XVII LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 4768-A-ter



 

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DISEGNO DI LEGGE

APPROVATO DAL SENATO DELLA REPUBBLICA
il 30 novembre 2017 (v. stampato Senato n. 2960)

presentato dal ministro dell'economia e delle finanze
(PADOAN)

Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020

Trasmesso dal Presidente del Senato della Repubblica
il 1° dicembre 2017

(Relatore di minoranza: PALESE)
 

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      Onorevoli Colleghi! – Il disegno di legge recante «Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020» non disegna alcuna prospettiva di rilancio per il Paese e lascerà un conto salatissimo, destinato a gravare sul futuro dell'Italia. Una manovra debole non solo nei contenuti, ma anche nei confronti della sfida che attende il Paese nei prossimi anni, nonché iniqua dal punto di vista dell'impatto sulla società e in particolar modo nei confronti delle famiglie, delle aziende e dei soggetti deboli.
      Dal punto di vista procedurale, va rilevato innanzitutto che il disegno di legge di bilancio presenta caratteristiche inadeguate rispetto agli elementi strutturali della nuova formulazione della legge di bilancio, secondo quanto stabilito con la riforma della legge di contabilità e finanza pubblica, introdotta dalla legge 4 agosto 2016, n. 163, in attuazione dell'articolo 15 della legge 24 dicembre 2012, n. 243, che ha apportato alcune significative innovazioni alla vigente disciplina contabile.
      In particolare si ricorda che l'articolo 21, comma 1-quinquies, della legge n. 196 del 2009, in attuazione dell'articolo 15, comma 2, della legge n. 243 del 2012, pone precisi limiti al contenuto della prima sezione del disegno di legge di bilancio, stabilendo che essa, in ogni caso, non deve contenere norme di delega, di carattere ordinamentale o organizzatorio, né interventi di natura localistica o microsettoriale ovvero norme che dispongono la variazione diretta delle previsioni di entrata o di spesa contenute nella seconda sezione del predetto disegno di legge.
      Più precisamente, la legge di bilancio dovrebbe quindi indicare: il livello massimo del ricorso al mercato e il saldo netto da finanziare; le variazioni delle aliquote e le eventuali misure che incidono su imposte, canoni, tariffe e contributi; gli importi dei fondi speciali; nonché tre distinte tabelle che indicano gli importi afferenti alle leggi di spese di parte corrente e capitale.
      Il disegno di legge, così come modificato dal Senato (che ha finanche introdotto numerose proroghe di termini) e ulteriormente (e in maniera corposa) cambiato a seguito delle numerosissime proposte emendative approvate in Commissione bilancio, presenta contenuti assolutamente eterogenei e non rispondenti alle caratteristiche previste dalla legge n. 196 sopracitata. All'interno del testo troviamo infatti un ingente numero di interventi ordinamentali, microsettoriali e inadeguati a fornire un quadro complessivo di finanza pubblica così come richiesto dalla disciplina vigente.
      La vicenda appare ancora più grave alla luce del fatto che i meccanismi derivanti dai differenti regolamenti dei due rami del Parlamento, hanno consentito al Senato una attività emendativa nei fatti contra legem: alla Camera tale attività è stata invece – in parte – bloccata, comprimendo nei fatti le prerogative parlamentari di una delle due Camere rispetto all'altro.
      Oltre al contenuto eterogeneo, inadeguato, che lascia evidenti perplessità dal punto di vista di trasparenza e di intelligibilità, per problemi tutti interni alla compagine governativa l'arrivo in Aula del provvedimento è slittato di almeno ventiquattro ore rispetto alla tabella di marcia prestabilita.
      I tempi di lavoro in Commissione bilancio della Camera sono stati notevolmente compressi dal Governo, caratterizzati dalla completa confusione, da accantonamenti ingiustificabili e da un completo abuso dell'attività emendativa da parte della maggioranza ai danni non solo delle opposizioni, ma soprattutto dei cittadini e delle reali esigenze provenienti dal Paese.
      In Commissione bilancio i lavori sono proseguiti a singhiozzo, con continue sospensioni, con mini vertici di maggioranza, con mance e marchette elettoralistiche che non hanno fatto altro che ingolfare una

 

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norma fondamentale per la nostra economia che, invece di rappresentare l'occasione per ingiustificati assalti alla diligenza, dovrebbe dare respiro ad un futuro di crescita e buone politiche.
      Come se non bastasse durante l'esame del provvedimento citato, è stata consolidata la prassi del «ripescaggio» degli argomenti cosiddetti «fuori sacco» in barba alle norme previste dai regolamenti parlamentari. Nello specifico, l'articolo 86, comma 5 del Regolamento della Camera dei deputati stabilisce che «la Commissione e il Governo possono presentare emendamenti, subemendamenti e articoli aggiuntivi fino a che sia iniziata la votazione dell'articolo o dell'emendamento cui si riferiscono, purché nell'ambito degli argomenti già considerati nel testo o negli emendamenti presentati e giudicati ammissibili in Commissione». Molti degli emendamenti «fuori sacco» presentati dal Governo e dalla maggioranza non erano riferiti ad argomenti contenuti nel testo e rischiano di creare un pericoloso precedente nella prassi parlamentare.
      L'esame dei tantissimi argomenti posti all'interno delle proposte emendative dei deputati e dei tanti ulteriori emendamenti di relatore e Governo si è quindi sviluppato nel totale sconcerto di fronte a quello che si è rivelato una vera e propria operazione per acquisire consenso, concretizzatasi nell'approvazione irresponsabile di emendamenti legati solo ed esclusivamente ad interessi particolari, a vantaggio, di volta in volta, di specifiche categorie. Assunzioni a pioggia nel pubblico impiego (scuola, ministeri, comparto sicurezza, enti locali, servizi consolari, sanità), indennità accessorie, aumento stipendi, risorse per singoli territori, finalizzate a determinate realtà, per precisi ordini professionali.
      Interventi squisitamente ordinamentali (basti solo pensare alle norme che modificano la legge elettorale approvata solo un mese fa o alle disposizioni che definiscono la riorganizzazione interna dell'Agenzia delle entrate e dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli, finanche alle norme che disciplinano l'esercizio delle professioni dell'educatore professionale socio-pedagogico e di pedagogista già contenute in una proposta di legge all'esame del Senato), microsettoriali, che minano le fondamenta dei conti pubblici, con enorme danno per il Paese e per i cittadini, lasciando in eredità al prossimo governo una situazione grave. Di tutto questo si dovranno assumere le proprie responsabilità Gentiloni, Renzi, il ministro Padoan e il Partito democratico.
      La stessa Commissione europea ha lasciato intendere la possibilità per l'Italia di effettuare una manovra correttiva da 5 miliardi di euro dopo le prossime elezioni, perché il percorso di riduzione del debito pubblico e del deficit strutturale è stato considerato del tutto insufficiente per poter raggiungere gli obiettivi concordati dallo stesso Governo Gentiloni con la Commissione.
      Se ragioniamo in termini assoluti, il debito pubblico continua a crescere costantemente e, nello specifico, da settembre ha raggiunto il valore di 2.284 miliardi di euro.
      L'Italia, a dieci anni dalla crisi e dalla recessione del 2008, si trova ancora, a differenza del resto dell'Europa:

          con ben oltre 5 punti percentuali al di sotto dei livelli di Pil pre-crisi;

          con il tasso di disoccupazione ben al di sopra del 10 per cento;

          con un «gap» rispetto agli altri paesi dell'Unione europea che, in termini di crescita e lavoro, continua ad aumentare;

          con il tasso di crescita che, anche nel 2017, pur trainato dalla ripresa europea, è risultato il più basso, (insieme a quello del Belgio).

      Al tempo stesso, non è stato intaccato il nodo dell'enorme debito pubblico, il cui tasso di crescita è stato solo frenato dalla politica monetaria europea che ha consentito la riduzione degli interessi pagati per onorarlo. Se altrove in Europa il rapporto fra debito e Pil ha cominciato a flettere, in Italia purtroppo ha continuato a crescere.
      Anche il contenimento del deficit pubblico complessivo al di sotto del 3 per cento, che ha consentito all'Italia di uscire

 

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dalla procedura d'infrazione delle regole di bilancio europee, è dovuto solo a questo risparmio di interessi. E, per la verità, la riduzione nel deficit pubblico è risultata inferiore alla riduzione nel servizio del debito, a conferma dell'ulteriore espansione del perimetro dello Stato intervenuta in questi anni.
      In questo contesto è aumentato progressivamente il senso di insicurezza delle famiglie e delle imprese italiane che si riflette nella scarsa propensione a consumare e ad investire.
      Gli investimenti privati non sono decollati, nonostante la liquidità immessa dalla BCE nel sistema e i tassi di interesse bassi, anche perché le aspettative sul loro rendimento sono depresse:

          dall'incertezza fiscale, connessa all'assenza di una chiara politica di contenimento del debito e quindi della politica fiscale futura;

          dal degrado delle infrastrutture pubbliche materiali e immateriali, da cui dipende anche il rendimento del capitale privato;

          dal degrado istituzionale connesso al fallimento degli interventi attesi sul sistema giudiziario e sul funzionamento della pubblica amministrazione.

      I consumi privati rimangono compressi dal basso reddito disponibile, ma soprattutto dall'incertezza fiscale del prelievo sia sul reddito prodotto sia sulla ricchezza.
      L'aumento delle disuguaglianze ha determinato tensione sociale e sfiducia nelle opportunità di maggiore benessere derivanti dall'apertura ai mercati internazionali.
      A questi obiettivi di crescita e sicurezza, tra di loro inscindibili, deve rispondere una politica di legislatura che affronti decisamente gli squilibri macroeconomici che ingessano l'Italia in un contesto di bassa crescita e insicurezza crescente.
      Il nuovo equilibrio virtuoso che è necessario ottenere, è quello di un'economia competitiva in crescita stabile, caratterizzata da una pressione fiscale ridotta e tale da consentire da una parte un aumento del rendimento del capitale, così da determinare un livello di investimenti produttivi adeguato all'accumulazione dello stock di capitale necessario a sostenere maggiore produttività e maggiore occupazione; dall'altra un aumento del reddito disponibile, in rapporto al reddito prodotto e una rivalutazione della ricchezza delle famiglie, conseguente alla minore tassazione, anch'essa a sostegno dei consumi.
      Gli investimenti pubblici come motore di crescita sono stati i grandi assenti negli ultimi anni (-30 per cento nel 2016 rispetto al 2007) e il loro rilancio rappresenta un fattore determinante della crescita attesa. Al solo fine di sostenere gli investimenti pubblici, potrebbe essere permessa una maggiore spesa in deficit, cioè il superamento dell'attuale livello di spesa senza toccare il livello congelato delle tasse. La ratio è che l'indebitamento per investimenti ha una logica economica virtuosa, se il rendimento netto atteso è positivo e maggiore dell'interesse sul debito (golden rule).
      Allo stesso tempo la spesa va concentrata nell'istruzione e nella riduzione della povertà (è suicida rimanere nel circolo vizioso di maggiore povertà e maggiori spese per diminuirla).
      Raggiunto il nuovo equilibrio macroeconomico virtuoso in termini dinamici, si crea così spazio per pianificare maggiore gettito (allentando quindi la regola dell'invarianza dello stesso) derivante dalla maggiore crescita, pur conservando la ridotta pressione fiscale raggiunta. Il maggior gettito dovrà consentire di investire in welfare, sicurezza sociale, infrastrutture pubbliche e beni comuni.
      Ciò è necessario per dare una prospettiva di coesione sociale e di sicurezza, che è condizione del mantenimento di una economia aperta e per sconfiggere la tentazione della chiusura e dell'irrigidimento protezionistico derivante dalla paura e dall'insicurezza che è entrata nel sentimento quotidiano di parte crescente della popolazione.
      La manovra macroeconomica dovrebbe consentire di attivare il circolo virtuoso rappresentato da minori tasse, più investimenti e consumi, più crescita, minore deficit

 

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e riduzione progressiva del debito. Solo così si darebbe vita ad una crescita non drogata da mance fini a se stesse, ma sostenibile ed in grado di interrompere il processo di graduale impoverimento del Paese.
      L'ultimo atto di questa maggioranza è invece una manovra ancora una volta di quella stessa visione che ha prodotto politiche economiche sbagliate, che hanno aggravato e allungato la crisi, aumentando ulteriormente le disuguaglianze. Disuguaglianze che non saranno certo ridotte da qualche mancia elettoralistica come gli 80 euro e che abbiamo visto perpetuarsi anche sul tema delle pensioni, per cui categorie professionali possono giustamente usufruirne ad un'età più bassa, mentre altre categorie professionali dello stesso livello, che ne avrebbero anch'esse egualmente diritto, purtroppo non possono farlo.
      La manovra è soltanto il risultato dell'incapacità di colpire il debito, il deficit e di fare investimenti produttivi prevedendo tra l'altro l'aumento dell'IVA per il solo 2018 e aumentandola dal 2019 al 25 per cento.
      Ancora una volta è quindi venuta a mancare una visione d'insieme della situazione economica e sociale del Paese che, senza forzature, sia in grado di suggerire le priorità che devono essere perseguite. Le fonti di coperture proposte dal Governo derivano per lo più dalla lotta all'evasione fiscale e questo lascia intendere che la stragrande maggioranza degli interventi non verranno mai realizzati e che soprattutto la direzione di questo Governo è quella di dare la caccia al privato per finanziare il pubblico aggiuntivo. Una politica questa volta a fare cassa ma che in realtà non sarà mai in grado di rilanciare il sistema Paese.
      È necessario rilevare – come si evince dalla relazione tecnica del cosiddetto fiscale – che molte coperture sono pluriennali. Il combinato disposto di un testo eterogeneo, gli effetti pluriennali, la concomitanza di due strumenti, del decreto omnibus e della legge di bilancio, dimostra come l'esecutivo abbia considerato questi strumenti come di governo della finanza pubblica. Il decreto fiscale ha un'eterogeneità di materia e pur non essendo stato tecnicamente definito un collegato alla legge di bilancio ne ha le caratteristiche, questo perché il Governo ha voluto utilizzare questo strumento con l'obiettivo di fare delle politiche discrezionali che non hanno elementi di necessità straordinaria e urgente.
      È evidente quindi come questo provvedimento nel suo insieme non servirà assolutamente a nulla in termini di crescita perché un Paese che smette di fare investimenti pubblici nell'economia, che non investe sui giovani, sul futuro, è un Paese che non ha grandi prospettive.
      Si tratta di interventi che non hanno tenuto conto delle sperequazioni del Paese: ci troviamo di fronte a una fase in cui abbiamo un territorio, quello del Mezzogiorno, per cui non è stato immaginato un rilancio ed un sostegno agli investimenti, alla crescita e allo sviluppo.
      Il Governo, con gli esegui fondi rimasti dopo il consueto rinvio di un anno dell'aumento dell'Iva per le clausole di salvaguardia europea che assorbono i tre quarti delle risorse disperdono le risorse in mini-misure con poche norme per accelerare i consumi ancora meno l'innovazione nel settore privato.
      Non ci sono misure di crescita annunciate e attese, non ci sono riduzioni di tasse per le famiglie e soprattutto per le imprese, nessuna spinta alla digitalizzazione e nemmeno l'estensione agli affitti professionali, uffici e negozi della cedolare del 10 per cento nel tentativo di rimettere in moto il mercato immobiliare.
      Quando non si operano tagli al cattivo debito pubblico, alla spesa pubblica contaminata, quando non si interviene sulle partecipate, non si smussano le cattive e clientelari detrazioni o deduzioni, bensì si opta per caricare di tasse le nostre generazioni del futuro, investendole dell'ingrato compito di pagare i costi della riduzione fiscale di oggi, si sta sostanzialmente operando in deficit. Si stanno adottando misure da Prima Repubblica, che avremmo preferito lasciarci alle spalle una volta per tutte.
      Questa è una manovra che punta ad affermare una linea politica elettoralistica, l'ennesima da parte dei governi di centro sinistra di questa legislatura, in una fase
 

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complicatissima per il nostro Paese a cui è necessario opporsi fermamente, nel tentativo di generare proposte alternative per un Governo che possa essere giudicato e valutato dai cittadini per invertire la rotta e riprendere l'atteso scenario di sviluppo che abbiamo perso da troppo tempo.

Rocco PALESE,
Relatore di minoranza