gli atenei che, fino al 2013, non hanno rispettato il tetto massimo degli introiti derivanti da tasse e contribuzione studentesche previste dal decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306, sono stati avvantaggiati dal reclutamento e dalle quote premiali, nonostante fossero in difetto fino all'entrata in vigore delle disposizioni normative introdotte dal decreto-legge n. 95 del 2012;
    dal 2007 alcune associazioni studentesche universitarie hanno avviato una serie di ricorsi amministrativi contro quegli atenei che superavano il limite del 20 per cento stabilito dall'articolo 5, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306;
    dopo l'accoglimento, nel marzo del 2011, del primo ricorso sulla contribuzione studentesca presentato nel 2007 (registro generale 599) al tribunale amministrativo regionale dell'Abruzzo contro l'Università di Chieti Pescara, si sono moltiplicati i ricorsi in vari atenei italiani;
    di fatto, le disposizioni normative introdotte dal decreto-legge n. 95 del 2012 hanno rappresentato una sanatoria per le università che fino al 2012 non rispettavano quanto stabilito dal decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306;
    si ritiene necessario, in considerazione di quanto esposto, prevedere l'esonero dal pagamento (della contribuzione studentesca per gli studenti meno abbienti introducendo una no tax area per indicatori della situazione economica equivalente al di sotto dei 20 mila euro. Secondo i dati forniti dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca l'ammontare del fondo di finanziamento ordinario 2017 si attesta intorno ai 7.003 milioni di euro, mentre il gettito complessivo della contribuzione studentesca intorno ai 1.497 milioni di euro;
    al fine di non ridurre le già esigue risorse destinate al sistema universitario, risulta doveroso rimborsare alle università il mancato gettito derivante dall'introduzione della no tax area attraverso un incremento dedicato del fondo di finanziamento ordinario,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative volte a modificare la disciplina attualmente vigente sulla contribuzione studentesca alle università statali stabilendo un'area di reddito entro cui lo studente sia esente dal pagamento della contribuzione (fascia no-tax) per tutti gli studenti con Isee al di sotto dei 20.000 euro;
   a dare pronta attuazione a quanto previsto dall'articolo 20 del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, attivando l'osservatorio nazionale per il diritto allo studio universitario e, in particolare, creando un sistema informativo, correlato a quelli delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano, per l'attuazione del diritto allo studio, anche attraverso una banca dati dei beneficiari delle borse di studio;
   ad assumere iniziative normative, a garanzia dell'effettività del diritto allo studio sancito dalla Costituzione, volte ad incrementare le risorse destinate al diritto allo studio universitario con l'obiettivo di far sì che gli strumenti e i servizi per il conseguimento del pieno successo formativo nei corsi di istruzione superiore siano a disposizione di una platea di studenti che sia almeno corrispondente ad un quarto degli iscritti, in modo da allinearsi agli standard della Germania e della Francia;
   al fine di implementare l'utilizzo delle nuove tecnologie nonché di agevolare lo studio universitario a distanza, ad assumere iniziative per incrementare le risorse destinate alla didattica universitaria digitale;
   al fine di garantire il diritto alla prosecuzione degli studi e alla soddisfazione professionale di ciascuno, ad assumere iniziative per rimodulare l'attuale sistema di accesso per i corsi di laurea a numero programmato.
(1-01268)
«Vacca, D'Uva, Brescia, Simone Valente, Luigi Gallo, Marzana, Di Benedetto, D'Incà».
(13 maggio 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    le norme in materia di diritto allo studio universitario trovano il loro fondamento nella Costituzione che all'articolo 3, comma 2, affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese e, all'articolo 34, prevede, tra l'altro, che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi e stabilisce che la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso;
    la Costituzione stabilisce, all'articolo 117, comma 2, lettera m), che è competenza dello Stato stabilire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;
    alle regioni spetta in via esclusiva la potestà legislativa in materia di diritto allo studio;
    la legge delega n. 240 del 2010, cosiddetta riforma Gelmini, in attuazione delle norme costituzionali è intervenuta in materia prevedendo la revisione della normativa in materia di diritto allo studio e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere erogate dalle università italiane;
    tra gli obiettivi principali perseguiti dalla legge n. 240 del 2010 ci sono stati quelli di rafforzare le opportunità di accesso all'istruzione superiore per gli studenti provenienti da situazioni socioeconomiche sfavorite e di promuovere il merito tra gli studenti;
    in attuazione della delega è stato approvato il decreto legislativo n. 68 del 2012, che prevede la partecipazione di soggetti diversi, ciascuno nell'ambito delle proprie competenza, ad un sistema integrato di strumenti e servizi al fine di garantire il diritto allo studio;
    il finanziamento per il diritto allo studio universitario riesce a coprire appena il 73 per cento circa delle richieste e questa percentuale registra una tendenza a diminuire: dal 74,25 per cento del 2013/14 si è passati al 73,89 per cento del 2014/15;
    questi dati rappresentano la situazione a livello nazionale, ma la percentuale di copertura delle richieste non risulta omogenea tra le varie regioni e la distribuzione del fondo per il diritto allo studio evidenzia forti sperequazioni al livello regionale;
    il meccanismo di ripartizione dei fondi statali alle regioni è basata sulla loro ricchezza per cui quelle che riescono ad assegnare un maggior numero di borse di studio perché più ricche ottengono paradossalmente maggiori fondi dallo Stato; tale distribuzione attiva un circolo vizioso per cui alle regioni del Sud vanno meno risorse rispetto a quelle del Nord;
    un alto grado di istruzione rappresenta un aspetto fondamentale per il progresso sia economico sia sociale di un Paese, tanto più in un'economia globalizzata e basata sulla conoscenza, nella quale è necessario disporre di una forza lavoro qualificata per poter competere in termini di produttività, qualità e innovazione; livelli bassi di istruzione terziaria, infatti, agiscono da ostacolo per la competitività e possono compromettere la capacità del nostro Paese di generare «crescita intelligente»;
    ampliare l'accesso all'istruzione superiore aumentando la partecipazione ai corsi di istruzione terziaria in particolare del membri dei gruppi svantaggiati, appare una scelta necessaria anche in considerazione degli obiettivi che l'Unione europea ha indicato ai propri stati membri. La strategia Europa 2020 è stata adottata per innovare Lisbona 2001, per rispondere alle nuove priorità che la crisi economica ha posto e che hanno portato l'Unione europea a riconoscere l'urgenza di promuovere una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva caratterizzata da alti livelli di occupazione, produttività e coesione sociale. La Strategia Europa 2020 si è posta cinque obiettivi, tra questi investire in istruzione, innovazione e ricerca, per sviluppare una economia basata sulla conoscenza e sulla innovazione, indicando tra i traguardi prioritari da raggiungere entro il 2020 quello di portare almeno al 40 per cento la percentuale di popolazione in possesso di un diploma universitario o di una qualifica simile in età 30-34 anni;
    conoscenza, ricerca, sviluppo appaiono quindi quali tasselli fondamentali di un quadro strutturale generale volto a rispondere alle carenze strutturali che l'economia europea ha mostrato ma per poter raggiungere questi risultati l'Europa richiede ai Paesi membri di adottare a livello nazionale provvedimenti che si adattino alla specifica situazione locale; attraverso la crescita del livello generale di istruzione;
    la quota di popolazione con un'istruzione terziaria nella Unione europea dei 28 è in costante aumento ma tra i territori in cui si registra un andamento di segno inverso ci sono quattro regioni che si trovano nell'Italia meridionale: Basilicata, Campania, Sardegna e Sicilia;
    secondo il rapporto Education at a glance 2015 in Italia solo il 34 per cento dei giovani, a fronte di una media Ocse del 50 per cento, consegue un diploma d'istruzione terziaria,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative volte a garantire pari opportunità di accesso all'alta formazione universitaria, all'alta formazione artistica e musicale, agli istituti tecnici superiori, attraverso una effettiva implementazione del diritto allo studio, che valorizzi i talenti delle studentesse e degli studenti in linea con gli obiettivi della Strategia UE 2020 e i livelli europei ed internazionali;
   ad assumere le iniziative necessarie a portare l'investimento della quota di prodotto interno lordo nel comparto universitario al livello degli altri Paesi dell'Ocse, dell'Unione europea e del Consiglio d'Europa, potenziando le sinergie tra atenei, istituti per l'alta formazione ed istituti tecnici superiori, e tessuto produttivo, anche attraverso l'attuazione di un sistema duale sul modello europeo.
(1-01283) «Centemero, Occhiuto».
(23 maggio 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    la Costituzione all'articolo 3, secondo comma, sancisce che: «la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; questo è il principio cardine da cui nasce il diritto allo studio; mentre all'articolo 34, la Costituzione prevede che: «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso»;
    per quanto attiene all'organizzazione necessaria a rendere effettivi i diritti suddetti, la Costituzione statuisce, all'articolo 117, secondo comma, lettera m), che è competenza dello Stato stabilire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Alle regioni spetta in via esclusiva la potestà legislativa in materia;
    il finanziamento per il diritto allo studio universitario, a livello nazionale, copre poco più del 70 per cento delle richieste effettive, con una continua tendenza al ribasso, con forti disparità tra le regioni del Paese;
    in Italia solo il 34 per cento dei giovani, contro una media Ocse del 50 per cento, consegue la laurea; secondo quanto emerge dai dati raccolti dal Censis, le università italiane stanno perdendo sempre più immatricolati, 78.000 in meno negli ultimi dieci anni, trend che continua ad allontanare l'Italia dalla possibilità di raggiungere il 40 per cento di laureati entro il 2020 come stabilito a livello europeo;
    le cause di tale calo di immatricolazione sono molteplici: il restringimento dei canali di accesso all'università, il numero programmato dei corsi di laurea, programmi di studio troppo antiquati e carenza di adeguati finanziamenti regionali;
    allarmante è non soltanto l'emorragia dei giovani studenti universitari, ma anche la fuga di coloro che hanno già conseguito una laurea, a riprova che, sempre più spesso, chi possiede qualità e titoli sceglie di massimizzarli puntando dove maggiori sono le opportunità economiche e d'impiego. Il trasferimento degli studenti italiani post-laureati, peraltro, rappresenta una perdita non soltanto in termini di risorse umane ma anche in termini economici, il cui costo è stato stimato in 23 miliardi di euro,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per prevedere un impegno sempre maggiore di risorse, attraverso il costante aumento dell'investimento di quote di prodotto interno lordo nel comparto universitario, per portarlo al livello degli altri Paesi dell'Ocse, al fine di migliorare la situazione attuale che accresce il divario tra i ceti sociali ed economici, in netto contrasto con il dettato costituzionale.
(1-01289)
«Borghesi, Allasia, Attaguile, Bossi, Busin, Caparini, Castiello, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Invernizzi, Molteni, Picchi, Gianluca Pini, Rondini, Saltamartini, Simonetti».
(25 maggio 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    la Costituzione italiana prevede il principio di uguaglianza sostanziale, in base al quale «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese»;
    la medesima Costituzione prevede quale specificazione, all'articolo 34, quarto comma, che «La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso»;
    tra il 2008 e il 2014, secondo i dati dell’European university association public funding observatory, l'investimento pubblico si è ridotto del 21 per cento in termini reali e tra il 2014 (unico anno in cui il livello di investimenti aveva ripreso a crescere almeno rispetto al 2013) al 2015 si è assistito a una nuova riduzione;
    secondo l’«Education at a glance 2015», l'annuale pubblicazione Ocse che analizza i sistemi di istruzione dei trentaquattro Paesi membri e di altri Stati partner, l'Italia destina soltanto lo 0,9 per cento del prodotto interno lordo all'istruzione terziaria, la seconda quota più bassa tra i Paesi dell'Ocse dopo il Lussemburgo, mentre Paesi come Canada, Cile, Corea, Danimarca, Finlandia, Stati Uniti, hanno dedicato quasi il 2 per cento, o una quota superiore, del prodotto interno lordo all'istruzione terziaria;
    in particolare, i fondi destinati alla copertura delle borse di studio, che rappresenterebbero, in diretta attuazione del dettato costituzionale, uno strumento per garantire l'accesso agli studi universitari anche da parte di chi non può permetterselo in base al reddito familiare e alle proprie forze, sono sempre insufficienti e infatti ci sono molti aventi diritto che ne rimangono privi;
    negli ultimi anni, infatti, il diritto allo studio universitario è stato privato di effettività a causa del sempre più frequente fenomeno per cui uno studente risulti idoneo a percepire la borsa di studio ma non possa esserne beneficiario a causa delle insufficienti risorse stanziate dallo Stato (tanto da avere fatto notizia la circostanza per cui una regione nel 2016 risulterebbe in grado finalmente di avere la copertura del 100 per cento per l'erogazione delle borse di studio);
    infatti, nonostante le nuove regole sul diritto allo studio, conseguenti alla «riforma Gelmini» dell'università, abbiano causato un numero di studenti idonei a percepire la borsa di studio inferiore rispetto al passato, le regioni non riescono, comunque, ad assegnare le borse a tutti i richiedenti che ne hanno diritto;
    sullo specifico fondamentale punto del diritto allo studio è in corso una mobilitazione studentesca alla quale anche Alternativa libera-Possibile ha fornito il proprio apporto al fine di presentare una proposta di legge di iniziativa popolare per garantire l'effettività e l'omogeneità delle prestazioni, destinate ad assicurare la copertura totale delle borse di studio, l'efficienza e l'adeguatezza dei servizi e la fascia di esenzione dalle tasse; definire l'ammontare della borsa di studio sulla base di parametri oggettivi e prevedere ulteriori interventi di attuazione del principio di uguaglianza sostanziale ed effettività del diritto allo studio universitario (dall'assistenza sanitaria gratuita nella regione in cui ha sede l'università, anche se non si tratta di quella di residenza, alla tariffa agevolata per la mensa e altro);
    secondo i dati dell'anagrafe del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca il numero degli immatricolati è passato da trecentotrentaseimila nell'anno accademico 2003/2004 a duecentosettantamila nel 2014/2015 e dati simili risultano da studi dell'Ocse (dai trecentotrentacinquemila del 2004/2005 a duecentosettantamila del 2014/2015); risulta che siano stati persi circa quattrocentosessantatremila studenti in dieci anni;
    negli ultimi anni c’è stato peraltro anche un sensibile calo delle immatricolazioni: secondo il rapporto Res «Università in declino. Un'indagine sugli atenei da Nord a Sud», a cura di Gianfranco Viesti, «rispetto al momento di massima dimensione (databile, a seconda delle variabili considerate, fra il 2004 e il 2008) al 2014-2015 gli immatricolati si riducono di oltre 66 mila unità, passando da circa 326 mila a meno di 260 mila (con una riduzione del 20 per cento), tanto da portare alla conclusione che «l'Italia ha compiuto, nel giro di pochi anni, un disinvestimento molto forte nella sua università»;
    secondo gli obiettivi «Europa 2020» fissati dalla Commissione europea, tra quattro anni dovrebbero esserci, nell'Unione europea, il 40 per cento di giovani laureati, ma l'obiettivo italiano alla stessa data è pari al 26-27 per cento (partendo dal 21,7 per cento del 2012), che continuerebbe a collocarla all'ultimo posto,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per prevedere una maggiore e crescente destinazione di risorse al comparto universitario per portarlo al livello degli altri Paesi dell'Ocse;
   ad assumere iniziative normative a garanzia dell'effettività del diritto allo studio universitario previsto dalla Costituzione, aumentando in particolare le risorse destinate al relativo fondo.
(1-01293)
«Brignone, Civati, Andrea Maestri, Pastorino, Matarrelli, Artini, Baldassarre, Bechis, Segoni, Turco».
(7 giugno 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo l'edizione 2015 del rapporto internazionale Education at a glance prodotto dall'Ocse, solo il 42 per cento degli italiani inizia gli studi universitari, valore che è il più basso in Europa (a parte il Lussemburgo che non ha università) e il penultimo nell'Ocse (davanti solo al Messico), a fronte di una media europea del 63 per cento e di valori massimi che superano l'80 per cento; gli studenti universitari italiani dovrebbero, quindi, aumentare almeno di metà anche solo per raggiungere la media europea, addirittura raddoppiare per raggiungere i Paesi europei più avanzati;
    secondo il medesimo rapporto, l'Italia, per percentuale di laureati nella fascia 25-34 anni, occupa adesso l'ultimo posto nell'Ocse con il 24 per cento (dopo essere stata a lungo penultima davanti alla Turchia), a fronte di una media europea del 39 per cento; il numero dei laureati italiani dovrebbe, quindi, aumentare di oltre il 60 per cento per raggiungere la media europea, mentre l'obiettivo del 40 per cento fissato da «Europa 2020» è ormai del tutto irraggiungibile per il nostro Paese;
    la percentuale di laureati italiani scende poi al 17 per cento nella fascia 25-64 anni, di nuovo la più bassa nell'Ocse, e, se si analizza il dato su base regionale come ha fatto il gruppo di ricerca coordinato da Gianfranco Viesti nel suo recente rapporto «Università in declino» pubblicato da Donzelli nel 2016, si vede che ai valori più alti (20 per cento) toccati dal Lazio, comunque pur sempre ben lontani dalla media europea, vi sono valori inferiori addirittura al 14 per cento in Puglia e in Sicilia, dello stesso ordine di quelli di Cina, Indonesia o Sudafrica;
    nemmeno l'andamento recente delle immatricolazioni induce a ben sperare poiché, come già evidenziato dal Consiglio universitario nazionale sin dal 2013 e come documentato un mese fa dal XVIII rapporto Almalaurea appena pubblicato, dopo l'aumento registratosi dal 2000 al 2003, legato soprattutto al rientro nel sistema universitario di fasce di popolazione adulta dopo la riforma dell'ordinamento degli studi nel 1999, si è verificato un vistoso calo del 20 per cento dal 2003 al 2015 (in valori assoluti si sono perse circa 70.000 matricole), solo in piccola parte mitigato dal leggero aumento del 2 per cento registrato nell'ultimo anno accademico;
    il dato delle immatricolazioni è anch'esso molto differenziato tra le regioni: infatti il calo di matricole tocca il -30 per cento al Sud, il -22 per cento al Centro ed è pari solo al -3 per cento al Nord; del resto anche il rapporto di Viesti valuta che circa i due terzi delle matricole mancanti abitino nel Meridione e nelle Isole, mentre, in valori assoluti, le università campane e quelle siciliane hanno avuto 6.500 matricole in meno tra il 2009 e il 2013, 5.000 in meno quelle pugliesi;
    tali dati evidenziano, tra l'altro, un accresciuto flusso di giovani meridionali che vanno a studiare nelle università del Centro-Nord – fenomeno di mobilità di per sé non negativo nella misura in cui consente ai giovani di esprimere al meglio il proprio talento e le proprie capacità in sedi e tipologie di studi che ritengono più consone alle loro aspirazioni – ma che si sta trasformando in una vera e propria emigrazione intellettuale;
    a questo proposito il rapporto Almalaurea, relativamente ai laureati magistrali a 5 anni dal conseguimento del titolo, evidenzia che, tra i residenti nel Nord Italia, l'88 per cento ha svolto gli studi universitari e attualmente lavora nella propria area di residenza, mentre l'unico flusso uscente di una certa consistenza (7 per cento) dipende dal trasferimento all'estero; invece, tra i laureati di origine nell'Italia meridionale, il 53 per cento ha trovato lavoro al Nord, mentre solo l'11 per cento di chi si è laureato al Nord rientra dopo gli studi nella propria regione di origine;
    dati sostanzialmente simili riguardo alla mobilità interregionale durante gli studi universitari sono stati ricavati anche da un gruppo di ricerca guidato da Pasqualino Montanaro, ricercatore presso la Banca d'Italia, utilizzando l'Anagrafe nazionale degli studenti universitari nell'ambito del progetto Achab (Affording college with the help of asset building), gestito da un consorzio di enti pubblici o privati senza fini di lucro e finanziato dall'Unione europea;
    il basso numero di studenti e laureati italiani dipende anche da un inefficace sistema di orientamento pre-universitario: il rapporto Anvur 2016 sullo stato del sistema universitario, presentato il 24 maggio 2016, certifica un tasso di abbandoni che tocca il 38,5 per cento a dieci anni dall'immatricolazione e soprattutto che tocca il 19,6 per cento a soli due anni dall'immatricolazione (abbandoni precoci), anche se si registra un piccolo miglioramento rispetto al rapporto 2014;
    lo stesso rapporto evidenzia che il tasso di abbandoni precoci è maggiormente concentrato tra i diplomati degli istituti tecnici e processionali e tra gli studenti del Meridione e delle Isole;
    tra le ragioni che spiegano il basso numero di studenti e di laureati deve sicuramente annoverarsi anche il limitato impegno nazionale nel campo del diritto allo studio universitario, nonostante il recente e molto significativo aumento dello stanziamento statale che è passato dai 162 milioni del 2015 ai 217 del 2016: infatti nel 2014/2015 solo l'8,2 per cento degli studenti italiani ha ottenuto la borsa di studio e solo il 10,3 per cento è stato destinatario di un qualche intervento di diritto allo studio, a fronte di valori superiori al 30 per cento in Francia, Inghilterra e Svezia, superiori addirittura all'80 per cento in Olanda, Danimarca, Finlandia;
    è ancora purtroppo sussistente la categoria degli idonei non beneficiari, cioè studenti valutati come idonei, per ragioni di reddito e di merito, a ottenere la borsa di studio ma che non la ricevono per mancanza di fondi, categoria di cui fa parte circa un quarto degli idonei (oltre 45.000 studenti); anche in questo caso si registrano notevoli differenze a livello regionale: la percentuale di idonei non beneficiari è inferiore al 10 per cento in tutte le regioni del Nord e del Centro, salvo Piemonte e Lazio, mentre è superiore al 40 per cento in Piemonte, Campania, Calabria, Sardegna, con un picco negativo di oltre il 65 per cento in Sicilia;
    eppure la borsa di studio si dimostra strumento abbastanza efficace: come mostra una ricerca condotta dall'Osservatorio regionale del Piemonte sotto la guida di Federica Laudisa, i borsisti abbandonano gli studi universitari il 13 per cento di volte in meno dei non borsisti e conseguono in media 13 crediti formativi in più ogni anno rispetto ai non borsisti;
    anche sul fronte delle contribuzioni alle università da pagare da parte degli studenti (le cosiddette tasse universitarie), le università italiane si dimostrano alquanto esose con i loro studenti: per entità delle tasse pagate dagli studenti, l'Italia è al terzo posto in Europa dopo la Gran Bretagna e l'Olanda, con poco meno di 2.000 euro annui in media, mentre in molti Paesi europei, tra cui la Germania e tutte le nazioni scandinave, l'istruzione universitaria è gratuita o quasi;
    il risultato è che nel nostro Paese le condizioni economiche e culturali delle famiglie di origine pesano molto più che in altri sul successo scolastico e sul reddito dei figli: ad esempio il rapporto annuale dell'Istat valuta che il livello professionale del capo famiglia e la proprietà della casa di abitazione porta ai figli un vantaggio reddituale del 14 per cento in Italia ma dell'8 per cento in Francia, mentre il figlio di un genitore laureato dispone in Italia di un reddito mediamente superiore del 29 per cento al figlio di genitori con la licenza media;
    riguardo, infine, all'efficacia sociale di possedere un titolo di studio universitario, non solo i laureati hanno una speranza di vita maggiore di 3,8 anni rispetto a chi ha raggiunto solo la licenza media, ma, nonostante la lunga crisi economica globale, hanno ancora oggi occasioni di occupazione e livello di reddito ben maggiori dei diplomati; ad esempio il rapporto annuale dell'Istat certifica che nel 2007 la disoccupazione nella fascia 25-34 anni era del 9,5 per cento tra i laureati ma del 13,1 per cento tra i diplomati, mentre nel 2014 (dopo sette anni di crisi) ambedue le percentuali erano molto cresciute attestandosi al 17,7 per cento per i laureati, ma ben al 30 per cento per i diplomati; dati simili sono forniti anche dal XVIII rapporto Almalaurea che indica nel 67 per cento il tasso di occupazione dei laureati magistrali a un anno dal conseguimento del titolo, in piccola ripresa dopo la lunga crisi che lo ha fatto scendere dall'82 per cento del 2008 al 66 per cento del 2014;
    il XXI rapporto sulle retribuzioni, pubblicato recentemente dal gruppo privato OD&M consulting, mostra altresì che il neolaureato in ingresso guadagna di più di un lavoratore senza laurea con alle spalle già 3-5 anni di anzianità; inoltre il titolo di laurea mitiga anche il differenziale retributivo tra uomini e donne rispetto a quello presente tra i non laureati;
    i dati esposti nelle premesse, provenienti da agenzie internazionali e da accurate ricerche, acclarano il fatto che l'Italia soffre di un serio ritardo nella diffusione della formazione universitaria nella popolazione, sia in generale, sia nella fascia più giovane, e che non si registrano purtroppo segnali di inversione di tendenza e di recupero;
    gli stessi dati evidenziano ancora una volta il profondo divario sociale ed economico che caratterizza le regioni italiane: a pagare il prezzo più elevato di questo depauperamento di capitale umano sono le regioni del Mezzogiorno, continentali e insulari, dove si registra la diminuzione più marcata di immatricolati e i flussi più significativi di mobilità giovanile unidirezionale verso le altre regioni, ma non mancano segni di difficoltà anche nelle aree interne e marginali del Settentrione e del Centro;
    nonostante che la ripresa sia stata finalmente agganciata dopo la lunga crisi globale, grazie alle politiche del Governo sul mercato del lavoro e ad altre specifiche scelte di natura sociale ed economica per incrementare la domanda interna, occorre anche tener conto che la disuguaglianza nella distribuzione del reddito è aumentata nel primo decennio del secolo e quindi sembra opportuno realizzare interventi redistributivi che incidano, in particolare, sui meccanismi che conducono alla formazione dei redditi primari e, quindi, aiutino gli individui a dotarsi di capacità meglio remunerate sul mercato del lavoro, come, ad esempio, tutte le politiche dell'istruzione;
    ciò che è stato realizzato nell'ambito scolastico con gli ingenti investimenti e le riforme messe in campo dalla legge n. 107 del 2015, deve ora essere esteso alla formazione post-secondaria, in quanto conseguire un titolo di studio superiore non solo permette di realizzare l'apprezzabile obiettivo di una società forte di competenze di cittadinanza, competitiva e dinamica, ma porta evidenti vantaggi ai singoli cittadini interessati;
    occorre, dunque, rimuovere gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di quest'obiettivo, agendo sia sul lato del diritto allo studio che su quello della contribuzione universitaria per dare supporto alle famiglie di studenti universitari che devono affrontare i costi degli studi; la gracilità degli attuali sistemi determina una perdita netta di talenti e di opportunità, individuali e per l'intero Paese, e perpetua l'immobilità sociale ed economica, la rigidità delle rendite di posizione e la sclerosi delle corporazioni di cui soffre l'Italia;
    in questo ambito, una particolare attenzione deve essere rivolta alle sperequazioni esistenti tra le diverse aree territoriali del Paese, a danno soprattutto delle regioni meridionali e delle aree interne e marginali, che sono probabilmente tra le cause delle gravi difficoltà economiche e sociali di queste aree e della loro maggiore difficoltà di ripresa;
    a seguito dell'entrata in vigore delle norme del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 159 del 2013 adesso si dispone di uno strumento raffinato ed efficace, l'indicatore della situazione economica equivalente o Isee, per valutare il reddito e il patrimonio di chi richiede di accedere alle prestazioni sociali, in particolare delle famiglie degli studenti universitari, ai quali è specificamente destinato l'articolo 8 del sopra citato provvedimento di riforma dell'Isee;
    a seguito dell'entrata in vigore del decreto ministeriale n. 893 del 2014, è entrato in funzione nel 2015 uno strumento introdotto dalla legge n. 240 del 2010, cioè il costo standard per studente, che è certamente un metodo molto innovativo e trasparente per ripartire una parte della quota base del fondo di finanziamento ordinario delle università statali, metodo certamente da consolidare e potenziare dopo aver provveduto ad individuare e a correggere gli aspetti che si fossero rivelati più deboli rispetto agli obiettivi e alle prescrizioni della legge;
    tra gli aspetti del costo standard per studente che si sono rivelati più problematici vi sono:
     a) la quantificazione dei costi di studenti in ritardo, perché studenti part-time, rispetto all'attuale sistema on-off (1 gli studenti in corso, 0 gli studenti fuori corso);
     b) l'addendo perequativo, che dovrebbe essere per legge commisurato ai differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali in cui opera l'università, ma che nel 2015 ha pesato per una percentuale minima sul costo standard totale: meno del 6 per cento per la Sicilia, circa del 3 per cento per la Sardegna, rispetto alla Lombardia;
     c) la dimensione delle classi ottimali, uniforme in tutta Italia in modo indipendente dai territori e quindi dalle diverse densità di popolazione e disponibilità di infrastrutture per la mobilità e l'ospitalità degli studenti, che si riflette pesantemente sul finanziamento assegnato alle università con corsi di studio di dimensioni sub-ottimali,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per stabilizzare definitivamente il fondo integrativo per il diritto allo studio al valore stanziato per il 2016 dall'ultima legge di stabilità, come primo passo per consolidare il diritto allo studio universitario e per garantire la borsa di studio a tutti gli idonei, con l'obiettivo di una crescita graduale del fondo per raggiungere almeno i valori medi europei;
   ad emanare quanto prima, superando la normativa pregressa che risale al 2001, il decreto ministeriale previsto dall'articolo 7, comma 7, del decreto legislativo n. 68 del 2012, con un duplice obiettivo: da un lato aggiornare e rendere maggiormente omogenei a livello nazionale i requisiti di merito dello studente e di reddito e patrimonio della famiglia (Isee) per accedere alle prestazioni del diritto allo studio universitario; da un altro lato, stabilire i criteri di ripartizione del fondo integrativo sulla base del fabbisogno regionale – come stabilito dall'articolo 18, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 68 del 2012 – rendendo altresì vincolante per le regioni lo stanziamento di risorse proprie, oltre al gettito della tassa regionale per il diritto allo studio, in misura pari ad almeno il 40 per cento del fondo integrativo statale ricevuto;
   nel rispetto dell'autonomia delle università e con l'intento di rendere più equa e progressiva l'imposizione, a valutare la possibilità di assumere iniziative per passare dall'attuale sistema di controllo della contribuzione universitaria nelle università statali collegato ad un limite massimo sul gettito totale (articolo 5, commi 1, 1-bis e 1-ter, del decreto del Presidente della Repubblica n. 306 del 1997) ad un nuovo sistema collegato invece ad un limite massimo della contribuzione che deve essere pagata da ciascuno studente di famiglia con Isee medio-basso, fino anche a pervenire, per Isee bassi, ad annullare tale contribuzione con una specifica no-tax area;
   ad assumere iniziative per disporre che una quota del fondo di finanziamento ordinario delle università statali, nonché, relativamente alle regioni dell'obiettivo convergenza, una quota del fondo di sviluppo e coesione previsto dal decreto legislativo n. 88 del 2011 sia destinata alle università a parziale compensazione della riduzione di gettito che deriva loro dagli studenti che non pagano contribuzioni o le pagano in misura molto ridotta, anche per diminuire l'effetto finanziario disincentivante dell'immatricolazione di studenti di famiglie poco abbienti;
   a valutare la possibilità di rivedere, dopo il primo anno di applicazione, le modalità di calcolo del costo standard dello studente, in particolare per quanto riguarda:
    a) il calcolo degli studenti part-time, per i quali è ancora mancante una chiara normativa di riferimento;
    b) l'addendo perequativo, per tener meglio conto, come prescrive la legge n. 240 del 2010, dei «differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali» in cui operano le università;
    c) il calcolo del finanziamento spettante a ciascun ateneo in presenza di corsi di studio con numero di studenti iscritti in corso inferiore alla dimensione ottimale;
    d) una migliore articolazione, rispetto alle diverse classi di corsi di laurea e ai diversi territori di riferimento delle università, delle dimensioni ottimali dei corsi di studio in termini di numero di studenti;
   ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per ampliare e pluralizzare l'offerta formativa universitaria e per rafforzare le attività di orientamento pre-universitario per contrastare il fenomeno del calo delle iscrizioni e soprattutto degli abbandoni precoci, con particolare riguardo agli studenti del Mezzogiorno e tenendo anche conto delle caratteristiche e delle aspirazioni dei diplomati degli istituti tecnici e professionali.
(1-01294)
«Ghizzoni, Coscia, Covello, Dallai, Piccoli Nardelli, Ascani, Blazina, Bonaccorsi, Carocci, Coccia, Crimì, D'Ottavio, Iori, Malisani, Malpezzi, Manzi, Narduolo, Pes, Rampi, Rocchi, Sgambato, Ventricelli».
(7 giugno 2016)