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Seduta del 6/12/2012


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Audizione di rappresentanti di RETE Imprese Italia.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di rappresentanti di RETE Imprese Italia.
L'audizione è finalizzata all'acquisizione da parte della Commissione di elementi informativi in ordine alle potenzialità insite nel sistema delle banche dati dell'anagrafe tributaria nel contrasto all'evasione fiscale. La Commissione è inoltre interessata a conoscere le valutazioni di RETE Imprese Italia nell'attuale sistema di accertamento e riscossione dei tributi locali, cui attualmente concorrono sia Equitalia spa, sia società private operanti in veste di concessionarie della riscossione.
Mi scuso con i nostri ospiti ma, come sapete, poiché si sta votando la fiducia alla Camera e il Senato è impegnato con la legge di stabilità, molti colleghi che avrebbero voluto essere presenti a questa importante audizione non potranno esserlo, e se ne scusano. Visto che siete stati così cortesi da essere presenti, anche in gran numero, direi di svolgere la relazione e in seguito valuteremo se sarà il caso di aggiornarci. Sono momenti difficili, come voi ben comprendete. Se siete d'accordo, darei la parola a uno di voi perché illustri il vostro punto di vista su questa tematica; in seguito, compatibilmente con i lavori parlamentari, cercheremo di trovare i tempi per incontrarci di nuovo.
Cedo dunque la parola al dottor Trevisani, direttore politiche fiscali, Confartigianato imprese.

ANDREA TREVISANI, direttore politiche fiscali, Confartigianato imprese. Innanzitutto ringrazio il Presidente per aver dato l'opportunità a RETE Imprese Italia di relazionare su temi molto importanti come l'utilizzo più integrato della banca dati dell'anagrafe tributaria, anche nel contrasto all'evasione.

PRESIDENTE. Mi scusi, dottor Trevisani, mi sembra che abbiate già predisposto un documento che potremmo allegare al verbale della seduta.

ANDREA TREVISANI, direttore politiche fiscali, Confartigianato imprese. In qualità di RETE Impresa Italia, abbiamo predisposto un documento, sulla cui traccia mi baserò, che sarà disponibile per gli altri componenti della Commissione, che oggi non hanno potuto essere presenti. Capiamo il momento particolarmente critico di fine legislatura.
Nel documento abbiamo cercato di evidenziare che la questione fiscale in Italia si basa su un'alta pressione fiscale, un'ingente quota di evasione e di economia non osservata, e una complessità palese sugli adempimenti.
Abbiamo ripercorso a grandi linee le riforme o, meglio, gli stravolgimenti del


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sistema tributario che si fonda su norme degli anni Settanta. Nel 1998 abbiamo introdotto la DIT e l'IRAP; nel 2003 un'altra riforma ha abolito la DIT e ha introdotto la thin capitalization, il consolidato e la trasparenza fiscale. Il Presidente saprebbe ripercorrere meglio di chiunque altro questi temi.
Con la finanziaria del 2007 abbiamo ancora assistito a uno stravolgimento del sistema tributario, soprattutto con una riduzione della tassazione IRES dal 32 al 27,50 per cento e della tassazione IRAP dal 4,25 al 3,9 per cento.
Vogliamo evidenziare che spesso queste manovre, più che razionalizzare il sistema tributario, sono sempre state un modo per rincorrere la spesa dello Stato. Le politiche fiscali sono state quindi in massima parte, impostate per raccogliere gettito, che spesso si è tradotto in spesa improduttiva. Infatti, il problema di ridurre la tassazione per le imprese consiste nella necessità di alleggerire il peso dello Stato, altrimenti non ci arriveremo mai.
Nel 2013 la pressione fiscale supererà il 45 per cento, mentre la pressione fiscale effettiva sarà intorno al 55 per cento. Quindi, chi paga le tasse pagherà il 55 per cento. Oltretutto, i dati forniti ieri dal Ministero dell'economia e delle finanze evidenziano per il 2012 un trend di crescita delle entrate tributarie, dovuto soprattutto all'IMU, che ha rappresentato un forte incremento di gettito per le casse dello Stato e per le casse dei Comuni, a discapito soprattutto degli immobili produttivi che, in questo paese, mediamente pagavano, sul valore catastale, il 6,4 per mille, mentre da prime analisi che stiamo conducendo risulta che la tassazione si sia attestata sul 9,5 per mille.
Bisogna tener presente che, oltre a un incremento dell'aliquota nominale applicata, c'è stato anche l'incremento dei moltiplicatori da applicare alle rendite catastali pari mediamente al 50-60 per cento in più; quindi, se si considera l'incremento di gettito, l'IMU non è nient'altro che una patrimoniale applicata in maniera pesante sugli immobili produttivi delle imprese. Bisogna assolutamente che il Parlamento riaffronti questa tematica, trovando una soluzione diversa rispetto a quella oggi prevista legislativamente, in cui si dà la facoltà ai Comuni di ridurre l'aliquota allo 0,4 per cento per quanto riguarda gli immobili produttivi, fermo restando che c'è sempre la riserva di legge dello 0,38. Di conseguenza, nessun Comune l'ha ridotta, anzi, oggi gli immobili produttivi sono trattati come le seconde case. In massima parte, questa è la sensibilità che stanno dimostrando gli enti locali per quanto concerne questo tipo di tassazione.
È necessario rimettere mano in maniera determinante alla tassazione sugli immobili produttivi delle imprese, eventualmente togliendo la compartecipazione dello 0,38, in modo tale che i Comuni possano effettivamente ridurre la tassazione, oppure obbligando i Comuni a una determinata tassazione, piuttosto che lasciare loro la facoltà di ridurla allo 0,4.
In quest'ottica, purtroppo, si è inserito lo scenario del federalismo fiscale. L'anticipo dell'IMU era un pezzo di attuazione della legge n. 42 del 2009 in materia di federalismo fiscale. Tuttavia, queste accelerazioni, dovute soprattutto a fatti di finanza pubblica, dall'entrata in vigore del federalismo fiscale non hanno fatto altro che aumentare nel tempo la pressione fiscale sul sistema produttivo. Se confrontiamo quanto pagano mediamente le nostre imprese rispetto ai concorrenti degli altri Stati, quindi il total tax rate, siamo oltre il 68 per cento, molto più dei nostri concorrenti, soprattutto sopra l'arco alpino: ad esempio, la Slovenia sta mediamente al 30 per cento e l'Austria ha un'aliquota molto più bassa. Dobbiamo dunque confrontarci anche con queste problematiche: pressione elevata, da una parte, e carico burocratico che si può definire «eccezionale» dall'altra. Infatti, le stime ufficiali dicono che 88 procedure monitorate in ambito MOA (misurazione degli oneri amministrativi a carico delle imprese), di cui soltanto tre sono di carattere fiscale, costano al sistema paese 26 miliardi di euro. Questi dati servono a definire i contorni di questi adempimenti che si sono stratificati nel tempo.


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Tenete presente che, oltretutto, negli ultimi anni gli obblighi comunicativi a carico delle imprese sono notevolmente aumentati: le black list, la comunicazione relativa alle prestazioni di servizi intercomunitari, l'iscrizione nell'elenco Vies, le comunicazioni del cosiddetto «spesometro», quindi le operazioni intercorse fra privati e cittadini, le comunicazioni relative al noleggio o locazione di beni, le comunicazioni relative ai beni dati in godimento. Si tratta di sei comunicazioni che si sono stratificate soltanto negli ultimi due anni. Sostanzialmente, comunichiamo di tutto. Come RETE Imprese abbiamo dubbi sull'efficacia di tutti questi adempimenti introdotti, su cui non c'è mai una misurazione ex post.
Quindi, anche il Parlamento, secondo noi, deve farsi carico di questo importante ruolo: chiedere, attraverso gli strumenti legislativi, di rendere conto a chi nel tempo ha stratificato questi adempimenti (potrebbe essere stato il Parlamento, quindi dovrebbe chiedere conto a sé stesso) a che cosa sono serviti, quanto sono stati utilizzati - siamo infatti convinti che una parte di questi adempimenti che si sono stratificati non siano utilizzati da parte dell'agenzia o del ministero - e quale efficacia hanno avuto nel contrasto effettivo all'evasione. Peraltro, si tratta di adempimenti che di solito entrano in vigore in corso d'anno, con difficoltà oggettive per le imprese nel ricostruire i dati che devono servire per la comunicazione, oltretutto anche in dispregio degli intendimenti contenuti nella legge n. 180, il cosiddetto «statuto delle imprese» che prevede, anche in materia fiscale, una previa consultazione delle associazioni prima di introdurre adempimenti di carattere tributario. Siamo anche convinti che non sia rispettato il principio di proporzionalità per quanto riguarda la serie di adempimenti posti a carico indiscriminatamente di tutte le imprese, senza alcuna verifica della proporzionalità tra le diverse dimensioni aziendali. Bisognerebbe cominciare a ragionare in un'ottica diversa e non introdurre adempimenti uguali per tutti, ma differenziati per tipologia e dimensione aziendale.
Fatta questa premessa, che dà l'idea della giungla fiscale in cui viviamo, caratterizzata da pressione burocratica e pressione fiscale vera e propria, rimane il problema su cui ci chiedeva di relazionare la Commissione, quello dell'evasione fiscale. Si tratta di un cancro per il Paese - i primi a sottolinearlo siamo noi di RETE Imprese per l'Italia - che va contrastato con tutti i mezzi leciti di cui oggi dispone l'amministrazione finanziaria.
Siamo convinti che la notevole banca dati gestita dall'Anagrafe tributaria sia in grado di fare selezioni migliori di quelle che oggi vengono fatte in materia tributaria. Tuttavia, per quanto riguarda l'evasione fiscale chiediamo una disaggregazione del fenomeno. L'ISTAT ha stimato 250 miliardi di economia non osservata, che si tramuterebbero in 120-130 miliardi di minor gettito. Chiediamo - questo indirizzo, peraltro, è contenuto anche nella legge delega AS 3519 per rendere il fisco più equo, oggi in discussione presso la Commissione finanze del Senato, in cui ci sono degli elementi che vanno nella giusta direzione - di provare a fare una disaggregazione dimensionale, di capire come il fenomeno si annida nelle diverse dimensioni di impresa e come si presenta a macchia di leopardo sul nostro territorio.
Non possiamo pensare di utilizzare gli stessi strumenti su tutte le tipologie di impresa e su tutta la lunghezza della penisola. Molto probabilmente bisogna avere una conoscenza più approfondita del fenomeno per andare nella direzione di creare strumenti ad hoc a seconda delle situazioni e, forse, anche per aree territoriali, perché il fenomeno non si manifesta ovunque con la stessa intensità e nella stessa dimensione. Esistono confronti internazionali sul fenomeno, ma per il momento sono abbastanza irrisori, dunque sono necessari approfondimenti. Siamo convinti che, comunque, la tax compliance, ossia l'adempimento spontaneo, sia la vera chiave di volta per combattere l'evasione. Bisogna cioè convincere


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il cittadino della necessità dell'adempimento, anche attraverso la deterrenza, ma soprattutto la convinzione della bontà del pagamento delle tasse può sorgere soltanto se lo Stato diventa - mi si passi il termine - «eticamente» più corretto nei confronti dei propri contribuenti. Se non si pagano le tasse scattano sanzioni al 30 per cento, a parte tutti i ravvedimenti possibili. Lo Stato, però, è il primo a non pagare i propri debiti nei confronti dei fornitori e delle imprese. Bisogna quindi ristabilire le regole del gioco. Molto spesso è l'esempio a mancare in questo Paese; e l'esempio deve arrivare soprattutto da chi ci governa e dallo Stato. Non può che essere questa la chiave di volta per aumentare la tax compliance, senza la quale non si può logicamente ridurre la massa di evasione.
Non si può pensare di controllare direttamente con i finanzieri 4 milioni di piccole e medie imprese. Si può soltanto spingerle, con la deterrenza ma anche con la convinzione dell'utilità e dell'equità del pagamento delle tasse, a fare l'adempimento in maniera corretta.
Per quanto riguarda le banche dati, ci chiedevate di fare una focalizzazione sull'utilizzo delle numerose banche dati di cui si dispone per il contrasto all'evasione. Siamo convinti che in materia lo strumento degli studi di settore abbia lavorato egregiamente. Su questo siamo anche confortati dalle audizioni della Corte dei conti presso questa Commissione, che hanno evidenziato l'importanza degli studi di settore, soprattutto come elemento non di accertamento ma di tax compliance. La Corte dei conti ha anche fornito dei dati, evidenziando che da quando sono stati introdotti gli studi di settore, la base imponibile è emersa per un ammontare pari a 35 miliardi. L'utilizzo della stessa banca dati, che oggi è gestita dall'Agenzia delle entrate per il tramite di SOSE, permette non soltanto di avere uno spaccato fiscale del Paese, ma anche di disporre di una portentosa informazione in materia di organizzazione aziendale della piccola impresa, tanto più che proprio SOSE ha sviluppato dei prodotti di business che permettono alle singole imprese di confrontarsi con il mercato di riferimento. Tale utilizzo della banca dati, gestita dall'Agenzia delle entrate per il tramite di SOSE, va oltre il mero dato fiscale. Spesso si parla di un trade-off tra studi di settore e redditometro. Siamo convinti che i due strumenti siano sinergici tra loro e che l'uno non escluda l'altro, anche perché indagano grandezze sostanzialmente diverse: lo studio di settore indaga il reddito d'impresa o professionale, quindi con pagamento di maggiori imposte anche sull'IRAP e l'IVA, mentre il redditometro indaga il reddito complessivo, quindi ne può eventualmente scaturire soltanto un accertamento in materia di IRPEF.
Il mese scorso è stato presentato il nuovo redditest che aveva creato tante aspettative, dal punto di vista mediatico più che da quello dell'applicazione concreta dello strumento. Siamo tutti consci che il Redditest è soltanto uno strumento di autodiagnosi per verificare la posizione del contribuente, anzi della famiglia del contribuente in relazione alle spese che ha sostenuto. Siamo, invece, più preoccupati per quanto riguarda il redditometro, cioè i decreti attuativi dell'articolo 38, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 600. Il redditest è un'autodiagnosi che uno può fare, però vorremmo conoscere quale sarà il decreto ministeriale, anche perché, oltretutto, il nuovo sistema di accertamento sulla base del nuovo redditometro si applica già dal 2009. Abbiamo sentito che il direttore dell'Agenzia delle entrate, proprio in questa sede, ha rimarcato che il nuovo redditometro si baserà in massima parte su spese presenti in anagrafe tributaria; poi avremo delle spese stimate, il cui valore è ottenuto applicando una valorizzazione a dati certi e, infine, una spesa media ISTAT che fotografa la parte di spesa «spicciola», corrente, come quella per il vestiario. Nulla quaestio per quanto riguarda l'equazione «un euro di spesa/un euro di reddito», perché anche un bambino capisce che se si spende si deve per forza aver maturato un reddito. Ci preoccupa, invece, di più la conoscibilità delle logiche che stanno alla base. Ci sembra di capire, dagli intendimenti


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espressi ufficialmente dal direttore in questa sede, che una parte di reddito sarà ricostruita attraverso dei moltiplicatori. Vorremmo sapere come sono stati determinati quei moltiplicatori e qual è il loro peso. Non vorremmo ripercorrere la vecchia strada del redditometro del decreto ministeriale del 10 dicembre 1992, in cui non c'era uno straccio di nota metodologica. Nonostante questo, il vecchio redditometro regge dal punto di vista giurisprudenziale, e sta reggendo in Cassazione. Sosteniamo che questa sia una circostanza inaudita, proprio a fronte della pochezza delle spiegazioni e della possibilità di difesa per il contribuente, che è praticamente nulla. Molto probabilmente, è sbagliata anche la linea di difesa che si adotta. Bisognerebbe impugnare i decreti attuativi per l'irragionevolezza con cui sono stati costruiti e non tanto per il peso dei singoli beni, ma mi sembra di capire che finora nessuno l'ha fatto. A parte questo, siamo preoccupati soprattutto per quanto concerne la costruzione del decreto ministeriale, che avrà sempre un filtro sulla famiglia, con dei pesi. Purtroppo, dopo la famiglia, la seconda fase è quella dell'accertamento sui singoli, visto che la famiglia non è un soggetto passivo di imposta. Bisogna quindi capire come si scende dalla famiglia, che è la prima selezionata, ai singoli, con i pesi di determinati beni e di determinate spese.
Siamo convinti, in tutti i modi, che il redditometro non può essere uno strumento di largo utilizzo, né uno strumento di compliance, ma è piuttosto uno strumento di accertamento vero e proprio e deve essere utilizzato unicamente dove c'è una palese incongruenza tra il reddito dichiarato e il tenore di vita. Mi sembra, almeno dalle dichiarazioni del direttore Befera, che questa direzione sia già stata intrapresa.
Deve inoltre essere garantita la massima possibilità di dar prova contraria. Mi sembra di capire - almeno da quello che ci hanno rappresentato - che ci sono due livelli di contraddittorio: uno ancor prima di emanare l'avviso di accertamento, basato sugli elementi di cui è in possesso l'Agenzia, e successivamente un contraddittorio per chiudere l'avviso di accertamento nel momento in cui sfociasse in un provvedimento ufficiale. Bisogna però garantire un'ampia prova contraria, il che significa la possibilità di dimostrare che la provvista per fare quelle spese è arrivata nella maniera più disparata, anche perché nelle utilità delle famiglie non si lascia traccia di assegni tra padre e figlio, ma molto spesso si usano soldi contanti per fare determinati acquisti. Inoltre, ci deve essere un'accettazione sociale. La vera scommessa è che le persone devono riconoscersi nei risultati del redditometro. Se questo non avviene, ripercorriamo la stessa strada degli studi di settore in cui inizialmente nessuno si riconosceva e poi, a distanza di dieci anni, a forza di revisione degli stessi - si tratta infatti di un prodotto che è stato affinato dal 1998 fino ad oggi - si è arrivati a un'accettazione generalizzata dei risultati.
Quindi, la vera scommessa è che ci sia un'accettazione sociale. Come dicevamo prima, se l'equazione è «un euro di spesa/un euro di reddito» è comprensibile; se, invece, venissero utilizzati dei moltiplicatori, riteniamo che molto probabilmente essi ripercorrerebbero la stessa valenza probatoria degli studi di settore e diventerebbero delle presunzioni semplici, cioè degli indizi, non carichi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. Infatti, nel momento in cui si fanno delle ricostruzioni sulla base di moltiplicatori, risulta un accertamento parametrico e non siamo più nel campo di un accertamento che può avere una valenza un po' più forte.
Vogliamo rivolgere alla Commissione una sollecitazione circa la necessità di razionalizzare l'utilizzo delle banche dati. Chiediamo di tutto ai contribuenti; molte cose sono già contenute in Anagrafe tributaria, ma gliele richiediamo, molto probabilmente perché le anagrafi tributarie non comunicano fra loro. Basta vedere quel che succede tra catasto e il quadro B dei fabbricati, tanto per dirne una. Quindi, c'è una difficoltà oggettiva nel relazionare le diverse banche dati. Bisogna trovare


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una modalità intelligente per integrarle, perché dobbiamo essere consapevoli che ogni volta che chiediamo un dato già contenuto in una banca dati, in realtà stiamo facendo spendere soldi al sistema delle imprese e al sistema paese.
L'altro elemento che ci preme sottolineare è che questa marea di dati, come dicevamo prima, va a confluire nell'Anagrafe tributaria, ma molto spesso questi dati non sono utilizzati. Nella legge delega di cui discutevamo prima è contenuta anche la necessità di rivedere gli adempimenti superflui. Parliamo quindi di un principio di delega che dovrebbe tramutarsi in un decreto legislativo per eliminare gli adempimenti superflui che danno luogo a duplicazioni e che non risultano utili ai fini del controllo. Insistiamo sulla necessità di un controllo ex post per verificare l'utilità dei dati che forniamo all'Agenzia delle entrate e all'amministrazione finanziaria in generale, e l'utilizzo che ne viene fatto.
Per il resto, sapete meglio di noi qual è la situazione. Bisognerebbe arrivare a una codificazione unica per riuscire a far navigare i nostri contribuenti in un mare meno impervio di quello che oggi esiste relativamente agli adempimenti; occorrerebbe inoltre una stabilità delle norme che impongono adempimenti e una sostanziale e reale irretroattività delle norme di carattere tributario, con una costituzionalizzazione dello statuto dei diritti del contribuente. Basta scriverlo nella norma e si è già risolto il problema di dare una sostanziale irretroattività. Oltretutto, vi ricordo che, anche senza dirlo, violiamo spesso questo principio, introducendo norme in cui si prevede che il calcolo degli acconti dell'anno precedente deve essere fatto sulla base della normativa nuova e costringendo il contribuente ad applicare la normativa già dall'anno in cui si è approvata la norma che entrerebbe in vigore dall'anno successivo. Ci nascondiamo dietro un dito facendo finta di rispettare lo statuto del contribuente, costringendo il contribuente al ricalcolo degli acconti a norma vigente appena approvata. Come soggetti intermediari degli adempimenti tributari, ci troviamo spesso a dover tenere comportamenti assurdi di questo genere.
Ci è stata chiesta una nostra valutazione sulla riscossione fatta dagli enti locali. Siamo perfettamente consapevoli di tutte le vicissitudini che sono intervenute tra gli enti locali ed Equitalia, quindi della eventualità che dal 30 giugno del prossimo anno - se non ricordo male - gli enti locali escano dal sistema della riscossione coattiva tramite Equitalia, anche se mi sembra di capire che già un 50 per cento utilizzano altre società per la riscossione, spontanea e coattiva, dei tributi. Crediamo che non si debba buttare via il bambino con l'acqua sporca e che una riflessione attorno alla previsione di sganciare tutti gli enti locali da Equitalia debba essere fatta. Qualsiasi sia la scelta che verrà fatta dal legislatore e dagli enti locali, ci deve essere semplicità, conoscibilità e trasparenza nell'azione di riscossione dei tributi locali; imparzialità della gestione, che oggi molto probabilmente Equitalia garantiva, mentre abbiamo visto quel che è successo con alcuni concessionari della riscossione di tributi locali; livelli di costi di gestione (che è quello che interessa soprattutto le imprese) che devono essere inferiori a quelli applicati da Equitalia, perché ha un senso abbandonare Equitalia nella misura in cui siamo in grado, come società di gestione della riscossione coattiva, di garantire un costo inferiore.
Oggi Equitalia ha un aggio del 9 per cento, che dal primo gennaio 2013 passerà all'8 per cento, con la prospettiva, prevista nell'articolo 5 del decreto-legge n. 95, di rivedere, sulla base del maggiore efficientamento delle strutture di Equitalia, una riduzione dei costi della riscossione coattiva. Che si tratti di Equitalia o di società locali non ci importa assolutamente niente, ma la riscossione dovrà avere costi nettamente inferiori. Se non è così, si valutino attentamente ipotesi diverse.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Trevisani che ci ha fatto una carrellata importante delle anomalie e delle disfunzioni del sistema tributario. Mi dispiace che i


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colleghi, per le ragioni che ho poc'anzi ricordato, non siano presenti per ascoltare queste considerazioni che sono totalmente convincenti.
Vista l'importanza di questo documento che sarà allegato al nostro verbale, chiedo agli uffici che le considerazioni fatte siano puntualmente calate nel documento conclusivo che ci apprestiamo a predisporre e che formerà oggetto di un'iniziativa pubblica a cui parteciperanno il direttore dell'Agenzia delle entrate e gli altri vertici dell'amministrazione. Quelli evidenziati dal dottor Trevisani e da tutti i rappresentanti di Rete Imprese Italia sono i veri snodi e le vere difficoltà del sistema tributario. Se vogliamo assicurare un fisco a dimensione d'uomo questi temi devono essere affrontati. Sarà nostro impegno inserirli nel documento che sarà approvato da tutti i colleghi come osservazioni della Commissione, come punti fondamentali. È necessario intervenire in questa direzione, altrimenti parliamo solo dei massimi sistemi, ma non si fa nulla di concreto per riordinare il sistema fiscale.
Ringrazio ancora gli auditi e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 9,15.

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