CAMERA DEI DEPUTATI
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N. 2613-E-ter |
Onorevoli colleghi! Siamo dunque giunti all'ultimo atto dell’iter parlamentare del disegno di legge costituzionale C. 2613 Renzi-Boschi e la parola sta per passare agli elettori, avendo già le opposizioni annunciato la raccolta di firme fra i deputati, così come il comitato per il NO fra i cittadini. Ben lontani risultano essere infatti i due terzi dei consensi delle due Camere, che avrebbero reso impraticabile il ricorso al referendum, avendo la maggioranza raccolto il voto favorevole, fra le opposizioni, del solo sparuto gruppo del senatore Verdini.
Occorre tuttavia denunciare come in modo evidente il Presidente del Consiglio cerchi di trasformare il responso del referendum costituzionale in una sorta di plebiscito su di sé ed il suo Governo, annunciando per un verso una raccolta di firme tra i deputati di maggioranza per chiederne la convocazione (mentre lo spirito della norma è di consentire l'utilizzo di questo strumento alle minoranze ed ai cittadini) e obbligando dall'altro gli elettori (contravvenendo all'articolo 48 della Costituzione che prevede che il voto sia libero) ad esprimersi con un voto unico su circa un terzo degli articoli della Costituzione, con l'evidente obiettivo di non consentire una reale discussione di merito.
Inoltre ci pare molto grave, ancora sul piano del metodo, che a questa così ampia riforma si sia giunti senza alcun mandato preventivo popolare, con numeri parlamentari tanto risicati quanto frutto di un premio di maggioranza valutato incostituzionale dalla Corte costituzionale e imponendo anche alla propria maggioranza un vincolo di fedeltà al Governo tale da minacciare, in caso di non approvazione del testo o di modifiche non decise dal Governo, lo scioglimento delle Camere.
Un tale metodo, indegno di uno spirito costituente, non poteva che accompagnarsi ad una propaganda biecamente populista (volta a preparare il terreno al plebiscito referendario): anziché concentrarsi su come garantire il diritto dei cittadini ad essere informati e a conoscere il merito di una riforma così profonda delle istituzioni, si evocano astratte quanto fantasiose promesse di efficienza, semplificazione e sensibile taglio dei costi. Si cerca contemporaneamente di celare che la qualità della democrazia dipende viceversa dal protagonismo diretto dei cittadini nelle istituzioni, che questa riforma mortifica pesantemente penalizzando tutti gli istituti di democrazia diretta ed eliminando addirittura il diritto di voto per il Senato, nonostante questo mantenga il supremo potere di revisione costituzionale.
La pochezza culturale prima ancora che politica della proposta si rivela peraltro nella totale assenza di una riflessione che riguardi compiutamente Regioni ed enti locali: apparentemente da un lato si riconosce loro un ruolo importante nella Camera alta, seppur in un Senato che rischia di essere il dopolavoro di consiglieri regionali e sindaci (il cui concreto funzionamento non è ancora stato spiegato e di cui a oggi l'unico dato certo è che non sarà eletto dal voto diretto dei cittadini) e dall'altro però, con la riforma del Titolo V, si sottrae ruolo e competenze alle Regioni spostando quasi tutte le materie di legislazione concorrente in capo a quella statale.
La riforma in discussione non semplifica affatto. Un Senato dalla composizione imbarazzante; ridotto nei numeri tanto da poter difficilmente svolgere qualunque ruolo di controllo, quanto eterogeneo nella composizione: consiglieri regionali, sindaci, senatori di diritto, senatori a vita, senatori per sette anni. Regioni sovrarappresentate, e che difficilmente potranno conciliare il lavoro del Senato con quello del consiglio regionale, ed altre irrilevanti. Un numero spropositato di possibili procedimenti
Stefano QUARANTA,
Relatore di minoranza.