CAMERA DEI DEPUTATI
Mercoledì 25 febbraio 2009
144.
XVI LEGISLATURA
BOLLETTINO
DELLE GIUNTE E DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI
Commissioni Riunite (V e VI)
COMUNICATO
Pag. 10

SEDE REFERENTE

Mercoledì 25 febbraio 2009. - Presidenza del vicepresidente della V Commissione Gaspare GIUDICE, indi del vicepresidente della VI Commissione Cosimo VENTUCCI - Intervengono il ministro per la semplificazione normativa Roberto Calderoli, il ministro per i rapporti con le Regioni Raffaele Fitto, ed il sottosegretario di Stato per l'economia e le finanze Daniele Molgora.

La seduta comincia alle 14.05.

Delega al Governo in materia di federalismo fiscale. C. 2105 Governo, approvato dal Senato, C. 452 Ria, C. 692 Consiglio regionale della Lombardia e C. 748 Paniz.
(Seguito dell'esame e rinvio).

Le Commissioni proseguono l'esame dei provvedimenti in oggetto, rinviato, da ultimo, nella seduta del 24 febbraio scorso.

Antonio BORGHESI (IdV) sottolinea preliminarmente la necessità che le forze politiche realmente federaliste dimostrino tale propria convinzione non solo nell'esame del disegno di legge in materia di federalismo fiscale, ma anche in occasione dell'esame parlamentare di tutti gli altri provvedimenti. Segnala, infatti, come nel decreto-legge n. 208 del 2008, oggi in discussione in Assemblea, siano contenute disposizioni in materia di transazione per danni ambientali che rimettono sostanzialmente ogni potere al Ministero dell'ambiente, con una significativa marginalizzazione del ruolo dei comuni e delle regioni.
Con specifico riferimento al disegno di legge in esame ritiene che, anche al fine di valutare eventuali miglioramenti e correttivi da apportare al testo approvato dal Senato, ci si debba in primo luogo interrogare su quali possano essere gli effetti concreti delle norme di delega legislativa per i cittadini, in particolare in termini di servizi erogati e di incremento o contenimento della pressione fiscale. A suo giudizio, allo stato attuale non è possibile dare alcuna risposta a questo fondamentale interrogativo, in quanto il provvedimento può essere sostanzialmente assimilato ad un'equazione composta esclusivamente da incognite, e pertanto, impossibile da risolvere. Concorda, infatti, con quell'economista il quale ha sostenuto che «il federalismo fiscale nella legge delega è

Pag. 11

come l'elettrone, che è potenzialmente dappertutto e la cui funzione d'onda collassa determinandone la posizione solo nel momento in cui qualcuno si decide a osservarlo. Ci sono talmente tante possibili variazioni nella legge - tributi, funzioni, strumenti di perequazione, costi e fabbisogni standard e così via - che questa può implicare tutto e il contrario di tutto in termini di distribuzione delle risorse tra centro e autonomie e tra le diverse autonomie. La legge delega collasserà, determinando una posizione precisa, solo quando il Governo si deciderà a osservarla, con i decreti attuativi, fornendo un'interpretazione univoca alle dozzine di variabili in gioco». Anche le audizioni svolte nell'ambito dell'istruttoria legislativa, hanno confermato questa situazione di grande incertezza, evidenziando come al momento non siano disponibili dati univoci ed affidabili sulle grandezze economiche e finanziarie rilevanti per l'attuazione del provvedimento, anche in ragione delle profonde differenze esistenti nei criteri di redazione dei bilanci degli enti territoriali. A fronte di tale accumularsi di incognite, ritiene particolarmente significativa l'assenza, all'interno del disegno di legge, di criteri immediatamente vincolanti volti a limitare la crescita della pressione fiscale a livello territoriale, essendo esclusivamente previsto un generico obiettivo di non incremento della pressione fiscale complessiva anche nel corso della fase transitoria.
Inoltre, come evidenziato nel corso delle audizioni, in particolare da parte della Corte dei conti, manca ancora una cornice di carattere ordinamentale entro la quale calare coerentemente la delega in materia di federalismo fiscale. A titolo di esempio, evidenzia come nell'ordinamento italiano sussistono almeno nove livelli territoriali cui è riconosciuta, in parte anche da norme costituzionali, natura di centri di spesa, alla quale corrisponde in molti casi anche il riconoscimento di forme di autonomia sul versante delle entrate. Ricorda infatti che anche enti minori e meno noti, come i consorzi di bonifica, gli ATO e i bacini imbriferi montani possono incidere sul livello della pressione fiscale, in quanto essi hanno il potere di fissare tariffe ed usufruiscono di contributi obbligatori a carico della cittadinanza, nonché beneficiano di un sovracanone annuo sull'energia prodotta dalle grandi derivazioni d'acqua. In questo quadro, al fine di assicurare un effettivo controllo della spesa, considera essenziale procedere ad una semplificazione istituzionale, sottolineando come tale semplificazione sarebbe dovuta intervenire prima dell'esame del disegno di legge e non essere rimessa alla Carta delle autonomie, che, nella migliore delle ipotesi, avrà un cammino parallelo rispetto al federalismo fiscale.
Parimenti, ritiene che anche la questione delle regioni a statuto speciale dovesse essere affrontata prima dell'esame del federalismo fiscale, anche attraverso i necessari interventi di rango costituzionale, non essendo assolutamente possibile rimettersi, per la definizione del concorso delle autonomie speciali al nuovo sistema dei rapporti economici e finanziari, alla sola buona volontà delle regioni interessate.
In definitiva, reputa che siano mancate una serie di condizioni preliminari all'esame del disegno di legge di attuazione del federalismo fiscale, a partire dall'esatta conoscenza dei bilanci degli enti territoriali, e che i margini di variabilità del contenuto dei decreti legislativi siano ancora troppo ampi, tanto che, volendo ipotizzare un cambiamento delle maggioranze di governo, i contenuti dei decreti potrebbero essere totalmente opposti, anche in assenza di una modifica ai principi e criteri di delega.
Un punto assolutamente essenziale nella definizione dei contenuti dei decreti legislativi è poi rappresentato dalla concreta individuazione dei costi e dei fabbisogni standard per il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, e delle funzioni fondamentali di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione. A tale riguardo, richiamando la propria esperienza professionale, sottolinea

Pag. 12

come anche nei sistemi industriali esistano problemi rilevantissimi nell'individuazione dei costi di produzione di beni e servizi e che, a maggior ragione, tali problemi si pongono nel settore pubblico. Potrebbe, peraltro, ipotizzarsi che il disegno di legge punti, più che alla definizione di veri e propri costi standard, all'introduzione di strumenti di benchmarking, assumendo, pertanto, a parametro le spese sostenute in uno specifico ente territoriale.
Rileva, tuttavia, come anche tale soluzione potrebbe determinare significativi problemi applicativi, legati in particolare all'individuazione della regione da assumere come parametro di riferimento. A tale riguardo, ricorda a titolo di esempio che, in base alla documentazione depositata dalla Corte dei conti in occasione della sua audizione, la regione che ha fatto registrare negli ultimi anni la più contenuta spesa pro capite per l'istruzione secondaria superiore è stata la Puglia, la quale, tuttavia, in base ai dati esposti nel corso dell'audizione dei rappresentanti della Banca d'Italia, non assicura i migliori risultati in termini qualitativi. A suo giudizio, al momento della definizione dei costi e fabbisogni standard, rischia dunque di determinarsi una situazione analoga a quella che si verificava nel periodo in cui lo Stato stabiliva le tariffe per l'assicurazione sulla responsabilità civile automobilistica, quando le tariffe, al fine di non escludere dal mercato le imprese meno efficienti, erano fissate ad un livello assai superiore a quello necessario a coprire i costi dell'impresa più efficiente, con evidenti ricadute negative per i cittadini che erano chiamati a pagare tariffe più alte. In questa ottica, ritiene che, qualora gli standard non fossero fissati ai livelli di maggiore efficienza, le regioni che ora sostengono costi unitari minori finiscano per ottenere un incremento delle risorse a loro disposizione.
Stigmatizza quindi fortemente l'a mancanza nel provvedimento di un orizzonte temporale certo per la sua attuazione; mentre, infatti, che, mentre il termine di inizio dell'attuazione, determinato dall'emanazione del primo decreto legislativo, è fissato in un anno dall'entrata in vigore della legge di delega, pur potendosi ipotizzare proroghe e differimenti, mancano indicazioni certe circa il termine finale della fase di transizione verso il nuovo sistema, la cui durata è rimessa sostanzialmente alla volontà del legislatore delegato.
Conclusivamente, ribadisce che allo stato è sostanzialmente impossibile esprimere una valutazione sul provvedimento, in quanto non ci sono elementi che consentano di apprezzare quali possano essere i suoi effetti finali sui cittadini.

Amedeo CICCANTI (UdC) rileva preliminarmente come il disegno di legge in esame sia presentato, in termini propagandistici, come necessario per ridurre gli sprechi della spesa pubblica, ridurre la pressione fiscale ed avvicinare la responsabilità di spesa e quella di finanziamento, mentre a suo giudizio la riforma nasce come risposta ideologica dalla questione settentrionale, la quale è nata negli ultimi decenni come reazione alla questione meridionale, a partire dalla denuncia della differenza di capacità fiscale tra le regioni del Nord e del Meridione, più volte rilevata dal sistema economico-produttivo e dai principali organi d'informazione del Nord e di cui Lega Nord si è resa interprete con maggiore enfasi. In tal senso, ritiene che si voglia presentare il provvedimento come realizzazione di una «secessione fiscale», in attesa di fare quella istituzionale e politica, al momento molto improbabile, insistendo su slogan come quello secondo cui sarebbe «il Nord a tirare la carretta anche per il Sud», rispetto ai quali l'UDC, che giudica il progetto inconsistente dal punto di vista formale e sostanziale, rappresenta l'unica voce fuori dal coro.
Rileva infatti come il progetto di «secessione fiscale», favorito involontariamente, in vero, da realtà come quelle di Napoli, Taranto, Catania e Roma, che accreditano l'idea che nelle regioni del Sud si sprechi ciò che si produce al Nord, fosse sicuramente alla base del progetto di legge federalista proposto dalla Regione Lombardia,

Pag. 13

che il Popolo della Libertà ha promesso in campagna elettorale e poi opportunisticamente abbandonato. In tal senso si sosteneva infatti la territorialità dell'imposta come misura di regolazione di un nuovo sistema distributivo della ricchezza nazionale centrale in quel progetto di legge, concetto che tuttavia non solo avrebbe compromesso il sistema unitario del Paese, ma avrebbe stravolto i principi fondamentali della Costituzione.
In tal senso ritiene che il Ministro Calderoli abbia fatto bene ad abbandonare subito quella strada infausta ed abbracciare il «federalismo delle regioni», che riconosceva il principio dell'imposta erariale su base nazionale come misura di regolazione della distribuzione della ricchezza sia tra i cittadini che tra comunità locali. Rileva tuttavia come non siano chiare le caratteristiche del progetto, anche perché in sostanza il Ministro Calderoli sta chiedendo una delega in bianco al Parlamento.
Osserva, comunque, come dagli elementi che emergono, sembri di capire che, riscontrata la differenza di capacità fiscale, i territori ricchi dovrebbero aiutare quelli poveri attraverso un fondo perequativo a scalare, che ogni anno si riduce secondo parametri stabiliti dal DPEF ed in proporzione all'aumento di efficienza degli enti territoriali e alla loro capacità di autofinanziamento, creando così una sorta di virtuoso «conflitto di interesse» tra i diversi territori, affidando agli enti territoriali la promozione dell'obiettivo dell'equità fiscale che il sistema fiscale nazionale non è riuscito a realizzare.
Invita tuttavia a riflettere sulle possibili distorsioni di questo meccanismo; ricorda, infatti, replicando all'accusa rivolta ad Sud inefficiente che sottrae risorse al Nord che, se è vero che, in particolare in alcuni territori, gli enti locali meridionali hanno dimostrato nei decenni scorsi la loro inefficienza, ciò è avvenuto anche perché fino a tempi recenti gli enti territoriali hanno funzionato da terminale di spesa senza responsabilità. Tale situazione è tuttavia cambiata negli ultimi venti anni: se, nel 1990, le regioni ed enti locali gestivano il 30 per cento della spesa pubblica primaria ma determinavano solo 1'8 per cento delle entrate, attualmente questo rapporto è passato al 32 per cento per la spesa ed al 22 per cento per le entrate, aumentando notevolmente la responsabilizzazione dei territori e portando il rapporto allo stesso livello esistente in ordinamenti fortemente regionalizzati ovvero federali come quelli di Spagna, Belgio e Germania. Sul punto, ricorda che, in base ad uno studio del professor Giuseppe Pisauro, apparso recentemente sulla rivista «ItalianiEuropei», nonché sulla base dei dati delle Regioni, dall'ANCI e dall'UPI nell'audizione alla Commissione bicamerale per i rapporti con le regioni, il Meridione, pur con una spesa inferiore a quella del Nord, riceve dal bilancio pubblico più di quanto dà attraverso il prelievo fiscale. Conseguentemente, secondo la logica della territorialità, la Lombardia paga imposte che in media, in un anno, superano di circa 4.000 euro il valore del finanziamento della spesa che riceve. Al contrario della Sicilia che, riceve in media, in un anno, 2.648 euro a fronte di quello che paga come imposte. Osserva quindi che, se è su questo elemento fattuale che si basa la propaganda sulla questione settentrionale su cui già sopra si è soffermato, la realtà risulta più complessa. Non è infatti vero che la Lombardia ricca mantiene la Sicilia povera, se non altro perché l'articolo 53 delle Costituzione non riconosce un soggetto passivo d'imposta collettivo.
Ritiene inoltre necessario considerare il peso dell'evasione fiscale e i diversi livelli di PIL, rilevando come grandi regioni del Sud, quali la Campania, Puglia e Sicilia, presentino valori comparabili a quelli delle regioni del Centro Nord quali Toscana, Veneto e Trentino Alto Adige.
La verità è che nel Meridione la spesa pubblica è più bassa della media nazionale, mentre lo sforzo fiscale è superiore alla media, e che, se nel Sud la spesa pubblica è meno efficiente, essa è comunque inferiore a quella del Settentrione. Posto infatti che la spesa pubblica complessiva è pari a 100, le regioni del Nord hanno un livello pari a 104; al netto di

Pag. 14

quelle a Statuto speciale, quelle del Centro, eccetto il Lazio, hanno un livello pari a 105; nelle regioni del Sud tale livello è invece pari a 81. La distanza tra le regioni del Nord e del Meridione è del 23 per cento relativamente all'uso di risorse pubbliche.
A fronte di tale situazione, la riforma del federalismo fiscale, così come impostata, potrebbe favorire il Meridione più di quanto lo favorisce l'assetto attuale. Il superamento della spesa storica con la definizione del fabbisogno standard, che riallinea la spesa del Meridione con quella del Settentrione ed il conseguente finanziamento garantito con il fondo di perequazione, dovrebbe favorire il Meridione più di quanto siano le colpe attuali denunciate dal Nord. Al riguardo rileva come in realtà il labile ed indeterminato meccanismo della legge delega consenta di porre in essere soluzioni di riequilibrio che possono andare indifferentemente in un senso o all'opposto con la stessa facilità. Infatti, questa riforma viene presentata nel Meridione come un vantaggio con gli stessi argomenti con cui si presenta come un vantaggio del Nord.
Osserva che in verità - come ha sottolineato il Ministro Tremonti al Senato - con le variabili previste nella riforma in esame, è impossibile fare qualunque simulazione finanziaria. Dello stesso parere si sono dichiarati l`ISTAT, la Corte dei Conti e l'ISAE. Se invece la riforma è una cosa seria e deve soddisfare l'assunto ideologico del Nord e della Lega Nord che ne è vessillifera, sarebbe effettivo il rischio di una deriva verso il «secessionismo fiscale», fondato sulla territorializzazione delle imposte e verso un modello di Welfare basato essenzialmente sulla capacità fiscale dei singoli territori, mantenendo la perequazione per il solo periodo transitorio.
Rileva, al riguardo, come la riforma sarebbe stata più credibile se, accanto all'autonomia finanziaria e alla responsabilizzazione di spesa dei territori, si fosse prevista una riforma del sistema tributario tendente a ridurre il sommerso e l'evasione fiscale, che si attestano a livelli inaccettabili, mentre gli attuali livelli di autonomia, ritenuti fisiologici a livello europeo, sono di per sé sufficienti a perseguire gli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità della spesa pubblica e dell'azione amministrativa.
Con riferimento ad alcuni aspetti specifici, evidenzia la necessità di comprendere come si concilia la disposizione del quarto comma dell'articolo 119 della Costituzione, che prevede l'integrale finanziamento delle funzioni pubbliche di regioni ed enti locali, con la suddivisione di dette funzioni pubbliche in funzioni fondamentali (come previsto dalla lettera p) del secondo comma dell'articolo 117 e le altre funzioni discrezionali, ricordando peraltro in proposito, che le funzioni fondamentali (superata la fase transitoria di 5 anni), devono essere individuate con legge successiva.
Ritiene pertanto difficile determinare il fabbisogno standard senza che si conoscano le funzioni fondamentali ed i loro costi standard, e conseguentemente, determinare il livello di compartecipazione tributaria senza conoscere il fabbisogno standard. Inoltre risulta difficile quantificare l'onere delle funzioni fondamentali da coprire attraverso ricorso a tributi propri, compartecipazioni e addizionali.
Con riferimento alla clausola di salvaguardia finanziaria, ricorda che l'articolo 26 fa solo implicitamente emergere la compensatività all'interno del provvedimento tra i risparmi e le maggiori spese, ritenendo peraltro singolare che la disposizione faccia riferimento al rispetto dei vincoli del patto di stabilità e crescita europea, che, come è noto, ammettono anche la possibilità di un indebitamento e non all'obbligo di copertura finanziaria di cui all'articolo 81, quarto comma, della Costituzione.
Si interroga quindi su come sia possibile garantire l'effettivo rispetto della clausola, in considerazione dell'assenza, su cui già si è soffermato, di ogni elemento di quantificazione. Ciò premesso, fermo restando che la compensatività, come dimostrano altri esempi di legge delega, quali la riforma del Welfare di cui alla legge n. 247

Pag. 15

del 2007, non può essere definita ex ante, ritiene necessario che ciascun decreto legislativo rispetti il vincolo dell'invarianza, considerando altresì indispensabile che il quadro di riferimento finanziario che dovrà essere allegato ai sensi del provvedimento al primo schema di decreto legislativo, si sostanzi in una relazione tecnica debitamente verificata dalla Ragioneria generale dello Stato, così come di relazione tecnica dovranno essere forniti anche i successivi decreti legislativi, al fine di fare analisi e verificare simulazioni.

Ignazio MESSINA (IdV) richiama la discutibile la risposta ai quesiti sugli effetti finanziari del disegno di legge fornita dal Ministro dell'economia, il quale, in occasione della discussione del provvedimento al Senato, ha affermato che la soluzione di tale problematica presupporrebbe un'operazione di natura olistica, sottolineando come tale vicenda appaia indicativa dei numerosi rischi insiti nella riforma federalista, a causa delle carenze ed opacità del testo in discussione.
Un primo ordine di problemi riguarda la disomogeneità dei dati contabili e di bilancio dei diversi enti territoriali, che evidentemente non consente di avere un quadro completo dell'attuale stato dei rapporti finanziari tra lo Stato e tali enti.
Rileva inoltre, sul piano più squisitamente tributario, come i dati disponibili, ampiamente richiamati da alcuni organi di stampa, dimostrino la fortissima sperequazione nel gettito territorializzato dei principali tributi esistente tra le diverse aree del Paese, che appare sensibilmente più alto al nord, in particolare per quanto riguarda l'IVA e l'IRPEF, rilevando come tale condizione renda difficile ipotizzare la tenuta di un sistema basato sul tendenziale mantenimento nei territori di provenienza del gettito di tali tributi.
Occorre inoltre affrontare il problema della parità di condizioni, in particolare nell'erogazione dei servizi pubblici, tra tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza. Tale esigenza di uguaglianza coinvolge, del resto, gli stessi enti territoriali, i quali devono essere anch'essi posti nelle condizioni di operare a parità di condizioni. In tale contesto sarebbe dunque necessario sciogliere il nodo costituito dal fenomeno dell'evasione fiscale, che appare più elevata in alcune zone e costituisce un serio ostacolo all'azione di taluni enti.
Lamenta inoltre la mancanza di serie previsioni volte a realizzare una razionalizzazione delle spese, che dovrebbe essere perseguita, secondo l'impostazione del disegno di legge, quasi esclusivamente attraverso la revisione degli assetti finanziari delle regioni a statuto speciale e delle province autonome.
Parimenti assenti risultano norme atte a definire i parametri indispensabili per la definizione dei costi standard, la cui individuazione costituisce invece uno dei cardini essenziali dell'intero impianto federalista, così come appaiono scarsamente specificate le previsioni concernenti il funzionamento dei fondi perequativi. A tale ultimo riguardo, sebbene sia certamente opportuno richiamare alle loro responsabilità gli amministratori locali inefficienti o infedeli, che spesso hanno causato le attuali difficoltà del Mezzogiorno, appare al tempo stesso necessario prendere atto delle difficoltà delle regioni del Sud, delle quali il provvedimento non tiene invece adeguatamente conto. È, dunque, necessario chiarire se tale meccanismo perequativo sia volto ad unire o a dividere il Paese, tenendo realisticamente conto delle differenze strutturali ed infrastrutturali tra le varie aree del Paese.
Ritiene inoltre indispensabile affrontare il tema dell'efficienza delle pubbliche amministrazioni, in un quadro che consenta di garantire la qualità e quantità dei servizi pubblici, individuando altresì strumenti per premiare gli enti virtuosi e sanzionare quelli meno efficienti, evitando di indulgere in misure di sanatoria finanziaria in favore di specifiche realtà territoriali, analoghe a quelle recentemente adottate per i comuni di Roma e di Catania.
Sottolinea altresì l'assenza, nel disegno di legge, di previsioni atte a favorire la riduzione dei costi della politica, attraverso

Pag. 16

l'eliminazione dei privilegi e la revisione del ruolo delle province, nonché di disposizioni che contrastino il fenomeno del ricorso generalizzato, da parte degli enti locali, a società partecipate esterne al perimetro dei rispettivi bilanci.
Occorre quindi definire meccanismi atti ad individuare la provenienza delle entrate attribuite ai singoli enti, realizzando l'idea, avanzata dallo stesso Ministro Calderoli ma mai perseguita dal Governo, di introdurre una sorta di «tracciabilità delle imposte», monitorando altresì attentamente le modalità di spesa delle risorse pubbliche. In questo contesto considera altresì indispensabile tener conto della realtà di molte aree del Paese, nelle quali l'ingerenza della criminalità organizzata risulta particolarmente forte, valutando se, in tali circostanze, sia opportuno attribuire maggiore autonomia finanziaria ad enti locali che potrebbero essere condizionati dall'azione dei gruppi criminali.
In conclusione sottolinea come il gruppo dell'Italia dei Valori creda alla riforma federalista, che deve tuttavia essere riempita di maggiori e più puntuali contenuti, evitando di limitarsi ad affermazioni di principi generiche e fumose, superando quindi la genericità del testo attuale, individuando più puntuali principi direttivi ed assicurando che il provvedimento persegua effettivamente gli interessi di tutti i cittadini.

Roberto OCCHIUTO (UdC) esprime preliminarmente un apprezzamento sincero nei confronti del Ministro Calderoli per l'assiduità con cui segue il provvedimento, dichiarando altresì rispetto per la passione con cui la Lega Nord sta conducendo la sua battaglia politica, e chiarendo che la critica del suo gruppo è piuttosto rivolta al fatto che il disegno di legge appare per lo più come una scatola vuota, uno slogan suscettibile di determinare controversie.
In linea generale il suo gruppo sostiene il federalismo, che è conseguenza del principio di sussidiarietà, assicurando quindi che, dietro al voto contrario espresso dall'UDC al Senato, non vi è stato il calcolo politico di guadagnare voti al Sud, dove peraltro molti cittadini sono favorevoli ad un autentico federalismo, e che quindi il suo gruppo è disponibile ad un confronto costruttivo.
Ritiene tuttavia difficilmente superabili alcune obiezioni al provvedimento già avanzate dai colleghi del suo gruppo Tabacci e Ciccanti. In particolare, giudica inadeguato lo strumento della delega per attuare la riforma del federalismo fiscale, di cui sono ancora ignoti, come rilevato dal Ministro Tremonti al Senato e dal Ragioniere generale dello Stato nel corso delle audizioni, gli effetti finanziari. In tal senso giudica insufficiente la clausola di compatibilità finanziaria dell'articolo 26, che peraltro fa riferimento agli impegni del patto di stabilità e crescita europeo ma non al rispetto dell'articolo 81, quarto comma, della Costituzione.
Rileva inoltre come la vaghezza del provvedimento derivi dal fatto che lo stesso precede, e non segue, come sarebbe logico, l'emanazione della prevista Carta delle autonomie.
Con riferimento ad alcuni aspetti specifici, ritiene necessario riformulare l'articolo 2, comma 2, lettera a), che definisce le funzioni fondamentali degli enti locali, in quanto, come segnalato anche dalla SVIMEZ, lo stesso potrebbe provocare un aumento della tassazione da parte degli enti locali, determinando inoltre la tentazione di utilizzare risorse destinate ad attuare il quinto comma dell'articolo 119 della Costituzione.
Ritiene altresì che la discussione sul federalismo fiscale debba essere connessa alla questione del Mezzogiorno, ricordando al Ministro Calderoli come il termine «Mezzogiorno» non sia mai usato nel testo, nemmeno nell'articolo 21, che affronta la materia della perequazione infrastrutturale.
Rileva quindi come, il provvedimento rischi di aggravare il ritardo nello sviluppo alcune regioni, annunciando a tal proposito la presentazione di un emendamento che proponga l'inserimento tra i principi di delega di una precisa valutazione dei

Pag. 17

deficit infrastrutturali e di sviluppo dei diversi territori, ai fini della definizione di tale meccanismo perequativo.
Analogamente, l'articolo 15 non specifica compiutamente, al comma 1, lettera d), le modalità con cui effettuare, in attuazione del quinto comma dell'articolo 119 della Costituzione, gli interventi diretti alla riduzione del divario economico e sociale tra il Mezzogiorno ed il resto del Paese, e non prevede di organizzare gli interventi speciali per lo sviluppo e la coesione in piani organici finanziati con risorse pluriennali.
In tal senso, rileva l'opportunità di coordinare la lettera e) con la lettera a) del medesimo comma, che già prevede, in verità, il criterio della programmazione pluriennale e di introdurre il vincolo di destinazione delle risorse. Critica anche, sul punto, la previsione dell'intesa in sede di Conferenza unificata, in quanto si compromette il ruolo dello Stato come garante di uguaglianza di tutti i cittadini. Si sofferma infine, come già fatto dal collega Tabacci, sulla problematicità nella definizione dei costi standard, ribadendo sul punto la necessità di garantire criteri omogenei per l'individuazione del benchmark di riferimento, e ritenendo a tale proposito che dovrebbero essere valutati non solo i costi medi, ma anche le situazioni territoriali e di sviluppo.
Alla luce di tali elementi esprime conclusivamente la preoccupazione che il federalismo non costituisca, come dovrebbe essere, un fattore di unità, ma un fattore di divisione.

Maurizio FUGATTI (LNP), nel ringraziare i rappresentanti del Governo per l'assidua e qualificata presenza nei lavori di Commissione, che testimonia l'attenzione dell'intero Governo per il dibattito parlamentare sul provvedimento, evidenzia come il federalismo abbia costituito il principale obiettivo della Lega Nord Padania sin dall'inizio degli anni '90, quando le altre forze politiche ancora non dedicavano alcuna attenzione a tali tematiche, e come il provvedimento in esame rappresenti, dunque, una conferma della bontà della posizione coerentemente seguita dalla Lega.
Riconosce quindi come il tentativo di introdurre il federalismo in uno Stato centralista come l'Italia sia un'operazione difficile, rilevando, tuttavia, come appaia sempre più necessario procedere in questa direzione, anche in considerazione del fatto che senza federalismo il Paese incontrerebbe ancora maggiori difficoltà.
Evidenzia, quindi, come il provvedimento tenda a superare l'attuale forma dei rapporti finanziari tra Stato ed enti territoriali, basata sulla finanza derivata e sui trasferimenti, per passare ad un nuovo assetto, basato sulle entrate proprie, al fine di affermare la reale autonomia impositiva degli enti territoriali. Tale cambiamento si accompagna ad una maggiore responsabilizzazione degli enti locali, ad una maggiore trasparenza e ad un maggior controllo sugli eletti da parte dei cittadini, mentre il criterio della spesa storica ha notoriamente favorito gli sprechi e l'inefficienza.
Ricorda inoltre come il passaggio dalla spesa storica a quello della spesa legata alla valutazione dei fabbisogni finanziari sia basato sul criterio dei fabbisogni standard e dei livelli essenziali delle prestazioni, in particolare per quanto riguarda le materie della sanità, dell'assistenza e dell'istruzione, e sulla capacità fiscale quanto alle altre funzioni. Il criterio del costo standard costituisce dunque il punto focale del provvedimento, rappresentando, come evidenziato dalla Corte dei conti e dalla SVIMEZ nel corso delle audizioni informali svolte dalle Commissioni, uno strumento per diminuire le inefficienze, ad esempio attraverso l'introduzione di un indice relativo al rapporto tra dipendenti pubblici e residenti, al fine di evitare sproporzioni nella spesa di funzionamento della pubblica amministrazione.
Segnala infatti come la transizione verso i costi standard, che, peraltro, troverà piena attuazione solo al termine di una fase transitoria di 5 anni, dovrebbe assicurare un complessivo recupero di efficienza e un complessivo contenimento delle spese, come testimoniano i dati forniti

Pag. 18

dalla Corte dei conti in occasione della sua audizione, i quali hanno evidenziato con chiarezza che le regioni che evidenziano un costo medio pro capite più elevato in materia sanitaria sono le stesse che fanno registrare i maggiori disavanzi. Non condivide, inoltre, le preoccupazioni manifestate da alcuni colleghi, anche alla luce di quanto dichiarato nel corso della recente audizione della SVIMEZ, in ordine al possibile abbassamento dei livelli delle prestazioni essenziali relative ai diritti garantiti a tutti i cittadini, segnalando che anche la Corte dei conti, nel corso della sua audizione, ha richiamato le disposizioni che garantiscono, nell'ambito della delega, la copertura integrale delle spese sorrette da tutela costituzionale. Condivide, invece, l'esigenza, evidenziata da molti colleghi, di disporre di una più ampia base di dati, ricordando come i dati forniti dall'Agenzia delle entrate in materia di IRAP abbiano evidenziato come nel Mezzogiorno si registri un'evasione particolarmente rilevante, della quale non si potrà non tenere conto in sede di attuazione della delega.
Relativamente alle tematiche più squisitamente tributarie, ritiene che l'eventualità, paventata da alcuni, di introdurre differenziazioni a livello regionale nel regime delle aliquote e delle detrazioni e deduzioni IRPEF costituisca un elemento sostanzialmente positivo, nella misura in cui può incentivare una concorrenza virtuosa tra le regioni. Ritiene invece fondato il problema, sollevato dal deputato Tabacci, relativo alla presenza di larghe fasce di economia sommersa, che incide evidentemente sulla capacità fiscale dei diversi territori, osservando peraltro la carenza al riguardo di dati oggettivi.
Per quanto riguarda il rilievo, sollevato da alcuni deputati intervenuti, secondo il quale realizzare federalismo fiscale prima di quello politico costituirebbe un elemento intrinseco di debolezza del progetto riformatore, ricorda che la Lega Nord Padania aveva già preso coscienza di tale questione, sostenendo da tempo l'esigenza di realizzare il federalismo politico.
Con riferimento quindi alla problematiche connesse al regime delle regioni a statuto speciale e delle province autonome, ritiene che, se, da un lato, non debbano sussistere privilegi a favore di chicchessia, dall'altro occorra prestare una particolare attenzione a quelle regioni che presentano caratteristiche del tutto peculiari rispetto a tutto il resto del territorio nazionale. Al riguardo sottolinea come la condizione di alcune regioni a statuto speciale meridionali, quali la Sicilia e la Sardegna, che usufruiscono dei fondi statali per gli oneri relativi al personale scolastico, partecipano ai fondi nazionali per i comuni, si avvalgono di un livello di perequazione pari al 50 per cento nel settore della sanità e godono degli stanziamenti in loro favore da parte del Fondo di solidarietà, rappresenti una distorsione del regime autonomistico, che appare rivolto contro le regioni settentrionali, mentre, al contrario, la Provincia autonoma di Trento, dalla quale proviene, deve far fronte a funzioni particolarmente onerose, quali i servizi della motorizzazione civile, le prestazioni in favore degli invalidi civili, la gestione degli uffici del lavoro, la realizzazione di opere idrauliche e la gestione del catasto, e dovrà accollarsi ulteriori funzioni relative alle università, all'amministrazione giudiziaria e finanziaria ed alle poste.

Gian Luca GALLETTI (UdC), nel ricordare la propria provenienza da una cultura politica e sociale federalista, come quella democristiana, sottolinea come proprio questa sua cultura lo spinga ad essere convintamente contrario alla proposta di federalismo fiscale oggi in discussione. Al fine di motivare tale contrarietà, richiama in primo luogo le conclusioni emerse dai lavori dell'Alta Commissione di studio per la definizione dei meccanismi strutturali del federalismo fiscale, istituita dal governo Berlusconi nel 2001, cui ha avuto l'onore di partecipare.
Ritiene, infatti, indubbio che la revisione dei meccanismi del federalismo fiscale imponga, oltre ad una chiara definizione delle funzioni, una revisione dei principi volti al coordinamento tributario

Pag. 19

della Repubblica. Il sistema fiscale di un Paese è infatti da considerarsi alla stregua di un bene pubblico, in considerazione della sua indispensabile funzione di assicurare l'equilibrio finanziario dei conti pubblici.
Alla luce di tali premesse, giudica il disegno di legge in esame del tutto carente proprio nell'identificazione dei principi generali, capaci di assicurare l'omogeneità, l'equità e la corrispondenza al dettato costituzionale del sistema tributario.
A tale proposito rammenta che il professor Vitaletti, presidente dell'Alta Commissione, nella sua relazione finale ricordava Benjamin Franklin che, in una lettera del 13 novembre 1789, indirizzata a Jean-Baptiste Leroy, ebbe a sostenere che la morte e i tributi sono le uniche certezze dell'uomo, il quale, dunque, vuole capire perché deve pagare, come notò Luigi Einaudi.
In questo quadro ritiene che il federalismo fiscale rappresenti una pagina della storia repubblicana che attende ancora di essere scritta in modo da attuarne compiutamente presupposti e potenzialità. Precisa, peraltro, che con tale affermazione non intende sostenere la credenza che troppo facilmente sembra attribuire al federalismo fiscale la capacità di risolvere tutti i mali, ma, più semplicemente, vuole indicare nel federalismo fiscale un possibile strumento per modernizzare e attualizzare alcuni elementi del «patto fiscale», rendendolo più rispondente ai presupposti di fondo del principio «no taxation without representation». Ritiene, tuttavia, che anche questa ottica sarebbe riduttiva se non si avesse la consapevolezza che il tema del federalismo, nella sua accezione più ampia, cioè di ammodernamento non solo del sistema fiscale ma dell'intero sistema statuale, è la grande occasione per affermare il principio costituzionalmente riconosciuto, ma mai compiutamente attuato, della sussidiarietà. A suo avviso, non si può, infatti, affrontare il tema del federalismo fiscale prescindendo dal contesto istituzionale nel quale questo si inserisce. Il federalismo fiscale presuppone infatti uno Stato sussidiario, che ha delegato in maniera chiara le sue funzioni alle regioni, agli enti territoriali, e - là dove vi sono le condizioni - alla società civile.
In altri termini, ritiene che il federalismo fiscale non possa che essere l'ultimo tassello dell'applicazione della sussidiarietà verticale ed orizzontale. Osserva, invece, come un sistema fiscale federalista applicato ad uno Stato per molti versi ancora centralista come l'Italia crei solo confusione e, ancor di più, rischi di accrescere i costi e la pressione fiscale per i cittadini. In mancanza di una chiara indicazione sul «chi fa cosa», per usare una metafora, sarebbe come mettere del gasolio, il federalismo fiscale, in un motore che funziona a benzina, il sistema istituzionale. Il meccanismo del federalismo fiscale è, quindi, strettamente collegato alla definizione del quadro delle competenze e solo una volta che siano stabilite con chiarezza le funzioni sarà possibile mettere definitivamente a regime i flussi necessari al loro finanziamento, attraverso meccanismi di federalismo fiscale.
Alla luce di questo inquadramento, ritiene essenziale che i principi generali, già elencati nei lavori dell'Alta Commissione, volti ad assicurare l'uniformità dell'intero sistema tributario del Paese, non possano essere disciplinati nell'ambito della delega, ma debbano essere già contenuti nel disegno di legge oggi in esame.
In particolare, considera indispensabile introdurre nel disegno di legge una precisa affermazione di principi volti a garantire, in primo luogo, una definizione dell'assetto di competenze capace di garantire l'equilibrio economico e finanziario complessivo del Paese e la sostenibilità della finanza pubblica, attraverso una distribuzione responsabile delle competenze. Ritiene, infatti, che l'efficienza debba essere garantita già al momento della distribuzione delle funzioni, e non solo al momento del suo esercizio. In questo contesto si inserisce la discussione in atto sull'abolizione delle province e, più in generale, sulla semplificazione dell'attuale sistema, che prevede troppi organi di governo per assicurare una efficiente allocazione della spesa.

Pag. 20

Giudica, inoltre, essenziale affermare con chiarezza il principio della correlazione tra prelievo fiscale e beneficio fornito a chi paga il tributo, che evidenzia la necessaria corrispondenza tra responsabilità finanziaria ed amministrativa, garantendo, in termini tributari, che «si realizzi una sostanziale equivalenza tra cosa tassata e cosa amministrata». La realizzazione di tale principio farebbe in modo che i soggetti passivi abbiano la percezione che l'ente raccoglie il gettito a fronte di un servizio. Sarebbe, inoltre, pienamente ragionevole che l'ente potesse intervenire sull'imposizione attraverso la propria politica fiscale, poiché ad esso compete l'erogazione del relativo servizio, e quindi il compito di reperire le risorse per farvi fronte. Questa impostazione sarebbe, infine, perfettamente coerente con lo spirito della riforma federalista della Costituzione, che mira ad una specializzazione delle funzioni, e in particolare allo spostamento di competenze statali verso le istituzioni comunitarie da un lato e verso gli enti territoriali dall'altro.
Esaminando i tributi presenti nel nostro ordinamento, ritiene sia immediatamente evidente come l'IRAP non rispetti il principio di correlazione, sia in quanto è nato per finanziare la sanità, colpendo i soggetti produttivi e divaricando il soggetto tassato dal beneficio prodotto col gettito, sia in quanto le Regioni percepiscono il gettito di un tributo che colpisce le attività produttive, mentre è lo Stato ad intervenire sull'economia.
Ritiene, invece, che l'ICI sia un esempio di tributo coerente col predetto principio di correlazione, in quanto la proprietà immobiliare si giova soprattutto dei servizi offerti dal Comune nel quale si trova e risulta, pertanto, ragionevole che essa sia colpita da un tributo il cui gettito è destinato a finanziare le politiche comunali. Alla luce di tali considerazioni, ritiene assolutamente inopportuna la scelta operata dal Governo nei mesi scorsi di abolire l'ICI sulla prima casa.
Ritiene inoltre necessario garantire il principio della trasparenza e dell'efficienza delle decisioni di entrata e di spesa per tutti i livelli di governo, in modo da rendere possibile, da un lato, il controllo della collettività sulle politiche di entrata e di spesa dell'ente e, dall'altro, la perequazione delle risorse, alla luce delle performances reali e di quelle sostenibili da parte degli enti interessati dalla distribuzione del fondo perequativo.
Considera altresì necessario garantire l'adozione, da parte di tutti i livelli di governo, di sistemi contabili uniformi, che consentano di rilevare con sufficiente grado di affidabilità gli andamenti generali della finanza pubblica, ricordando al riguardo, ricorda che lo Stato dispone di una competenza legislativa concorrente in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici, ai sensi dell'articolo 117, terzo comma, della Costituzione e, che, pertanto, esso deve stabilire principi fondamentali in grado di garantire l'omogeneità degli schemi e dei criteri contabili adottati dai vari attori istituzionali, al fine di consentire la tempestiva rilevazione dei saldi complessivi del sistema finanziario pubblico, e di verificare il rispetto dei vincoli macroeconomici posti dall'ordinamento comunitario.
Rileva quindi la necessità di assicurare la limitazione dei trasferimenti di risorse a destinazione vincolata incompatibili con il sistema federalista, ritenendo altresì che si debba garantire la limitazione dei trattamenti fiscali agevolativi, previsti dalle leggi regionali o regolati dagli enti locali, che si sostanzino in uso distorsivo della detassazione. Valuta, per contro, accettabile, e per certi versi auspicabile in un sistema di federalismo fiscale, una naturale tax competition tra Regioni e tra enti locali.
Ritiene altresì necessario garantire che le risorse finanziarie attribuite a Regioni ed enti locali siano sufficienti a garantire l'esercizio delle competenze, in attuazione di un principio direttamente desumibile dal testo costituzionale, che non ritiene fuori luogo esplicitare anche nella legislazione di attuazione. Osserva, infatti, che il rispetto di tale principio potrebbe consentire di evitare il ripetersi di quelle pratiche - piuttosto frequenti a partire dal cosid

Pag. 21

detto «terzo decentramento» - di trasferimento di competenze a Regioni ed enti locali senza una contestuale devoluzione di adeguate risorse finanziarie. Appare altresì opportuno sancire espressamente l'obbligo per le Regioni di garantire l'autonomia e l'equilibrio finanziario negli enti locali, nell'esercizio delle proprie competenze legislative. Sottolinea, infatti, che, poiché allo Stato spetta una potestà legislativa di principio nella definizione della struttura finanziaria e tributaria, alle regioni rimane il ruolo di dettagliare con legge il sistema proprio e dei livelli di governo sub-regionali.
Rileva inoltre l'importanza di garantire la razionalità e la coerenza dei singoli tributi e del sistema nel suo complesso, nonché la semplificazione del sistema tributario e degli adempimenti a carico dei contribuenti, nonché di assicurare l'omogeneità dei tributi regionali e locali. In particolare, ritiene essenziale che i tributi istituiti dalle varie Regioni, o quelli che le Regioni prevedano in capo a province e comuni, dovrebbero essere riconducibili armonicamente al sistema tributario complessivo, e non risultare antitetici quanto alla loro natura.
Occorre, altresì, garantire l'omogeneità tra i tributi che le diverse regioni potranno autonomamente disciplinare nello svolgimento della loro potestà legislativa, in attuazione del principio di armonizzatore che impone di istituire tributi regionali e locali che, pur diversi, siano tuttavia tra loro conciliabili e di natura non antitetica, ovvero, qualora siano dello stesso genere, si innestino armonicamente nel sistema complessivo.
Rileva la necessità di prevedere espressamente un criterio volto ad assicurare l'impegno di tutti i livelli di governo a rispettare il principio di sussidiarietà fiscale, ritenendo inoltre necessario garantire il divieto di doppia imposizione sulla medesima fattispecie imponibile e, in particolare, sulle fattispecie imponibili sulle quali siano già assise imposte statali. Tale principio costituisce infatti un cardine per alcuni ordinamenti fortemente regionalizzati, come quello spagnolo, ed è volto ad evitare che, moltiplicando i soggetti impositori, aumenti anche il peso fiscale sul medesimo bene. Segnala, tuttavia, come la traduzione normativa del principio della non sovrapposizione delle imposte locali con quelle statali richiederà particolare attenzione. In via teorica, infatti, se tale principio non venisse previsto, si potrebbe addirittura correre il rischio che i tributi propri degli enti substatali possano arrivare, per assurdo, a prendere gradualmente il posto di quelli statali. Al contrario, rileva come una formulazione troppo stringente del principio potrebbe permettere allo Stato di annullare l'autonomia impositiva degli altri enti, semplicemente estendendo la propria potestà su tutte le materie imponibili.
Richiama quindi l'importanza del principi di lealtà istituzionale fra tutti i livelli di governo, soffermandosi ulteriormente, sui principi di territorialità, neutralità dell'imposizione e divieto di esportazione delle imposte.
A tale riguardo, ritiene utile, da un lato, stabilire che ciascun ente territoriale non possa colpire fattispecie collocate al di fuori del proprio territorio, o prive di un legame con la propria collettività, e, dall'altro, ribadire il principio di neutralità, contenuto nell'articolo 120 della Costituzione, primo comma, in base al quale non possono essere posti ostacoli alla libera circolazione delle persone e delle cose, nel territorio dello Stato.
Osserva, poi, come un altro tema essenziale nell'attuazione del federalismo fiscale sia quello connesso all'attuazione del patto di stabilità interno, rilevando, anche alla luce dei più recenti sviluppi della giurisprudenza costituzionale, come gli stringenti vincoli posti dal Trattato di Maastricht ed ulteriormente rafforzati dal Patto europeo di stabilità e crescita impongano la conservazione, in capo al livello centrale di governo, di importanti poteri di coordinamento del sistema complessivo di finanza pubblica. Al necessario concorso dei diversi attori al perseguimento degli obiettivi di risanamento dei conti pubblici fissati in sede comunitaria corrisponde, infatti, l'esclusiva responsabilità

Pag. 22

dello Stato per eventuali violazioni del divieto di disavanzi pubblici eccessivi.
Questa evidente discrasia fra destinatari dell'obbligo di risanamento, rappresentati dagli enti appartenenti al settore pubblico allargato, e l'imputazione della responsabilità per eventuali violazioni esclusivamente in capo allo Stato è stata ulteriormente accentuata dal progressivo aumento del grado potenziale di decentramento fiscale verificatosi negli ultimi anni nel nostro ordinamento. La necessità per lo Stato di disporre comunque, sia pure nel rinnovato sistema delle autonomie, di strumenti di controllo delle finanze regionali e locali, ha condotto all'elaborazione e periodica revisione di un complesso congegno giuridico denominato patto di stabilità interno.
La compatibilità delle norme del patto di stabilità interno con il quadro costituzionale solleva complesse questioni giuridiche, parzialmente affrontate dalla stessa Corte costituzionale in alcune sue sentenze, che rappresentano un ineludibile termine di confronto per il legislatore di attuazione del cosiddetto «federalismo fiscale». In particolare, le sentenze n. 4 e n. 36 del 2004, pur riconfermando la necessità di conservare un siffatto strumento di governo della finanza pubblica, contengono un implicito invito al legislatore statale a ridiscutere il patto di stabilità interno, allo scopo, da una parte, di meglio calibrarne i contenuti rispetto ai prescritti obiettivi di risanamento e, dall'altra, di eliminarne gli aspetti più marcatamente dirigistici e non concertativi, che sviliscono l'essenza stessa dei principi di autonomia e sussidiarietà.
Quanto al primo profilo, si è soprattutto lamentato il disallineamento fra i saldi rilevanti sul piano interno e quelli considerati a livello europeo. Il patto di stabilità interno ha, inoltre, progressivamente abbandonato l'obiettivo di perseguire una riduzione degli stock di debito, che invece assume un rilievo centrale in sede comunitaria.
Sotto il secondo profilo, gli enti territoriali hanno spesso lamentato l'irragionevolezza dei vincoli imposti dal patto alla rispettiva autonomia finanziaria, osservando in primo luogo che tali vincoli, da un lato, rispondono ad una logica di breve periodo, che non consente un'adeguata programmazione ed una gestione ottimale delle risorse finanziarie, e, dall'altro, peccano di unilateralità, essendo predisposti senza seguire un percorso concertativo e senza considerare la differente situazione dei diversi livelli di governo e, all'interno di ciascun livello, dei diversi enti.
Ritiene, pertanto, evidente la necessità di una forma in grado di rendere il Patto di stabilità interno, ad un tempo, più stringente più rispettoso dell'autonomia: considerando a tal fine utile prevedere nel disegno di legge, la generalizzazione e normalizzazione di alcune metodologie attualmente praticate per le regioni a statuto speciale, pur tenendo nell'opportuna considerazione il fatto che queste ultime dispongono, nei confronti del rispettivi enti locali, di un potere ordinamentale di cui le regioni ordinarie sono sprovviste.
L'individuazione di uno specifico margine anche per le regioni a statuto ordinario in ordine al coordinamento regionale della finanza locale potrebbe, tuttavia, consentire tale forma di intervento, ritenendo che allo scopo si possa ipotizzare una disaggregazione della struttura del Patto su due livelli. In prima battuta, occorrerebbe procedere, in sede nazionale, alla definizione di obiettivi globali di contenimento del deficit e del debito, mentre, in seconda battuta, bisognerebbe procedere a raffinare i target generali, trasformandoli in obiettivi specifici da assegnare alle diverse regioni ordinarie o speciali. A ciascuna regione sarebbe, quindi, affidato il compito di gestire il perseguimento del proprio obiettivo specifico, coordinando, a tal fine, la propria finanza con quella degli enti territoriali compresi nel proprio territorio, analogamente a quanto già avviene, almeno in parte, nelle regioni ad autonomia differenziata. In tal modo, sarebbe più agevole calibrare i contenuti del patto rispetto alle diverse caratteristiche dei diversi enti ed al variegato tessuto economico delle diverse aree del Paese,

Pag. 23

attenuandone il carattere unilaterale, senza che ciò comporti la rinuncia, da parte dello Stato, al proprio potere di supervisione dei conti pubblici.

Gaspare GIUDICE, presidente, constata l'assenza dei deputati Boccia, Rubinato, Graziano, Marchignoli e Genovese, dovendo pertanto ritenersi che essi abbiano rinunciato ad intervenire.
Nessun altro chiedendo di intervenire, ed essendo imminente l'avvio delle votazioni in Assemblea, rinvia il seguito dell'esame alla seduta già prevista nella seduta di domani.

La seduta termina alle 16.