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Seduta dell'11/4/2012


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Audizione del dottor Toni Brandi, presidente di Laogai Research Foundation Italia Onlus.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Toni Brandi, presidente e fondatore dell'associazione Laogai research foundation Italia onlus, accompagnato dal professor Benedetto Rocchi, ricercatore e docente di economia agraria presso l'università di Firenze e dalla professoressa Francesca Romana Poleggi, membro del comitato esecutivo dell'associazione.
Avverto il nostro ospite che della presente audizione sarà redatto un resoconto stenografico e che, se lo riterrà opportuno, i lavori della Commissione potranno proseguire in seduta segreta, comunque invitandolo a rinviare eventuali interventi di natura riservata alla parte finale dell'audizione.
L'audizione odierna è stata richiesta dai colleghi Cimadoro e Rainieri ed è finalizzata ad approfondire ulteriormente il tema della contraffazione nel settore agroalimentare, acquisendo le informazioni in possesso dell'associazione Laogai, che ha redatto, tra l'altro, un rapporto sull'agroalimentare di provenienza cinese, analizzando nello specifico le conseguenze del fenomeno sull'agricoltura italiana.
Vorrei comunicare ai nostri ospiti - immagino lo sappiate già - che noi abbiamo, di fatto, concluso l'approfondimento riguardante il tema della contraffazione nel settore agroalimentare con una relazione, che è stata approvata all'unanimità dalla Commissione, i cui contenuti principali sono anche stati oggetto di una risoluzione approvata dall'Assemblea. Ciononostante, poiché alla fine dell'attività svolta, prima della fine della legislatura, sarà compito della Commissione redigere una relazione finale complessiva, riteniamo l'odierna audizione con voi molto utile, proprio perché ci metterà nelle condizioni di implementare la relazione esistente con i dati che ci vorrete fornire (ovviamente, qualora i relatori e i commissari li ritengano di interesse).


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Avverto che i tempi odierni a nostra disposizione sono abbastanza ridotti perché vi sono una serie di audizioni consecutive. Ai fini dei nostri lavori, comunico che dopo una breve relazione illustrativa della situazione da parte del nostro ospite, interverranno i colleghi per eventuali domande. Dovremmo concludere entro le 12.30. Do ora la parola al dottor Toni Brandi, presidente di Laogai research foundation Italia onlus.

TONI BRANDI, presidente di Laogai research foundation Italia onlus. Buongiorno e innanzitutto grazie per averci invitato. Abbiamo portato delle stampe - che sono in distribuzione - della nostra presentazione in powerpoint. Nei prossimi 350 secondi mi permetterò di introdurre il problema dei laogai; poi interverranno la professoressa Poleggi e il professor Rocchi.
Oggi, nel 2012, vi sono più di 1000 campi di concentramento in Cina, come tutti ormai riconoscono, compresi il console cinese a Firenze, le Nazioni Unite e il Parlamento europeo. Sul nostro sito - www.laogai.it - è possibile consultare la banca dati dei campi di concentramento in Cina che noi abbiamo individuato, posto che sia il loro numero esatto, sia il numero dei detenuti in essi presenti sono, ambedue, segreto di Stato, così com'è un segreto di Stato il numero delle persone che ammazzano ogni anno. Sotto questa legge del segreto di Stato si possono quindi nascondere tante cose. Questi campi sono spesso sia prigioni, sia imprese commerciali. Mi spiego? Lo stesso campo è sia un'impresa commerciale che esporta prodotti, sia una prigione. Ad esempio, il premio Nobel per la pace del 2010, Liu Xiaobo, si trova in una prigione che si chiama Jinzhou Prison, da dove vengono esportati prodotti elettrici in America e in Europa.
Vi sono almeno 1000 di questi laogai. Noi calcoliamo che al loro interno vi siano dai 3 ai 5 milioni di detenuti, anche se le cifre esatte non si conoscono per via della legge sul segreto di Stato. Dentro i laogai si produce di tutto. Noi abbiamo realizzato numerosi rapporti che provano come nella banca dati internazionale prodotta da Dun & Bradstreet - una banca dati di imprese importatrici ed esportatrici nel mondo - vi siano centinaia di imprese commerciali che, in realtà, sono delle prigioni.
Oggi, nel terzo millennio, noi permettiamo quindi la produzione e l'esportazione dei prodotti del lavoro forzato e del lavoro minorile. Nei campi laogai, a partire dalla loro creazione, nel 1950 da parte di Mao Zedong, vi sono stati dai 40 ai 50 milioni di detenuti. Forse, dovrei spiegare brevemente che la parola laogai è un acronimo per laodong gaizao dui, che significa «riforma attraverso il lavoro»: oggi in questi campi, oggi in questi campi, oggi, in questi campi - non sono un disco rotto ma bisogna ricordare che - oggi in questi campi, vi sono milioni di persone che lavorano fino a sedici o diciotto ore al giorno e che producono a vantaggio di chi? Dei disoccupati europei e del popolo cinese sfruttato? O, forse, solamente a vantaggio del Partito comunista cinese e delle numerose multinazionali che producono e investono in Cina?
Ovviamente, la risposta giusta è la seconda, perché ci sono 800 milioni di cinesi sfruttati a scopo di profitto. Perché parlo di 800 milioni di cinesi quando prima ho riferito una cifra tra i 3 e i 5 milioni? Semplicemente perché - come il bravo Rampini denunciò 4 o 5 anni fa - in Cina vi sono decine di migliaia di imprese-lager come, ad esempio, la Foxconn (un'informazione che uscì stranamente anche sui nostri giornali), dove vige un trattamento tipo quello del laogai e si guadagna una paga da fame, per cui vi sono numerosi suicidi.
Vorrei concludere dicendo solamente che tutto ciò crea due problemi, uno di tipo morale, perché nel terzo millennio, alla faccia - scusate l'espressione romana - di tutte le regole, le leggi e le promesse di pace, democrazia, libertà e altre cose, il commercio globale è spesso basato sul lavoro forzato, senza princìpi e senza scrupoli; oltre al problema morale, però, esiste anche il problema economico, perché sappiamo bene che tutto ciò che è immorale e che la nostra coscienza riconosce


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essere tale, prima o poi, ci danneggerà in termini pratici ed economici. Infatti, l'importazione di prodotti dal lavoro forzato crea disoccupazione e bancarotta d'impresa. Prego ora la professoressa Poleggi di proseguire. Grazie.

PRESIDENTE. Do la parola alla professoressa Poleggi.

FRANCESCA ROMANA POLEGGI, membro del comitato esecutivo di Laogai research foundation Italia onlus. Interverrò molto rapidamente. Non sta a me dire quanto le merci che arrivano dalla Cina possano essere di qualità, anche di altissima qualità. Per esempio, molti dei prodotti di Gucci vengono dalla Cina (tale azienda, peraltro, è stata denunciata). C'è stato pochi giorni fa sui giornali lo scandalo riguardante la Apple, inerente allo sfruttamento dei lavoratori in Cina. Gucci, tra l'altro, è stata denunciata dalle associazioni internazionali sindacali perché impone orari di lavoro di dodici ore al giorno - fuori dai laogai - con paghe ridicole e la necessità di permessi scritti anche per poter bere un bicchier d'acqua. Quindi, le condizioni dei lavoratori in Cina sono tragiche: grazie a ciò le merci cinesi sono competitive! Purtroppo, sapete meglio di noi che le merci cinesi, oltre ad essere spesso di qualità, altrettanto spesso sono di pessima qualità. Soprattutto, i cinesi sono tra i principali e tra i più bravi contraffattori in tutti i campi. Perché siamo venuti a parlare in questa sede, grazie al vostro invito? Perché in altri paesi ci sono delle leggi che vietano le importazioni delle merci prodotte dal lavoro forzato, per esempio, ciò è successo in America o in Canada. Abbiamo realizzato dei rapporti, fatti grazie alle indagini dei dissidenti che sono in contatto con la Laogai research foundation di Washington, inerenti i prodotti dal lavoro forzato. Una volta riusciti ad individuare tali prodotti, in America e in Canada, questi sono stati sequestrati e tolti dal mercato: in Italia, questo ancora manca.
L'onorevole Cimadoro è uno dei primi firmatari della proposta di legge presentata alla Camera dei deputati, con la quale si punta proprio a limitare, a vietare il commercio e l'importazione dei prodotti dal lavoro forzato. Questo sarebbe un modo per fronteggiare il problema della contraffazione, perché queste merci contraffatte sono spesso prodotte dal lavoro forzato, fuori e dentro i laogai cinesi. Oltretutto, tali prodotti - cinesi e non solo - sono spesso terribilmente pericolosi per la salute. Apro solo una piccolissima parentesi su giocattoli e libri per bambini stampati con inchiostro velenoso (solo per citare ciò che forse tocca più da vicino una mamma con tre figli). Non so se abbiate dei figli di un'età tale da ricordare lo Skifidol, una pappetta verde con cui giocavano i ragazzini, che veniva venduta come se fosse plastica ma che si è scoperto essere addirittura composta da animali marini mezzi putrefatti e pertanto è stata tolta dalla circolazione. Le merci cinesi sono comunque, spesso, sporche di sangue: possono essere di buona qualità, possono essere contraffatte.
La lotta alla contraffazione è difficile. I vostri dati dicono che la Guardia di finanza riesce a fermare al confine l'11 per cento delle merci contraffatte in entrata, mentre per l'89 per cento che si sequestrano, ciò avviene quando queste già sono circolanti nel paese. Quindi, si tratta di una lotta difficile, forse impari, che però si può favorire attraverso i controlli, subordinando al rispetto delle regole gli affari con i paesi - non solo la Cina - che praticano il dumping sociale. Penso che questo porti del bene a tutta la nostra economia.
In particolare, per quanto riguarda i prodotti agroalimentari, un altro nostro rapporto ci ha dato l'allarme sui pomodori. In un campo di concentramento dello Xiang, tramite dei nomi di imprese cinesi i cui nomi sono impronunciabili, delle guardie carcerarie hanno fatto dei collegamenti tra i pomodori prodotti in questi laogai e una grossa ditta di importazione in Italia. Non possiamo fare il nome della ditta perché c'è solo la parola


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di questa guardia, che non ha assolutamente rilasciato le sue generalità, quindi non vogliamo......

PRESIDENTE. Scusi se la interrompo. La nostra è una Commissione d'inchiesta, quindi, se lo ritiene, lei può beneficiare della possibilità di secretare il resto della sua illustrazione.

FRANCESCA ROMANA POLEGGI, membro del comitato esecutivo di Laogai research foundation Italia onlus. La ringrazio. Chiedo che il prosieguo del mio intervento sia secretato.

PRESIDENTE. Dispongo la disattivazione dell'impianto audio video.

(La Commissione procede in seduta segreta).

PRESIDENTE. Dispongo la riattivazione dell'impianto audiovideo. Do la parola al dottor Rocchi.

BENEDETTO ROCCHI, ricercatore e docente di economia agraria presso l'Università di Firenze. Visti i tempi ristretti, mi concentrerò sulle slides che ho preparato, che offrono alcuni dati. Come economista agrario, mi sono occupato di vedere quali fossero le informazioni esistenti sulle importazioni di pomodoro. Anzitutto, tali importazioni vengono soprattutto dalla Cina, in forma di semilavorati che poi vengono riprocessati in Italia e quindi entrano a far parte di altri prodotti. Ci sono inoltre alcuni dati che fanno vedere come le importazioni di pomodoro concentrato dalla Cina, dal 2002 al 2011, hanno oscillato intorno alle 100.000 tonnellate all'anno. Per gran parte, si tratta di grandi fusti di prodotto di concentrato triplo, che praticamente non può essere commercializzato come tale e quindi entra nella filiera. Nella slide successiva si vede come, mentre la produzione nazionale di concentrato sta diminuendo negli anni, lentamente, le importazioni crescono, quindi, tale concentrato diventa un ingrediente sempre più importante della filiera del pomodoro.
Per l'anno 2008, ho ricostruito alcuni dati sulla base sia di statistiche ISTAT, sia di un rapporto realizzato da una delle associazioni dei produttori, fornendo un piccolo bilancio di approvvigionamento del concentrato di pomodoro in Italia. La cosa interessante è il fatto che, alla fine, se consideriamo tutta la disponibilità (le produzioni di pomodoro italiano dell'anno e le importazioni, sia dalla Cina, sia dal resto del mondo), arriviamo ad un totale di 456.000 tonnellate. Se a queste togliamo le esportazioni di concentrato e i suoi consumi finali interni di concentrato, che si possono in qualche modo documentare - qui i consumi finali interni sono sottostimati perché i dati considerano solo la grande distribuzione, che pure rappresenta la gran parte dei consumi finali -, alla fine, abbiamo 89.000 tonnellate di consumi interni apparenti di concentrato di pomodoro, che era disponibile e che da qualche parte deve essere andato a finire. Ovviamente, esso entra nella filiera alimentare, diventato un altro prodotto a base di pomodoro, trasformato in qualche modo, oppure resta concentrato. Una parte sarà poi stato riesportato come concentrato, ma una parte rimarrà. Perché questo dato è interessante? Il pomodoro è un prodotto tipico del made in Italy agroalimentare. I prodotti di qualità agroalimentari si basano sulla fiducia del consumatore nel fatto che la provenienza da un posto sia un segnale di qualità. I consumatori non consumano solo qualità organolettica, ma anche l'idea del posto, del luogo, della provenienza, della sicurezza e della tradizione. Il fatto che entri nella filiera agroalimentare di un prodotto tipico italiano un'importante materia prima di cui non si sa bene la provenienza, perché non la si può tracciare, essendovi la possibilità non solo che venga dalla Cina (quindi, che sia un prodotto potenzialmente di scarsa qualità, come certi controlli alle dogane hanno dimostrato e come avete documentato anche voi), ma che addirittura possa essere -


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basta il dubbio per il consumatore - un pomodoro prodotto in aziende che in realtà sono campi di lavoro forzato, è potenzialmente una minaccia per la credibilità di tutta la filiera.
Una notizia del 5 aprile scorso parla di una sentenza di condanna - pronunciata dal giudice Catania, in un tribunale campano - per il reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci, infliggendo la pena di quattro mesi di reclusione e 6.000 euro di multa - con la concessione della condizionale - a carico di un'importante industria conserviera (di cui non ho il nome e che quindi non posso citare) che, nell'ottobre 2010, aveva trasformato e commercializzato triplo concentrato di pomodoro importato dalla Cina etichettandolo con il made in Italy. Ci sono, quindi, le prime sentenze. Può essere questo un piccolo caso, però, gli esperti del settore agroalimentare sanno che quando si comincia con questi casi, poi si aggrava il rischio che la fiducia nella filiera venga colpita.
Concludo dicendo che questo non è solo un fatto economico. Sicuramente, il commercio internazionale serve allo sviluppo economico, ma non questo tipo di commercio internazionale, cioè quello dei prodotti dal lavoro forzato: quello non serve mai. Liberalizzare gli scambi, cercare di migliorare la collaborazione economica va benissimo, ma a patto che le regole sul lavoro vengano rispettate. Il fatto è che, in un sistema come quello cinese così poco trasparente anche nei controlli, dove di fatto è impossibile, anche per l'impresa che volesse essere partner, controllare fino in fondo quello che succede là, è molto difficile garantire che le importazioni arrivino su un piano di competizione ragionevole. Chiaramente, il lavoro in Cina costa meno, ma non può costare zero: non può essere lavoro servile o asservito o, addirittura, in certi casi, lavoro forzato. Per questo è per noi così importante, al di là del fatto economico, promuovere tutte le iniziative possibili per contrastare questa cosa.
Sicuramente, la proposta di legge che è stata avanzata è importante, proprio perché introduce un elemento di fiducia, laddove dice che le imprese devono dichiarare che i loro prodotti sono fatti con materie prime che non sono mai state prodotte dal lavoro forzato. Le imprese dichiarano ciò - si limitano alla dichiarazione - divenendo questa un elemento tipico di fiducia. A questo punto, sta alla società civile e alle autorità pubbliche controllare se ciò è vero, per far pagare chi invece gioca sulla pelle dei lavoratori, non solo dove questo accade ma anche qui da noi, i quali subiscono una concorrenza sleale di cui si vedono le conseguenze.

PRESIDENTE. Passiamo agli interventi da parte dei colleghi.

FABIO RAINIERI. Abbiamo parlato dei laogai soprattutto rispetto al settore agroalimentare. Si è accennato, soltanto in un passaggio, alla questione degli apparati elettronici. Ci sono laogai che utilizzano i lavoratori non solo per l'agricoltura? Eventualmente, in quali settori?

TONI BRANDI, presidente di Laogai research foundation Italia onlus. I laogai producono di tutto: solo il 20,5 per cento di essi sono nel campo agroalimentare. Se desiderate consultare la banca dati che è sul nostro sito, troverete il nome della singola prigione e, spesso, quello dell'impresa o viceversa, nonché i nomi dei prodotti che si realizzano - per quanto ne sappiamo - e il numero dei detenuti. Comunque, in questi laogai si produce di tutto, dai mobili, ai computers e via dicendo, per qualsiasi settore merceologico.
Colgo l'occasione per sottolineare l'importanza della proposta di legge C. 3887, presentata a dicembre del 2010 e ancora giacente presso la X Commissione (Attività produttive, commercio e turismo). Se posso permettermi, signor presidente, visto che avete dimostrato una tale sensibilità - che ci tocca molto, perché noi siamo un gruppo di privati che si batte per questa causa, finanziandoci noi stessi - vi chiederemmo aiuto al fine di intervenire presso la X Commissione per riuscire ad organizzare un'audizione. Ne saremmo


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molto felici, perché questa è una battaglia che riguarda tutte le nostre coscienze. Spero anche di avere risposto, tra l'altro, alla sua domanda, signor presidente.

PRESIDENTE. Io sono anche membro della X Commissione, così come il collega Sanga, quindi ritengo che non sarà impossibile chiedere un'audizione, compatibilmente con la calendarizzazione già scadenzata.
Penso che ci abbiate fornito un contributo decisamente interessante dal punto di vista investigativo, vista l'attività che svolgiamo. Vi chiederei, a questo punto, come ci avete già anticipato di voler fare, di fornirci tutta la documentazione che riterrete utile, oltre a quella che ci avete già consegnato e che vedo essere copiosa e abbondante. Tenete presente che tutto ciò che ci fornirete, anche per iscritto, verrà acquisito agli atti, ad integrazione di ciò che è stato dichiarato in Commissione, diventando quindi parte integrante dell'audizione svolta.
Penso di poter dire, anche a nome dei colleghi presenti che fanno parte della X Commissione - gli onorevoli Destro, Cimadoro e Sanga - che sarà nostra cura chiedere all'Ufficio di presidenza di voler eventualmente calendarizzare un'audizione della vostra associazione, direttamente presso la X Commissione, non appena ciò sarà possibile: giusto, onorevole Cimadoro?

GABRIELE CIMADORO. Volentieri, conoscendo i nostri interlocutori!

PRESIDENTE. Vi ringrazio, siamo stati puntualissimi. Penso che ci rivedremo in un'altra sede, in ogni caso sempre all'interno della struttura istituzionale che oggi vi ospita. Procederemo ora a svolgere ulteriori approfondimenti e probabilmente saremo tenuti a chiedervi qualche dettaglio in più. Infatti, le due questioni che ci avete posto ci impongono una serie di verifiche, sia sul tema dell'impresa citata, sia sul tema ultimo, più esplicito, riguardante la sentenza che c'è stata, perché se c'è un filone d'inchiesta, una Commissione come la nostra - d'inchiesta - deve ovviamente potere avere accesso ai dati per cercare di capire e di comprendere le dinamiche in atto. Dichiaro conclusa l'audizione.

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