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PDL 5416

XVI LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 5416



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

CANNELLA, CORSARO, BECCALOSSI, CASTELLANI, CASTIELLO, CATANOSO GENOESE, CICCIOLI, COSSIGA, CROSETTO, DE ANGELIS, DE CORATO, DI CATERINA, FAENZI, RENATO FARINA, TOMMASO FOTI, FRASSINETTI, GARAGNANI, GHIGLIA, ALBERTO GIORGETTI, GIRO, HOLZMANN, LABOCCETTA, LAFFRANCO, LANDOLFI, LAZZARI, LORENZIN, MANCUSO, MANNUCCI, MARSILIO, MARTINELLI, MAZZOCCHI, MELONI, MIGLIORI, MINASSO, MURGIA, MUSSOLINI, NASTRI, NOLA, PAGLIA, PELINO, RAISI, RAMPELLI, RAZZI, RONCHI, SALTAMARTINI, SBAI, SCANDROGLIO, TRAVERSA, VELLA

Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sull'esistenza di trattative tra esponenti delle istituzioni e organizzazioni criminali mafiose tra gli anni 1992 e 1994

Presentata il 7 agosto 2012


      

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Onorevoli Colleghi! — Sulle vicende riguardanti la cosiddetta «trattativa tra Stato e mafia» presuntivamente sviluppatasi nel corso degli anni 1992-1993 esistono, da un lato, un dibattito sulla sua reale esistenza e, dall'altro, contrapposte interpretazioni che qui ricordiamo.
      Dopo quattro anni di indagini, la procura di Palermo e la direzione investigativa antimafia (DIA) ritengono di aver ricostruito i retroscena della trattativa fra uomini dello Stato e i vertici di Cosa nostra. L'atto d'accusa della procura rivela che, nei primi mesi del 1992, i contatti tra Stato e mafia sarebbero stati avviati dall'ex Ministro Calogero Mannino, che temeva di essere ucciso. I magistrati ritengono che l'esponente democristiano avrebbe messo in allerta gli uomini del reparto operativo speciale (ROS) dei carabinieri, ma avrebbe
 

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dialogato anche con alcuni boss, per «avviare una trattativa con i vertici dell'organizzazione mafiosa – scrivono i pubblici ministeri – finalizzata a sollecitare eventuali richieste di Cosa nostra e far cessare la programmata strategia omicidiario-stragista già avviata con l'omicidio Lima».
      Nell'estate 1992, dopo la strage di Capaci, i carabinieri del ROS avrebbero poi tentato di fermare la strategia di morte dei corleonesi iniziando un dialogo segreto con l'ex sindaco Vito Ciancimino. In questi delicati passaggi, l'inchiesta della procura di Palermo sulla trattativa si interseca con quella della procura di Caltanissetta sul movente dell'eccidio di via d'Amelio: è ormai un dato acquisito dalle inchieste che Paolo Borsellino avrebbe saputo della trattativa fra esponenti dello Stato e i vertici della mafia e avrebbe anche tentato di opporsi e per questa ragione la sua morte sarebbe stata «accelerata», come ha spiegato il pentito Giovanni Brusca.
      La procura di Palermo crede in parte al racconto di Massimo Ciancimino a proposito degli incontri fra il generale Mori e l'ex sindaco Vito Ciancimino: sarebbero avvenuti anche prima della strage di Borsellino, circostanza sempre negata dal generale Mori. La procura è anche convinta che ai carabinieri Mori e De Donno sarebbe stato consegnato, tramite Vito Ciancimino, il papello con le richieste di Totò Riina, il prezzo che Cosa nostra chiedeva per interrompere la stagione delle bombe: revoca del carcere duro, revisione dei processi, annullamento dei processi più importanti già conclusi. È un altro dei punti centrali dell'inchiesta, anche questo sempre respinto dai carabinieri coinvolti.
      La terza fase della trattativa sarebbe iniziata dopo l'arresto di Riina, nel gennaio 1993. Secondo la procura di Palermo, a condurla sarebbe stato Bernardo Provenzano. E dato che Ciancimino era in carcere, la trattativa sarebbe stata portata avanti da Marcello Dell'Utri. I pubblici ministeri scrivono che Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca avrebbero «prospettato al capo del Governo in carica Silvio Berlusconi (nominato Premier nell'aprile del 1994), per il tramite di Vittorio Mangano e di Dell'Utri una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefìci di varia natura per gli aderenti a Cosa nostra». Brusca sostiene che una «risposta» sarebbe poi arrivata, sempre per il tramite di Mangano.
      In cima alla lista degli indagati ci sono padrini del calibro di Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Antonino Cinà. Seguono i nomi di rappresentanti delle istituzioni e di politici: Antonio Subranni, Mario e Giuseppe Donno, all'epoca il vertice e l'anima del ROS, l'ex Ministro Calogero Mannino e Marcello Dell'Utri, principale collaboratore di Silvio Berlusconi, fondatore di Forza Italia, oggi senatore. «Hanno agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato italiano», recita il capo d'imputazione. «In concorso con l'allora Capo della Polizia Vincenzo Parisi e il vice direttore generale del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (DAP) Francesco Di Maggio, entrambi deceduti». L'atto d'accusa della procura prosegue con il nome dell'ex Ministro dell'interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza: «Deponendo come testimone al processo Mori, in corso al tribunale di Palermo – scrivono i pubblici ministeri – anche al fine di assicurare ad altri esponenti delle istituzioni l'impunità ha affermato il falso e comunque taciuto in tutto o in parte ciò che sapeva».
      Anche Massimo Ciancimino è nella lista dei dodici predisposta dalla procura: è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, per il ruolo di tramite che lui stesso ha descritto fra il padre e il vertice di Cosa nostra. Il figlio dell'ex sindaco dovrà però rispondere anche di calunnia, per aver accusato – «sapendolo innocente», scrive la procura – l'ex Capo della Polizia Gianni De Gennaro, anche tramite un biglietto contraffatto attribuito al padre Vito.
      Questi dodici nomi compongono un avviso di chiusura delle indagini, che prelude alla richiesta di un processo. Ma l'inchiesta sulla trattativa non è ancora chiusa: risultano indagati per false dichiarazioni
 

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al pubblico ministero l'ex Ministro della giustizia Giovanni Conso, l'ex capo del DAP Adalberto Capriotti e l'europarlamentare Giuseppe Gargani. Come prevede il codice penale per questo tipo di reato, la loro posizione è al momento sospesa, in attesa della definizione del procedimento principale.
      Nell'indagine restano anche le posizioni dell'ex capitano Antonello Angeli e dell'agente dei servizi segreti Rosario Piraino, chiamati in causa da Massimo Ciancimino: il primo per aver trafugato una copia del papello durante una perquisizione; il secondo perché sarebbe stato un collaboratore del misterioso «signor Franco», lo 007 che secondo Ciancimino avrebbe intrattenuto i contatti fra la mafia e lo Stato. Ma il «signor Franco» non si è ancora trovato e su Ciancimino aleggiano ormai da mesi pesanti dubbi.
      Lo scorso 24 luglio 2012 la procura di Palermo ha emesso la richiesta di rinvio a giudizio, dove figurano Totò Riina e Bernardo Provenzano, nonché gli ex ufficiali del ROS Mario Mori e Antonio Subranni. Ma soprattutto compaiono anche l'ex Ministro dell'interno Nicola Mancino e i senatori Marcello dell'Utri e Calogero Mannino. Tutti, tranne Mancino, sono accusati di attentato a un corpo politico, Mancino risponde invece di falsa testimonianza.
      Infine, nella richiesta di rinvio a giudizio compare anche Massimo Ciancimino, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e di calunnia nei confronti dell'ex Capo della Polizia Gianni De Gennaro. Si profila quindi un processo senza precedenti con sul banco degli imputati insieme i vertici della mafia e dello Stato.
      Il documento da inviare al giudice per le indagini preliminare è stato firmato dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti procuratori Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Lia Sava.
      Il procuratore Francesco Messineo si è limitato a «vistare» la richiesta di rinvio di giudizio, senza comunque firmarla: la sottigliezza tecnica potrebbe manifestare una non piena condivisione da parte del capo dell'ufficio delle conclusioni cui sono giunti i magistrati titolari del fascicolo.
      Questa la ricostruzione dei pubblici ministeri. Rispetto ad essa sono emerse altre valutazioni di diverso segno: il carcere duro per i mafiosi (il cosiddetto «41-bis») fu esteso ai mafiosi dal Governo Andreotti nel giugno 1992 subito dopo la strage di Capaci in cui rimasero uccisi Falcone, sua moglie e la sua scorta. Le stragi di Falcone e di Borsellino furono dettate da preoccupazioni crescenti della mafia per la legislazione antimafia che, dal 1989 in poi, il Governo Andreotti aveva messo in atto sia con l'allungamento della carcerazione preventiva per i mafiosi, camorristi e ’ndranghetisti, sia per la legislazione sui pentiti. Le bombe di Roma, Firenze e Milano furono invece piazzate per eliminare o per ridurre l'area del carcere duro e per consentire ai mafiosi, come recitava il documento del luglio 1992 agli atti del Senato della Repubblica, di recuperare libertà e nuova identità. Entrambi questi risultati furono oggettivamente raggiunti grazie al Governo Ciampi, con Conso Ministro della giustizia e con Mancino Ministro dell'interno: un Governo voluto e sostenuto dal PCI di Occhetto e di Violante. Nel novembre 1993, infatti, Conso libera dal carcere duro 300 mafiosi e nello stesso periodo cominciano a intensificarsi i benefìci della legislazione premiale sui pentiti, che nei successivi dieci anni metteranno fuori dal carcere oltre 4.000 criminali. Ben 140 revoche di 41-bis sarebbero state disposte dallo stesso Ministro Conso il 15 maggio 1993, a ridosso della strage di via dei Georgofili a Firenze (che avrebbe avuto luogo il successivo 27 maggio e che avrebbe causato 5 morti e 48 feriti), ma, soprattutto, all'indomani dell'attentato di via Fauro a Roma, che provocò 15 feriti, lasciando «illesa» la vittima predestinata, il giornalista Maurizio Costanzo.
      Quindi, proprio la mattina successiva a quel 14 maggio 1993 lo Stato diede una risposta a dir poco singolare: 140 decreti di carcere duro imposti un anno prima ad altrettanti boss detenuti furono revocati. Di questi, solo 17 erano divenuti collaboratori
 

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di giustizia e per loro erano stati gli stessi magistrati a sollecitare l'alleggerimento del trattamento in cella. Per tutti gli altri fu una scelta autonoma del Governo. Il Ministro della giustizia era Giovanni Conso e direttore del DAP era Nicolò Amato, lo stesso che due mesi prima, a marzo, aveva messo per iscritto la proposta di revocare i decreti, affermando che appariva «giusto ed opportuno rinunciare ora all'utilizzo di questi decreti», e parlando anche di «riserve sulla eccessiva durezza di siffatto regime penitenziario» espresse dal Capo della Polizia (Vincenzo Parisi), e di «insistenze» da parte del Ministero dell'interno (Nicola Mancino).
      I nomi dei detenuti per mafia riammessi nel maggio 1993 al regime di reclusione ordinario non sono «famosi» così come quelli non rinnovati a novembre, ma resta l'importanza della decisione autonoma del Governo all'indomani dell'attentato di via Fauro. Perché può essere interpretata come un segnale dell'istituzione penitenziaria di voler tornare alla normalità, anche per evitare altre bombe, come ha ammesso Conso per la scelta successiva nel corso della sua audizione presso la Commissione antimafia. A luglio 1993 giunsero a scadenza altri 300 e più decreti che imponevano il 41-bis ad altrettanti mafiosi, quelli varati all'indomani della strage di via D'Amelio in cui morirono Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta. Questa volta furono reiterati e pochi giorni dopo, tra il 27 e il 28 luglio, arrivarono puntuali gli attentati omicidi di Roma e di Milano.
      A novembre, scadenza successiva di un terzo blocco di 41-bis, Conso stabilì di non prorogare il carcere duro per altri 140 boss.
      Nei programmi di protezione i mafiosi entravano solo su richiesta del pubblico ministero procedente e con l'approvazione di una commissione istituita presso il Ministero dell'interno. Nel 2007, a un'interrogazione presso la Commissione antimafia sui programmi di protezione, Giuliano Amato, Ministro dell'interno in carica, disse pubblicamente che alle domande della stessa Commissione la sua amministrazione era reticente.
      Di conseguenza è necessaria una Commissione parlamentare di inchiesta che faccia luce sulle vere responsabilità dei Governi e degli esponenti dei primi anni novanta. Alcuni protagonisti di quelle vicende sono venuti a mancare, ma ce ne sono altri che all'epoca erano al Viminale e a Palazzo Chigi e che hanno il dovere di dare un tributo alla verità, alla memoria di Paolo Borsellino e di tutti i martiri della lotta alla mafia. Ed è giusto, opportuno e necessario che la politica di oggi sia la prima a scendere in campo, assumendosi la piena responsabilità di indagare sulla questione attraverso la Commissione parlamentare di inchiesta che la presente proposta di legge istituisce.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Istituzione e funzioni della Commissione parlamentare di inchiesta).

      1. È istituita, per la durata della XVI legislatura, ai sensi dell'articolo 82 della Costituzione, una Commissione parlamentare di inchiesta sull'esistenza di trattative tra esponenti delle istituzioni e organizzazioni criminali mafiose tra gli anni 1992 e 1994, di seguito denominata «Commissione», con il compito di accertare l'esistenza di collegamenti, trattative, richieste o rapporti in qualsiasi altra forma tra esponenti di organi o di apparati dello Stato e la criminalità organizzata siciliana, con specifico riferimento alle associazioni di cui agli articoli 416 e 416-bis del codice penale, negli anni tra il 1992 e il 1994. La Commissione ha il compito di indagare in particolare sulle stragi di cui sono state vittime i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e sulle modalità di applicazione delle regole di trattamento previste dall'articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354.
      2. La Commissione riferisce alle Camere con relazioni su questioni specifiche o con relazioni generali ogni volta che ne ravvisa la necessità e comunque al termine dei suoi lavori.
      3. La Commissione procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria. La Commissione non può adottare provvedimenti attinenti alla libertà e alla segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione nonché alla libertà personale, fatto salvo l'accompagnamento coattivo di cui all'articolo 133 del codice di procedura penale.

Art. 2.
(Composizione della Commissione).

      1. La Commissione è composta da dieci senatori e da dieci deputati, nominati

 

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rispettivamente dal Presidente del Senato della Repubblica e dal Presidente della Camera dei deputati, in proporzione al numero dei componenti i gruppi parlamentari, comunque assicurando la presenza di un rappresentante per ciascun gruppo esistente in almeno un ramo del Parlamento. I componenti della Commissione dichiarano alla Presidenza della Camera di appartenenza se nei loro confronti sussiste una delle condizioni indicate nella proposta di autoregolamentazione formulata, con la relazione approvata nella seduta del 3 aprile 2007, dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare istituita dalla legge 27 ottobre 2006, n. 277.
      2. Il Presidente del Senato della Repubblica e il Presidente della Camera dei deputati, d'intesa tra loro, entro dieci giorni dalla nomina dei componenti, convocano la Commissione per la costituzione dell'ufficio di presidenza.
      3. L'ufficio di presidenza, composto dal presidente, da due vicepresidenti e da due segretari, è eletto dalla Commissione, a scrutinio segreto, tra i suoi componenti. Per l'elezione del presidente è necessaria la maggioranza assoluta dei componenti la Commissione; se nessuno riporta tale maggioranza si procede al ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto il maggiore numero di voti. In caso di parità di voti è proclamato eletto o entra in ballottaggio il più anziano per età.
      4. Per l'elezione, rispettivamente, dei due vicepresidenti e dei due segretari, ciascun componente la Commissione scrive sulla scheda un solo nome. Sono eletti coloro che hanno ottenuto il maggior numero di voti. In caso di parità di voti si procede ai sensi del comma 3.
      5. Le disposizioni dei commi 3 e 4 si applicano anche per le elezioni suppletive.

Art. 3.
(Testimonianze).

      1. Ferme restando le competenze dell'autorità giudiziaria, per le audizioni a

 

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testimonianza davanti alla Commissione si applicano le disposizioni previste dagli articoli da 366 a 372 del codice penale.

Art. 4.
(Acquisizione di atti e documenti).

      1. La Commissione può ottenere copie di atti e documenti relativi a procedimenti e inchieste in corso presso l'autorità giudiziaria o altri organi inquirenti, nonché copie di atti e documenti relativi a indagini e inchieste parlamentari, anche se coperti dal segreto. In tale ultimo caso la Commissione garantisce il mantenimento del regime di segretezza. L'autorità giudiziaria provvede tempestivamente e può ritardare la trasmissione di copia di atti e documenti richiesti con decreto motivato solo per ragioni di natura istruttoria. Il decreto ha efficacia per sei mesi e può essere rinnovato. Quando tali ragioni vengono meno, l'autorità giudiziaria provvede senza ritardo a trasmettere quanto richiesto. Il decreto non può essere rinnovato o avere efficacia oltre la chiusura delle indagini preliminari.
      2. La Commissione stabilisce quali atti e documenti non devono essere divulgati, anche in relazione a esigenze attinenti ad altre istruttorie o inchieste in corso. Devono in ogni caso essere coperti dal segreto gli atti e i documenti attinenti a procedimenti giudiziari nella fase delle indagini preliminari.
      3. Il segreto funzionale riguardante atti e documenti acquisiti dalla Commissione in riferimento ai reati di cui agli articoli 416 e 416-bis del codice penale non può essere opposto ad altre Commissioni parlamentari di inchiesta.

Art. 5.
(Obbligo del segreto).

      1. I componenti la Commissione, il personale addetto alla stessa e ogni altra persona che collabora con la Commissione o compie o concorre a compiere atti di

 

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inchiesta, oppure ne viene a conoscenza per ragioni di ufficio o di servizio, sono obbligati al segreto per tutto quanto riguarda gli atti e i documenti di cui all'articolo 4, comma 2.
      2. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, la violazione del segreto è punita ai sensi dell'articolo 326 del codice penale.
      3. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, le pene di cui al comma 2 si applicano a chiunque diffonde in tutto o in parte, anche per riassunto o informazione, atti o documenti del procedimento di inchiesta dei quali è stata vietata la divulgazione.

Art. 6.
(Organizzazione interna).

      1. L'attività e il funzionamento della Commissione sono disciplinati da un regolamento interno approvato dalla Commissione stessa prima dell'inizio dei suoi lavori. Ciascun componente può proporre la modifica delle norme regolamentari.
      2. La Commissione può organizzare i propri lavori anche attraverso uno o più comitati, costituiti secondo il regolamento di cui al comma 1.
      3. Tutte le volte che lo ritenga opportuno, la Commissione può riunirsi in seduta segreta.
      4. La Commissione si avvale dell'opera di agenti e di ufficiali di polizia giudiziaria e può avvalersi di tutte le collaborazioni, che ritiene necessarie, di soggetti interni ed esterni all'amministrazione dello Stato autorizzati, ove occorre e con il loro consenso, dagli organi a ciò deputati e dai Ministeri competenti.
      5. Per l'espletamento delle sue funzioni la Commissione fruisce di personale, locali e strumenti operativi messi a disposizione dai Presidenti delle Camere, d'intesa tra loro.
      6. Le spese per il funzionamento della Commissione sono stabilite nel limite massimo di 75.000 euro per l'anno 2012 e di 50.000 euro per l'anno 2013 e sono poste

 

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per metà a carico del bilancio interno del Senato della Repubblica e per metà a carico del bilancio interno della Camera dei deputati.
      7. La Commissione cura l'informatizzazione dei documenti acquisiti e prodotti nel corso dell'attività propria e delle analoghe Commissioni parlamentari di inchiesta precedenti.


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