XVII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 1 di Mercoledì 13 novembre 2013

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Manciulli Andrea , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA PROIEZIONE DELL'ITALIA E DELL'EUROPA NEI NUOVI SCENARI GEOPOLITICI. PRIORITÀ STRATEGICHE E DI SICUREZZA

Audizione del Direttore della NATO Defense College Foundation, Alessandro Politi.
Manciulli Andrea , Presidente ... 3 
Politi Alessandro , Direttore della NATO Defense College Foundation ... 3 
Manciulli Andrea , Presidente ... 7 
Amendola Vincenzo (PD)  ... 7 
Sibilia Carlo (M5S)  ... 8 
Di Battista Alessandro (M5S)  ... 8 
Nicoletti Michele (PD)  ... 9 
Cassano Franco (PD)  ... 9 
Scotto Arturo (SEL)  ... 9 
Di Battista Alessandro (M5S)  ... 10 
Manciulli Andrea , Presidente ... 10 
Politi Alessandro , Direttore della NATO Defense College Foundation ... 11 
Manciulli Andrea , Presidente ... 14 

ALLEGATO: Documentazione consegnata dal Direttore della NATO Defense College Foundation, Alessandro Politi ... 15

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Fratelli d'Italia: FdI;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ANDREA MANCIULLI

  La seduta comincia alle 14.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del Direttore della NATO Defense College Foundation, Alessandro Politi.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla proiezione dell'Italia e dell'Europa nei nuovi scenari geopolitici, l'audizione di Alessandro Politi, Direttore della NATO Defense College Foundation.
  Avverto che il Direttore Politi ha consegnato una documentazione della quale autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
  Do quindi la parola al nostro gradito ospite.

  ALESSANDRO POLITI, Direttore della NATO Defense College Foundation. Signor presidente, onorevoli deputati, sono io che vi ringrazio per l'onore accordatomi. Vorrei procedere rapidamente in modo da lasciare il massimo tempo possibile alle vostre domande.
  Quando noi parliamo della situazione geostrategica e politica internazionale (v. allegato, pagg. 30 e 31) c’è una percezione che non è esattamente molto chiara, anche perché è dal 1979 – in alto a sinistra vedete una foto dei tempi della rivoluzione khomeinista – che diversi specialisti (ci possiamo mettere in mezzo analisti di politica estera, diplomatici, giornalisti, politici, think-tankers) non hanno previsto qualcosa come otto rivoluzioni e due controrivoluzioni di vario tipo.
  Noi ci troviamo davanti a una «primavera araba» che, devo dire, è un nome che non mi è mai piaciuto, poiché è piuttosto iettatorio: mi ricorda molto la Primavera di Praga.
  Vediamo qual è il quadro strategico globale (v. allegato, pag. 5). Fortunatamente c’è un documento, in ambito Difesa, fatto dal Centro militare di studi strategici, che per la prima volta in sessanta anni di Repubblica si occupa del mondo in modo strutturato e cerca di fare delle previsioni a breve. Andiamo, allora, molto rapidamente a fare questo giro del mondo, per punti essenzialissimi.
  Per quanto riguarda l'Oceano Pacifico (v. allegato, pag. 33), la cosa più importante è il collegamento pericolosissimo, ad alto rischio, dei due gemelli siamesi Cina e Stati Uniti. C’è una forte competizione per gli spazi e per gli accordi commerciali; c’è una politica del debito e del credito collegata.
  La rimonta degli Stati Uniti, per ora, in questo spazio si avvale di mezzi diplomatici, più precisamente il possibile accordo di Trans-Pacific Partnership perché il resto delle Americhe, inclusi gli Stati Uniti, è in fase di riorganizzazione evidente. Questo vale per tutti i grandi Paesi di questa zona.
  L'attenzione mediatica è più interessata alle dispute marittime nel Mar Cinese Meridionale: esistono, sono vere, ma sono Pag. 4un problema molto secondario rispetto a questo collegamento, che invece è problematico.
  Per l'Oceano Indiano (v. allegato, pag. 34), ovviamente l'attenzione in questo momento è concentrata sugli accordi del nucleare che riguardano l'Iran. Siamo ancora in una situazione di Giano bifronte: da un lato c’è la possibilità di una pace, anche se per ora bloccata da una posizione francese, dall'altro c’è ancora un rischio residuo, ma concreto, che il Governo israeliano decida di andare per la sua strada.
  Ancora una volta, le cose più importanti sono fuori dallo sguardo dei media. Innanzitutto, vi è una competizione tra Cina e India che si sposta dall'Arco himalayano per andare a competere nel controllo delle vie d'accesso e delle basi navali lungo tutto l'Oceano Indiano. È quello che i cinesi chiamano la «collana di perle» e che naturalmente gli indiani non vedono di buon occhio.
  In secondo luogo, in prospettiva, soprattutto dopo il ritiro della NATO, nel 2014, dall'Afghanistan, vi è un rischio di marginalizzazione del Pakistan. Come sapete, il Pakistan non è soltanto un attore importante per la vicenda afghana, ma è il detentore dell'unica bomba islamica veramente funzionante, per ora, nel mondo, ed ha accordi più o meno sottobanco con l'Arabia Saudita in caso di rischio di proliferazione nel Golfo.
  L'Africa (v. allegato, pag. 35), in genere, per noi italiani è un posto poco interessante, nonostante abbiamo partecipato alla campagna di Libia. Vorrei solo attirare l'attenzione sul fatto che, invece, questo posto è molto interessante per molta più gente di quanto non immaginiamo. È ovvio che lo sia per i cinesi e gli americani; i francesi hanno le loro basi. Ma l'Africa è veramente interessante per i turchi e i brasiliani, per esempio. Credo che ci sia una possibilità di crescita nel PIL di questo continente, ma soprattutto c’è una possibilità di politica italiana, se la si volesse fare.
  Nell'Oceano Atlantico (v. allegato, pag. 36) – e abbiamo chiuso il giro del mondo – abbiamo una serie di vuoti. Abbiamo un vuoto transatlantico tra Stati Uniti e Unione europea, ciascuno per i suoi problemi finanziari e monetari (un vuoto per il fiscal cliff e un vuoto per la cosiddetta «crisi dell'euro»). Ci sono, però, anche altri Paesi che sono fuori centro. La Russia è un caso tipico, nonostante l'episodico successo diplomatico in Siria; lo stesso la Turchia, che aveva prima una politica estera che però è stata messa in crisi dai recenti sviluppi.
  Un dato di partenza (v. allegato, pagg. 37 e 38) per noi italiani è quello che io chiamo il Cindoterraneo, ossia il flusso concreto di merci, persone, capitali, che passa da Suez e finisce ancora, ma non a lungo se noi perdiamo tempo, a Gioia Tauro. Dobbiamo chiederci però se questa cosa dura per sempre oppure no. È chiaro che se il progetto europeo fallisce il Mediterraneo diventa un mare marginale; se la Cina inciampa su se stessa, cosa tutt'altro che improbabile, è un altro problema; se gli Stati Uniti perdono tempo a fare una vera manovra finanziaria, come noi italiani siamo abituati a fare, idem; l'India è un attore interessante ma con un progresso più lento; l'Iran, che pure è una potenza emergente, insieme all'India, nell'Oceano Indiano, è un Paese con forti problemi interni, per esempio di corruzione.
  Tra il Nord Africa e la Penisola Arabica vedete dei riquadri che vi danno un'idea degli esiti piuttosto incerti delle varie rivoluzioni arabe.
  Il punto d'arrivo (v. allegato, pag. 39), che naturalmente non è un punto d'arrivo italiano, ma europeo, è quella che io chiamerei un'area di responsabilità primaria. Ovviamente è un'area di responsabilità, non un progetto né di conquista né post-coloniale o altra roba del genere, però l'Europa, con i mezzi di cui dispone, anche mezzi di logistica militare, può essere in grado di farsi carico di una parte rilevante dei problemi in quest'area, considerato che i nostri amici americani hanno altre priorità. Del resto, avete visto che dalla fine della guerra fredda la Sesta Flotta, che era prima basata a Napoli, è Pag. 5diventata praticamente una flotta fantasma. Le flotte vere sono quelle dell'Oceano Indiano oppure quelle del Pacifico.
  Quanto ai fattori di incertezza (v. allegato, pag. 40), noi avevamo delle stelle polari che, purtroppo, si sono indebolite in modo tale che rischiano di diventare «delle stelle nova» la luce si vede ma la stella non c’è più. Bisogna guardare la realtà in faccia. Anche i rapporti bilaterali che prima erano abbastanza consolidati, hanno ciascuno il proprio punto di incertezza. Quello che ci tocca di più, forse, è quello della Germania, perché è una non leadership arroccata sulla difesa piuttosto miope di una concezione tedesca dell'euro. Quello che, per vicinanza, ci preoccupa di più è tanto quello americano quanto quello francese. È una situazione a cui noi non possiamo, con le nostre forze, porre rimedio influenzando gli attori in questione.
  Tra gli altri fattori di incertezza (v. allegato, pag. 41), il vuoto che c’è nella parte meridionale del Mediterraneo. Noi siamo tutti, come Paesi europei ma anche come Stati Uniti, in ritardo sulle scadenze e se non ci diamo da fare avremo delle Weimar arabe. Come voi sapete, dal fallimento della Repubblica di Weimar non sono uscite situazioni particolarmente vantaggiose.
  L'altra questione che ci tocca particolarmente è quella dei Balcani e dell'Est Europa. L'Est Europa, al di fuori dell'Unione europea, ha per noi un'esigenza energetica abbastanza chiara, ma lì tutto sommato ci fermiamo e questo segnare il passo non ci aiuta.
  La questione del debito (v. allegato, pag. 42), come voi vedete, è una questione abbastanza globale che pone in difesa degli attori che prima sembravano protagonisti: lo Stato nazionale, la Banca centrale, tutte le istituzioni europee, e anche il Fondo monetario internazionale. Senza questo tipo di parametro è difficile capire in che mondo ci troviamo. Ovviamente il dibattito mediatico dà la colpa a vari attori, ma sapete benissimo che non è proprio così.
  Vorrei farvi notare (v. allegato, pag. 44) che tutta questa crisi finanziaria globale non ha niente a che fare con i mercati. Noi abbiamo solo dieci attori che controllano il 90 per cento dei derivati, tre agenzie di rating e quattro compagnie di audit, sempre per le stesse percentuali di mercato. Questo ovviamente è un oligopolio. Potete vedere (v. allegato, pag. 45) un'analisi condotta da una ricerca congiunta della Comunità europea e dell'Istituto federale svizzero di tecnologia sulle cinquanta compagnie col maggior controllo verticale azionario al mondo: l'ultima è cinese, ed è una petroliera; il resto sono tutte finanziarie o assicurazioni; in mezzo trovate anche la nostra UniCredit e capite bene, dalla sua posizione, che non se la passa molto bene.
  Noi stiamo sperimentando la prima guerra finanziaria mondiale, globale. Purtroppo questo è lo scenario che noi abbiamo; il resto viene naturalmente chiamato con varie etichette, come la «crisi dei debiti sovrani», la «crisi dell'austerità» e così via.
  Tornando a Gioia Tauro (v. allegato, pag. 47), parliamo di una giugulare logistica per noi. È una giugulare che, però, è messa in discussione da alcuni fatti. In primo luogo, il Pireo è stato affittato, per pochi soldi di debito greco, per trentacinque anni dalla Cina; avremmo potuto affittarlo noi, francamente, ma dovevamo dire che i greci erano più paria di noi.
  Tanger Med, in Marocco ma sulla facciata atlantica, si sta espandendo e certamente non ha nessuna intenzione di togliere il commercio interafricano, ma vuole dirottare grosse navi dalla rotta Suez per passare da un'altra parte.
  Vi è un'ultima cosa, che spesso si dimentica: se continuiamo con lo scioglimento dei ghiacci, avremo un 30 per cento di traffici cinesi ed estremo-orientali in meno. Perché aspettiamo così tanto tempo a fare un collegamento ferroviario decente con quello che viene chiamato la «banana blu» cioè la zona più ricca d'Europa che va da Londra grosso modo fino a Milano ?
  C’è un ultimo aspetto che vorrei farvi notare (v. allegato, pag. 48), e questa è una Pag. 6produzione assolutamente italiana. Non c’è al mondo carta strategica che vi faccia vedere i collegamenti tra i mercati oceanici mafiosi, le principali mafie nei vari continenti, le guerre di mafia (lo vedete dal teschietto), la più importante delle quali è la guerra di mafia messicana. Quando ci sono dai 60 mila ai 100 mila morti nel giro di sei anni, non è una faccenda folklorica del genere «Messico e nuvole», ma è una questione che tocca anche noi, prima di tutto perché i mafiosi messicani sono in contatto stretto con i nostri ’ndranghetisti, poi perché stanno sbarcando nella penisola iberica e da lì faranno un giro, da un lato o dall'altro dell'Oceano, verso l'Australia.
  Questo però è anche collegato – lo troverete sul volume Nomos & Khaos di Nomisma di quest'anno – con la capacità di riciclaggio di diversi Paesi. Il riciclaggio è l'industria più importante dei mafiosi. Le frecce che vedete in alto o in basso indicano i Paesi in ascesa o in declino e vi fanno capire come le mafie possono sfruttare tanto l'ascesa impetuosa economica di un Paese, vedasi per esempio la Cina, quanto il suo declino, vedasi il caso degli Stati Uniti, anche se è relativo. Se non ci prepariamo facciamo la fine del grillo.
  Vediamo allora gli scenari (v. allegato, pagg. 50 e 51). Uno scenario è quello del declino degli USA. Tutti dicono che è uno scenario catastrofista; io preferisco tenerlo presente perché non vorrei trovarmi isolato senza un importante amico.
  Gli altri tre scenari, che vedete, sono abbastanza chiari. Il peggiore probabilmente è il quarto. Questi scenari hanno delle ripercussioni a livello mediterraneo. Il primo è che non siamo più un terminale importante dei commerci mondiali. Il secondo, ancora peggiore, è che l'Unione europea collassi e le democrazie arabe invece fioriscono con investimenti esterni. Il terzo è una lunga convalescenza delle due sponde, cosa che tutto sommato ci auguriamo. Il quarto è una spartizione pubblica-privata delle due sponde, tanto da parte di attori statali quanto da parte di attori non statali, e la marginalizzazione di questo mare. In pratica, una colonizzazione a rovescio.
  Alcune delle risposte italiane correnti le abbiamo qui (v. allegato, pag. 52): la Bella di Torriglia, tutti la vogliono nessuno se la piglia. L'altra cosa tipica è l'ago della bilancia: oggi siamo nella condizione di essere un ago ma senza la bilancia. Non c’è lo spazio di mediazione, e qualche volta ce lo siamo giocato, vedasi l'Iran. La terza classica risposta, devo dire la più sensata per molti secoli, è la ricerca di un altro grande alleato. Dal 1860 a oggi la questione centrale era «con chi stiamo perché da soli non ce la facciamo». Gli Stati Uniti, la NATO, l'Unione europea ci hanno dato una risposta. Ma se queste grandi organizzazioni sono in crisi noi abbiamo un problema.
  Vorrei proporvi un tipo di visione che avrei chiamato «Cavour 3.0» (v. allegato, pag. 53). Questa foto non è ritoccata al photoshop e lui ha ventiquattro anni. Come vedete, la capigliatura era più libera di quanto non si pensasse.
  Un primo punto molto importante, che noi sottovalutiamo perché abbiamo forse un eccesso di compiacimento machiavellico, è la possibilità di un'etica della politica estera italiana. Ve lo dico perché un Paese nostro dirimpettaio dell'Oceano Atlantico, che si chiama Canada, lo fa dagli anni Cinquanta. Nessuno di noi francamente si interessa al Canada, però la responsibility to protect è una faccenda canadese. Questo è un differenziale su cui si può far leva quando si è relativamente deboli.
  Ora, se il Vaticano riesce a costruire un'etica nella sua politica, forse ce la fa anche l'Italia. Le parole cardine sono: sostenibilità, interesse generale e futuro presente. Sull'interesse generale vorrei soffermarmi pochi secondi prima di chiudere. È chiaramente un concetto della Rivoluzione francese, ma la globalizzazione e il fatto che il dato ecologico del nostro pianeta è di un pianeta senza pezzi di ricambio e con poche risorse rinnovabili dà all'espressione «interesse generale» una pregnanza molto più profonda.Pag. 7
  Cosa possiamo fare a livello di Unione europea ? La prima cosa è fare una task force dei cinque Paesi in crisi, sprezzantemente chiamati «PIIGS». Io non ho mai capito perché non ci sia un coordinamento tra questi cinque Paesi che in realtà sono sotto assalto finanziario. L'altra cosa fondamentale è recuperare un primato della politica; così com’è la costruzione europea è una costruzione che ha perso il suo funzionalismo ed è diventata un affare puramente economico. È un problema, e lo vediamo dopo vent'anni di crescita delle politiche finanziarie non regolate. Questo significa che non si possono soltanto fare delle spending review, ma bisogna sapere quanti soldi diamo a chi e perché. Questo è un tema assolutamente tabù.
  L'ultima azione è verso un'Unione europea politica con chi vuole. Io sono amicissimo di un sacco di amici britannici, ma se vogliono fare il referendum lo facciano, lo vincano e si va avanti con chi può. Gli inglesi devono capire che il mondo è cambiato.
  L'alleanza è un'altra cosa molto importante (v. allegato, pag. 54). Non lo dico certo perché faccio parte di una fondazione con l'etichetta NATO. Senza un nuovo accordo politico transatlantico l'alleanza rischia di anemizzarsi; infatti, è quello che sta succedendo. Questo significa un accordo oceanico, che però comprenda tanto il nord quanto il sud dell'Atlantico e significa allargare le partnership di cooperazione in sicurezza esattamente come abbiamo fatto con i Paesi arabi, con Israele e con altri partner di sicurezza in giro per il mondo.
  Questo, però, significa anche avere degli accordi economici trasparenti, sostenibili e soprattutto compatibili con quelli in gestazione nel Pacifico. Al momento, i due esercizi sono totalmente scollegati. Chi ci garantisce che noi abbiamo una perdita di competitività, avendo un accordo sull'Atlantico e uno del Pacifico completamente diverso ? La trasparenza, come voi capite, è nel nostro interesse.
  Un'Europa responsabile (v. allegato, pag. 55) significa questo e significa, però, anche una deterrenza a sufficienza, che vale a dire mantenere tranquillamente la deterrenza estesa americana, ma forse ripensare le deterrenze nazionali francese e britannica, anche se so benissimo che questi due partner per ora ritengono la cosa completamente campata per aria. Ma è la differenza tra una sovranità nazionale vecchio stile poco efficace e, invece, una capacità di manovra europea. Questa è la sfida del dopo Lisbona, anche perché il Trattato di Lisbona è stato praticamente la pietra tombale sull'Europa politica come è stata immaginata.
  Questo significa, però, anche la tutela della libertà come parametro di sicurezza. È un vecchio dibattito: quanta sicurezza e quanta libertà ? Credo che se non c’è una funzionalità della sicurezza per la libertà, a quel punto perdiamo tanto in libertà quanto in sicurezza.
  Ecco, un mondo di nessuno: non c’è più un gendarme (v. allegato, pag. 56). È il titolo di un libro americano, No one's world, di Kupchan, ma i punti sono quelli che io propongo alla vostra attenzione.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  VINCENZO AMENDOLA. Ringrazio il professor Politi. Nei macroscenari, lei pone il tema anche di ripensare a un'alleanza. Nello stile della sua esposizione, facciamo domande anche a lunga gittata, non solo relative alla cronaca immediata e tragica del Mediterraneo.
  Se lei dovesse pensare, visto anche lo sviluppo abbastanza incerto della politica estera di sicurezza comune europea, al ruolo dell'Italia nel Mediterraneo, la ricerca degli alleati in che direzione andrebbe ? Mi spiego meglio: se è vero che, come qualcuno l'ha definito, c’è un triangolo geopolitico della morte tra Iran, Arabia Saudita e altri attori, per quanto riguarda l'egemonia regionale nel Mediterraneo sull'energia, sulle costituzioni politiche, sul dopo primavere arabe, l'Italia come si dovrebbe muovere in quello scenario nella ricerca di alleati non solo della sponda nord, qualora dessero segni di vita, ma anche rispetto alla sponda sud ?Pag. 8
  Legato a questo c’è un mio cruccio che riguarda un'ipocrisia tutta italiana. Noi siamo comunque, in quello scenario, direttamente interessati per quanto riguarda la Libia, per quanto riguarda le crisi drammatiche che portano 366 morti nei nostri mari. È un'ipocrisia italiana avere Sigonella, avere delle basi, avere degli attori che non sono più i gendarmi del mondo ma sono comunque presenti, e fare finta di niente, anzi a volte abbiamo quasi paura a parlarne.
  Invece, io credo che dovrebbero esserci delle scelte di geopolitica a tutto tondo; l'Italia cioè dovrebbe essere centro, hub di una filosofia di cooperazione, di solidarietà e anche di intervento in scenari di crisi.
  Le mie due domande sono pertanto collegate. Nel lungo progetto, come e in che direzione l'Italia si dovrebbe muovere nella ricerca di alleanze con attori regionali – che poi non sono solo regionali ma hanno un'influenza mondiale – nell'ambito del Mediterraneo in fiamme ? Inoltre, come vede la proiezione, che non è solo politica ma è anche di investimento, potrei dire, per evitare le emergenze, quando invece avremmo bisogno di stabilità e anche di molta serietà nel trattare Libia, Egitto, Siria e via dicendo ?
  Questo secondo quesito è più focalizzato all'area del «Margiterraneo».

  CARLO SIBILIA. Ringrazio il dottor Politi per la sua esposizione molto interessante. Coglierei l'occasione per suggerire alla Commissione di utilizzare lo strumento della proiezione anche per i nostri interventi in Commissione, anche perché vedo che riesce a mantenere l'attenzione di chi ascolta meglio delle sole parole. Avvalersi di immagini potrebbe essere un passo avanti rispetto al metodo da usare in Commissione.
  Nel ribadire il mio ringraziamento, devo dire che la sua esposizione mi trova molto sorpreso, anche perché credo che sia una delle più interessanti alle quali ho assistito da quando sono in Parlamento. Ho trovato la sua relazione molto oggettiva, soprattutto quando si è parlato – penso per la prima volta in Commissione affari esteri – di sovranità monetaria, di crisi dei debiti sovrani che comporta una serie di crisi multilaterali, a livello sia di alleanza che di difesa.
  Nonostante l'ampia visione offerta – pur nella sintesi – della situazione geopolitica attuale, mi manca il passaggio relativo al «perché» si è arrivati a questa situazione. Io trovo che quello attuale sia lo scenario palese di una crisi, quanto meno, della visione che abbiamo avuto finora delle alleanze geopolitiche e geoeconomiche mondiali. Da un lato, come in qualche modo si riesce a leggere tra le righe, forse è un fallimento dichiarato.
  La visione attuale, quella di un mondo globale unito, appunto, in maniera trasversale, ha prodotto i risultati che lei ha spiegato molto bene nella sua presentazione, fornendoci la dimensione di come nel mondo si muovano le mafie, a diversi livelli, dalla droga al riciclaggio di denaro sporco, al traffico di armi e così via.
  Dal momento che questa è stata la visione che ha portato allo scenario attuale, le chiedo come vedrebbe, soprattutto dal punto di vista italiano, all'interno del contesto europeo, una revisione di questa visione. Lei ha citato il Trattato di Lisbona, ma vorrei sapere cosa ne pensa di una revisione, da parte dell'Italia, di questi trattati europei (da Lisbona a Maastricht), rivedendo quindi la posizione mondiale dell'Italia, ma partendo dalla considerazione della visione totalmente mutata che va verso la sovranità nazionale, anche dal punto di vista energetico (visto che le tecnologie oggi lo permettono), anziché persistere in questa rivoluzione globale della quale ha descritto perfettamente gli scenari ai quali ci ha purtroppo abituato.

  ALESSANDRO DI BATTISTA. Ringrazio il professor Politi, la cui relazione ho trovato molto interessante. Tra l'altro, mi fa piacere che venga ricordata la guerra di mafia, chiamiamola in questo modo, che si sta combattendo in questo momento in Messico. È un Paese che conosco molto Pag. 9bene, poiché ci ho lavorato; ho scritto a proposito di Los Zetas, Cártel de Sinaloa e riguardo alla guerra del Cártel del Golfo. È impressionante come questi soggetti abbiano conquistato totalmente il Centro America e si siano infiltrati in Paesi come l'Argentina o l'Uruguay, conquistando anche il mercato della droga nella stessa Colombia.
  Oggi, tra l'altro, ho pubblicato un reportage che scrissi qualche mese fa sulle similitudini tra la trattativa Stato-mafia in Italia e la trattativa Stato-mafia-Colombia: sono percorsi incredibilmente identici tra il Paese colombiano e l'Italia.
  La Commissione affari esteri si deve occupare di questo traffico e anche di trovare soluzioni alternative alle problematiche ad esso legate. Non si tratta più soltanto di un traffico dai Paesi del sud del mondo verso l'Europa; pensate che oggi la Colombia e il Messico importano droga dall'Europa, dal Canada; importano nuove droghe sintetiche (vedi cripa, punto rojo) e droghe transgeniche che vengono preparate in provetta nei nostri Paesi. Per queste ragioni sono stato molto contento che il professor Politi abbia ricordato questo traffico.
  Arrivo alla domanda. Lei prima parlava – e si vedeva bene nel grafico – di come il Brasile, con il mercato e le imprese, stia provando a «colonizzare» parte dell'Africa, partendo dall'Angola per ragioni anche linguistiche. Peraltro, oggi l'Angola è il Paese nel quale arrivano più curricula di giovani portoghesi. Vorrei che ci rendessimo conto di quel che è diventata l'Europa: i giovani portoghesi mandano curricula alle imprese angolane per trovare lavoro. Lei diceva che, in questo senso, come Italia si può intervenire in Africa. In che modo ?
  Ha citato anche il caso dell'Iran. Noi abbiamo avuto rapporti con l'ambasciatore iraniano e ci siamo trovati d'accordo con tante loro posizioni, non ci vergogniamo a dirlo. Riteniamo che il disgelo che c’è oggi, grazie a Dio, tra Governo degli Stati Uniti e Iran possa essere un'occasione, magari, per ridisegnare un certo tipo di rapporti bilaterali con il Paese iraniano. Le chiedo, quindi, che cosa ne pensa.
  Grazie ancora per la sua presentazione.

  MICHELE NICOLETTI. Grazie per la presentazione molto interessante e anche per gli stimoli che ci ha offerto. Spero che ci siano altre occasioni di approfondimento, visto che il tempo è ridotto.
  Una prima questione riguarda lo scenario che lei ha prefigurato, di tipo multilaterale. È uno scenario effettivamente multilaterale o polarizzato attraverso un nuovo bipolarismo Stati Uniti-Cina ? E qual è il ruolo degli armamenti nucleari in questa ridefinizione dei rapporti di forza ?
  Inoltre, sul ruolo del terrorismo internazionale, vorrei chiedere se sarà un ruolo significativo o, invece, dal vostro punto di vista, marginale.

  FRANCO CASSANO. Poiché i riconoscimenti alla sua presentazione sono stati numerosi, in premessa vorrei rivolgerle una domanda «perfida». La libertà dello schema concettuale deriva solo da una qualità del relatore o forse da un cambiamento reale del quadro nel quale ci muoviamo, che libera molte più possibilità e crea interrogativi che nel passato non erano neanche ammessi ?
  La seconda domanda, cui già accennava l'onorevole Sibilia, riguarda quale Europa è compatibile con le preoccupazioni che, in qualche modo, venivano descritte. Credo, infatti, che ci sia una grande distanza, tra le altre cose, oltre al tema della sovranità monetaria, task force a cinque, cioè la capacità dei soggetti di associarsi in funzione delle loro differenze e così via.
  Infine, lei è convinto ormai che gli Stati Uniti guardino, per una serie di ragioni, più al Pacifico che all'Atlantico ? È una tendenza che ritiene consolidata ? Di questo, infatti, si è parlato in altri periodi e poi non è successo. Vorrei pertanto una sua valutazione.

  ARTURO SCOTTO. Innanzitutto voglio ringraziare il dottor Politi per la relazione. Credo che sia utile – lo chiedo alla Pag. 10Presidenza – che il Global Outlook 2013 del CeMiSS (Centro militare di studi strategici) venga distribuito ai membri della Commissione perché è un ulteriore contributo all'approfondimento e al lavoro che dobbiamo fare.
  Vorrei porre due questioni. Una, già posta dall'onorevole Di Battista, mi appassiona dal punto di vista letterario e anche perché abbiamo letto, nel corso degli ultimi anni, molte cose che sono emerse rispetto al ruolo del Messico. Vorrei chiedere un approfondimento sul tema della frontiera tra Messico e Stati Uniti d'America, che è una delle più presidiate e delle più blindate e militarizzate al mondo. Lì si svolge quotidianamente una sorta di conflitto. Vorrei chiedere se questo può avere un elemento di espansione.
  Secondariamente, mi interessava molto il passaggio su «Cavour 3.0», quando lei ha delineato l'etica della politica estera italiana. In questi giorni noi ne siamo discutendo, stiamo affrontando il tema delle missioni militari e ci sono anche fatti significativi sul terreno della cronaca. Vorrei capire meglio che significa questo in termini di interventi, di ruolo e funzione della cooperazione. Ci affacciamo a una discussione impegnativa rispetto alla nuova legge sulla cooperazione, in termini di capacità diplomatica del nostro Paese.

  ALESSANDRO DI BATTISTA. Ancora un'osservazione telegrafica. Professore lei sarà a conoscenza del fatto che – ahimè – gli Stati Uniti vendono tantissime armi agli stessi narcotrafficanti messicani. La cosa è ufficiale.

  PRESIDENTE. Approfitto anch'io per fare alcune domande e mi scuserà Alessandro Politi se riguardano soprattutto lo scenario di medio termine.
  In primo luogo, è evidente che nel Mediterraneo stiamo assistendo a una progressione salafita che appare molto indirizzata soprattutto dall'Arabia Saudita; è evidente il ruolo che l'Arabia Saudita ha giocato in Egitto e sta giocando anche in Tunisia e nella vicenda libica. Credo che questo costituisca un problema del quale l'Europa dovrebbe occuparsi subito, ma non mi pare che lo stiamo facendo sufficientemente.
  Seconda questione: è evidente che siamo di fronte a un'evoluzione del terrorismo. Siamo passati da un'organizzazione piramidale di al-Qaeda a un'organizzazione più dispersa in movimenti molto diversi. Quello che preoccupa è che si sta creando una nuova fascia desertica che rischia di essere il nuovo hub del terrorismo e, per la prima volta, non solo del terrorismo, perché questo appare saldarsi, con movimenti endemici, soprattutto con l'attività di criminalità, per così dire, organizzata svolta da alcune tribù nomadi che da sempre praticano rapimenti e traffici di materiali o di esseri umani.
  La terza questione è quella che, secondo me, ci interessa di più, dal momento che questa indagine conoscitiva l'abbiamo fatta anche per rispondere alle esigenze del Parlamento italiano e alcune decisioni dobbiamo prenderle. È ormai diventato – e questo è assai preoccupante – un leit motiv degli organi di stampa del nostro Paese inneggiare alla difesa europea, senza rendersi conto che anche il prossimo Consiglio europeo di difesa non risolverà il problema dell'autonomia della difesa europea.
  Nelle due campagne più vicine, in Mali e in Libia, l'Europa ha reso chiaro a tutti che non è autonoma dal punto di vista della sorveglianza strategica mobile attraverso gli aerei – cioè, tradotto in volgare, senza gli Hawks americani non siamo in grado di fare nessuna operazione strategica – ed è altrettanto evidente che c’è un deficit ad esempio riguardo al rifornimento in volo che paralizza la possibilità di prospezione della difesa europea.
  Dal momento che saremo chiamati a prendere importanti decisioni connesse agli scenari, credo che la prossima volta non sarà tollerabile, e qui faccio una domanda specifica, che il Parlamento inneggi nuovamente alla difesa europea senza aver fatto, per il prossimo Consiglio europeo e per quello che ci sarà dopo, un Pag. 11invito specifico affinché si colmino le lacune di un sistema di difesa europeo che attualmente non è indipendente.

  ALESSANDRO POLITI, Direttore della NATO Defense College Foundation. Grazie. Cercherò di essere rapido, sebbene le domande siano estremamente interessanti e naturalmente mi lascerei prendere dalla passione.
  Credo che la priorità, a proposito di alleanze extra-Nord Mediterraneo e relazione tra basi statunitensi e politiche di gestione di crisi, sia innanzitutto quella di una ricostruzione interna, non tanto di strumenti, che esistono di per sé, quanto di visioni dietro questi strumenti. Questo significa uscire dalle solite riforme sia dello strumento di difesa che dello strumento diplomatico che alla fine sono riforme contabili. L'ultimo giro lo stiamo vedendo adesso. Va benissimo che si deve adeguare lo strumento alle possibilità finanziarie – il denaro è il nerbo della guerra o comunque della gestione della crisi – ma se non c’è una visione dell'impiego di questi due strumenti, oltre a quello economico-commerciale, siamo noi a dover rincorrere sempre gli altri.
  Questa ricostruzione passa anche attraverso un pensiero nazionale che non sia di solo vecchio interesse nazionale, come si poteva concepire prima della fine del Muro, ma proprio di una visione nazionale capace di aggregare interessi di altri Paesi, che per ora non sono molto uniti. I peggiori nemici dell'integrazione europea – possiamo star tranquilli – sono i maggiori Paesi europei, il nostro incluso.
  La relazione con l'alleato americano, in realtà, e questo vale tanto per gli italiani quanto per tutti gli europei, inglesi inclusi, è: «cerchiamo di essere in grado di fare delle cose perché allora saremo rispettati e considerati in modo costruttivo». Credo che il vecchio dilemma Difesa europea contro NATO sia stato completamente superato dai fatti perché la NATO, dopo il 12 ottobre 2001, quando invocammo l'articolo 5 e non successe niente per l'Afghanistan, sta cominciando a perdere quota e lo si vede anche dai diplomatici che i vari Paesi inviano. È chiaro, allora, che la NATO sarà più rilevante a Washington e l'Europa, quindi anche noi, saremo più rilevanti a Washington quando, senza aspettare particolari benedizioni, cominceremo ad affrontare i problemi sul tappeto. E qui verrò a rispondere alla domanda del presidente.
  Perché si è arrivati a questa situazione ? Sarò telegrafico e me ne scuso. Questa situazione nasce nel 1981 quando la coppia Reagan-Thatcher decide di fare la deregulation, che è un imperativo di crescita economica. Non ho mai capito se questi due grandi statisti si siano resi conto che, per così dire, si stavano segando il ramo su cui erano seduti oppure no, però trent'anni dopo questi sono i risultati. Evitiamo, almeno, di fare come i bolscevichi, ossia di dover fare altri quarant'anni per capire che un sistema è fallimentare.
  Questo sistema si è costruito passo dopo passo, anche se molti hanno ipotizzato chissà quali strani gruppi che pensavano molto in lungo; sicuramente passo dopo passo, legge dopo legge, direttiva dopo direttiva siamo arrivati in questa situazione che non è facilmente gestibile. È una situazione in cui possono fallire gli Stati ma non i gruppi finanziari. È interessante come rovesciamento delle posizioni: i Bardi e i Peruzzi di Firenze fallirono perché Edoardo d'Inghilterra disse «mi spiace non vi pago». Non saprei dire se si tratta di un'evoluzione, ma è certamente un rovesciamento.
  È chiaro che la vecchia globalizzazione così come l'abbiamo immaginata – il Doha Round lo dimostra – non è fattibile. Quindi, ecco i grandi accordi mega-regionali che bisognerà vedere quanto funzioneranno, essendo per ora in gestazione. È vero, però, che il ritorno del nazionalismo, così come lo stiamo vedendo in molte parti non solo d'Europa, rischia di essere rischioso – mi si perdoni il gioco di parole – perché, da un lato, c’è una maggiore controllabilità su cose che però da soli non si possono controllare e, dall'altro, si abbandonano Pag. 12progetti che sono stati sicuramente dirottati strada facendo, ma che avevano un potenziale.
  Rivedere l'Europa, quindi, certamente: non ne faccio mistero, in questo sono assolutamente un europatriota. Penso che l'Europa sia l'ossigeno per i nostri Stati nazionali ma a patto che abbia un contenuto politico qualificato che vada in una direzione diversa dal «tutto monetario», «tutto economico» e basta.
  Penso che sia una questione nemmeno soltanto di sovranità, è una questione di spazio di libertà. L'Europa è questo o non sarà; oppure sarà un'altra cosa e lo vivremo – ahimè – temo a nostre spese.
  Non mi soffermerò sul Messico, a parte l'accenno molto interessante al giro di droghe sintetiche. Una delle questioni che mi sono sempre posto è come mai il sintetico non abbia soppiantato le droghe naturali; in genere la plastica batte il legno, anche se questi tavoli ancora sono di solido legno massello.
  Certamente la questione della politica iraniana e africana è per noi rilevante. Noi purtroppo con l'Iran abbiamo perso molte occasioni; potevamo guidare il «5+1» e non l'abbiamo voluto fare; capisco perché, anche se non condivido. Adesso dobbiamo stare estremamente attenti a che questo rapprochementInshallah se funziona – tra Washington e l'Iran non vada a detrimento nostro e di tutti gli altri Paesi europei. A questo riguardo bisogna essere serenamente attenti, perché la politica è fatta – come voi sapete meglio di me – di questo. Quindi, certe posizioni che abbiamo mantenuto a grande fatica durante tutti questi anni di embargo potrebbero – sottolineo potrebbero – essere messe in discussione in modo abbastanza energico e per ovvi motivi.
  Altro discorso riguarda l'Africa. In alcuni Paesi noi eravamo presenti, in modo a volte anche sbagliato, però eravamo presenti; se non ricostruiamo molto pazientemente, su basi differenti, questa presenza, rischiamo di non avere nemmeno una visione dell'Africa.
  La Libia credo sia la nostra priorità; il terreno è assolutamente impraticabile di questi tempi, ma è necessario cominciare ad avere investimenti mirati non solo a supporto dell'infrastruttura energetica – ovvio – ma anche della ricostruzione di uno Stato centrale libico viable, che significa federale. Da questo punto di vista, quando la Libia è nata, dopo il mandato dell'ONU, dopo il trusteeship (l'amministrazione fiduciaria), era federale; re Idris cancellò il federalismo e fu una pessima idea. Dobbiamo cominciare da lì e continuare poi con due Paesi difficili come la Somalia e l'Eritrea. Sull'Eritrea, per esempio, c’è un problema di etica della politica estera abbastanza chiaro.
  Per quanto concerne il G2, trovo difficile un accordo bilaterale tra un debitore e un creditore. È vero che il creditore sa benissimo che non verrà rimborsato delle somme, ma è anche vero che il debitore si illude di poter continuare a lungo con questa situazione particolare, quando, se non rimette in ordine le sue finanze, il signoraggio del dollaro comincia a diventare discutibile e viene discusso non in webzine, ma anche su organi di tipica politica economica che si chiedono quale sia il peso dietro il signoraggio del dollaro.
  È una questione – ahimè, noi italiani lo sappiamo bene – di manovra finanziaria: o la fanno o non la fanno. È però un problema loro e capisco benissimo le difficoltà nel volerlo risolvere.
  Riguardo agli armamenti nucleari, noi abbiamo vissuto una breve stagione durante la quale gli armamenti nucleari sembravano essere abbastanza irrilevanti e fatti scivolare sotto il tappeto in una sorta di lenta obsolescenza. Nel 1991 addirittura la Comunità di non proliferazione temeva di essere vittima del suo successo e da lì nascono tutte le storie di armi nucleari in mano ai terroristi, sono nate molto presto. Però, fuor di celia, abbiamo un ruolo di Paesi che vorrebbero avere l'arma nucleare che francamente non vanno da nessuna parte: la Corea del Nord la usa come un chip di sopravvivenza, l'Iran l'ha usata come un chip negoziale e come possibilità di essere riconosciuto, ma la lezione che viene da tre dittatori nel Medioriente, precisamente Saddam Hussein, Pag. 13Gheddafi e adesso Bashar al-Assad, è che questo tipo di armi non servono più a determinati tipi di attori, temo non servano nemmeno a Israele, ma questo è un progresso di riflessione che devono fare alla Knesset, che noi possiamo stimolare, lasciando aperta la questione come – mi sia concesso il termine – domanda profetica.
  I P5, a loro volta, hanno un lavoro da fare di riduzione verticale degli armamenti; va bene che non siamo più, per così dire, all'orgia di armamenti nucleari, come durante la guerra fredda, ma siamo ancora sulle migliaia di testate, circa 5 mila per parte tra Russia e Stati Uniti, e francamente si potrebbe scendere tutti quanti, come P5, a soglie molto inferiori. Questo è il minimo sindacale.
  È chiaro che il depotenziamento della necessità di armi nucleari procede di pari passo con una capacità di gestire gli affari mondiali che superi un principio vecchio di cinquemila anni in base al quale la sostituzione di una egemone si fa con un'altra guerra. Francamente spero che questa volta riusciremo a evitarlo; bisogna però lavorarci con molta concretezza, avendo ben presente quali sono i rischi.
  Mi è stato chiesto quale Europa sia compatibile e se gli Stati Uniti vadano verso l'Asia. Vorrei notare che gli Stati Uniti nascono in quanto potenza sui due oceani, sia sul Pacifico che sull'Atlantico; è una loro costante. Le loro prime conquiste sono state fatte a Cuba e nelle Filippine, dobbiamo tenerlo presente. Dopodiché, è vero che ci sono ancora dei forti legami, ma per esempio i legami di sicurezza sono molto più allentati. La frontiera col Messico – che a volte penso sia la vendetta di Santa Ana, nonostante Alamo – è il ritorno semplicemente di masse migratorie che hanno bisogno di lavoro in posti dove il lavoro c’è, soprattutto dopo il fallimento di una premessa fondamentale del NAFTA (North American Free Trade Agreement), che è fallito per la competizione cinese. Questo è il problema e credo che gli americani lo abbiano capito molto bene, nonostante la loro frontiera.
  Infine, rispondo al presidente. Il problema maggiore di questa «coloritura» salafita – per ora la scelta, tutt'altro che facile, è tra i fratelli musulmani e i salafiti: questa è la bella alternativa che abbiamo e che dobbiamo prendere per quello che è – più dei terroristi, con i quali abbiamo un sufficiente arsenale (giuridico, di intelligence, legale, paralegale, militare), è la diffusione della predicazione. Se non riusciremo a fare quello che un controverso pensatore islamico europeo chiamava un «Islam europeo», piazzando i nostri predicatori là dove serve – nel Medioriente non hanno problemi, li controllano e quando c’è un regime si sa cosa verrà detto il venerdì – dovremmo quantomeno evitare delle colonizzazioni striscianti che rischiamo di avere anche nel centro, più che nelle periferie.
  Il terrorismo ha subìto un grosso colpo di consenso dal 2004 a oggi, tramite la sconfitta in Iraq e le rivoluzioni arabe. Il fallimento però dei tentativi di governi più liberali arabi o di governi democratici rischia di acutizzare quella che non è una minaccia, ma è un rischio, e francamente nessuno di noi vuole avere problemi di questo tipo, anche se sappiamo che il terrorismo è un'arma estremamente debole.
  Rispetto alla difesa europea, sono più di dieci anni, anzi è dall'accordo franco-britannico di Saint-Malo, che si parla di colmare alcune lacune, ma è il momento di farlo. Sono già individuate: gli aviorifornitori, la sorveglianza aerea, l’intelligence, le munizioni guidate. Non avremmo potuto fare la campagna in Libia, tra l'altro condotta malissimo, senza i rifornimenti di munizioni guidate americane. Questo significa però qualificare la spesa militare, con forse meno sistemi di prima linea e più sistemi di logistica e di alimentazione di quello che la prima linea deve fare. È un grosso problema, che so bene esistere in tutti i Paesi. Temo – ahimè – che questo Consiglio europeo rischi di tramutarsi in una fiera delle vanità, ma spero vivamente in qualcosa che possiamo fare noi italiani.Pag. 14
  Voglio concludere proprio su cosa può fare l'Italia. L'Italia deve innanzitutto cominciare da sé. Non diciamo, come don Abbondio, che il coraggio uno non se lo può dare da solo; no, il coraggio uno se lo può dare da solo e, in questo caso, la partita è tutta nelle nostre mani. Lo possiamo fare, è alla nostra portata. Dobbiamo però deciderci a farlo, quindi spero vivamente che tra i documenti che andranno al Consiglio europeo quelli della Commissione affari esteri siano, da questo punto di vista, diversi da quelli dei loro colleghi europei. Grazie.

  PRESIDENTE. Ringrazio molto Alessandro Politi anche per la qualità del suo intervento e dichiaro conclusa questa interessante audizione.

  La seduta termina alle 14.55.

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