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Doc. XXIII n. 7


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Premessa

La Calabria è una regione di 15mila Km2, orograficamente complessa e «difficile», con circa 800 km di coste, ma con la maggior parte del territorio montuoso e con una viabilità, autostrada compresa, assolutamente inadeguata.
I due milioni di abitanti vivono in 409 comuni e 800 centri urbani (tra marine, scali ferroviari e frazioni), con una densità di 132 abitanti/km2.
Meno del 25 per cento risiede in comuni con più di 25 mila abitanti e il 50 per cento circa in comuni con meno di 10 mila abitanti; in particolare, circa 280 mila abitanti, pari al 14 per cento della popolazione calabrese risiede in ben 225 comuni che contano tra i 400 e i 2 mila 500 abitanti.
Per fare un raffronto, la Campania (il cui «spettro», quando si parla di rifiuti, viene spesso agitato) ha una superficie di 13 mila 600 km2, 5 milioni 800 mila abitanti (427 abitanti/km2), mentre la provincia di Napoli, che costituisce la vera area dell'emergenza rifiuti, conta ben 3 milioni di abitanti, con la densità abitativa più alta d'Italia (2.629 abitanti/km2).
Le peculiarità del territorio calabrese rendono problematica sia la fase della raccolta, sia quella dello smaltimento dei rifiuti e suggeriscono di incentivare modalità di raccolta più specifiche.
Tanto più in un contesto socio culturale nel quale, in modo tanto paradossale quanto contraddittorio, per un verso, si assiste a una scarsa attenzione da parte della maggioranza dei cittadini calabresi verso le problematiche relative alla raccolta - e, più in generale, alla gestione dei rifiuti solidi urbani, a fronte di forme di abbandono incontrollato degli stessi sul territorio - mentre, per altro verso, in talune circostanze, si assiste a manifestazioni popolari di protesta verso ogni iniziativa pubblica volta a disciplinare, dopo la fase della raccolta, l'attività di smaltimento controllato di tali rifiuti.
La raccolta differenziata stenta ad avviarsi, nonostante una corposa iniezione di risorse finanziarie comunitarie messa in campo dalla regione Calabria (vedi doc. 350/2 relazione della sezione regionale della Corte dei conti, pagina 150).
I problemi principali della Calabria sono costituiti dalle grandi distanze tra i comuni, che molto spesso hanno un numero esiguo di abitanti, in un territorio che presenta una viabilità a dir poco difficile, con molte discariche comunali, il più delle volte «non a norma» in quanto non adeguatamente impermeabilizzate né dotate di sistemi di captazione del biogas, e pochi impianti di effettivo smaltimento dei rifiuti.


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Sono presenti, come si vedrà di seguito, impianti di trattamento meccanico - biologico (tmb) che, tuttavia, sono mal distribuiti sul territorio e sono caratterizzati da una eccessiva produzione di scarti, che raggiungono la percentuale del 40 per cento dei rifiuti solidi urbani in entrata, a fronte di una media nazionale che vede scarti in uscita dagli impianti di trattamento, che si attestano intorno al 23-24 per cento.
Infine, e questo costituisce il problema più grave, la Calabria è del tutto priva di quegli impianti che, in base all'attuale evoluzione delle tecnologie ad applicazione industriale consolidata e diffusa, maggiormente garantiscono lo smaltimento dei rifiuti urbani.
Nello specifico, il problema dello smaltimento dei rifiuti in Calabria è stato affrontato, come in altre regioni del sud Italia, mediante il ricorso all'istituto emergenziale del commissariamento, a seguito dell'accertata incapacità degli organi amministrativi regionali e locali a darvi soluzione.
Di conseguenza, con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 12 settembre 1997 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 217 del 17 settembre 1997) - richiamato l'articolo 5 comma 1 della legge 24 febbraio 1992 n. 225 - è stato dichiarato lo stato di emergenza nel territorio della regione Calabria per la gestione dei rifiuti solidi urbani (rsu); quindi, con l'ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri 21 ottobre 1997 n. 2969, è stato nominato il commissario delegato del Governo per l'emergenza rifiuti, al quale sono stati assegnati precisi obiettivi e, in particolare, tra l'altro, quello del conseguimento della raccolta differenziata nella misura del 20 per cento «entro il 30 giugno 1999» e della programmazione di ulteriori interventi «per realizzare l'obiettivo minimo di raccolta differenziata del 35 per cento nei successivi due anni, nonché...» (articolo 3.1).
Nulla di tutto ciò è avvenuto, come si vedrà di seguito.
Il motivo principale di tale fallimento deve essere individuato nei numerosi conflitti tra l'ufficio del commissario e gli enti locali, che hanno paralizzato tutte le iniziative dei vari commissari delegati che si sono succeduti nel tempo, oltre che nella inidoneità di alcune scelte operative di questi ultimi e, in definitiva, nella loro incapacità.
Tale dato è singolare e, al contempo, allarmante, alla luce del fatto che nella fase iniziale dell'esperienza commissariale e nella ragionevole prospettiva di una valida e seria collaborazione istituzionale, sono stati via, via nominati commissari delegati gli stessi Presidenti della regione Calabria (Giuseppe Nisticò, Giovambattista Caligiuri, Luigi Meduri e Giuseppe Chiaravalloti).
Soltanto a partire dal mese di settembre 2004, il consiglio dei ministri - probabilmente allo scopo di evitare eventuali condizionamenti alla struttura commissariale, determinati dal cumulo dell'incarico istituzionale di commissario delegato del Governo con la carica elettiva di presidente della regione, come tale legata al consenso popolare - ha nominato commissari delegati vari prefetti, succedutisi nel tempo (Domenico Bagnato, Carlo Alfiero, Antonio Ruggiero, Salvatore Montanaro, Goffredo Sottile), salvo nominare, nel mese di luglio 2010, nuovo commissario delegato il presidente della regione, Giuseppe Scopelliti, in sostituzione di Goffredo Sottile.

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E, tuttavia, da ultimo con ordinanza del presidente del consiglio dei ministri numero 3925 del 23 febbraio 2011, Scopelliti è stato sostituito dal generale della Guardia di finanza Graziano Melandri.
A proposito dell'inerzia degli uffici del commissario delegato, è sufficiente considerare il ritardo nella redazione del primo «piano rifiuti», che - com'è noto - costituisce il punto operativo per la realizzazione delle opere necessarie al superamento dell'emergenza.
La redazione del «piano rifiuti» è di competenza della regione ma, a motivo dell'inerzia della stessa, è stata affidata al commissario delegato il quale, dopo aver predisposto tale piano in data 7 marzo 2001, lo ha approvato dopo circa un anno il 26 febbraio 2002.
Il suddetto «piano rifiuti» è stato oggetto di successivi aggiornamenti, con una ulteriore rimodulazione disposta dall'articolo 2 comma 1 lett. a) dell'ordinanza del presidente del consiglio dei ministri n. 3585 del 24 aprile 2007 (vedi relazione del dottor Franco Gabrielli, capo dipartimento della protezione civile, depositata in data 15 dicembre 2010, in occasione della sua audizione in doc. 619/1)
Nello specifico, il dipartimento della protezione civile, avvalendosi dei propri poteri, ha richiesto una verifica sull'attività commissariale nel secondo semestre del 2006, mentre un'altra verifica ispettiva, il cui esito non è ancora noto, si è conclusa in data 30 ottobre 2010.
In ordine alla prima verifica ispettiva - la cui relazione è stata acquisita agli atti (doc. 619/6) - il dottor Franco Gabrielli ha riferito che, avendo l'ispettore incaricato riscontrato irregolarità nella gestione commissariale, tali da configurare ipotesi di responsabilità amministrativa-contabile (come riportate a pagg. 60/61 di questa relazione), era stata inoltrata denunzia alla procura regionale della Corte dei conti di Catanzaro e, per le valutazioni di competenza, alla procura della Repubblica presso il tribunale di Catanzaro.
Ritornando alla fattispecie in esame, la gestione straordinaria dell'emergenza rifiuti in Calabria sarebbe dovuta essere una esperienza transitoria e limitata nel tempo, in quanto volta a superare la fase emergenziale, con la finalità di consentire alla regione Calabria di proseguire in modo autonomo la gestione ordinaria dello smaltimento dei rifiuti. In tale ottica, ai sensi della legge n. 225 del 1992 sopra citata, alcune funzioni degli enti territoriali (comuni, province, assessorato regionale all'ambiente) sono state temporaneamente - per la dichiarata emergenza - «commissariate», mentre tutte le risorse sono state direttamente canalizzate nella contabilità speciale, intestata all'ufficio del commissario e gestita dal funzionario delegato (1).

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Viceversa, non solo ad oggi la gestione commissariale non è cessata, ma le relative competenze, sia pure in una prima fase e, cioè, a partire dal 2002 e fino al 2008, sono state estese dai rifiuti solidi urbani ad altri settori.
In particolare, al commissario delegato sono stati attribuiti anche i poteri concernenti le emergenze ambientali relative alla bonifica e al risanamento dei suoli, nonché quelle relative alle falde acquifere e ai cicli di depurazione delle acque.
Quindi, di proroga in proroga, effettuata con ordinanza del presidente del consiglio dei ministri a cadenza annuale (l'ultimo porta la data del 17 dicembre 2010), si è arrivati alla scadenza del 31 dicembre 2011, pur se la competenza del commissario delegato, a partire dall'anno 2008, una volta esclusa quella sui settori delle acque e delle bonifiche, è stata «riportata» all'originario settore dei rifiuti.
A tale proposito, su richiesta della stessa regione Calabria, la competenza dell'ufficio del commissario delegato per l'emergenza sulle bonifiche e sulle acque è cessata alla data del 31 dicembre 2007 ed è stata trasferita alla stessa regione, salvo per quel che riguarda la bonifica dei siti di Crotone, Cassano e Cerchiara, la cui competenza spetta al ministero dell'ambiente, in quanto si tratta di siti ricompresi in un sito di interesse nazionale (SIN).
Nella relazione (doc. 163/1) del Comando carabinieri per la tutela dell'ambiente - gruppo Napoli si riferisce che nel periodo 1998 - 2006 sono state gestite ingenti risorse economiche dall'ufficio del commissario, pari a circa 700 milioni di euro, risorse che, ad oggi, sono lievitate a ben oltre il miliardo di euro, a fronte degli insufficienti risultati ottenuti.
A tale riguardo, la sezione regionale della Corte dei conti di Catanzaro, con la quale i nuclei calabresi dei carabinieri hanno collaborato in diverse occasioni, non ha risparmiato critiche alla struttura ed alla gestione commissariale in Calabria, parlando di «fallimento della esperienza commissariale», che invece di produrre scelte rapide e definitive, introduce conflitti istituzionali devastanti e incomprensibili, tanto più che «si è riscontrata la totale assenza di pubblicità, correttezza e trasparenza nell'attribuzione degli incarichi esterni....».

Viceversa, il dipartimento della protezione civile, in forza delle disposizioni contenute nel decreto del Presidente della Repubblica n. 51 del 30 gennaio 1993, esercita sul commissario delegato un doppio controllo amministrativo-contabile e tecnico-scientifico, mediante periodiche ispezioni. In particolare, le ispezioni sono volte a verificare la legittimità e l'efficienza dell'azione amministrativa, con riferimento sia alla normativa generale e speciale in vigore nello specifico settore di intervento, sia a quella di carattere straordinario contenuta nelle ordinanza del presidente del consiglio dei ministri, e sono effettuate da funzionari civili o militari dello Stato inseriti in appositi elenchi per i controlli. Per i controlli di carattere contabile, invece, il dipartimento della protezione civile interessa gli appositi uffici del Ministero dell'economia e delle finanze per svolgere l'attività di verifica contabile. Qualora vengano riscontrate inadempienze - ha riferito il dottor Franco Gabrielli, capo del dipartimento della protezione civile, nel corso dell'audizione del 15 dicembre 2010 - il dipartimento ha solo un potere di proposta, trattandosi di attività che fa capo al Consiglio dei ministri, che stabilisce lo stato di emergenza, mentre il presidente del Consiglio dei ministri, a valle dello stato di emergenza, emana le ordinanza del presidente del consiglio dei ministri, ossia gli strumenti mediante i quali si individua il commissario, gli si conferiscono poteri e gli si forniscono i relativi strumenti di intervento.


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I - Il ciclo dei rifiuti in Calabria

I dati quantitativi danno conto del fatto che la regione Calabria, a fronte di una popolazione di circa due milioni di abitanti, produce annualmente poco più di 915 mila tonnellate di rifiuti solidi urbani (rsu), comprensivi di raccolta differenziata (dati dell'ufficio del commissario delegato aggiornati al 2008 doc n. 177/2), così ripartiti tra le province:
Reggio Calabria 236 mila tonnellate/anno;
Catanzaro 151 mila tonnellate/anno;
Cosenza 278 mila tonnellate/anno;
Crotone 76 mila tonnellate/anno;
Vibo Valentia 65 mila tonnellate/anno.

Il documento del commissario delegato sopra citato individua quale destinazione finale dei rsu prodotti, quella di seguito indicata:
|b4 Il 34 per cento circa, pari a 340 mila tonnellate, viene direttamente conferito a discarica come rsu «tal quale»;
|b4 Il 12 per cento circa, pari a 120 mila tonnellate (ma si tratta di valutazione ottimistica, come si vedrà di seguito parlando delle vicende del c.d. sistema «Calabria Sud») proviene dalla raccolta differenziata ed è destinata al recupero.
|b4 Il 54 per cento circa, pari a 540 mila tonnellate, viene trattato negli impianti tmb di separazione secco-umido con la produzione di:
- Cdr (combustibile derivato da rifiuti urbani), calcolato nella misura di circa il 35 per cento (2).
- Frazione organica stabilizzata (fos) che è pari a circa il 40 per cento (3)
- Scarti (parte secca non idonea come cdr), circa il 20 per cento.


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- Il restante 5 per cento circa è costituito dal ferro (inviato a recupero) e dalle perdite di processo (le percentuali sono sempre considerate rispetto al 54 per cento del totale degli rsu).

I dati numerici sopra esposti (non anche le valutazioni) sono contenuti nella documentazione fornita dal commissario delegato, Goffredo Sottile, nella sua relazione (doc. 177/2).
Anche il «Rapporto rifiuti urbani - Edizione 2009 - ISPRA» riprende i dati forniti dall'ufficio del commissario delegato per l'emergenza rifiuti.
Le percentuali indicate nel rapporto ISPRA sono grosso modo sovrapponibili a quelle indicate dal commissario delegato dal punto di vista della produzione e dei flussi principali.
Tuttavia, ad avviso della Commissione, risulta una sovrastima della raccolta differenziata che finisce con l'inficiare l'attendibilità di tutti gli altri dati raccolti.
Il consulente tecnico d'ufficio (CTU), nominato dal collegio arbitrale nella controversia tra TEC SpA - Termo Energia Calabria c/o Presidenza del consiglio dei ministri - ufficio del Commissario Delegato ha accertato, a seguito delle indagini svolte, che nel cosiddetto sistema «Calabria Sud» (comprensivo delle province di Reggio Calabria e di Crotone, nonché di tutta la zona di Rossano con 35 comuni della Sibaritide) la raccolta differenziata negli anni 2005, 2006, 2007 e 2008 è stata pari ad appena il 4,2 per cento, a fronte del 32,8 per cento, previsto nell'atto di convenzione stipulato tra le parti (vedi doc. 585/1, pagina 129 del lodo arbitrale n. 101/10, depositato il 26/07/2010).
Peraltro, va sottolineato che sul punto le parti e, in particolare, l'ufficio del commissario non hanno addotto elementi in contrario con le suddette conclusioni del CTU.
A proposito del basso livello di raccolta differenziata rispetto ai dati ufficiali, molto significative sono anche le «conclusioni» contenute nella relazione della Corte dei conti sezione regionale di controllo della Calabria sulla gestione dei rifiuti da parte di un consistente numero di comuni calabresi, relazione approvata nell'adunanza del 21 dicembre 2009 (vedi doc. 350/2). Le indagini svolte dalla sezione regionale della Corte dei conti hanno investito 50 comuni sufficientemente rappresentativi del territorio, in quanto con popolazione superiore a 20 mila abitanti, per un totale complessivo di 1.026.606 abitanti e, in percentuale, pari a circa il 51 per cento della popolazione calabrese. La relazione sottolinea, a pagina 7, la «pressoché inesistenza di raccolta differenziata sul 90 per cento del territorio regionale» e a pagina 644 si legge che, alla fine dell'anno 2008, la raccolta differenziata non era mai partita in intere aree del territorio regionale, pari a circa 360 mila abitanti, con città di medie dimensioni, come Paola o Castrovillari o interi capoluoghi di provincia come Vibo Valentia, per una superficie complessiva di 2882 Km2.
Queste ultime aree - va detto per inciso, considerata la vastità del fenomeno - non rientrano in quelle esaminate dal CTU nella controversia sopra citata, in quanto fanno parte delle aree del sistema «Calabria Nord» (Paola e Castrovillari), ovvero del sistema «Calabria Centro» (Vibo Valentia).


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Pertanto, le considerazioni della Corte dei conti si aggiungono a quelle del CTU, le cui indagini hanno riguardato il sistema «Calabria Sud» e, dunque, hanno investito aree diverse del territorio calabrese.
A conferma dell'inattendibilità dei dati ufficiali vi è l'ulteriore circostanza, pure rilevata dalla Corte dei conti nella suddetta relazione, lì dove la cosiddetta «frazione residua» da avviare agli impianti di trattamento viene indicata nella misura del 78 per cento del volume complessivo dei rifiuti prodotti, in un quantitativo annuo che è di quasi un milione di tonnellate. Tale dato è in linea con quanto hanno accertato i giudici contabili che, a fronte di un dato nazionale attestato al 54 per cento riferito all'anno 2005, hanno determinato nella maggiore misura dell'80 per cento la quantità di rifiuti che, con riferimento all'anno 2008, in Calabria, sono stati smaltiti in discarica, senza che, nel frattempo ad oggi, la situazione sia mutata (vedi pagina 34 della citata relazione della Corte dei Conti).
In tale contesto, alla luce del mancato decollo della raccolta differenziata, si spiegano i motivi per cui nella regione Calabria è molto scarso il «compost di qualità», cioè, quello destinato all'agricoltura, che viene prodotto dal recupero dalla frazione organica dei rifiuti urbani o dei rifiuti speciali assimilabili agli urbani (rsau, per es. i rifiuti dei supermercati, che in virtù di convenzione vengono raccolti dai comuni), la cui raccolta è molto carente.
In teoria gli impianti di trattamento meccanico-biologico sono destinati a selezionare i rifiuti tal quale, mediante la separazione della frazione umida - da trasformare in fos - da quella secca, destinata ad essere raffinata per diventare cdr che viene bruciato in un termovalorizzatore; tuttavia, nella realtà, tali impianti si limitano ad effettuare una semplice «vagliatura» dei rsu, con conseguente produzione di prodotti di pessima qualità.
I tmb presenti nella regione sono sette e sono così ubicati: Catanzaro, Lamezia Terme (CZ), Reggio Calabria (località Sambatello), Siderno (RC), Rossano (CS), Gioia Tauro (RC), Crotone (KR) e, ad eccezione dei primi due (Catanzaro e Lamezia Terme), sono tutti gestiti dalla TEC SpA, società del gruppo Veolia, leader internazionale nel settore dello smaltimento dei rifiuti.
Secondo il «Rapporto rifiuti 2009 ISPRA-ONR», i suddetti impianti - nell'anno 2008 - hanno trattato 550 mila tonnellate, a fronte della complessiva capacità teorica di smaltimento di 475 mila tonnellate/anno di rifiuti, segno di un utilizzo spinto di questa tipologia di trattamento destinata a ricevere rifiuto indifferenziato; tale dato si collega direttamente con le insufficienti percentuali di raccolta differenziata che si conseguono in regione.
Naturalmente, gli impianti di trattamento meccanico-biologico non sono impianti finali, bensì intermedi e ciò costituisce un dato rilevante ai fini della valutazione, del tutto negativa, della capacità di smaltimento dei rifiuti dell'impiantistica della regione Calabria.
Emerge, pertanto, una forte carenza impiantistico-gestionale degli impianti di trattamento tmb, i quali, per un verso, riconsegnano in discarica circa il 40 per cento del rifiuto trattato e, per altro verso, producono bassi quantitativi di cdr, destinato ad avere una valorizzazione energetica presso l'impianto di termovalorizzazione posto a Gioia Tauro.

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La situazione di criticità della regione Calabria è enfatizzata anche dal confronto con il dato nazionale medio di funzionamento degli impianti tmb, che vede una percentuale di residuo da destinare a discarica dopo il trattamento attestato intorno al 23-24 per cento.
La conclusione è che in Calabria gli impianti di tmb effettuano solo un trattamento preliminare dei rifiuti tal quale, riconsegnandone la maggior parte ad un sistema di discariche controllate e di servizi del tutto inadeguati.
Altro passaggio importante è quello relativo agli «impianti di compostaggio di frazioni organiche selezionate» destinati, in quanto tali, alla trasformazione della frazione organica dei rifiuti in compost di qualità, destinata all'agricoltura come fertilizzante.
In funzione di una raccolta differenziata protesa verso il livello minimo del 35 per cento, sono stati realizzati ben otto impianti di compostaggio ubicati, rispettivamente, a Catanzaro/Alli, Lamezia Terme (CZ), Rossano (CS), Tortora (CS), Siderno (RC), Motta San Giovanni (RC), Crotone e Vezzano (VV).
La capacità complessiva di trattamento di «frazioni organiche selezionate» dei suddetti impianti è pari a 413 mila tonnellate/anno e, tuttavia, nell'anno 2008, il tasso di utilizzo degli impianti è stato nell'ordine del 10 per cento, posto che sono state conferite solo 43 mila 800 tonnellate di «frazioni organiche selezionate».
Tale evidente sottoutilizzo e spreco di capacità di trattamento in impianti esistenti e realizzati con fondi pubblici è da collegare direttamente con la quasi totale assenza di raccolta differenziata in Calabria, talché non si riesce ad avere disponibile dalla raccolta una frazione organica selezionata da poter adeguatamente trattare in detti impianti.
Per completezza, va rilevato che il «deficit» tra potenzialità e trattamento degli impianti di compostaggio, è riscontrabile, anche in altre aree del Paese, ma non in una misura così rilevante.
A questo punto occorre occuparsi - in via generale - della situazione delle discariche controllate, destinate a ricevere i rifiuti dopo il loro trattamento, che - alla stregua dei dati desunti dal «Rapporto rifiuti 2009 ISPRA-ONR», nell'anno 2008 - erano (e tali rimangono ancora oggi, non essendo state nel frattempo realizzate altre discariche) le seguenti, accompagnate nella seguente tabella dall'indicazione dei volumi autorizzati, della capacità residua e dei RU smaltiti:

Comune Volume autorizzato (m3) Capacità residua a fine 2008 R.U. smaltiti (t)
Acri CS28.0002006.974
Bocchigliero CS11.7892.20084
Castrolibero CS30.00004.339
San Giovanni in Fiore CS200.00090.00076.875
Scalea CS76.00043.82626.406
Catanzaro CZ1.000.000120.00088.810
Lamezia Terme CZ510.000180.00025.764
Crotone KR1.589.000324.96799.050
Casignana RC80.000049.017
Gioia Tauro RC526.00010.60048.236
Rossano CS240.000218.79719.506
TOTALI 4.290.000990.500445.000



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Dalla precedente tabella emerge che il sistema di discariche controllate in Calabria è costituito da 6 impianti in provincia di Cosenza, 2 in provincia di Catanzaro, 2 in provincia di Reggio Calabria, 1 in provincia di Crotone e nessuno in provincia di Vibo Valentia.
Con riferimento all'anno 2008 alle discariche controllate sono state destinate, oltre ai rifiuti urbani, circa 174 mila tonnellate di scarti derivanti dai trattamenti meccanico-biologici, e 190 mila tonnellate di fos, destinazione quest'ultima che trova la sua ragion d'essere nel fatto che viene utilizzata come materiale per ricoprire i rifiuti contenuti nelle suddette discariche, in luogo del terriccio.
Nell'elenco non risulta indicata la discarica di Pianopoli (CZ), località Gallù-Carratello, gestita dalla «Eco Inerti Srl», in quanto già destinata a discarica per rifiuti speciali non pericolosi. Attualmente, dopo gli opportuni interventi previsti dalle norme di settore (decreto legislativo n. 36 del 2003), volti a garantirne la tenuta e la sicurezza, funziona sia da «discarica di servizio», in quanto destinata alla raccolta degli scarti derivanti dal trattamento dei rifiuti urbani effettuato dalla «Daneco Impianti Srl» di Lamezia Terme, sia da discarica di rsu.
Dall'esame del suddetto elenco emerge l'esistenza tra le varie discariche controllate della regione una evidente discrasia, che merita di essere sottolineata.
Come risulta dalla nota del 19 novembre 2010 dell'ufficio del commissario delegato (doc. 616/2) le discariche della provincia di Cosenza inserite nel sistema «Calabria Nord» (Acri, Bocchigliero, Castrolibero, Scalea) sono tutte discariche pubbliche e vengono gestite dai rispettivi comuni, salvo quella di San Giovanni in Fiore che, pure essendo anch'essa pubblica, viene gestita dal «Consorzio Valle Crati». Tuttavia, le suddette discariche pubbliche hanno una capacità di smaltimento estremamente limitata, che le rende del tutto insufficienti rispetto alle esigenze della provincia di Cosenza, tant'è che, per la discarica di Scalea, i conferimenti sono stati - di recente - sospesi con ODC n. 9183 del 30 agosto 2010, così pure, con ODC n. 9148 del 05 agosto 2010, sono stati sospesi i conferimenti presso la discarica pubblica di Rossano la quale, benché in provincia di Cosenza, risulta inserita nel sistema «Calabria Sud» ed è gestita dalla TEC SpA.
Alcune delle discariche comprese nei cosiddetti sistemi «Calabria Centro» e «Calabria Sud» sono molto più attrezzate, nel senso che sono state autorizzate allo smaltimento di grossi volumi di rifiuti e sono gestite da privati in regime di concessione. A tale proposito, si pensi solo alle società «Enerambiente SpA» e «Lamezia Multiservizi SpA», che gestiscono in regime di concessione, rispettivamente, le discariche di Catanzaro (1 milione di m3) e di Lamezia Terme (510 mila m3), mentre è di proprietà privata la «Sovreco Srl», che fa capo


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al gruppo Vrenna e che gestisce la più grossa discarica della Calabria e, cioè, quella di Crotone, località Columbra (1 milione 589 mila m3).
Anche nel territorio di Reggio Calabria è presente una discarica privata, sita nel comune di Gioia Tauro e gestita dalla TEC SpA, ma le cui volumetrie sono ormai esaurite, nonché una discarica comunale di Casignana, gestita dallo stesso comune, anch'essa in via di esaurimento.
Tuttavia, poiché le suddette grandi discariche dei sistemi «Calabria Centro» e «Calabria Sud» sono destinatarie dei rsu, almeno in teoria già trattati (in quanto spesso vi finisce anche il «tal quale»), provenienti da altre zone della Calabria (in particolare, dalle province di Cosenza e di Vibo Valentia, del tutto prive di discariche) è accaduto che, con OCD n. 9148 del 5 agosto 2010, a fronte dell'esaurimento dei volumi autorizzati di 510 mila m3, sono stati sospesi i conferimenti nella discarica pubblica di Lamezia Terme gestita dalla «Lamezia Multiservizi SpA» (vedi doc. 616/2). Di conseguenza, la «Daneco Impianti» Srl, gestore dell'impianto di trattamento di Lamezia Terme, conferisce i rifiuti trattati nella discarica di Pianopoli, comune poco distante da quello di Lamezia Terme.
In conclusione, i dati ufficiali riferiti all'anno 2008, dai quali emerge l'esistenza di una qualche capacità di abbanco, appaiono ampiamente superati, mentre va osservato che, in una regione che ha assoluto bisogno di nuove discariche, le uniche ancora operative sono, nel sistema «Calabria Centro», quella pubblica di Catanzaro, gestita da un privato, la «Enerambiente SpA» e, nel sistema «Calabria Sud», quella privata di Crotone gestita dalla stessa proprietaria la «Sovreco Srl» che fa capo al discusso gruppo Vrenna, mentre il sistema «Calabria Nord» rimane ancora oggi del tutto privo di discariche autorizzate.
In tale contesto l'unico impianto di incenerimento per cdr di Gioia Tauro, che ha una potenzialità nominale pari a 120 mila tonnellate/anno, nell'anno 2008, ha trattato solo 97 mila tonnellate di cdr proveniente dalla regione Calabria.
Si tratta, all'evidenza, di un impianto produttivo adeguato, ma che tuttavia non è totalmente coerente con il sistema di trattamento e gestione dei rifiuti a monte, sistema che non produce un combustibile derivato da rifiuti dalle caratteristiche qualitative compatibili con l'impianto medesimo.
Tutto ciò a dispetto del fatto che gli impianti di produzione di cdr in Calabria, in numero di 7, coincidono con quelli per i trattamenti meccanico-biologici visti al punto precedente - dei quali costituiscono la sezione di trattamento della frazione secca di sopravaglio - e hanno una potenzialità complessiva di trattamento annuo pari a 331 mila tonnellate/anno, se si considerano solo gli impianti operativi nel 2008.
La potenzialità di produzione del cdr aumenta fino a 475 mila tonnellate/anno, se si considera il complesso degli impianti presenti se, cioè, si comprendono anche gli impianti di Catanzaro e di Rossano che, tuttavia - per ragioni mai chiarite - non producono cdr di qualità, tale da essere utilizzato nel termovalorizzatore di Gioia Tauro.
L'impianto di Catanzaro con 93 mila tonnellate/anno autorizzate, pur essendo operativo, non ha prodotto cdr, così pure l'impianto di Rossano con 51 mila tonnellate/anno autorizzate; viceversa, hanno

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prodotto cdr per il termovalorizzatore di Gioia Tauro gli impianti di Lamezia Terme, di Gioia Tauro, di Siderno, di Reggio Calabria e di Crotone, sebbene in misura inferiore alle rispettive potenzialità, complessivamente, pari a 331 mila tonnellate/anno.
In conclusione, l'effettivo funzionamento degli impianti di produzione di cdr, nell'anno 2008 - che si deve comunque ritenere rappresentativo di un anno tipo, con questi impianti e queste gestioni - ha prodotto solo circa 97 mila tonnellate di cdr, più o meno raffinato, che e stato avviato per la combustione all'impianto di termovalorizzazione di Gioia Tauro, a fronte dell'anzidetta potenzialità.
Tali dati rendono evidente il sottoutilizzo degli impianti di produzione del cdr, con conseguente spreco di investimenti e di risorse e danno conto del fatto che in Calabria, su oltre 920 mila tonnellate di rifiuti solidi urbani, prodotti annualmente, solo poco più del 10 per cento ha una destinazione diversa da quella delle discarica, in quanto destinata, come cdr, all'impianto di incenerimento di Gioia Tauro.
La soluzione per la gestione integrata del ciclo integrato dei rifiuti non può essere data dal trattamento meccanico-biologico che, come si è detto, costituisce un trattamento «intermedio» e «non finale» di smaltimento dei rifiuti, da cui originano ulteriori passaggi, quali il conferimento in discarica, in larga parte, e nel termovalorizzatore di Gioia Tauro, in minima parte.
Inoltre, tali passaggi comportano un notevole «traffico di rifiuti» in una regione orograficamente complessa - per di più - caratterizzata dalla presenza di fenomeni di inquinamento mafioso in ogni attività economica, ivi compresa quella del trasporto dei rifiuti.
Sul punto si tornerà ancora di seguito, nell'ambito della valutazione dell'efficienza del sistema di smaltimento dei rifiuti nella regione Calabria.
Comunque - sin d'ora - si può dare atto del fatto che la regione Calabria si caratterizza: 1) per l'assenza della raccolta differenziata a livelli quantitativi degni di rilevanza; 2) per la presenza di un unico impianto tecnologico di smaltimento dei rifiuti con produzione di energia, quello di Gioia Tauro, che tuttavia, a dispetto delle maggiori potenzialità smaltisce solo circa il 10 per cento del totale della produzione annua dei rifiuti della regione.
In tale contesto si assiste alla presenza abnorme e diffusa sull'intero territorio regionale di siti e discariche abusive, che costituiscono la valvola di scarico, ovvero la risposta a un sistema di raccolta e di smaltimento del tutto insufficiente, oltre che inefficiente.
A questo punto, rispetto al tema della raccolta differenziata, vanno richiamati i valori obiettivo, come già previsti dal decreto legislativo 152 del 2006 e dalla legge 27 dicembre 2006 n. 296 e, cioè, almeno il 35 per cento entro il 31 dicembre 2006; almeno il 40 per cento entro il 31 dicembre 2007; almeno il 45 per cento entro il 31 dicembre 2008; almeno il 50 per cento entro il 31 dicembre 2009; almeno il 60 per cento entro il 31 dicembre 2011.
È facile constatare che il dato ufficiale del 12-13 per cento, riferito alla regione Calabria, presenta una differenza rispetto all'obiettivo di legge di oltre trenta punti percentuali; la variazione percentuale

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2007-2008 risulta - secondo il «rapporto ISPRA»- del 3,6 per cento, un tasso di crescita decisamente più basso rispetto ad altre realtà regionali, in difficoltà anch'esse nello smaltimento dei rifiuti urbani (Sardegna +6,9 per cento, Campania + 5,5 per cento).
La raccolta differenziata pro-capite in Calabria è di 58,2 kg/abitante per anno, laddove la media nazionale è di 165,5 e quella del sud Italia di 72,7.
In ambito provinciale non vi sono differenze sostanziali tra le diverse province della Calabria, pur se - almeno secondo i dati ufficiali - va segnalata la forbice tra il dato migliore della provincia di Catanzaro, pari al 15,7 per cento e quello peggiore della provincia di Vibo Valentia, attestato solo all'8,8 per cento.
In realtà - come si è posto sopra in evidenza - si tratta di dati che, benché ufficiali, non sono pienamente attendibili, alla luce di quanto è emerso dalle indagini effettuate dalla Corte dei conti, sicché la situazione della raccolta differenziata in Calabria è ancora più deludente rispetto ai dati ufficiali sopra rappresentati.

II - La suddivisione della Calabria in tre aree

Il sistema impiantistico regionale trae le sue origini dal piano gestione rifiuti del 1998, adottato nel 2001, e dai successivi aggiornamenti del 2002 e del 2004.
Il nuovo piano gestione rifiuti del 2007, nel rimodulare le precedenti previsioni, ha delimitato gli ATO (Ambiti Territoriali Ottimali) - rifiuti, in ossequio al TUA 152 del 2006 e alla legge 296 del 2000, facendoli coincidere con i territori delle cinque province e prevedendo l'autonomia di ogni singola provincia.
In particolare, il piano gestione rifiuti 2007, approvato con OCD n. 6294 del 30 ottobre 2007, pubblicata sul BURC del 14 novembre 2007, ha confermato la realizzazione della nuova impiantistica nella porzione di territorio regionale ad oggi deficitaria e, cioè, nella provincia di Cosenza e nel nuovo ATO 4, che comprende la provincia di Vibo Valentia, nonché migliorie sugli impianti esistenti - volte ad aumentare il livello di efficacia ed efficienza del sistema - e la realizzazione di una serie di discariche per rifiuti non pericolosi.
In origine, il commissario delegato aveva affrontato il problema dei rifiuti in Calabria, mediante l'adozione di diversi piani regionali di gestione, che - tra l'altro - hanno previsto la suddivisione del territorio regionale in tre macroaree:
1) la «Calabria Nord», che comprende buona parte della provincia di Cosenza - ma non tutta - in quanto ne è stata esclusa la Calabria del nord-est e, cioè, il comune di Rossano, con trentacinque comuni della Sibaritide, e la provincia di Crotone, entrambe incluse nell'area «Calabria Sud»;
2) la «Calabria Centro», che comprende le province di Catanzaro e di Vibo Valentia;
3) la «Calabria Sud», che comprende naturalmente tutta la provincia di Reggio Calabria ma, a dispetto della loro collocazione


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geografica comprende, oltre alla zona di Rossano (CS), anche la provincia di Crotone che, viceversa, per la loro posizione geografica, avrebbero dovuto essere collocate nel sistema«Calabria Nord».

Tenuto conto del fatto che non si tratta di aree omogenee e che sussistono comunque seri problemi di viabilità, non sono chiari i criteri di tale suddivisione del territorio calabrese, che appare del tutto ingiustificata.
Detto ciò, va posto subito in evidenza che sussiste una netta discrasia tra quanto previsto nei piani Regionali di gestione e quanto effettivamente realizzato.

II.1 - Il sistema «Calabria Nord»

Il sistema «Calabria Nord» prevedeva: 1) la realizzazione di quattro impianti di selezione dei rifiuti, con annesse «discariche di servizio», destinate a ricevere i rifiuti dopo il loro trattamento da realizzarsi, rispettivamente nella originaria convenzione, nel territorio dei comuni di Bisignano, di Castrovillari, di Acquappesa, di Rende e uno di stoccaggio da realizzare a San Marco Argentano ; 2) la realizzazione nella provincia di Cosenza di un termovalorizzatore, destinato a bruciare cdr, dopo l'individuazione del relativo sito da parte del commissario, il quale sul punto aveva assunto un preciso obbligo contrattuale e che, da ultimo, dopo varie, quanto vane ricerche, presso vari comuni della provincia di Cosenza, aveva individuato il territorio del comune di Bisignano.
In data 20 ottobre 2000, era stato stipulato un contratto di appalto, denominato «convenzione», tra il commissario delegato e l'ATI Foster Wheeler Power Sysem Inc., Consorzio Etruria Scarl, Foster Wheeler Italiana SpA, Gesenu SpA, Impresa A. Cecchini & C. Srl e Due Erre SpA, per l'attuazione della concessione con la progettazione, costruzione e gestione del sistema integrato denominato «Calabria Nord», a fronte di un corrispettivo previsto dell'importo di oltre 300 milioni di euro.
Tuttavia, nonostante i precisi impegni contrattuali assunti, nessuna opera è stata realizzata, a causa dell'opposizione dei comuni interessati e dell'incapacità di superare tali opposizioni, a dispetto degli ampi poteri che il legislatore e le varie ordinanze del presidente del consiglio dei ministri hanno riconosciuto al commissario delegato per l'emergenza rifiuti.
In particolare - come hanno riferito il dottor Chiaravalloti e il prefetto Sottile, già commissari delegati, nel corso delle loro audizioni - l'opposizione delle popolazioni locali ha impedito alle amministrazioni comunali interessate di dare corso all'esecuzione degli impegni contrattuali ritualmente assunti dalla parte pubblica.
In tale contesto, nel sistema «Calabria Nord» - che comprende la provincia di Cosenza, ad esclusione di Rossano - non solo non è stato realizzato alcun impianto di trattamento dei rifiuti (rsu e raccolta differenziata), ma non è stato realizzato neanche il previsto termovalorizzatore di Bisignano (CS), nonostante che per tutti gli impianti anzidetti sia stato concluso un regolare contratto di appalto


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tra il commissario delegato per l'emergenza rifiuti e la ATI «Calabria ambiente SpA», a seguito della gara espletata (vedi «Pro memoria» (doc n. 218/2), predisposto dal dottor Goffredo Sottile, già commissario delegato per l'emergenza rifiuti (luglio 2008 - luglio 2010).
È accaduto che alla sottoscrizione del contratto di appalto («convenzione») non ha fatto seguito la consegna dei siti da parte dell'ufficio del commissario delegato il quale, peraltro, per la costruzione dell'inceneritore, aveva cercato di individuare una rosa di siti alternativi e, cioè, quello di San Marco Argentano, di Altilia, di Cellara, prima di indicare quello di Bisignano.
Iniziative tutte fallite, a causa delle forti manifestazioni di protesta delle popolazioni di tutti i comuni interessati.
Per dare l'idea della situazione che si era venuta a creare, è sufficiente considerare - come si legge nella nota del dottor Giuseppe Chiaravalloti, già commissario delegato per l'emergenza rifiuti (aprile 2000 - aprile 2004), pervenuta a questa Commissione in data 11 novembre 2010 - che i consigli comunali di Cellara e di Bisignano, dopo aver deliberato all'unanimità, la realizzazione dell'impianto di termovalorizzazione nel loro rispettivo territorio, hanno revocato la relativa disponibilità, a seguito delle manifestazioni di piazza
Ancora, a pagina 89 del lodo arbitrale - di cui si dirà di seguito (doc. 616/5) - si legge che, a sua volta, la stessa società concessionaria «Calabria ambiente SpA», pur non essendovi tenuta in forza del contratto stipulato, dopo aver espletato indagini tecniche preliminari, aveva indicato nel comune di S. Caterina Albanese due siti alternativi rispetto a quelli individuati dal commissario in altri comuni per allocare il termovalorizzatore, dichiarando, comunque, «la disponibilità a provvedere alla realizzazione del termovalorizzatore in ogni altro sito, che avesse presentato le necessarie caratteristiche e qualità». Ma l'iniziativa della società concessionaria non aveva sortito esito alcuno.
E così, a conferma di quanto sopra rappresentato, il dottor Goffredo Sottile - nel corso della sua audizione in data 1o dicembre 2009 - ha riferito che a Bisignano (CS) si era verificata una rivolta di popolo, «perché a Bisignano non lo voleva nessuno», sicché la realizzazione del termovalorizzatore era stata sospesa.
In effetti, tutto è stato inutile, posto che nessun comune della provincia di Cosenza ha voluto il termovalorizzatore nel proprio territorio e neanche gli stessi impianti di trattamento, sempre a motivo dell'opposizione delle popolazioni locali.
Tale inadempimento ha determinato la pronunzia di risoluzione del contratto di appalto da parte di un collegio arbitrale che, con sentenza in data 24 maggio 2007, ha condannato la Presidenza del consiglio dei ministri - dipartimento della Protezione Civile, commissario delegato per l'emergenza rifiuti al risarcimento dei danni provocati alla società appaltatrice, Calabria ambiente SpA, nella misura del 10 per cento dell'importo del contratto di appalto, pari ad euro 30.430.985,42, oltre interessi e spese.
Nel lodo arbitrale (doc. 616/5, pagina 93), il collegio, premesso che l'obbligo di mettere a disposizione i siti e le aree gravava sul concedente, ritiene imputabile a quest'ultimo l'inadempimento contrattuale, posto che «le difficoltà e criticità opposte dai comuni e/o

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dalla comunità interessate dalla localizzazione degli impianti e/o dalla realizzazione dei siti» erano note al commissario, al momento della stipula della relativa «convenzione», sottoscritta dalle parti in data 20 ottobre 2000, e del successivo «atto aggiuntivo», sottoscritto dalle parti in data 18 dicembre 2001.
A questo punto va sottolineato che, all'epoca della conclusione dei contratti di appalto delle opere comprese, rispettivamente, nei sistemi «Calabria Nord», «Calabria Centro» e «Calabria Sud» commissario delegato per l'emergenza rifiuti era il dottor Giuseppe Chiaravalloti il quale, al contempo, rivestiva anche la carica di presidente della regione Calabria (dal 14/04/2000 al 27/07/2004).
Secondo i primi giudici, i fenomeni di contestazione locali non rappresentavano un evento sopravvenuto non previsto, né prevedibile e, comunque, non possedevano i connotati della forza maggiore o del caso fortuito, tali da escludere la responsabilità del commissario (articolo 1218 c.c.) il quale, avendo svolto sul territorio una preventiva campagna di studi per l'individuazione dei siti più idonei per la localizzazione dell'impianto di incenerimento, aveva avuto modo di cogliere gli umori contrari delle amministrazioni comunali interessate e, almeno in teoria, sarebbe stato in grado di intervenire, in virtù della carica di presidente della regione ricoperta, per convincere le amministrazioni locali della bontà delle opere che andava a realizzare, posto che si avvaleva dell'opera di tecnici qualificati come ha ricordato, nel corso della sua audizione del 17 ottobre 2010, l'ingegnere Giovan Battista Papello, già responsabile del procedimento per l'emergenza rifiuti nella regione Calabria.
Inoltre, nel lodo si sottolinea che i fenomeni di contestazione non si erano aggravati dopo la conclusione definitiva del contratto di appalto e, dunque, costituivano un «evento gestibile».
Del resto, nel contesto sopra rappresentato, il dottor Chiaravalloti, dopo la stipula dell'«atto aggiuntivo» del 18 dicembre 2001, aveva tenuto in piedi due tavoli posto che, per un verso, aveva ritenuto di procedere «nel senso di valorizzare forme di partecipazione collaborativa fra i soggetti interessati» e, per altro verso, aveva dato «ampia riassicurazione alla concessionaria sulla eseguibilità dell'intervento e sulla governabilità degli eventi già noti».
Evidentemente, il dottor Chiaravalloti aveva le sue buone ragioni per essere sicuro di riuscire a ottenere il consenso dei suoi concittadini elettori per la realizzazione di tutte le opere previste nel sistema.
Ciò non è avvenuto e, così, la sentenza del collegio arbitrale descrive una corsa affannosa dell'ufficio del commissario delegato alla ricerca di siti alternativi, con «perizia di variante del sistema integrato di smaltimento Calabria Nord», che hanno portato il dottor Chiaravalloti a individuare nuovi siti alternativi, ubicati nei territori dei comuni di Figline Vigliaturo, Cetraro e Paola, in cui realizzare gli impianti per la produzione del cdr e per la valorizzazione della raccolta differenziata, nonché le stazioni di trasferenza dei rsu, svincolando i suddetti impianti da quello del termovalorizzatore di cdr.
L'ATI (Associazione Temporanea di Imprese) - alla quale è poi subentrata la società Calabria ambiente SpA - a sua volta, aveva

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predisposto i relativi progetti e, in data 19 settembre 2001, li aveva consegnati al commissario il quale, con ordinanza n. 1644 del 27 novembre 2001, aveva approvato la perizia di variante.
Ebbene, neanche queste opere sono state realizzate, per l'«opposizione» degli enti locali, nonostante i «poteri speciali» del commissario, attribuiti con ordinanza ministeriale n. 2856 dell'1 ottobre 1998, che gli consentivano tra l'altro «l'accesso alle aree interessate, in deroga all'articolo 16 comma 9 della legge 2 giugno 1995 n. 216, per le occupazioni di urgenza delle aree occorrenti per l'esecuzione delle opere e degli interventi».
Comunque - concludono lapidariamente i primi giudici (pagina 100 del lodo) - «Il commissario non risulta avere adottato misure atte a rimuovere effettivamente e sostanzialmente le criticità delle comunità locali».
In conseguenza di ciò, la Commissione d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti non può che prendere atto del fatto che nessuno degli impianti previsti nel sistema «Calabria Nord» è stato realizzato, a causa di precise responsabilità del commissario delegato, come ritenute dal lodo arbitrale.
Allo stato, sul piano meramente processuale, va rilevato che avverso il lodo l'Avvocatura Generale ha adito la Corte di Appello di Roma, che ne ha sospeso l'esecuzione, fissando nel 2012 la trattazione nel merito (vedi doc. 218/2).
Il lodo è stato impugnato anche dalla società Calabria ambiente SpA, che ha chiesto la condanna della Presidenza del consiglio dei ministri, dipartimento della Protezione civile, commissario delegato per l'emergenza ambientale - oltre che al pagamento della rivalutazione monetaria sull'importo di euro 1.948.366,78 - al rimborso della ulteriore somma di euro 22.090.207, pari al compenso forfettario spettante all'Impresa A. Cecchini & C. Srl per le prestazioni rese in favore dell'appellante. In ogni caso, la società ha chiesto di essere manlevata da tutte le eventuali domande che l'Impresa A. Cecchini & C. dovesse proporre per la corresponsione del compenso forfettario, pari al 5 per cento del fatturato della concessione relativa al sistema integrato di smaltimento «Calabria Nord» (doc. 616/6).
Comunque, all'esito di questa «brutta vicenda», nella provincia di Cosenza vi è «solo» un impianto di trattamento dei rifiuti (tmb), quello di Rossano contrada Bucita, che, tuttavia - a dispetto della sua collocazione geografica - si trova inserito nel sistema «Calabria Sud» (anziché nel sistema «Calabria Nord»).
L'impianto, gestito dalla TEC SpA, del gruppo Veolia, è deputato a trattare i rifiuti di trentacinque comuni della Sibaritide e riceve i rifiuti derivanti dal ciclo della raccolta differenziata (provenienti dalle operazioni di sfalcio e potatura, dalla raccolta porta, porta e dalle mense), nonché i rifiuti provenienti dall'indifferenziato, che attualmente rappresentano la frazione più ampia.
A rendere più complicata la situazione, vi è il fatto che il suddetto impianto di trattamento di Rossano non è dotato di linea di produzione di cdr: pertanto, il prodotto in uscita dall'impianto, il cosiddetto, «secco pressato» (Cat. Eur. rifiuti 19.12.12.), per poter essere utilizzato nel termovalorizzatore di Gioia Tauro (RC), abbisogna di essere ulteriormente lavorato in un impianto tecnologico di

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selezione rsu con produzione di cdr, come ha riferito il prefetto di Cosenza, nella relazione in data 20 novembre 2009 (doc n. 169/1).
Anche in tal caso, si assiste a quella proliferazione di passaggi nel trattamento - già sopra posta in evidenza - che, lungi dal risolvere il problema dei rifiuti in Calabria, lo aggravano, allungandone a dismisura tempi e modalità di smaltimento, con aumento di costi e rischio di infiltrazioni malavitose nel trasporto dei rifiuti da un punto all'altro della Calabria (nord-sud ed est-ovest).
E così in modo emblematico, quanto paradossale - come si legge nelle «considerazioni sulle discariche presenti sul territorio Rossanese», in data 3 dicembre 2009, del dottor Leonardo Leone De Castris, procuratore della Repubblica di Rossano (doc. 200/1) e nelle comunicazioni rese da Francesco Filareto, sindaco di Rossano - nel corso della sua audizione in data 11 marzo 2010 - a Rossano accade che la discarica privata, gestita dalla società «Bieco», è ormai esaurita, mentre la discarica pubblica, gestita dalla TEC Veolia, è in fase di esaurimento, posto che - su disposizione del commissario per l'emergenza rifiuti, dottor Sottile - raccoglie gli «scarti di lavorazione» (codice CER 19. 12. 12.) e la «frazione organica stabilizzata» (codice CER 19. 05. 03.) di tutti gli impianti del sistema «Calabria Sud» gestiti dalla società TEC Veolia (Crotone, Gioia Tauro, Rossano, Sambatello, Siderno).
Tale situazione - come riferisce il sindaco di Rossano - ha provocato due gravi conseguenze: 1) l'enorme movimento giornaliero di ben 104 camion, provenienti da tutta la Calabria e diretti alla discarica pubblica di Rossano; 2) l'esaurimento di entrambe le discariche (pubblica e privata) di Rossano, che sta costringendo le autorità di quel comune a portare, addirittura, i propri rifiuti in altri impianti o in altre discariche (Alli, a Catanzaro, o Lamezia Terme), con significativi aumenti di costi e di tempi per il trasporto.
Peraltro, come si già detto, la discarica pubblica di Rossano raccoglie anche il «secco pressato» (codice CER 19. 12. 12.), costituito da materiale secco (imballaggi e materiale plastico leggero), che viene selezionato negli impianti e poi pressato per ridurne il volume, prima di finire in discarica, come si legge nel doc. 200/1 del procuratore della Repubblica in Rossano, ovvero di subire successive lavorazioni per la produzione di cdr, come viceversa ha riferito il prefetto di Cosenza nella relazione del 20 novembre 2009, di cui si è detto (doc n. 169/1). All'evidenza, si tratta di un punto controverso, indice anch'esso dell'estrema confusione che regna anche in materia di raccolta di dati oggettivi.
In ogni caso, rimangono del tutto sconosciute e, comunque, ignote le ragioni per cui il «secco pressato» non venga lavorato, in modo adeguato, a Rossano al fine di produrre cdr idoneo ad essere termovalorizzato a Gioia Tauro.
Peraltro, per l'impianto di Rossano, il piano regionale rifiuti prevede migliorie e adeguamenti comunque insufficienti, posto che non è stato ancora individuato un sito per la realizzazione di una nuova discarica di servizio, mentre il concessionario TEC Veolia ha presentato all'ufficio del commissario e ai competenti organi regionali un progetto di rialzo della discarica esistente in località Toscanello (Bucita) nel comune di Rossano (CS).

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Allo stato, a partire dal mese di novembre 2008, in località Bucita, nel perimetro dell'impianto, è entrata in esercizio, previo adeguamento al decreto legislativo n. 36 del 2003, la vecchia discarica di servizio di proprietà regionale che, tuttavia, è in fase di esaurimento. Invero, il volume complessivo di tale discarica è pari a circa 240 mila metri quadrati, mentre quello residuale è di circa 50 mila metri quadrati, in grado di assicurare autonomia di smaltimento agli impianti di Crotone e Rossano, solo per pochi mesi.
Pertanto, nella mancanza di altri impianti di trattamento, oltre quello di Rossano, i rifiuti della provincia di Cosenza non vengono trattati, ma vengono conferiti come «tal quale» nelle discariche di Catanzaro, di Crotone e di Lamezia Terme, dal momento che il commissario per l'emergenza non è riuscito a reperire nuovi siti per l'opposizione dei comuni interessati.
In conclusione, non solo tutta l'area del cosiddetto sistema «Calabria Nord» è rimasta priva di impianti di trattamento dei rifiuti, ma a tale danno - che investe direttamente le stesse comunità locali, che si sono opposte alla realizzazione delle opere - si è aggiunto l'ulteriore danno della condanna dell'Erario, per i vari inadempimenti contrattuali di cui si è detto, al pagamento della somma di euro 30.430.985,42, oltre agli interessi, ferme rimanendo le ulteriori richieste risarcitorie di notevole importo contenute nell'atto di appello della concessionaria.
In un contesto come quello descritto, appare sicuramente velleitaria la scelta dell'Ufficio del commissario delegato di gestire un'emergenza puntando solo ed esclusivamente su un sistema complesso come quello basato sulla «filiera produzione e combustione cdr per la produzione di energia» senza attivare, magari in parallelo e non in alternativa, la progettazione e realizzazione di una o due grandi discariche controllate pubbliche nel territorio «Calabria Nord», che avrebbero comunque garantito di gestire l'emergenza e di programmare soluzioni strutturate in condizioni di maggiore tranquillità.
L'osservazione sulla presunta scarsa accettabilità delle discariche sul territorio non è la più pertinente, in questo caso, per due ragioni: la prima è che anche altre tipologie di impianti (quelli di produzione e combustione del cdr) non hanno avuto migliore accoglienza come i fatti hanno dimostrato e, comunque, necessitano essi stessi di discariche di servizio presso le quali conferire quote rilevanti di scarti e rifiuti; la seconda è che il territorio della provincia di Cosenza non è tra quelli più critici dal punto di vista della densità abitativa e della pressione antropica sul territorio e, pertanto, non dovrebbe, né avrebbe dovuto, essere tra quelli più critici per reperire siti sufficientemente distanti dalle comunità insediate, soprattutto, rispetto ad altre aree del Paese dove pure, sia negli ultimi decenni - ma ancora oggi - si sono realizzate e si gestiscono discariche controllate in cui vengono smaltiti percentuali non irrilevanti dei Rifiuti Urbani prodotti nei diversi Ambiti Territoriali Ottimali.

II.2 - Il sistema «Calabria Centro»

Il sistema «Calabria Centro» prevedeva, nella provincia di Catanzaro, la realizzazione di due impianti con annesse discariche di


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servizio, da affidarsi a due diversi concessionari, a seguito di due distinte gare di appalto.
Sono stati, così, realizzati due impianti di trattamento rsu e raccolta differenziata.
Un impianto, a Lamezia Terme, il cui concessionario per la gestione è la società «Daneco Impianti» Srl, con discariche di servizio per scarti di trattamento meccanico-biologico e fos, poste in due siti distinti, una nello stesso comune di Lamezia, pur se distante 16 chilometri dall'impianto, gestita dall'azienda municipalizzata «Lamezia Multiservizi» SpA (sito, peraltro, in via di esaurimento) e un'altra a Pianopoli, comune distante 36 chilometri da Catanzaro, mentre il cdr prodotto viene avviato presso l'inceneritore di Gioia Tauro per essere termovalorizzato.
Un secondo impianto è stato realizzato a Catanzaro - Alli con annessa discarica di servizio e viene gestito dalla «Enerambiente» SpA.
Tuttavia, l'impianto non riesce a produrre né fos di qualità, né cdr di pezzatura idonea ad essere utilizzata nel termovalorizzatore di Gioia Tauro, sicché finisce tutto in discarica.
A questo punto non si comprende per quale ragione producano tale cdr pur se, come ha riferito - sarcasticamente - il capitano Aldo Iacobelli, comandante provinciale dei carabinieri di Cosenza, «comunque prendono i soldi per la gestione» (pagina 8 verbale trascr. aud. 01/12/2009).
In particolare, a proposito di quest'ultimo impianto di trattamento, il comando carabinieri per la tutela dell'ambiente - gruppo Napoli, nella relazione del 6 novembre 2009 in atti (doc. 163/1), ha riferito che: 1) che trattasi di impianto di selezione e valorizzazione del rifiuto urbano indifferenziato e di trattamento della frazione organica da rifiuto differenziato, con annessa discarica di servizio; 2) che tale impianto avrebbe dovuto, in teoria, produrre: a) cdr (combustibile derivato da rifiuti urbani indifferenziati), b) fos (frazione organica stabilizzata/compost fuori specifica), prodotta da rifiuti urbani indifferenziati, c) «compost di qualità» prodotto dalla frazione organica proveniente dalla raccolta differenziata, d) metalli ferrosi recuperati dai rifiuti urbani indifferenziati.
Viceversa, dagli accertamenti svolti è emerso che il suddetto insediamento tecnologico: 1) non è in grado di produrre cdr con pezzatura compatibile con il termovalorizzatore di Gioia Tauro e, di conseguenza, la linea di produzione attualmente è inattiva, in quanto necessita di lavori per ridurne la pezzatura; 2) non produce «compost di qualità», in quanto lo stesso si presenta contaminato da una forte presenza di materiale estraneo, con conseguente recapito finale in discarica, unitamente alla fos, che viene utilizzata per la copertura giornaliera delle discariche; 3) produce del materiale che, ad eccezione dei rottami ferrosi separati e inviati a recupero, ha anch'esso come recapito finale la discarica; 4) l'impianto di valorizzazione della «frazione organica» necessita di un adeguamento per l'eliminazione delle frazioni estranee in eccesso e, dunque, allo stato risulta inutilizzato.
Rilevano i carabinieri che «tale grave situazione, la quale potrebbe non essere isolata, oltre al grave danno ambientale causato

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dal ricorso smodato all'uso della discarica, ha causato rilevanti danni erariali, anche con la complicità dei pubblici amministratori che potevano ed avevano il dovere di intervenire».
In ogni caso e, cioè, anche a prescindere dai rilievi anzidetti, i due impianti di trattamento sono del tutto insufficienti, tanto più che nella provincia di Vibo Valentia - di recente costituzione e anch'essa inserita nel sistema «Calabria Centro» - non esistono impianti e la produzione dei rifiuti viene conferita «tal quale» all'impianto di trattamento di Lamezia Terme.
E, tuttavia, a parte gli anzidetti rilievi, osserva la Commissione di inchiesta che il sistema integrato «Calabria Centro» è l'unico ad essere stato realizzato, poiché non vi sono state opposizioni alla realizzazione di impianti di trattamento e di discariche di servizio, da parte delle popolazioni interessate e degli stessi amministratori locali; opposizioni che, viceversa, come si è visto, hanno determinato il fallimento totale del sistema «Calabria Nord», nonché - come si dirà di seguito - il fallimento parziale del sistema «Calabria Sud», provocando altresì in entrambi i casi un enorme contenzioso, per una cifra che supera i cento milioni di euro complessivi.

II.3 - Il sistema «Calabria Sud»

Passando all'esame del sistema «Calabria Sud», va osservato che l'originario piano del commissario delegato per l'emergenza rifiuti - in ossequio a una precisa scelta gestionale, che aveva il suo punto di forza in un forte incremento della raccolta differenziata - aveva stabilito: 1) la realizzazione di cinque impianti di trattamento dei rifiuti solidi urbani - tmb (impianti, come si è detto, destinati a «trattare» i rifiuti tal quale, mediante la separazione della frazione umida - da trasformare in fos - da quella secca, destinata ad essere raffinata e bruciata nel termovalorizzatore come cdr); 2) la realizzazione di un termovalorizzatore.
In particolare, tre impianti di trattamento dovevano essere realizzati in provincia di Reggio Calabria (Reggio Calabria, Siderno, Gioia Tauro), unitamente al termovalorizzatore localizzato in Gioia Tauro, mentre due impianti dovevano essere realizzati, rispettivamente, a Crotone e a Rossano (CS).
In esito alle procedure di gara, il commissario delegato per l'emergenza rifiuti - che, come si è detto, all'epoca era anche il presidente della regione e, cioè, il dottor Giuseppe Chiaravalloti (16/04/2000 - 20/07/2004) - e il raggruppamento temporaneo di imprese, cosiddetto ATI (costituito da TME SpA - Termomeccanica Ecologia di La Spezia, in qualità di mandataria, e Lurgi Energie and Entsorgung GmbH, Pianimpianti SpA, Saarberg-Oekotechnik GmbH, Consorzio Cooperative Costruzioni e Ing. Nino Ferrari Impresa Costruzioni Generali Srl, quali mandanti), stipulavano, in data 17 ottobre 2000, un contratto d'appalto, repertorio n. 31469, di seguito definito «convenzione» per l'affidamento in «concessione della progettazione definitiva ed esecutiva, costruzione e gestione degli impianti componenti il sistema integrato di smaltimento Calabria Sud» (doc. 616/8).


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La convenzione - del valore lire 831.966.750.000, pari ad euro 429.674.967,85, oltre iva - prevedeva la realizzazione a Gioia Tauro di un polo tecnologico (poi denominato TEC 1) comprendente: a) un termovalorizzatore, munito di due linee (linea 1 e 2), con una capacità di smaltimento di 120 mila tonnellate/anno di cdr; b) un impianto di trattamento rsu.
La «convenzione» prevedeva, inoltre, la realizzazione di altri quattro impianti di trattamento rsu, rispettivamente, a Siderno, a Crotone, a Reggio Calabria (località Pettogallico) e a Rossano, oltre al potenziamento degli impianti preesistenti di Reggio Calabria (località Sambatello) e di Rossano.
Ciascun impianto doveva essere dotato di una discarica di servizio che, secondo gli impegni contrattuali assunti, dovevano essere realizzate nelle immediate vicinanze degli impianti medesimi e, comunque, a una distanza non superiore a chilometri 30 dagli stessi.
La convenzione, infine, stabiliva il quantitativo del conferimento dei rifiuti stimato in 411 mila (quattrocentoundicimila) tonnellate all'anno, di cui 276 mila tonnellate/anno di rsu e 135 mila tonnellate/anno di materiali vari da valorizzare, provenienti dal sistema di raccolta differenziata (secco, imballaggi, unti, ecc), umido e verde.
Sulla base del quantitativo di rifiuti veniva, poi, calcolata la tariffa per lo smaltimento rifiuti, a partire dall'avviamento, calcolata in lire 134,95 (centotrentaquattro/95) per ogni chilogrammo, da aggiornarsi annualmente entro il mese di gennaio.
Come si è detto, nel sistema «Calabria Sud» gli unici impianti preesistenti erano, oltre quello di Rossano, quello di Reggio Calabria (località Sambatello), destinato ad esaurirsi in breve tempo e ritenuto comunque inadeguato, mentre - in forza della suddetta «convenzione» - dovevano essere realizzati ex novo gli impianti di Siderno, Crotone e Reggio Calabria (località Sambatello-Pettogallico), quest'ultimo per un capacità di 73 mila tonnellate/anno di rsu da trattare, con produzione di 20 mila tonnellate/anno di cdr).
La realizzazione della costruzione doveva essere ultimata con decorrenza dalla data del relativo verbale di consegna definitiva dei lavori e veniva fissata: per gli impianti di selezione, entro 305 giorni, mentre per il termovalorizzatore entro 32 mesi.
La gestione aveva la durata di 15 anni «decorrenti dalla data del verbale di conclusione dell'esercizio sperimentale di tutti gli impianti cdr e inizio della gestione».
La concessione era fondata sull'autofinanziamento del concessionario, mediante «project financing» che - com'è noto - impone al concedente di curare il mantenimento delle condizioni di equilibrio economico-finanziario della stessa e, in caso di variazioni incidenti su detto equilibrio, attribuisce al concessionario il diritto di ottenere una revisione che consenta la determinazione di nuove condizioni di equilibrio.
Il rispetto dell'equilibrio economico - finanziario era particolarmente rilevante, posto che nel contratto, che la TEC SpA in data 22 maggio 2003 aveva stipulato con un pool di banche, era stabilita la risoluzione del finanziamento per inadempimento, anche a seguito del mancato pagamento di una sola rata da parte della società concessionaria.

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In data 31 agosto 2001, le parti - con riferimento all'originario contratto di appalto - stipulavano un «atto integrativo», repertorio n. 65 (doc. 616/9), nel quale, in ordine alla gestione «provvisoria» dell'impianto esistente in Sambatello, veniva prevista una tariffa «differenziata», rispetto al resto del sistema, «nelle more della realizzazione del nuovo impianto di Sambatello».
Successivamente, in data 6 marzo 2002, la TME SpA comunicava alla stazione appaltante che, avvalendosi della facoltà prevista nel bando di gara, affidava l'esecuzione dei lavori di costruzione e di gestione degli impianti del sistema «Calabria Sud» alla società di progetto TEC SpA Termo Energia Calabria, subentrante ai sensi dell'articolo 37 quinquies della legge 109 del 1994 nel rapporto di concessione dell'ATI aggiudicataria e così, nella stessa data, veniva notificato il subentro nel rapporto concessorio della costituita società TEC SpA Termo Energia Calabria, in conformità a quanto previsto nell'articolo 14 della convenzione.
In data 30 maggio 2003, la TEC appaltava alla TME la gestione del sistema, con le modalità e limiti previsti nel disciplinare di gestione allegato all'offerta di gara, dopo che, in data 22 maggio 2003 - come si è detto - aveva stipulato un contratto di finanziamento con un pool di banche, come previsto dal sistema del «project financing», per la realizzazione di opere pubbliche.
In esecuzione della convenzione, la TEC realizzava l'impianto per il trattamento e lo smaltimento, via termovalorizzazione, dei rifiuti solidi urbani del bacino predetto, sito in Gioia Tauro con un consistente investimento in totale autofinanziamento. I lavori relativi a tale impianto venivano completati in data 30 settembre 2004, ovvero nei termini contrattuali, posto che il relativo verbale certificava l'ultimazione dei lavori relativi alle opere elettromeccaniche «strettamente connesse con l'inizio del funzionamento del termovalorizzatore».
In precedenza e, cioè, in data 31 ottobre 2003, era stata stipulata tra le stesse parti un atto di integrazione («addendum») della «convenzione» del 17 dicembre 2000 (repertorio 31469), denominata «atto di sottomissione» (doc. 616/10), per il potenziamento del termovalorizzatore di Gioia Tauro con la realizzazione a di nuove linee (linee 3 e 4, in pratica, il raddoppio delle linee di cui alla convenzione originaria), per 120 mila tonnellate/anno di cdr e 30 mila di rifiuti speciali, con la erogazione da parte del concedente di un contributo «a fondo perduto», pari a lire 80 miliardi (euro 41.316.551,92), finalizzato all'abbattimento delle tariffe di smaltimento relative agli utenti del sistema integrato «Calabria Sud» (articolo 8 bis).
Quindi, la TEC, tramite la controllata TME, nella qualità di «General Contractor», avviava la costruzione di un secondo termovalorizzatore, anche questa volta, in regime di project financing con un impegno di investimenti aggiuntivi (per circa 130 milioni di euro), chiedendo a tal fine un secondo finanziamento al medesimo pool di banche, che aveva finanziato la costruzione del primo termovalorizzatore.
Per tutti gli impianti di cui alla «convenzione» del 17 ottobre 2000 veniva prevista l'esecuzione di «lavori di adeguamento, modifica

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e integrazione», con conseguente proroga dei tempi di consegna delle opere ovvero di remissione nei termini, dando atto che erano stati ultimati gli impianti di trattamento di Rossano e di Gioia Tauro.
In particolare, l'articolo 15 dell'«atto di sottomissione» prevedeva che «in considerazione dei maggiori lavori ed attività relativi al Sistema Integrato "Calabria Sud" di cui al precedente articolo 2 punto a), il concedente riconosce al concessionario una proroga per il termine di completamento degli impianti, di cui all'art 4 della convenzione n. 31469 di rep. del 17 ottobre 2000, per cui le nuove scadenze risultano le seguenti:
a) Impianto di selezione di Rossano ultimato;
b) Impianto di selezione di Gioia Tauro ultimato;
c) Impianto di selezione di Crotone 15/04/04;
d) Impianto di selezione di Siderno, 12 mesi dall'approvazione progetto esecutivo;
e) Impianto, di selezione di Sambatello 10/09/04;
f) Termovalorizzatore di Gioia Tauro 20/12/04.

Al fine di non indurre onerosità aggiuntive improprie connesse con l'onere di prefinanziamento delle opere è facoltà dell'Impresa iniziare le operazioni di collaudo, di cui agli articoli 20 e 21 del Capitolato Speciale, non appena ultimati i lavori strettamente connessi con l'inizio di tali attività».
All'articolo 6 dell'atto di sottomissione veniva altresì prevista la realizzazione delle discariche di servizio, i cui siti dovevano essere individuati congiuntamente dalle parti in prossimità degli impianti, pur se la loro progettazione e realizzazione era a carico del concessionario.
Il valore dell'incremento dell'investimento veniva fissato in lire 207.539.961.005, pari ad euro 107.185.444,70 iva inclusa.
E, tuttavia, nonostante i precisi impegni contrattuali assunti, non è stato realizzato l'impianto di Sambatello-Pettogallico (fraz. di Reggio Calabria) - la cui costruzione è stata di fatto impedita sostanzialmente dall'opposizione della popolazione locale e dalla divergenza di opinioni tra il concedente e la direzione lavori su diversi aspetti del progetto - né sono state realizzate le previste discariche di servizio, anche in tal caso per l'opposizione della popolazione locale, che il commissario non è riuscito a superare.
Viceversa, sono stati realizzati, benché con notevoli ritardi, gli altri impianti di trattamento (tmb) e, cioè, quelli di Crotone, di Siderno, posto che alla data dell'«atto di sottomissione» (31 ottobre 2003), erano già stati realizzati gli impianti di Rossano e di Gioia Tauro (sia pure con ritardo rispetto ai tempi previsti nella originaria «convenzione»), mentre il raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro ha registrato ritardi, a tal punto che il completamento dell'opera è previsto nel 2012.
Ritornando all'assetto societario, in data 22 novembre 2006, la TEC SpA comunicava alla Stazione appaltante la cessione delle quote societarie da TME SpA, a TMT SpA Tecnitalia e, in data 22/12/2006,


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la TME SpA comunicava alla Stazione Appaltante il conferimento in TMT SpA Tecnitalia del ramo di azienda riguardante le attività di gestione impianti.
Ancora, in data 26 luglio 2007, la TME SpA comunicava alla Stazione appaltante l'intenzione di trasferire la partecipazione del 75 per cento della società TMT SpA. Tecnitalia alla Veolia servizi Ambientali SpA, nonché la gestione del sistema, con le modalità e limiti previsti nel disciplinare di gestione allegato all'offerta di gara.
Infine, in data 22 ottobre 2007, la Veolia servizi Ambientali SpA, comunicava alla Stazione appaltante che l'88,98 per cento della TEC SpA. Termo Energia Calabria era detenuto dalla stessa «Veolia servizi Ambientali Tecnitalia SpA»., nonché il cambio di denominazione sociale della «TMT SpA. Tecnitalia», in «Veolia servizi Ambientali SpA Tecnitalia», a seguito di atto notarile del 2 ottobre 2007.
In conclusione, sulla base del sopra riportato sviluppo societario, la Veolia, società francese, leader nel settore dello smaltimento dei rifiuti urbani, è apparsa sulla scena solo in data 26 luglio 2007, dopo l'acquisizione della TEC SpA.
Tuttavia, come si è accennato, la realizzazione del secondo termovalorizzatore, nonché di tutte le altre opere previste nell'atto di sottomissione del 31 ottobre 2003 (doc. 616/10), hanno determinato un notevole contenzioso tra il commissario delegato per l'emergenza rifiuti e la società appaltatrice, pari a euro 197.999.132,80, somma pretesa in forza del contratto di appalto, ma contestata dal commissario per asseriti ritardi nell'esecuzione delle opere.
La controversia è stata deferita a un collegio arbitrale che si è pronunziato con sentenza n. 121/10, depositata in data 13 ottobre 2010.
Il lodo, in parziale accoglimento delle domande proposte dalla TEC SpA Termo Energia Calabria, ha condannato la Presidenza del consiglio dei ministri - ufficio del commissario delegato per l'emergenza rifiuti al pagamento in favore della società attrice della complessiva somma di euro 30.014.960,79, oltre rivalutazione e interessi; quindi, in parziale accoglimento delle domande proposte, in via riconvenzionale, dalla Presidenza del consiglio dei ministri - ufficio del commissario delegato ha condannato la società attrice al pagamento in favore della convenuta della somma di euro 2.055.889,85, oltre rivalutazione e interessi. Il lodo è stato notificato il 18 novembre 2010.
A tale contenzioso se ne è aggiunto un altro, pari ad euro 57.152.493,74, anch'esso deferito a un collegio arbitrale, concernente presunti inadempimenti contrattuali relativi alla gestione ordinaria del sistema «Calabria Sud», da parte della TEC SpA Termo Energia Calabria e del socio di controllo Veolia servizi Ambientali SpA.
Anche questa controversia è stata decisa con lodo arbitrale (n. 101/10), depositato in data 26 luglio 2010 e reso esecutivo in data 27 settembre 2010 (doc. 585/1) che, in parziale accoglimento delle domande proposte dalla TEC SpA Termo Energia Calabria, ha condannato la Presidenza del consiglio dei ministri - ufficio del commissario delegato per l'emergenza rifiuti al pagamento, in favore della società attrice, della complessiva somma di euro 38.443.714,07,

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oltre rivalutazione e interessi, respingendo le domande riconvenzionali della convenuta.
I due giudizi sono stati promossi nel mese di maggio 2008, dopo la conclusione dei lavori di un'apposita commissione istituita dal commissario delegato, con ordinanza n. 4242 del 26 aprile 2006 e n. 5239 del 10 gennaio 2007, ai sensi dell'articolo 21 della convenzione del 17 ottobre 2000, rep. 31469 che, a sua volta, rinviava all'articolo 31 bis della legge n. 104 del 1994 (legge quadro in materia dei lavori pubblici), poi sostituita dal decreto legislativo 12 aprile 2006 n. 163.
Invero, è accaduto che, a fronte di una pretesa risarcitoria della TEC SpA, pari a euro 203.957.263,76, per crediti maturati, fino alla data del 30 settembre 2007, regolarmente iscritti a «riserve» nei documenti contabili della società concessionaria per lavori di costruzione e di gestione degli impianti, la commissione anzidetta, a seguito degli accertamenti, svolti in contraddittorio con le parti, aveva ricalcolato le riserve apposte dal concessionario nella sua contabilità e rivisitato gli algoritmi di calcolo.
All'esito, la Commissione era riuscita a perfezionare tra l'ufficio del commissario e la TEC SpA una bozza di intesa, in forza della quale quest'ultima, in data 17 dicembre 2007, aveva formulato una proposta irrevocabile di accordo transattivo, valida fino al 3 gennaio 2008, del complessivo importo di Euro 21 Milioni (Allegato 2, doc. 596/1).
Invero, i crediti vantati dalla TEC SpA traevano origine: 1) dalla mancanza di quantitativi di rifiuti urbani o raccolta differenziata, previsti nel contratto; 2) dai maggiori costi relativi alle attività da intraprendere in adempimento delle disposizioni introdotte dal decreto legislativo n. 36 del 2003; 3) dai problemi connessi alla mancanza di discariche di servizio; 4) dal mancato aggiornamento della tariffa di gestione; 5) dai maggiori derivanti dalla mitigazione ambientale imposti dalla via; 6) dai maggiori costi derivanti dalla inadeguatezza della raccolta differenziata; 7) dagli oneri derivanti dal fermo del cantiere, a seguito della sospensione della realizzazione della seconda linea del termovalorizzatore di Gioia Tauro (vedi nota della Presidenza del consiglio dei ministri - dipartimento della protezione civile, consegnata dal prefetto dottor Franco Gabrielli, in occasione dell'audizione del 15 dicembre 2010 - doc. 619/1)
La proposta transattiva prevedeva: A) il pagamento della somma sopra indicata di euro 21 milioni, a saldo di tutti i crediti pregressi e a tacitazione di ogni pretesa per gestione e riserve sui lavori sino al 17 dicembre 2007, da corrispondere in 4 rate trimestrali; B) la rinuncia alle somme per interessi maturati fino al 17 dicembre 2007 e di quelle maturande fino al 31 gennaio 2008; C) la rinuncia ad ogni e qualsiasi giudizio pendente sia di merito che monitorio intrapreso fino al 17 dicembre 2007, ivi compreso l'importo di euro 8.083.949,52, portato dal decreto ingiuntivo n. 113/2006.
Peraltro, quest'ultimo credito non era contestato dal commissario il quale, nella pendenza del giudizio di opposizione davanti al tribunale di Catanzaro, aveva provveduto a corrispondere alla TEC SpA gran parte delle somme richieste, ad eccezione della somma di euro 1.283.116,25, come risulta dalla relazione del dipartimento della protezione civile (doc. 619/1, pagina 6).

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L'ufficio del commissario delegato (prefetto Salvatore Montanaro), con lettera in data 11 gennaio 2008 prot. 613 (Allegato 3 doc. 596/4), trasmetteva la proposta della TEC SpA - con allegata relazione tecnico-giuridica della commissione nominata - alla Presidenza del consiglio dei ministri/dipartimento della protezione civile, esprimendo parere favorevole all'accordo, come proposto dalla TEC SpA.
In data 21 febbraio 2008, il capo dipartimento pro-tempore della Protezione civile, dottor Guido Bertolaso, rispondeva all'ufficio del commissario delegato, chiedendo che la proposta di transazione fosse sottoposta al parere della competente avvocatura distrettuale dello Stato in Catanzaro, in quanto riteneva che alla definizione bonaria della controversia dovesse partecipare anche la regione Calabria, avuto riguardo al ruolo svolto dalla stessa nei ritardi per la realizzazione della seconda linea del termovalorizzatore di Gioia Tauro e ai conseguenti danni causati.
Invero, va considerato che proprio una legge regionale, la n. 13 del 17 agosto 2005, dichiarata incostituzionale con sentenza n. 284 del 14 luglio 2006, aveva disposto la sospensione sia dei lavori di raddoppio del termovalorizzatore (doc. 619/3), sia dei lavori del nuovo impianto di trattamento di Sambatello, anch'esso oggetto di forti contestazioni da parte della popolazione reggina, come si dirà di seguito.
Il commissario delegato, con nota in data 28 febbraio 2008, prot. 3409, richiedeva il previsto parere dell'avvocatura dello Stato che, con nota del 17 aprile 2008, nell'esprimere parere favorevole alla proposta transazione, poneva in evidenza l'opportunità della «sottoscrizione della transazione da parte della regione Calabria» (doc. 619/4).
Tuttavia - occorre rimarcarlo - l'adesione alla transazione da parte della regione Calabria era da escludere, posto che la stessa aveva ribadito la propria contrarietà al raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro anche con una successiva legge regionale, la n. 27 del 2007 (anch'essa, peraltro, dichiarata incostituzionale con sentenza n. 277 del 9/16 luglio 2008, pubblicata sulla G.U. n. 31 del 23 luglio 2008).
Peraltro, con la legge regionale anzidetta era stato disposto un nuovo blocco della realizzazione della seconda linea dello stesso termovalorizzatore e ciò aveva provocato una seconda sospensione dei lavori, dopo la prima sospensione, di cui si è sopra detto, da parte di analoga legge regionale, dichiarata anch'essa incostituzionale.
A questo punto, vale la pena di richiamare quanto ha riferito il dottor Franco Gabrielli, Capo del dipartimento della protezione civile, nel corso della sua audizione del 15 dicembre 2010, a proposito dei rapporti tra il dipartimento della protezione civile e il commissario delegato, il quale - come si è già chiarito in nota - riveste il ruolo istituzionale di «commissario delegato del Governo», ovvero di colui il quale riceve un potere che scaturisce dalla dichiarazione dello stato di emergenza ed è il rappresentante del Governo, in nome e per conto del quale è provvisto di tutti i poteri per operare.
Dunque - ha proseguito il dottor Gabrielli - l'interlocuzione avviene tra il presidente del Consiglio dei ministri, il Consiglio dei ministri e il commissario delegato, mentre il dipartimento della protezione civile in queste vicende «non svolge solo una funzione

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notarile o, in maniera spregiativa, di bancomat delle ordinanze del presidente del consiglio dei ministri, ma un'attività di supporto, di indirizzo e di consulenza», come in effetti aveva fatto nel 2008, a proposito della suddetta proposta di transazione.
Invero, nell'occasione, il dipartimento della protezione civile, nell'adempiere a tale obbligo istituzionale, si era limitato a fare alcune considerazioni - in particolare, a ritenere opportuna l'acquisizione del parere dell'avvocatura dello Stato rispetto all'attività transattiva posta in essere dal commissario delegato - ma il soggetto titolato a stipulare l'atto di transazione era il commissario, in quanto delegato del Governo.
Dunque, il commissario delegato dell'epoca (prefetto Salvatore Montanaro), una volta acquisito l'anzidetto parere dell'avvocatura dello Stato e preso atto dell'assenza di risposta da parte della regione Calabria in ordine alla proposta transazione, era provvisto di tutti i poteri necessari per sottoscrivere l'atto di transazione con la TEC - Veolia.
Tanto più che l'avvocatura distrettuale dello Stato, nel parere in atti, valorizzava sia la procedura seguita dal commissario delegato, con l'istituzione della speciale commissione - che vedeva la partecipazione di professionisti qualificati (avv. Francesco Attanasio, Prof. Pasquale Versace, ingegnere Loris Zanella) - sia la convenienza della proposta transattiva, mentre la richiesta di sottoscrizione da parte della regione Calabria obbediva a mere ragioni di opportunità, poiché era volta a coinvolgere quest'ultima nei relativi oneri economici della transazione.
In conclusione, il commissario delegato del Governo per l'emergenza rifiuti in Calabria aveva il potere-dovere di sottoscrivere l'accordo transattivo con la TEC SpA, senza alcuna necessità di munirsi della relativa autorizzazione del dipartimento, alla luce della correttezza della procedura seguita con la istituzione di apposita commissione e del parere dell'avvocatura dello Stato, fatta salva naturalmente la riserva di azione di rivalsa nei confronti della regione Calabria per i suoi inadempimenti.
L'accordo transattivo avrebbe consentito all'erario di evitare ulteriori danni determinati dalle successive e consequenziali pronunzie arbitrali.
Purtroppo - ha concluso il dottor Gabrielli - molto spesso i commissari si identificano solo con la possibilità di avere alcune contribuzioni, nonostante che, nell'architettura della legge n. 225 del 1992, il ruolo del commissario delegato sia fondamentale, mentre il dipartimento della protezione civile assume un ruolo di primo piano, solo quando il commissario si identifica con il capo del dipartimento.
Laddove ciò non è - come nel caso di specie - il dipartimento della protezione civile svolge solo una funzione di consulenza e di supporto, fatta salva l'attività prevista e stabilita dal decreto del Presidente della Repubblica n. 51 del 1993 per gli aspetti ispettivi. Anche in questo senso - ha concluso il dottor Gabrielli - «mi sento di affermare che il dipartimento si sia comportato correttamente, perché ha svolto addirittura due attività ispettive, una nel 2006 e l'altra nel 2007».

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Nel caso di specie, è accaduto che, nell'assenza di riscontri alla proposta di transazione, la TEC SpA, nel mese di maggio 2008, ha proposto le domande, che hanno dato luogo ai due distinti arbitrati relativi, rispettivamente, agli «extra costi di costruzione» e agli «extra costi di gestione» che, come si è detto, hanno comportato la condanna della Presidenza del consiglio dei ministri - dipartimento della protezione civile al pagamento, in favore della società concessionaria, della complessiva somma di euro 68.458.674,86 (euro 30.014.960,79 + euro 38.443.714,07), oltre rivalutazione e interessi, dedotta la somma di euro 2.055.889,85, per la domanda della Presidenza del consiglio dei ministri, che è stata accolta in via riconvenzionale. Peraltro, a tale considerevole somma deve essere aggiunta quella di circa euro 8 milioni, portata dal decreto ingiuntivo n. 113/2006 opposto davanti al tribunale di Catanzaro, in ordine alla quale - come si legge anche a pagina 107 lett. d) del lodo arbitrale n. 121/10, oltre che nel sopra citato doc. 619/1, pagina 6 ) - il commissario «avrebbe comunque già pagato una buona parte delle fatture oggetto del succitato decreto ingiuntivo, non esecutivo, per un totale di circa 7 milioni sui circa 8 milioni azionati».
Appare evidente, alla luce di quanto sopra esposto e tenuto conto di rivalutazione monetaria e interessi sulle somme liquidate nei due lodi, che l'accettazione della proposta transazione avrebbe ridotto a un quarto l'onere complessivo dell'Erario.

II.3.1 - Esame delle valutazioni contenute nei lodi arbitrali sul sistema «Calabria Sud» e nella relazione della sezione regionale di controllo per la Calabria della Corte dei conti. Profili di responsabilità della gestione commissariale.

I due lodi arbitrali si intersecano tra di loro e forniscono un quadro - a dir poco desolante - dei comportamenti individuali e collettivi, che tuttora impediscono l'uscita della Calabria dallo stato di emergenza in cui versa nel settore dei rifiuti solidi urbani.
I due giudizi hanno molti punti in comune, in quanto tra le stesse parti e aventi origine dall'unico contratto concluso e, tuttavia, un giudizio ha per oggetto crediti inerenti la costruzione degli impianti (lodo n. 121/10), mentre l'altro ha per oggetto crediti relativi alla gestione degli stessi (lodo n. 101/10).
Il merito di quest'ultima controversia (quella per maggiori costi di gestione) attiene all'accertamento dei crediti avanzati dalla TEC SpA per il servizio di smaltimento reso in esecuzione della concessione, per l'aggiornamento delle tariffe e il ristoro dei maggiori oneri di gestione sopportati dal concessionario, nonché la revisione delle condizioni contrattuali della concessione, al fine di ripristinare l'equilibrio dell'originario piano economico finanziario (PEF).
Nella prospettazione di parte attrice, contenuta nella domanda di arbitrato, ribadita nelle successive memorie e, quindi, nella discussione orale, le pretese creditorie della società concessionaria del servizio si fondano su una serie di inadempimenti contrattuali dell'ufficio del commissario delegato.


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Sulla base di una consulenza tecnica d'ufficio, le cui conclusioni non sono state contestate dalle parti, che non hanno chiesto supplementi e/o integrazioni istruttorie, il lodo arbitrale - depositato in data 26 luglio 2010 e reso esecutivo dal presidente del tribunale di Roma ex articolo 825 c.p.c. - ha riconosciuto la fondatezza delle principali pretese della TEC SpA, nella qualità di concessionario del servizio, nei confronti della Presidenza del consiglio dei ministri - ufficio del commissario delegato per l'emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani nella regione Calabria, nella qualità di concedente, rigettando tutte le domande riconvenzionali proposte nei confronti della TEC SpA dal concedente per pretesi inadempimenti della società concessionaria del servizio.
Di conseguenza, la Presidenza del consiglio dei ministri - ufficio del commissario delegato per l'emergenza nel settore dei rifiuti solidi urbani nella regione Calabria è stata condannata a pagare la somma di euro 38.443.714,07, oltre rivalutazione e interessi, in favore della TEC SpA - Termo Energia Calabria.
Per quello che interessa in questa sede, la parte motiva del lodo arbitrale - nel mettere in rilievo, ai fini della decisione, le inadempienze del concedente commissario delegato - fotografa una situazione del sistema «Calabria Sud» del tutto deficitaria, a cominciare dal fallimento degli obiettivi fissati per la raccolta differenziata.
Invero, l'ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri 21 ottobre 1997 n. 2969 aveva previsto una raccolta differenziata nella misura del 20 per cento entro il 30 giugno 1999 e nella misura del 35 per cento nei successivi due anni e, per il conseguimento di tali obiettivi, aveva attribuito al commissario delegato il potere di sostituirsi ai sindaci, con la nomina commissari ad acta, mentre il successivo ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri del 31 maggio 1999 n. 2984 aveva imposto al commissario delegato il raggiungimento di ulteriori obiettivi per la raccolta differenziata.
Ebbene, tali ambiziosi programmi sono stati posti a base della convenzione stipulata in data 17 ottobre 2000 (rep. n. 31469), posto che l'articolo 5 della suddetta convenzione disponeva che il concedente si impegnava a far conferire agli impianti «un quantitativo annuo di 411 mila tonnellate di rifiuti, di cui 276 mila tonnellate/anno di rsu tal quali e 135 mila tonnellate/anno di materiali vari da valorizzare, provenienti dal sistema di raccolta differenziata», valori che, benché indicati in via esemplificativa, fornivano una percentuale di raccolta differenziata in linea con i programmi e con gli obiettivi di legge (decreto legislativo 152 del 2006, legge 27 dicembre 2006 n. 296), in quanto pari al 32,8 per cento.
A fronte di tale preciso impegno contrattuale, il CTU (consulente Tecnico d'ufficio) nominato dal collegio arbitrale ha verificato che l'incidenza media di raccolta differenziata nei quattro anni esaminati e, cioè, negli anni 2005, 2006, 2007 e 2008 e, dunque, molti anni dopo la conclusione della convenzione, è risultata pari ad appena il 4,2 per cento, di gran lunga inferiore e neanche lontanamente rapportabile alla previsione contrattuale che, come si è detto, indicava una percentuale del 32,8 per cento.
Naturalmente, la scarsa incidenza della raccolta differenziata ha avuto pesanti ripercussioni economiche sul contratto concluso tra le

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parti, posto che nel successivo articolo 6 della «convenzione» era stata fissata la tariffa, calcolata su base annuale, di lire 134,95 per ogni chilogrammo di rifiuto, tenuto conto del rapporto percentuale tra rsu tal quali e raccolta differenziata, come determinato nel precedente articolo 5 dello stesso contratto, con l'impegno, nel caso di variazione delle quantità minime (inferiore al 98 per cento) o massime (superiore al 102 per cento) a procedere alla modifica della tariffa «in maniera da mantenere l'equilibrio economico finanziario della concessione» (articolo 6.3).
In ordine alla quantificazione del danno subito dalla Concessionaria, in conseguenza del mancato rispetto da parte dell'Amministrazione concedente dei quantitativi minimi di conferimenti garantiti per la gestione della concessione, il collegio ha fatto proprie le conclusioni del CTU.
Quest'ultimo, partendo dalla richiesta formulata dall'impresa, ha quantificato i minori ricavi e i maggiori oneri a titolo di:
1) minori ricavi dovuti alla riduzione delle quantità conferite;
2) minori ricavi per vendita raccolta differenziata;
3) maggiori oneri in conseguenza di maggiori quantità di scarti da smaltire.

Con riferimento al primo punto, il CTU ha concluso che i conferimenti effettivi sono stati inferiori rispetto a quanto previsto negli anni 2005, 2007 e 2008, mentre nel 2006 si è avuto un conferimento adeguato alle aspettative.
Pertanto, il consulente tecnico nominato dal collegio, dopo aver calcolato i minori ricavi in rapporto alle minori quantità conferite e alla tariffa prevista dalla «convenzione» - al netto della quota riguardante i costi di gestione previsti nella stessa convenzione - ha stimato in capo al concessionario un minor ricavo complessivo, per gli anni 2005, 2007 e 2008, pari ad euro 1.258.613,65.
Con riferimento al secondo punto, il CTU ha stimato che a causa delle previsioni quantitative disattese, negli anni 2005, 2006, 2007 e 2008, le minori quantità di raccolta differenziata a disposizione del concessionario ammontano a complessive tonnellate 239.859.
Poiché il piano economico finanziario prevedeva la commercializzazione dei materiali riciclabili provenienti dalla raccolta differenziata, il CTU ha calcolato il mancato ricavo previsto per la vendita di tale materiale, moltiplicando le minori quantità di raccolta differenziata sopra individuate per il valore di vendita desumibile dai dati contenuti nel piano economico finanziario ed è giunto a quantificare tale voce nella complessiva somma di euro 791.534,70.
Con riferimento al terzo punto, il CTU ha riconosciuto uno sbilanciamento delle quantità di rsu, rispetto ai materiali riciclabili provenienti dalla raccolta differenziata per gli anni 2006, 2007 e 2008, individuando le maggiori quantità di rsu conferite, rispetto alle previsioni contrattuali, e determinando - di conseguenza - un maggiore onere per l'impresa concessionaria, la quale era stata costretta a trasportare e smaltire maggiori quantità di fos e scarti prodotti dal trattamento.


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Invero, secondo le valutazioni del CTU, che i giudici hanno fatto proprie, «essendo il costo del processo di smaltimento del rsu tal quale notevolmente più costoso di quello proveniente dalla raccolta differenziale, ne consegue che l'alterazione del rapporto di conferimento tra rsu tal quale e raccolta differenziata comporta un aumento del costo del processo a carico del concessionario, non compensato dall'aumento della tariffa, in quanto stabilita all'origine sulla base del rapporto contrattuale».
Quindi, il consulente nominato dal collegio ha quantificato il maggiore onere per l'Impresa, previa applicazione della tariffa di smaltimento stabilita dal commissario delegato in data 3 gennaio 2007 prot. 000161/rsu, in complessivi euro 5.089.544,53.
In conclusione, sul punto, il collegio arbitrale ha accertato l'inadempimento della Presidenza del consiglio dei ministri - ufficio del commissario delegato per l'emergenza, nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani nella regione Calabria, alle obbligazioni assunte con gli artt. 5 e 6 della convenzione e ha riconosciuto alla TEC SpA il diritto al ristoro dei maggiori oneri sopportati, oneri che ha quantificato - alla data del 27.07.2009 (data di conferimento dell'incarico al CTU) - in complessivi Euro 7.139.692,88, con la rivalutazione monetaria e gli interessi maturati alla stessa data, per complessivi Euro 570.127,49 e oltre l'ulteriore rivalutazione e gli interessi, a partire dal 27 luglio 2009 fino al soddisfo, da calcolarsi secondo le indicazioni fornite dal CTU nell'elaborato peritale.
Per completezza, va detto che pende davanti al TAR Lazio un'altra controversia (ric. no 6083/2009) tra la TEC SpA e la regione Calabria, avente ad oggetto una richiesta di risarcimento danni, del complessivo importo di 38 Milioni di Euro, pretesi dalla TEC per effetto della sospensione dei lavori per il raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro, nonché delle opere di realizzazione dell'impianto di trattamento di Sambatello, disposta con le due leggi regionali, poi dichiarate incostituzionali, di cui si è detto.
A proposito della mancata realizzazione dell'impianto di trattamento di Sambatello (sul quale si tornerà di seguito) devono essere sottolineate le forti, quanto del tutto ingiustificate, contestazioni da parte della popolazione locale, opposizione che, in un'occasione, ha visto la presenza nel cantiere non solo di un centinaio di manifestanti, ma addirittura di due presidenti di circoscrizione, del maresciallo dei carabinieri e del stesso sindaco di Reggio Calabria, «che pregava di sospendere i lavori» (vedi nota in data 23 gennaio 2004 inviata dal concessionario al commissario) e, in altra occasione ha visto il blocco della strada di accesso al cantiere in oggetto «ponendo di traverso sulla strada macchine private», come da nota in data 17 marzo 2004 (vedi Lodo n. 121/10 pagg. 40/41).
Il giudizio davanti al TAR Lazio è in attesa di fissazione dell'udienza pubblica di discussione del merito.
Altra nota dolente del sistema «Calabria Sud», quale emerge dal lodo arbitrale, è costituito dalle discariche di servizio degli impianti che, in forza degli impegni contrattuali assunti, avrebbero dovuto essere dal commissario realizzate in zone sufficientemente prossime ai siti di produzione degli scarti, cioè, agli impianti di trattamento, onde rispettare il limite di spesa valutato dal concedente per la

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gestione dello smaltimento degli scarti di processo e che, viceversa, non sono state punto realizzate.
Dalla relazione del CTU risulta che, in alcuni casi, le discariche di servizio non sono state realizzate a causa della resistenza da parte delle comunità locali interessate, in altri casi, a causa del diniego dei comuni.
A titolo di mero esempio, si sottolinea nel lodo che, per la discarica da realizzare in località «Campo Calabro», il commissario delegato aveva approvato il progetto esecutivo della discarica presentato da TEC, ma successivamente la realizzazione dell'opera era stata sospesa a causa delle proteste delle comunità locali.
Analogamente, la prevista discarica in «comune di Rocca di Neto» non è stata realizzata a causa del cambiamento della Giunta comunale, che ha manifestato la propria indisponibilità ad ospitare la discarica di servizio, mentre per la discarica da realizzare a Crotone, il comune non ha dato riscontro circa la fattibilità della stessa.
Con specifico riferimento alle discariche, il collegio arbitrale nella decisione assunta pone in evidenza che, sin dal 1999, il commissario delegato aveva lo specifico compito di realizzare le discariche necessarie per fronteggiare l'emergenza, avvalendosi dei prefetti delle province (Cfr. O.M. 31.05.1999, n. 2984, articolo 2, comma 1.13).
Invero, nel 2005, il decreto legge 31 maggio 2005, n. 90, convertito nella legge 26 luglio 2005 n. 152, ha attribuito al commissario delegato i poteri già riconosciuti al commissario delegato per la Campania di cui all'articolo 1 dell'ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri 28 maggio 2005, n. 3397, secondo cui «il commissario delegato è autorizzato, ove ricorrano situazioni di inadempienza dei comuni in ordine alle doverose attività solutorie in favore dei soggetti affidatari del servizio, a disporre per la sostituzione delle amministrazioni resistenti».
Di nuovo, con ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri 24 aprile 2007, n. 3585, al commissario delegato è stato imposto di provvedere all'individuazione delle discariche di servizio per lo smaltimento degli scarti derivanti dalla lavorazione dei rifiuti.
In seguito alla nomina del penultimo commissario delegato - nella persona del prefetto Goffredo Sottile - avvenuta con ordinanza del presidente del Consiglio del 16.01.2009, n. 3731, all'articolo 4 comma 2, sono stati attribuiti al commissario ampi poteri per la realizzazione delle discariche di servizio.
In particolare, è stato previsto che «l'approvazione dei progetti da parte del commissario delegato sostituisce, ad ogni effetto, visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di competenza di organi statali, regionali, provinciali e comunali, costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico generale, nonché ai piani ed ai programmi di settore, e comporta l'apposizione del vincolo preordinato all'esproprio e comporta dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, in deroga all'articolo 98, comma 2, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, salva l'applicazione dell'articolo 11 del decreto del Presidente della Repubblica, n. 327 del 2001 e successive modifiche ed integrazioni, anche prima dell'espletamento delle procedure espropriative, che si svolgeranno con i termini di legge ridotti della metà».

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Nel caso di specie - si legge nel lodo - da una analisi delle ordinanze che definiscono l'estensione dei poteri del commissario delegato fino al 2009 risulta tuttavia chiara la sussistenza di un obbligo in capo a quest'ultimo di individuare e realizzare le discariche necessarie a superare lo stato emergenziale, mentre non si comprende se fosse attribuito al medesimo un potere diretto al superamento dello stato di «empasse» determinato dall'inerzia e/o dalla resistenza dei comuni interpellati ai fini della realizzazione delle discariche in questione.
Inoltre, nella convenzione, o meglio nel «disciplinare di gestione» allegato alla «convenzione», era stabilito (all'articolo 7) che il concedente avrebbe indicato al concessionario le discariche in cui collocare gli scarti di lavorazione non recuperabili.
Nel successivo «atto di sottomissione» veniva poi stabilito che «il concessionario e il concedente individueranno congiuntamente aree, sufficientemente prossime ai siti degli impianti, in cui localizzare le discariche al servizio degli impianti stessi, ...II concessionario provvederà a presentare al concedente i relativi progetti. Il concedente si impegna altresì, ove ne ricorrano le condizioni di legge, ad autorizzare la costruzione e gestione delle suddette discariche da parte del concessionario prioritariamente per gli usi connessi con l'esercizio .. degli impianti di cui trattasi...»
Ebbene, secondo il collegio arbitrale, mentre non sono state riscontrate inadempienze delle Parti nell'individuazione dei siti (che di fatto sono stati individuati, anche se, principalmente per problemi legati alle realtà locali, le discariche non sono state realizzate); viceversa, non si comprende con chiarezza - anche in conseguenza del mancato deposito da parte dell'Amministrazione di documentazione in tal senso - se la parte concedente sia stata adempiente al proprio obbligo di autorizzare la costruzione delle stesse, ovvero, se questa, avendo il compito di individuare e realizzare le discariche, fosse in grado di contrastare la volontà contraria dei comuni alla realizzazione delle suddette discariche e abbia effettivamente compiuto ogni attività in proprio potere per superare le criticità emerse.
Ciò premesso, il collegio arbitrale rileva che le discariche di servizio non sono state realizzate, con conseguente maggior onere da parte del concessionario.
Vi è di più, posto che il collegio addebita al commissario delegato non solo di non essere riuscito a costruire nuove discariche, ma anche di non aver messo in funzione le discariche esistenti, contravvenendo a una precisa disposizione contenuta nell'O.M. del 21 ottobre 1997 n. 2696 che, allo scopo di fronteggiare la situazione di emergenza determinatasi nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani nella regione Calabria, consentiva al commissario delegato di utilizzare alcune discariche pubbliche esistenti e in esercizio, previo adeguamento delle stesse nel rispetto delle vigenti disposizioni di legge.
Infine, viene sottolineato nel lodo arbitrale che la mancata realizzazione delle «discariche di servizio» nelle vicinanze degli impianti, e comunque, a una distanza non superiore a chilometri 30 ha provocato oneri non indifferenti per il concessionario (oneri che nel lodo vengono liquidati in circa dieci milioni di euro), posto che, in conseguenza degli inadempimenti del commissario, il concessionario

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del servizio è stato costretto a trasportare il materiale proveniente dagli impianti di trattamento di Rossano, Crotone e Siderno, rispettivamente, per circa 235 km, 179 km e 60 chilometri, al fine di raggiungere altre discariche.
In tale contesto si inseriscono le ulteriori problematiche legate: 1) al fermo totale di uno o più impianti, causato dalle rimostranze dei subfornitori di TEC, in conseguenza di mancati pagamenti di prestazioni rese, a loro volta, motivati dal concessionario con i mancati pagamenti da parte del concedente; 2) all'interruzione del servizio del vecchio impianto di Sambatello (quello preesistente alla convenzione, posto che quello di Sambatello-Pettogallico non è stato mai realizzato), determinato dall'eccessivo conferimento di rsu, rispetto alla capacità di trattamento di circa 3 mila tonnellate/mese, tant'è che il concedente aveva previsto la realizzazione di una seconda linea di selezione di rsu; 3) al blocco della sezione di raffinazione della fos (Frazione Organica Stabilizzata) degli impianti di Gioia Tauro e di Crotone, mentre gli impianti di Sambatello e di Rossano erano del tutto privi di linee di raffinazione della fos.
Passando all'esame dell'altro lodo (121/10), depositato in data 13 ottobre 2010 e concernente le riserve inerenti la costruzione degli impianti, le domande della TEC SpA - Termo Energia Calabria sono state accolte solo in parte e concernono le pretese di cui alle «riserve» n.ri 14, 50, 56, 71 e 76.
In particolare, per quanto riguarda la riserva n. 14, concernente i maggiori oneri del concessionario per la protrazione dei lavori in conseguenza dei comportamenti dilatori e dalle incertezze del concedente nella consegna dei vari cantieri, il collegio arbitrale ha determinato - nella media - un ritardo di giorni 587 e ha calcolato il danno subito dalla società concessionaria nella complessiva somma di euro 4.362.027,19, oltre rivalutazione e interessi.
Per quanto riguarda la riserva n. 50 concernente la mancata, rectius, i ritardi nella realizzazione dell'impianto di Sambatello, il collegio arbitrale ha individuato quattro periodi temporali posti a base del calcolo risarcitorio riportato nell'elaborato del CTU nominato: 1) dal 17 marzo 2004 al 20 luglio 2004 (giorni 125), periodo di sospensione dei lavori causato dai continui blocchi del cantiere da parte della popolazione locale, di cui si è già detto; 2) dal 20 luglio 2004 al 17 agosto 2005 (giorni 393), periodo di sospensione dei lavori per via ordinata dal decreto legge e dal R.U.P. fino alla data della legge regionale n. 13/2004; 3) dal 17 agosto 2005 al 14 luglio 2006 (giorni 331), periodo di sospensione dei lavori causato dalla suddetta legge regionale fino alla sentenza della Corte Costituzionale n. 284/2006; 4) periodo di sospensione dei lavori dal 14 luglio 2006 al 30 settembre 2009, data di conclusione dei lavori peritali (giorni 1.174), con prosieguo dello stato di sospensione dei lavori.
Quindi, il collegio arbitrale ha ritenuto l'illegittimità del primo periodo di sospensione, posto che il concessionario aveva tempestivamente e ripetutamente segnalato l'insorgenza degli avvenimenti impeditivi all'accesso al cantiere alle competenti autorità di polizia e all'ufficio del commissario delegato, nella persona del dottor Giuseppe Chiaravalloti, il quale - sottolinea la sentenza a pagina 257, così individuando precise responsabilità - «certamente, disponeva delle

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competenze e delle dotazioni necessarie a garantire che la prosecuzione delle opere avvenisse regolarmente e nel rispetto del programma prestabilito», né dopo la disposta sospensione si è «efficacemente adoperato al fine di giungere in tempi rapidi al superamento della problematica in discussione, circostanza che stride con lo stato di conclamata emergenza per il quale si è ritenuto necessario affidare gli ingenti lavori per cui è causa».
La sentenza (pagina 258) ritiene ugualmente illegittimo il secondo periodo di sospensione dei lavori indicato dal CTU, in quanto non risulta che il concedente si sia sollecitamente attivato per acquisire con la necessaria tempestività il parere di compatibilità ambientale, posto che l'ufficio del commissario delegato (dottor Chiaravalloti), nonostante che l'approvazione del relativo progetto fosse avvenuta in data 4.9.2003, ha trasmesso alla Commissione VIA gli atti relativi all'impianto di trattamento dei rifiuti di Sambatello solo in data 30.6.2004 e, cioè, circa dieci mesi dopo l'avvenuta approvazione.
Viceversa, la sentenza ritiene da ascriversi al c.d. factum principis, indipendente dalla volontà del committente, il terzo periodo di sospensione dei lavori, disposto dall'ufficio del commissario delegato, in esecuzione della legge regionale n. 13 del 17 agosto 2005, dichiarata incostituzionale con sentenza n. 284 del 3/14 luglio 2006, a seguito di ricorso tempestivamente presentato nel mese di ottobre 2008 dalla Presidenza del consiglio dei ministri.
Infine, la sentenza ritiene illegittimo il quarto periodo di sospensione, successivo alla pubblicazione della suddetta sentenza della Corte Costituzionale, posto che «la difesa della committente non ha fornito alcuna spiegazione che potessero indurre a superare le risultanze peritali in ordine alla "fondatezza" della riserva n. 50...».
Nella sostanza, va detto che i lavori dell'impianto di trattamento di Sambatello non sono stati più ripresi: di conseguenza, non di ritardo si tratta, bensì di inadempimento.
In conclusione, il collegio arbitrale ha calcolato nella complessiva somma di euro 9.591.136,08, oltre rivalutazione e interessi, il danno iscritto dalla società concessionaria nella riserva n. 50.
Il collegio arbitrale ha ritenuto fondata la riserva n. 56, apposta nel registro di contabilità, nei limiti della somma di euro 124 mila, relativa alle spese sostenute dall'impresa appaltatrice per il posizionamento di due centraline di monitoraggio mobili in prossimità dell'impianto di Gioia Tauro, in previsione del potenziamento del termovalorizzatore, a causa del ritardo del concedente nella messa a disposizione dei siti destinati all'installazione di due centraline fisse di analisi delle emissioni.
La riserva n. 71 riguarda i danni subiti dal concessionario per l'irregolare andamento dei lavori che ha caratterizzato l'esecuzione del potenziamento del termovalorizzatore di Gioia Tauro per cause non ascrivibili al concessionario.
Il collegio arbitrale, dopo aver ritenuto ascrivibili al c.d. factum principis, e non al concedente, i periodi di sospensione dei lavori conseguenti, rispettivamente, alle leggi regionali n. 13/2005 e n. 27/2007, pari a giorni 191, ha ritenuto ascrivibile al committente ritardi pari a giorni 983 e ha liquidato all'impresa attrice la complessiva somma di euro 8.281.933,22, oltre rivalutazione e interessi.

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La riserva n. 76, iscritta per la prima volta in occasione dell'emissione del 12o SAL per i lavori eseguiti a tutto il 27 settembre 2005, si riferisce all'erogazione del contributo pubblico a fondo perduto previsto nell'articolo 8 dell'«atto di sottomissione» del 31 ottobre 2003, che l'ufficio del commissario avrebbe dovuto erogare «pro quota», con riferimento agli investimenti, entro 30 giorni dall'entrata in funzione di ciascun impianto del sistema Calabria Sud e che, viceversa, non aveva erogato, adducendo che si dovesse tenere conto anche del potenziamento del termovalorizzatore di Gioia Tauro.
Il collegio arbitrale, considerato altresì che il successivo articolo 8 bis dell'anzidetto «atto di sottomissione» prevede la decorrenza degli interessi trenta giorni dopo l'entrata in gestione di ciascun impianto, ha ritenuto fondata la domanda proposta sul punto dalla committente, liquidando la complessiva somma di euro 7.655.864,30, oltre interessi.
L'esame delle motivazioni contenute in entrambi il lodi arbitrali attribuisce precise responsabilità gestionali a tutti i commissari delegati, che si sono succeduti nel tempo (dal dottor Giuseppe Chiaravalloti al dottor Goffredo Sottile) i quali tutti, per un verso, non sono riusciti a convincere le popolazioni locali e gli amministratori pubblici della bontà delle opere che andavano a eseguire e, per altro verso, non si sono avvalsi dei poteri conferiti dalla legge per il rispetto degli impegni contrattuali ritualmente assunti.
Le loro responsabilità assommano a quelle degli amministratori locali, a loro volta, del tutto incapaci di guidare i loro cittadini verso obiettivi di civiltà, per motivi oscuri.
In un quadro - assolutamente deficitario del sistema di trattamento e di smaltimento dei rifiuti solidi urbani - si inseriscono sia le sistemiche inefficienze delle amministrazioni locali, sia le plurime situazioni di abusivismo, che hanno sinergicamente generato il degrado ambientale dell'intera regione Calabria.
Come si è visto, il problema dei rifiuti in Calabria è stato affrontato a livello governativo, a partire dal 12 settembre 1997 in poi, quando, cioè, il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 1435200) ha dichiarato lo stato di emergenza e la successiva ordinanza presidenziale (ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri 21 ottobre 1997 n. 2696) ha nominato il «commissario delegato per il superamento della situazione di emergenza nel territorio della Calabria» e, pur tuttavia, nel corso di tanti anni, che hanno visto la proroga dello stato di emergenza, la situazione non è modificata.
Anzi, la presenza dell'ufficio del commissario, come si vedrà di seguito, ha funzionato da «alibi» per mantenere in piedi un sistema di localismi e di veti incrociati, che rappresentano il vero blocco al superamento dell'emergenza, nella quale si inseriscono fenomeni, che vanno dalla micro criminalità alla criminalità organizzata.
Quest'ultimo fenomeno si verifica, soprattutto, nella provincia di Reggio Calabria, che vede la presenza attiva della'ndrangheta.
Non a caso, il prefetto di Reggio Calabria, Francesco Musolino - nella relazione, con allegati (docc. 187/1 e 187/2), depositati nel corso della sua audizione del 1o dicembre 2009 - dopo aver citato l'ultimo «rapporto sullo stato dell'ambiente in Calabria», a cura

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della regione assessorato politiche dell'ambiente e dell'ARPACAL, pone in evidenza che «la cultura dell'illegalità in campo ambientale associata alla scarsa considerazione data sia dai cittadini, che dalle "istituzioni", al "bene ambiente" come "bene comune" da tutelare, se da un lato minacciano il patrimonio naturalistico del territorio, dall'altro lato minano direttamente la qualità della vita di ognuno, generando conflitti e diseconomie cui tutta la comunità deve fare fronte».
Quindi, la relazione del prefetto Musolino punta l'indice contro l'insufficiente azione dell'ufficio del commissario delegato per l'emergenza rifiuti, affermando che «Nonostante il territorio calabrese, ormai da diversi anni, sia stato commissariato al fine di fronteggiare la grave crisi ambientale data dall'emergenza "rifiuti" e "depurazione", i risultati finora ottenuti sono ben lungi dall'essere considerati sufficienti. Anche in questi comparti la cultura dell'illegalità ha fatto registrare gravi irregolarità che, oltre a compromettere ulteriormente la situazione ambientale già grave, hanno generato nell'opinione pubblica un'ulteriore "diffidenza" nei confronti dello Stato e una subcultura che vede nelle depredazione dei beni ambientali e nelle ecomafie una facile fonte di arricchimento».
V'è di più, alla luce delle conclusioni, del tutto negative, sulla gestione commissariale, quali rappresentate nella relazione del comando carabinieri per la tutela dell'ambiente - gruppo Napoli del 6 novembre 2009, trasmessa a questa Commissione (doc. n. 163/1), conclusioni che si ritiene opportuno riportare per intero, come di seguito, se non altro perché costituiscono la conferma di quanto è già emerso dai lodi arbitrali sopra citati: «Lo stato emergenziale nella regione Calabria, come peraltro accertato anche in altre regioni del Sud, invece di rappresentare una concreta risorsa per la collettività (ingenti risorse; poteri straordinari; celerità nelle procedure amministrative e tutti gli altri strumenti di cui disponeva la struttura commissariale), ha rappresentato un sistema di potere, da tutelare e prorogare ad ogni costo e per più tempo possibile, basato sugli appalti, sulle consulenze esterne e su tutti, quei meccanismi di potere che caratterizzano un istituto emergenziale che, in alcuni casi, ha creato più danni di quelli rinvenuti all'atto dell'insediamento o del subentro in luogo di alcune amministrazioni locali. Il problema dello smaltimento dei rsu in Calabria è stato fin qui caratterizzato anzitutto dall'intervento diretto dello Stato, attraverso l'istituto straordinario del commissariamento, determinato dalla dichiarata incapacità a livello regionale di risolvere autonomamente il problema. Commissariamento che aveva il mandato, entro limiti di tempo ragionevoli, di fronteggiare la fase dell'emergenza per riconsegnare poi la gestione ordinaria agli enti locali.
L'ufficio del commissario avrebbe perciò dovuto, e potuto, contribuire in maniera decisiva, con le facilitazioni amministrative previste dalla normativa, l'esistenza di una struttura dedicata e una disponibilità di risorse economiche assai rilevante, alla soluzione del problema dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani (così come a quello della depurazione delle acque e della bonifica dei siti inquinati "filoni" di intervento pure di sua competenza e ugualmente "in sofferenza").

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Sfortunatamente il lunghissimo periodo di commissariamento si è rivelato un "handicap" ulteriore.......
Tutto ciò si verifica in una regione le cui caratteristiche avrebbero preteso, più che permesso, un'impostazione tecnica nello smaltimento dei rifiuti totalmente differente.
C'è più di un motivo per ritenere, come anche la cronaca giudiziaria di questi anni dimostra chiaramente, che gli interessi politico-malavitosi non siano stati estranei a scelte che garantivano, evidentemente, la massimazione dei profitti.
Tale situazione appare ancora più sintomatica nel valutare le inadeguate risposte ottenute in alcuni casi dalle procure della Repubblica competenti per territorio le quali, a fronte di copiose e dettagliate informative per gravi reati ambientali, alcune delle quali con richieste di misure cautelari, reali e personali, non hanno adeguatamente valorizzato le complesse e articolate attività investigative, creando una pericolosa e generalizzata sensazione d'impunibilità nei pubblici funzionari compiacenti e nelle imprese private colluse, "avvertita" concretamente in occasione di alcune ispezioni e di acquisizione documentale presso alcuni uffici della pubblica amministrazione e presso aziende operatrici nel campo dei rifiuti».
Tali conclusioni trovano un'eco nelle dichiarazioni rese, nella seduta del 26 febbraio 2007, alla Commissione di Inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti della precedente legislatura, presieduta dal senatore Roberto Barbieri, dall'ex commissario delegato per l'emergenza ambientale nella regione Calabria, prefetto Antonio Ruggiero, che denunziò gravi carenze nelle modalità di funzionamento della struttura commissariale, quali da lui rilevate nel pur breve periodo nel quale ne ebbe la titolarità (16 novembre 2006-31 gennaio 2007).
Non sono diverse da quelle sopra rappresentate le conclusioni della verifica ispettiva svolta nel presso la struttura commissariale secondo semestre del 2006, su disposizione del sottosegretario di Stato alla Presidenza del consiglio dei ministri (doc. 619/6).
Invero, il dottor Michele Maggio, dirigente dei servizi ispettivi di finanza pubblica del dipartimento della ragioneria generale dello Stato del Ministero dell'Economia e delle Finanze, funzionario incaricato della verifica ispettiva dal sottosegretario di Stato alla Presidenza del consiglio dei ministri, ha rilevato che l'attività posta in essere nel tempo dall'ufficio del commissario delegato ha sofferto di qualche approssimazione in più settori.
In particolare, per quanto riguarda la gestione finanziaria, sono state riscontrate le seguenti carenze e/o anomalie e, cioè: 1) la mancata puntuale annotazione degli impegni assunti che, ancora al momento della verifica, non poneva l'ufficio accertatore in condizione di conoscere i complessivi debiti che erano stati assunti dalla gestione commissariale; 2) l'incertezza sulle somme da richiedere alla regione Calabria in ordine a talune opere programmate da detto ente, ma realizzate con i fondi accreditati all'ufficio del commissario; 3) l'inesistenza di un luogo idoneo alla conservazione del denaro anticipato all'economo.
Inoltre, per quanto concerne la gestione patrimoniale, è stata riscontrata: 1) la mancata compilazione di un registro inventario dei

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beni acquistati, 2) il deprezzamento consistente dei beni conferiti nelle società miste e la mancata redazione di un verbale relativo a detto conferimento.
Tutto ciò a fronte di un numero incredibile di ordinanze emesse dall'ufficio del commissario per l'emergenza rifiuti, volte a disciplinare l'attività del proprio ufficio, ordinanze che, alla fine della verifica effettuata - come sottolinea il dottor Maggio - ammontavano a oltre 4 mila 800 (doc. 619/6, pagina 59).
A tale proposito, si pone il problema di quale sia stata l'effettiva «valenza» di un così elevato numero di ordinanze in un contesto non solo degradato sul piano della gestione finanziaria e patrimoniale dell'ufficio del commissario delegato, ma che per di più ha visto non realizzate opere importanti, quanto necessarie, per il superamento dell'emergenza rifiuti nella regione Calabria.
Infine, questa Commissione ha acquisito la relazione della Corte dei conti - sezione regionale di controllo per la Calabria, approvata nell'adunanza del 21 dicembre 2009 (doc. 350/2).
Nell'occasione, la Corte dei conti ha provveduto ad acquisire presso gli uffici del commissario alcuni fondamentali dati di bilancio e rendicontazione riferiti all'ultimo triennio.
Ebbene, i costi della struttura commissariale sono riportati nella seguente tabella:

VOCI DI SPESA 2006 2007 2008 al 31/08/2009
COMPENSI AL COMMISSARIO e Vice VvSUoVICE€ 230.472,65€ 203.427,34€ 238.670,53€ 116.416,64
INDENNITÀ Al PREFETTI€ 0,00€ 0,00€ 0,00€ 0,00
COMPENSI AL PERSONALE AMMINISTRATIVO€ 1.737.065,74€ 3.444.861,27€ 1.330.615,46€ 1.649.387,59
FUNZIONAMENTO STRUTTURA€ 257.650,16€ 289.511,65€ 168.543.71€ 152.424,49
COMPENSI ALLA COMMISSIONE SCIENTIFICA€ 176.326,95€ 156.171,86€ 150.971.04€ 0,00
COMPENSI PER COLLABORAZIONI€ 594.311,65€ 979.316,79€ 717.376,47€ 445.237,65
NOMINA LEGALI LIBERO FORO€ 0,00€ 0,00€ 0,00€ 0,00
Totale€ 2.995.827,15€ 5.873.288,91€ 2.606.177,21€ 2.363.466,37

La sezione regionale di controllo della Corte dei conti, nel commentare i costi della struttura commissariale - costi che, con riferimento al periodo compreso tra il mese di gennaio 2006 e il mese di agosto 2009, sono stati di euro 13.838.659,64 - sottolinea sulla base dei dati di bilancio sopra esposti: 1) che rimane elevata la voce «compensi al personale amministrativo» che, nell'anno 2007, ha raggiunto la rilevante somma di 3,44 milioni di euro; 2) che sono elevati i «compensi per collaborazioni», tali da raggiungere nell'anno 2007 il picco di 0,979 milioni di euro e, nell'anno 2008, la ragguardevole somma di 0,717 milioni di euro.
Altrettanto interessanti sono i dati illustrati nella seguente tabella che fotografano l'andamento del «bilancio» della struttura (che -


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come è noto - opera in deroga dalle disposizioni generali di contabilità pubblica statale):

ANNI ENTRATE USCITE SPESA PER INTERVENTI
(SUL TOTALE DELLA SPESA IN VALORI ASSOLUTI)
SPESA PER LA GESTIONE DI DISCARICHE IMPIANTI E STAZIONI DI TRASFERENZA
2006    € 83.670.803,16    € 59.583.286.83 € 14.604.158,84€ 35.668.270,07
2007€ 69.516.310,98 € 71.893.130,10 € 19.337.076,64 € 45.471.716,52
2008€ 92.432.599,29 € 83.271.897,59 € 24.801.677,03 € 49.037.285,36
1-1-2009
al 31-8-2009
€ 37.862.348,26 € 37.275.925,29 € 4.681.623,14€ 29.144.401,91

Complessivamente, nei dieci anni di commissariamento la gestione delle discariche ha comportato i seguenti esborsi di risorse pubbliche, indicati per ciascuna annualità, a carico del commissario straordinario:

ANNI SPESA PER LA GESTIONE
DI DISCARICHE, IMPIANTI
E STAZIONI DI TRASFERENZA
1998€ 200.378,56       
1999€ 5.084.031,97
2000€ 9.755.418,24
2001€ 13.432.941,96
2002€ 16.142.247,17
2003€ 16.777.945,07
2004€ 10.281.197,65
2005€ 18.148.463,05
2006€ 35.668.270,07
2007€ 45.471,716,52
2008€ 49.037.285,36
1-1/31-8-2009€ 29.144.401,91

Nel decennio, il totale delle voci di spesa sopra indicate è stato pari a euro 249.144.297,53, con un crescendo costante. Se si volessero fare dei rapidi confronti per ogni cittadino calabrese sono stati spesi ben 123,89 euro solo per la gestione delle discariche e delle stazioni di trasferenza da parte del commissario, cui vanno ad aggiungersi le somme pagate a titolo di tariffa dai comuni; il tutto per un servizio non reso ovvero reso male.
Peraltro, allo scopo di fornire un quadro completo della forte criticità anche economica della gestione di tutti gli impianti, va posto in evidenza che, oltre al contenzioso con la società TEC Veolia, di cui si è detto, vi è un altro contenzioso tra i Comuni calabresi e l'Ufficio del Commissario Delegato.
Invero, il conferimento in impianto o in discarica comporta il pagamento di apposita tariffa da parte dei comuni conferitori e, tuttavia, sono pochissimi gli enti che liquidano regolarmente quanto dovuto, mentre la quasi totalità manifesta difficoltà con la conseguenza di non consentire alla struttura commissariale di saldare i debiti o di farlo con estrema difficoltà.


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In tale contesto - riferisce il dottor Goffredo Sottile nella relazione in data 11 dicembre 2009 (doc. 584/1) - i crediti che, alla data del 31 dicembre 2008, l'ufficio del commissario vantava nei confronti dei comuni ammontavano a circa euro 143 milioni 874 mila.
Successivamente a tale data, i crediti originario si erano ridotti a circa euro 103 milioni 971 mila posto che erano stati incassati circa euro 39 milioni, grazie all'aiuto di tre strumenti e, cioè, l'iscrizione a ruolo, attraverso Equitalia, la nomina di commissari ad acta e i protocolli di intesa per la trattenuta diretta sui trasferimenti erariali da parte dello Stato nei confronti dei comuni.
E, tuttavia, va rilevato che nel corso del successivo anno 2009 la situazione non è migliorata, posto che, a fronte di crediti verso i vari comuni calabresi, pari a circa 60 milioni di euro, è stata incassata la modesta somma di 5 mila euro (vedi dichiarazioni rese dal dottor Goffredo Sottile, nel corso della sua audizione in data 1o dicembre 2009).
Ancora, da una nota riassuntiva del mese di aprile 2010 (doc. 584/2), inviata dal dottor Giuseppe Scopelliti - all'epoca, sindaco di Reggio Calabria; quindi, a partire dalla fine luglio 2010, in quanto Presidente della Regione, nominato Commissario Delegato per l'emergenza rifiuti - risulta che le somme da riscuotere, alla data del 31 dicembre 2009, sono pari a circa euro 149 milioni, così ripartite: Catanzaro: euro 20 mila 690; Cosenza: euro 55 mila 535; Crotone: euro 10 mila 850; Reggio Calabria euro 49 mila 960; Vibo Valentia euro 11 mila 965. Con la precisazione che, nel corso dell'annualità 2009, per effetto delle suddette attività di recupero, le entrate per la tariffa in questione erano incrementate del 22 per cento circa, rispetto alla precedente annualità (entrate per tariffa rsu anno 2009 euro 49.986.916,88; entrate per tariffa rsu anno 2008 euro 41.058.625,59).
In conclusione, i dati complessivi parlano chiaro, posto che nell'anno 2009 vi è stato un incremento dei crediti non riscossi della struttura commissariale verso i comuni, che sono passati dalla somma sopra indicata di euro 143 milioni 874 mila, alla data del 31 dicembre 2008, a quella di euro 149 milioni, alla data del 31 dicembre 2009.
Si tratta - come si è detto - delle tariffe dovute dai comuni, in quanto l'ufficio del commissario si occupa del flusso giornaliero dei rifiuti verso gli impianti di separazione e trattamento e del successivo trasferimento degli scarti verso le «discariche di servizio» ovvero, in assenza di trattamento, verso le discariche per il «tal quale».

III - L'emergenza rifiuti nella regione Calabria e il sistema di raccolta differenziata

Come si è detto, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, in data 12 settembre 1997, è stato dichiarato lo stato di emergenza della regione Calabria, in relazione alla situazione di crisi nel settore dello smaltimento dei rifiuti urbani, non gestibile con poteri di ordinaria amministrazione, ed è stato istituito l'ufficio del commissario delegato per l'emergenza nel settore dello smaltimento dei rsu.


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Ai sensi della legge 225/92, alcune competenze e funzioni degli enti territoriali (comuni, province, assessorato regionale all'ambiente) sono state temporaneamente - per la dichiarata emergenza - «commissariate» e, di conseguenza, tutte le risorse sono state direttamente canalizzate nella contabilità speciale, intestata all'ufficio del commissario e gestita dal funzionario delegato.
In precedenza, con la legge regionale no 10 del 03 ottobre 1997, contenente norme in materia di valorizzazione e razionale utilizzazione delle risorse idriche e di tutela delle acque dall'inquinamento, erano stati determinati gli ambiti territoriali ottimali (ATO) per la gestione del servizio idrico integrato e il territorio regionale della Calabria era stato suddiviso in 5 ambiti Territoriali Ottimali (ATO), coincidenti con i 5 territori provinciali:
A) ATO n. 1 provincia di Cosenza;
B) ATO n. 2 provincia di Catanzaro;
C) ATO n. 3 provincia di Crotone;
D) ATO n. 4 provincia di Vibo Valentia;
E) ATO n. 5 provincia di Reggio Calabria.

Il commissario delegato per l'emergenza rifiuti - in linea con le disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 22/1997 e in attuazione delle disposizioni contenute nell'ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri 21 ottobre 1997 n. 2984 e nell'ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri 31 maggio 1999 n. 2984, in conformità con la citata legge regionale - ha predisposto numerosi piani e, in particolare: 1) il «piano degli interventi di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani ed assimilabili», pubblicato sul B.U.R.C. n. 71 del 21 luglio 1998, adottato nel contesto dell'emergenza rsu; 2) il «piano generale della raccolta differenziata», pubblicato sul B.U.R.C. n. 30 del 26 marzo 1999; 3) il «piano rifiuti», approvato con ordinanza commissariale n. 2065 del 30 ottobre 2002, pubblicato sul B.U.R.C. n. 22, supplemento ordinario n. 2 del 30 novembre 2002; 4) il «piano rifiuti» approvato con ordinanza commissariale n. 6294 del 30 ottobre 2007, pubblicato sul B.U.R.C. del 14 novembre 207, parte II, supplemento straordinario n. 2 al n.20 del 30 ottobre 2007, tutti volti a superare la situazione di emergenza.
Ad oggi, la normativa di riferimento a livello nazionale in materia di rifiuti è rappresentata dal decreto legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 e dalla direttiva europea n. 2008/98/CE del 19 novembre 2008, che perseguono la linea già definita dal «decreto Ronchi» (decreto legislativo n. 22/1997), ovvero la priorità della prevenzione e della riduzione della produzione, nonché della pericolosità dei rifiuti, a cui seguono solo successivamente il recupero (di materia e di energia) e, quindi, quale fase residuale dell'intera gestione, lo smaltimento (messa in discarica ed incenerimento).
Ritornando al caso di specie, va rilevato che nei «piani rifiuti», predisposti dal commissario delegato, il territorio della regione Calabria - come si è visto - è stato suddiviso nei cinque ambiti


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territoriali ottimali anzidetti, coincidenti con il territorio di ciascuna provincia.
Inoltre, al fine di predisporre un sistema organizzativo comune relativo alla raccolta e al trasporto dei rifiuti, il territorio di ciascun ATO è stato suddiviso in sub-ambiti che ne costituiscono la parte funzionale, chiamati «aree di raccolta», il cui governo unitario è assicurato dalle c.d. società miste.
Tali società fungono, quindi, da soggetti attuatori, con il compito di aggregare i comuni ricadenti nel proprio sotto-ambito, garantendo unitarietà di gestione e messa a disposizione di risorse umane ed economiche necessarie alla corretta implementazione del piano.
Ad esse, inoltre, è stato assegnato il servizio di raccolta differenziata, all'interno del sub-ambito di competenza e, per tale scopo, è stata loro trasferita da parte dell'ufficio del commissario, pro-quota, parte delle attrezzature e dei mezzi necessari allo svolgimento dell'attività di raccolta.
Come si è rilevato, gli ATO sono stati considerati funzionali all'avvio della raccolta differenziata, posto che nell'ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri del 21 ottobre 1997 n. 2696 è stabilito che «Ai fini del superamento dell'emergenza il commissario delegato dispone di una serie di strumenti specifici relativi allo smaltimento degli imballaggi con precisi obblighi da porre in capo al CONAI.
Nonostante tali precise e dettagliate disposizioni, negli anni successivi nulla è accaduto, dal momento che non hanno trovato attuazione né il "piano rifiuti", predisposto dal commissario delegato nel 1998, né quello predisposto nel 1999, entrambi in esecuzione dell'ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri del 21 ottobre 1997 n. 2696 sopra citato.
Del resto, il successivo "piano rifiuti" del 2002 si limita a riportare le medesime linee di programma, già contenute nei precedenti "piani rifiuti", quasi che il tempo non fosse mai decorso, posto che in esso si dice che: "II piano intende sviluppare azioni congiunte tali da portare nell'arco del prossimo triennio ad un'incidenza pari ad almeno il 35 per cento in peso sul flusso complessivo dei rifiuti, come previsto dall'ordinanza n. 2696 dei 21 ottobre 1997 (commissariamento della regione Calabria per affrontare l'emergenza rifiuti)" e, ancora, "data l'esiguità delle risorse economiche messe a disposizione, si è pensato, almeno nella prima fase, di progettare la raccolta differenziata dei rsu a livello esecutivo nei comuni o nelle aree della Calabria con popolazione superiore ai 30 mila abitanti ed a livello di massima negli altri comuni. Gli obiettivi quantitativi sono indicati nelle tabelle di cui all'allegato 2".
Sempre in materia di raccolta differenziata si prevede il seguente quadro economico (valori in miliardi di lire):
"Il costo complessivamente stimato a carico del Governo centrale o dei fondi del commissario per gli interventi di promozione e attivazione della raccolta differenziata nei cinque ATO è il seguente:

Investimenti sulla raccolta10 mld
Campagna promozionale3 mld
Stazioni di trasferimento5 mld
Linee di Valorizz. raccolta differenziata       18.5 mld
TOTALE36.5 mld

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A questo dovrà essere aggiunto il costo della manodopera, da finanziarsi, almeno parzialmente con i progetti di LSU che saranno immediatamente attivati dall'ufficio del commissario"».
A conferma di quanto sopra rilevato e posto in evidenza, nella relazione sulla gestione dei rifiuti della Corte dei conti - sezione regionale di controllo per la Calabria, approvata nell'adunanza del 21 dicembre 2009, (doc. 350/2, pagina 153) si sottolinea che: «In Calabria il piano rifiuti del 2002 considerava a quella data la situazione della raccolta differenziata pari allo zero per cento, considerando quell'anno come l'"anno zero" e indicando un periodo di 6-12 mesi durante i quali - alla stregua dell'anzidetto piano del 2002 - si prevede di pervenire all'attivazione pressoché immediata della linea selezione S/U e produzione compost dell'impianto di Lamezia Terme ed al completamento ed attivazione entro sei mesi degli impianti tecnologici di Rossano e Reggio Calabria (Sambatello)».
Dunque, la prima conclusione è che nel periodo compreso tra il 1997 - data che segna l'inizio dello stato di emergenza - e l'anno 2002 nulla è stato realizzato, nonostante: A) le precise disposizioni contenute nell'ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri 21 ottobre 1997 n. 2984 e nell'ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri 31 maggio 1999 n. 2984; B) i cosiddetti «piani rifiuti» predisposti dall'ufficio del commissario delegato; C) i costi della struttura commissariale e gli impegni di spesa dalla stessa assunti.
Passando all'esame del «piano rifiuti» del 2002, lo stesso risulta articolato in tre fasi.
La prima fase, di cui si è sopra accennato, si sarebbe dovuta completare alla fine del 2003 (attivazione immediata della linea selezione S/U (solido/umido) e produzione «compost» dell'impianto di Lamezia Terme completamento ed attivazione entro sei mesi degli impianti tecnologici di Rossano e Sambatello Pettogallico).
Nella seconda fase, denominata «situazione intermedia», si prevedeva di giungere a una raccolta differenziata media del 10 per cento, ritenendo attivi gli impianti tecnologici di Catanzaro, Lamezia Terme, Reggio Calabria, Rossano e Rende.
In questa fase avrebbero dovuto essere portati a regime gli impianti esistenti e portati in fase di ultimazione sia gli impianti di selezione S/U, sia quelli di valorizzazione della raccolta differenziata, questi ultimi in misura pari alle necessità derivanti dalla raccolta spinta al 10 per cento del rifiuto globale. Tutto ciò sarebbe dovuto avvenire entro la fine del 2004.
La terza fase, che si sarebbe dovuta completare alla fine del 2005, vedeva una raccolta differenziata media regionale al 35 per cento, e l'attivazione di tutti gli impianti tecnologici necessari a coprire il fabbisogno impiantistico.
Peraltro, il «piano rifiuti» del commissario delegato, versione 2002, scende nei dettagli della raccolta differenziata e, dopo aver


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ravvisato sistema più idoneo nella «raccolta porta a porta», individua centri, percentuali di raccolta, a seconda del materiale (carta e cartone, vetro, plastica, metalli, organico), punti di selezione, stoccaggio e valorizzazione (Reggio Calabria, Settimo di Rende, Catanzaro, Crotone, Lamezia Terme, Siderno, Rossano, Gioia Tauro, Castrovillari).
Vengono poi previsti interventi in tutti gli ATO, quali la costruzione di un nuovo impianto tecnologico in Castrovillari, Crotone, nel comprensorio di Paola, Siderno-Locri, Gioia Tauro, nonché altri interventi per un importo complessivo di 53 miliardi di lire, a carico dei fondi del commissario delegato nelle due fasi sopra enunciate, così riepilogato (paragrafi 3a e 3b):

a) Interventi immediati
- Investimenti per la raccolta differenziata13 mld
- Valorizzazione per la raccolta differenziata18,5 mld
- Stazioni di trasferimento 5 mld
- Primi interventi su impianti esistenti        16,5 mld
TOTALE 53 mld

Le previsioni di costo sopra esposte tengono già conto di ulteriori stanziamenti regionali pari a circa 3,5 miliardi e del finanziamento, attraverso progetti di LSU del costo della manodopera per l'attivazione del sistema nei primi due anni.
Ulteriori lire 340 miliardi 750 milioni avrebbero dovuto essere spesi (c.d. interventi di terza fase) per la valorizzazione della raccolta differenziata, la costruzione di nuove stazioni di trasferimento ed il potenziamento di impianti (dichiarati) già esistenti (pagina 20027 del BUR).
Nel piano viene ipotizzato anche un dimensionamento della tariffa relativa alle discariche rsu.
I tempi di realizzazione del programma vengono indicati in modo preciso e vanno dai novanta giorni per l'inizio dei lavori urgenti fino ai 400/750 giorni per «esecuzione interventi e lavori a regime».
Tuttavia, a dispetto dei programmi, nulla di tutto ciò è stato realizzato.
Invero, la Corte dei conti rileva (doc. 350/2, pagg. 156, 157 della relazione approvata) che: «Come noto non solo i tempi di realizzazione delle opere, ma anche i costi sono lievitati significativamente nel corso degli anni, a fronte di opere che non sono mai messe a gara o cantierate e al mantenersi di percentuali di raccolta differenziata assolutamente irrisorie (possono al riguardo confrontarsi le singole tabelle relative ai 50 comuni campionati da questa Corte dei conti, nella parte speciale della presente relazione)».
Secondo la Corte dei conti, i risultati raggiunti rispetto a tale piano possono così sintetizzarsi:
1) rispetto alla tempistica nessun termine tra tutti quelli appena sopra indicati è stato rispettato a tutto il 2007;


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2) dei 5 impianti tecnologici previsti (Castrovillari, Crotone, nel comprensorio di Paola, Siderno-Locri, Gioia Tauro) non vi è stata alcuna realizzazione. I relativi fondi sembrerebbero comunque essere stati spesi, laddove sarebbe opportuno procedere all'analisi dettagliata delle relative contabilità di dettaglio.
In realtà, sul punto, va osservato che - come emerge dal lodo arbitrale depositato in data 26 luglio 2010, di cui si è detto (doc. 585/1) - dei cinque impianti di trattamento previsti sono stati realizzati - sia pure con notevoli ritardi - gli impianti di Rossano, Gioia Tauro, Crotone e Siderno; mentre non è stato realizzato l'impianto di Sambatello-Pettogallico né sono state realizzate le previste discariche di servizio e questo rappresenta il punto di criticità dell'intero sistema di gestione dei rifiuti in Calabria;
3) l'ammodernamento degli impianti esistenti, eccezion fatta per quello di Alli (Catanzaro) - che, per inciso, non potrebbe essere definito impianto tecnologico strictu sensu e secondo la definizione dello stesso piano regionale - non ha comportato alcun incremento della raccolta differenziata e tantomeno del riciclaggio;
4) il termovalorizzatore di Rossano non è mai stato nemmeno progettato, mentre il raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro è stato oggetto di leggi regionali impugnate innanzi alla Corte costituzionale dal Governo (allo stato, come si è già rilevato, dopo la declaratoria di incostituzionalità delle suddette leggi regionali, le opere per il raddoppio del termovalorizzatore sono riprese e l'ultimazione dei lavori è prevista per l'anno 2012);
5) la raccolta porta a porta stenta, ancora oggi, ad avviarsi, nonostante una corposa iniezione di risorse finanziarie comunitarie messa in campo dalla regione Calabria, che vanno ad aggiungersi a quelle di pertinenza del commissario ed alle altre regionali che negli anni sono state spese.

Nel corso del 2007, di fronte al sostanziale fallimento degli obiettivi indicati nel piano del 2002, si è allora ricorsi alla rimodulazione del piano, sostanzialmente, giungendo alla sua riscrittura.
Il nuovo piano regionale, pubblicato sul BUR del 14 novembre 2007, parte II, Supplemento straordinario n. 2 al n. 20 del 31 ottobre 2007, prevede addirittura un obiettivo di raccolta differenziata al 65 per cento entro la fine del 2012, pur riconoscendo espressamente che «lo scenario di raccolta differenziata al 65 per cento entro l'anno 2012, previsto dal decreto legislativo n. 152 del 2006 e riportato integralmente nel presente piano, infatti, è non soltanto ambizioso, ma anche di particolare impegno per i tutti i soggetti coinvolti, in quanto il dato di raccolta differenziata attualmente raggiunto è di gran lunga inferiore sia alle previsioni del previgente piano gestione rifiuti regionale, sia della norma cui lo stesso sottendeva».
Il piano del 2007 ripropone gran parte delle scelte del vecchio piano del 2002.
Tuttavia, la Corte dei conti valuta del tutto incongrui i presupposti relativi alla raccolta differenziata, indicati dal commissario delegato nel «piano rifiuti» del 2007 nella misura del 18 per cento (a fronte


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del 40 per cento in discarica come rsu tal quali e del 42 per cento in impianti di trattamento rsu). Le valutazioni della Corte dei conti poggiano sulle verifiche effettuate in cinquanta comuni della regione, che danno conto di una raccolta differenziata pressoché inesistente sul 90 per cento del territorio regionale, nonché del mancato funzionamento degli ATO, che «non hanno mai iniziato ad operare, come puntualmente non hanno mancato di far rilevare le province» (vedi doc. 350/2 pagina 22).
Del resto, i dati indicati nel «piano rifiuti» del 2007 sono contraddetti da quelli forniti a questa Commissione dallo stesso commissario delegato, nella specie il dottor Sottile il quale, nella relazione depositata (doc. 177/2), ha indicato per il successivo anno 2008 la raccolta differenziata nella minore misura del 12 per cento (a fronte del 34 per cento in discarica come rsu tal quali e del 54 per cento in impianti di trattamento rsu).
Infine, a conferma dell'inattendibilità dei dati ufficiali, aggiungasi la circostanza che nel lodo arbitrale depositato in data 26 luglio 2010 sono state riportate le conclusioni del CTU nominato il quale, con riferimento al «Sistema Calabria Sud», a seguito degli accertamenti effettuati, ha indicato nella misura del 4,2 per cento il dato medio della raccolta differenziata riferita agli anni 2005, 2006, 2007 e 2008 e, come si è detto, ha ritenuto l'ufficio del commissario delegato inadempiente rispetto agli impegni assunti con la concessionaria TEC SpA, a causa delle minori di raccolta differenziata, calcolate in complessive tonnellate 239.859, con minori ricavi per la TEC SpA nella misura di euro 1.258.613,65 e maggiori oneri di smaltimento dell'indifferenziato, pari a euro 5.089.544,53.
Così delineato il quadro d'insieme, occorre, a questo punto, sottolineare alcuni passaggi essenziali dei vari «piano rifiuti» predisposti dal commissario delegato.
Dunque - come si è sopra osservato - punto di partenza è stato il piano regionale dei rifiuti, tuttora in vigore, adottato nel 1998 dal commissario delegato per l'emergenza rifiuti della Calabria (piano via, via aggiornato negli anni 1999, 2002 e 2007), che - in linea con quanto previsto nell'articolo 23 del decreto legislativo n. 22 del 1997 (c.d. decreto Ronchi), avente ad oggetto il cosiddetto «Sistema integrato di smaltimento dei rifiuti» - ha istituito gli Ambiti Territoriali Ottimali (ATO), facendoli coincidere con il territorio provinciale, mentre momento centrale del piano di emergenza per lo smaltimento dei rsu, predisposto dal commissario per l'emergenza rifiuti, è stato quello di organizzare un sistema di raccolta differenziata su tutto il territorio della regione.
Quindi, in forza dell'ordinanza del commissario delegato per l'emergenza rifiuti n. 1464/01, nel mese di agosto del 2000, sono state costituite società miste, a prevalente capitale pubblico, per la gestione del servizio di raccolta differenziata.
La chiave di volta di tutta l'operazione era rappresentata dall'avvio della raccolta differenziata, ragione per cui l'ufficio del commissario ha provveduto a costituire 14 società miste pubblico/privato, una per ciascun sottoambito territoriale, e a svolgere le procedure relative alla gara per la scelta del socio privato e per l'affidamento del servizio.

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In tale ottica, ogni società mista è stata costituita da un 51 per cento di capitale pubblico (conferito sotto forma di attrezzature e veicoli per la raccolta dei rifiuti) e dal residuo 49 per cento di capitale privato.
La stessa struttura commissariale ha provveduto a completare l'iter per la costituzione delle 14 società miste, affidando il servizio e trasferendo loro le competenze per la raccolta differenziata per ciascuno dei sottoambiti territoriali.
È stato previsto inoltre il trasferimento, da parte dei singoli comuni, alle predette società miste anche della gestione del servizio di raccolta indifferenziata dei rifiuti solidi urbani, già gestito direttamente dai comuni stessi o da altre società private in concessione, sulla base del presupposto - che sembrava del tutto ovvio - che il servizio di raccolta differenziata avrebbe assorbito quello della raccolta indifferenziata. Purtroppo, ciò non è avvenuto, come si dirà di seguito, quando si passerà all'esame delle problematiche relative alla raccolta dei rifiuti.
È stata l'ennesima occasione mancata, dal momento che, se tale programma fosse stato attuato, previo svolgimento di regolare gara - soprattutto nei comuni capoluogo delle province calabresi - non solo si sarebbero evitate sovrapposizioni di competenze tra vecchie e nuove società deputate alla raccolta dei rifiuti, ma vi sarebbe stato un preciso ritorno positivo sia sotto l'aspetto funzionale che sotto l'aspetto economico, con indubbio vantaggio sulla qualità del servizio reso alla cittadinanza.
Proseguendo nella descrizione delle iniziative del commissario delegato per l'emergenza rifiuti, va detto che, in effetti, sono state espletate tutte le gare di appalto per l'aggiudicazione del 49 per cento delle società miste (pari alla quota privata di ciascuna società mista) alle ditte risultate vincitrici e sono stati trasferiti ai comuni le quote pubbliche del 51 per cento delle stesse società, consistenti in 80 miliardi di lire di forniture in attrezzature e mezzi di trasporto, peraltro, già concessi in comodato d'uso alle ditte private per l'avvio del servizio di raccolta.
Le gare sono state indette con la collaborazione di notai che hanno proceduto al sorteggio delle ditte dall'elenco appositamente predisposto dalla struttura commissariale e dalle prefetture che hanno presieduto la fase di aggiudicazione. Le gare sono state inoltre espletate con licitazione privata semplificata, procedura che offre valida garanzia di legalità per l'aggiudicazione e tempi rapidi per l'affidamento del servizio (4).
In realtà, le cose sono andate un po' diversamente, posto che nella segnalazione dell'autorità garante della concorrenza e del mercato del 16 luglio 2008, riportata nella più volte citata relazione della Corte dei conti (doc. 352/2 pagina 53), si legge testualmente: «Al riguardo, va considerato che le gare esperite in relazione all'avvio del sistema incentrato sulla gestione dei servizi affidata alle società hanno avuto per oggetto la sola selezione di imprese locali da far partecipare in

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misura limitata al capitale sociale delle stesse società, mentre il socio privato di maggior rilievo - ovvero l'impresa che, secondo il modello tipico del cosiddetto partenariato pubblico-privato, avrebbe dovuto apportare specifiche capacità tecnico-operative - è stato scelto dal commissario, al tempo competente, entro un novero di imprese multiservizi di primaria grandezza, senza il ricorso ad alcuna gara a evidenza pubblica. Lo stesso commissario, attualmente in carica, ha riconosciuto come quanto avvenuto - e più in generale l'intero sistema di privativa posto in essere nella regione - sia in deroga alla normativa vigente a livello comunitario e nazionale. A ciò va aggiunto come la gestione in concreto dei servizi ha dimostrato elementi di criticità e gravi inefficienze, tant'è che, oltre all'esistenza di un ampio contenzioso in materia, risulta sia già stato dichiarato lo stato di fallimento per alcune società».
In conclusione, sul punto, la gara è stata svolta a metà, e cioè solo per selezionare imprese private locali, mentre la scelta più importante, quella cioè del socio «industriale», è avvenuta ad opera del commissario delegato, senza gara alcuna.
A questo punto, va detto subito che, nonostante le copiose risorse umane e finanziarie impiegate dall'ufficio del commissario delegato, la raccolta differenziata non è decollata, per le ragioni che saranno di seguito esposte, causando il rovinoso fallimento dell'intero sistema di raccolta dei rsu.
Sul punto è sufficiente considerare che, in funzione della raccolta differenziata, sono stati predisposti ben otto impianti di compostaggio da matrici organiche selezionate, destinati a lavorare la parte umida dei rifiuti urbani per la produzione di «compost di qualità», cioè, di fertilizzante per usi agricoli.
Tuttavia ad oggi, difettando la raccolta differenziata, tali impianti vengono complessivamente utilizzati solo nella misura del 10 per cento della loro capacità produttiva (5), posto che - come si è già osservato - a fronte di una capacità complessiva di trattamento, pari a 413 mila tonnellate/anno, nell'anno 2008, sono state conferite solo 43 mila 800 tonnellate di «frazioni organiche selezionate» (6).
Come si è visto, il trattamento meccanico-biologico dei rifiuti solidi urbani - che rappresenta la fase successiva a quella della raccolta - attualmente risulta affidato a sette impianti situati, rispettivamente, a Catanzaro, Lamezia Terme, Reggio Calabria, Siderno, Rossano, Gioia Tauro e Crotone, mentre l'ATO di Cosenza è del tutto sprovvisto di impianti di trattamento dei rifiuti.
Accanto agli impianti di trattamento meccanico-biologico vi sono undici discariche controllate: sei in provincia di Cosenza, due in provincia di Catanzaro, due in provincia di Reggio Calabria, una in provincia di Crotone e nessuna in provincia di Vibo Valentia.
Tali discariche sono del tutto insufficienti alle esigenze, tanto più alla luce del fatto che nelle cosiddette «discariche di servizio», destinate a ricevere i rifiuti e fos dopo il loro trattamento, finisce anche il tal quale, mancando altre discariche.

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Come si è detto, nel corso di tutta la gestione commissariale, sono stati realizzati solo gli impianti di trattamento di Catanzaro, con le annesse «discariche di servizio», ma non nuove discariche controllate, né discariche di servizio per gli impianti di trattamento.
Secondo il piano del commissario delegato per l'emergenza rifiuti, la fase finale dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani, dopo il loro trattamento meccanico-biologico, è stata configurata nell'incenerimento del cdr, costituito dalla parte secca dei rifiuti finemente triturata.
A tale proposito, al fine - eufemistico - «di ottimizzare il rapporto costi-benefici e di minimizzare i costi di gestione», secondo le parole del commissario per l'emergenza rifiuti, era stata programmata la realizzazione di due impianti di termovalorizzazione o incenerimento, dimensionati su scala regionale e, rispettivamente, dislocati nei due poli estremi della Calabria: uno nella parte settentrionale e, cioè, a Bisignano (CS), inserito nel sistema «Calabria Nord», l'altro a Gioia Tauro, inserito nel sistema «Calabria Sud».
Tuttavia, rispetto al piano originario, che prevedeva la «delocalizzazione» degli impianti, è stato realizzato solo l'inceneritore di Gioia Tauro. L'inceneritore di Bisignano non è stato realizzato, nonostante il regolare espletamento della relativa gara di appalto, a causa dell'opposizione della popolazione locale.
Attualmente, sono in corso le opere per il raddoppio dell'inceneritore di Gioia Tauro, allo scopo dichiarato di sostituire quello non realizzato di Bisignano e, comunque, nella provincia di Cosenza, ma - all'evidenza - ciò avviene a dispetto del programma di «delocalizzazione» e con tutti gli oneri rivenienti dal trasporto del cdr in un unico sito, per di più posizionato nella parte meridionale della regione.
Dunque, vi è un primo termovalorizzatore a Gioia Tauro, in grado di bruciare 120 mila tonnellate/anno di cdr e sono in corso le opere per il raddoppio dello stesso che saranno ultimate entro il 2012.
Si tratta di opere inderogabili, in quanto assunte in forza di precisi impegni contrattuali stipulati tra il commissario delegato, nella qualità di concedente, e la TME (alla quale nel 2007 è subentrata la TEC Veolia), nella qualità di concessionaria (contratto in data 17 ottobre 2000 repertorio 31469; atto integrativo del 31 agosto 2001, repertorio 65; atto di sottomissione del 31 ottobre 2003).
Peraltro, sulla vicenda si è sviluppato un forte contenzioso, sul quale ci si è ampiamente soffermati nei capitoli che precedono, che vede la Presidenza del consiglio dei ministri - ufficio del commissario soccombente in due lodi arbitrali, per ritardi e inadempimenti rispetto agli impegni contrattuali assunti, per oltre 70 milioni di euro, oltre a decreti ingiuntivi per circa 8 milioni di euro.
Nella sostanza, il contenzioso supera il costo di un inceneritore di 120 mila tonnellate.
A sua volta, la società TEC Veolia che gestisce l'impianto, non essendovi sufficiente produzione di cdr in Calabria, lo importa da altre regioni italiane, posto che il cdr, in quanto rifiuto trattato, diventa «rifiuto speciale», e come tale non è più sottoposto a vincoli territoriali, come i rifiuti solidi urbani.

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Per parlare di cifre, dai dati ufficiali - quali risultano dal «rapporto rifiuti 2008 ISPRA-ONR» - emerge: 1) che l'impianto di termovalorizzazione di Gioia Tauro, nell'anno 2007, ha trattato 114 mila tonnellate di cdr, a fronte di una potenzialità complessiva di 120 mila tonnellate; 2) che ha usato come combustibile cdr proveniente da altre regioni e, segnatamente, dal Veneto, dalla Toscana e dalla Lombardia. (7)
Quindi, alla stregua dei dati desunti dal successivo «rapporto rifiuti 2009 ISPRA-ONR», risulta che nell'anno 2008, l'impianto di incenerimento di Gioia Tauro ha trattato un quantitativo inferiore rispetto all'anno precedente e, cioè, solo 97 mila tonnellate di cdr provenienti dalla regione Calabria, quantità pari a circa il 10 per cento della produzione annua di rifiuti solidi urbani dell'intera regione, calcolata in 915 mila tonnellate, su una popolazione complessiva di circa 2 milioni di abitanti.
Quest'ultimo dato la dice lunga sull'inconsistenza del rapporto tra la produzione di rifiuti solidi urbani e lo smaltimento finale sotto forma di cdr in termovalorizzatori cosiddetti «a letto fluido».
In Calabria, come in Campania, la produzione di cdr raggiunge percentuali nell'ordine del 10 per cento dei rifiuti solidi urbani al quale bisogna aggiungere una frazione di umido destinata a «compost di qualità» destinata all'agricoltura, oltre a una ulteriore piccola percentuale costituita da materiali ferrosi e da vetro destinati al recupero, ciò significa che, dopo il trattamento meccanico biologico (tmb), almeno l'80 per cento dei rifiuti solidi urbani è destinato a finire in discarica.
Se a tale dato si aggiunge la considerazione che nella regione Lombardia finisce in discarica solo il 4 per cento dei rsu, emerge evidente una discrasia tra le due regioni italiane, che supera ogni possibile commento.
Sulla base dei dati sopra esposti risulta chiaro che, dopo il raddoppio dell'inceneritore di Gioia Tauro nell'anno 2012, l'importazione di cdr da altre regioni è destinato ad aumentare, in proporzione inversa rispetto a quello prodotto in Calabria, a causa della perdurante crisi della raccolta differenziata in questa regione.
Tale evidente sottoutilizzo e spreco di capacità di trattamento in impianti esistenti e realizzati con fondi pubblici è assolutamente inammissibile, soprattutto, in presenza di evidente crisi di offerta di smaltimento adeguato alle norme vigenti, come si verifica in Calabria.
In conclusione, per affrontare l'emergenza rifiuti nella regione Calabria, sarebbe stato più utile procedere alla costruzione di impianti di incenerimento per rifiuti tal quali (come quello che la stessa società Veolia ha - di recente - costruito a Piacenza), opportunamente delocalizzati sul territorio calabrese e, cioè, uno a Nord e l'altro a Sud della regione.
Allo stato - dopo l'avvenuto raddoppio del termovalorizzatore di cdr di Gioia Tauro (RC) - sarebbe necessario e opportuno realizzare nella provincia di Cosenza un termovalorizzatore per i Rifiuti tal quali, in ossequio alle nuove tecnologie in materia di combustione dei

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rifiuti, così attuando il più volte conclamato «principio di prossimità» nella gestione dei rifiuti all'interno degli ambiti territoriali, principio finora puntualmente disatteso.
L'unico punto critico del ricorso agli inceneritori per bruciare il rifiuto tal quale è rappresentato dalla possibile contaminazione dei rifiuti urbani con rifiuti speciali e pericolosi - che nella regione sembrano comunque presenti, nonostante il basso livello di industrializzazione - in quanto introdotti da parte di gruppi della criminalità comune o organizzata, che operando nello specifico settore, sono in grado di far confluire verso il territorio calabrese flussi di tale tipologia di rifiuti.
Si tratta di un problema comune anche ai conferimenti nelle discariche, che deve essere fronteggiato con controlli adeguati.

IV - Cause del fallimento del sistema di raccolta differenziata

A fronte di un piano così articolato per affrontare il problema dell'emergenza rifiuti, gli eventi si sono sviluppati molto diversamente, a partire proprio dal momento iniziale, quello della raccolta differenziata che, in alcuni casi non è neanche iniziata e che, comunque, ha raggiunto percentuali del tutto irrisorie, dal momento che le società miste versano quasi tutte in stato di sofferenza per molteplici motivi concorrenti tra di loro.
Il primo motivo è costituito da assunzioni di personale in esubero, effettuate per ragioni meramente clientelari, piuttosto che di servizio.
Il secondo motivo del fallimento del piano del commissario per l'emergenza rifiuti è dato dal mancato versamento delle quote consortili, da parte dei comuni interessati, i quali - a loro volta - sono morosi, in quanto non riescono a riscuotere i relativi tributi dai cittadini utenti del servizio di raccolta.
Aggiungasi, infine, la considerazione che la gran parte dei comuni consorziati nelle varie società miste pubblico/private sono di piccole dimensioni, con pochi abitanti e, dunque, con esigenze che in alcun modo assimilabili a quelle dei comuni di grosse dimensioni, come i capoluoghi di provincia e pochi altri comuni della regione.
È così accaduto che i piccoli comuni, per un verso, sono stati destinatari di un servizio pressoché inesistente nella raccolta dei rifiuti, a beneficio dei comuni di più grosse dimensioni e, per altro verso, non sono stati assolutamente in grado di sopportare gli oneri rivenienti dalla partecipazione alle suddette società miste.
L'insieme di tali fattori ha determinato il fallimento dell'esperienza delle società miste e della stessa raccolta differenziata, senza che tale situazione provocasse una diversa iniziativa da parte dell'ufficio del commissario per l'emergenza rifiuti, salvo il mero «ritorno» ai comuni del servizio di raccolta dei rifiuti.
A mo' di esempio, valga per tutti il caso della società mista «Valle Crati», che avrebbe dovuto provvedere alla raccolta differenziata - e anche a quella indifferenziata - nel comune di Cosenza e in altri 43 comuni della provincia consorziati (corrispondenti all'ATO 1) e che, a fronte di una raccolta differenziata pari a zero, nel giro di poco meno di quattro anni, ha quasi raddoppiato il numero dei dipendenti,


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passando da circa 200 a più di 350 unità (vedi dichiarazioni rese nel corso della sua audizione in data 2 dicembre 2009 da Salvatore Perugini, sindaco di Cosenza).
Ciò ha contribuito, insieme al mancato pagamento delle quote sociali da parte dei comuni consorziati, a determinare un passivo di circa 30 milioni di euro, che ha indotto la procura di Cosenza ad avanzare richiesta di fallimento nei confronti della società Valle Crati, ai sensi degli articoli 6 e 7 della legge fallimentare (vedi doc. 201/1).
La situazione della Valle Crati, come sopra rappresentata, è stata ribadita anche da Melchiorre Fallica, prefetto di Cosenza, il quale, nel corso della stessa audizione del 2 dicembre 2009, nel riferire che, nel breve volgere di qualche anno, la Valle Crati SpA - che poteva funzionare benissimo con duecento persone - aveva progressivamente raggiunto il numero di circa trecentocinquanta dipendenti, ha aggiunto che una cinquantina di costoro erano divenuti impiegati amministrativi, così «promossi a coordinatori o ad altre qualifiche fantasiose». Con la conseguenza - non di poco conto - che non solo non hanno più lavorato in strada, ma hanno anche aggravato la situazione finanziaria della società, in quanto percepiscono un salario maggiore, a motivo della loro qualifica di impiegati amministrativi.
Di conseguenza, si è verificato un andamento progressivo della esposizione debitoria nei confronti di Equitalia per i debiti previdenziali e assistenziali, arrivata a circa 13,5 milioni di euro, come ha riferito il dottor Domenico Airoma, procuratore aggiunto della procura della Repubblica in Cosenza, nel corso della sua audizione del 3 dicembre 2009.
La crisi della società Valle Crati ha, poi, indotto il comune di Cosenza e tutti gli altri comuni consorziati ad affidare il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani a ditte private, previo distacco degli stessi operai da Valle Crati alla nuova ditta privata affidataria del servizio.
In particolare, il prefetto di Cosenza ha riferito che il sindaco di Cosenza si è rivolto a una ditta di Lamezia Terme, Ecologia Oggi, alla quale ha chiesto di utilizzare centoventisei lavoratori di Valle Crati che già operavano su Cosenza. Ecologia Oggi, dopo una lunga trattativa, ha accettato. L'ordinanza sindacale ha la durata di tre mesi. Nel frattempo, il sindaco si sta adoperando per bandire la gara.
Tutto ciò, a fronte di una raccolta differenziata, da parte dei 43 comuni consorziati nella Valle Crati, che è pari a zero, mentre il problema delle amministrazioni comunali - in particolare, quella di Cosenza - è divenuto non tanto il servizio di raccolta dei rifiuti, quanto l'esigenza (in sé legittima) di garantire il posto di lavoro agli operai addetti alla raccolta.
Come si è detto, si tratta di un problema di carattere generale dell'intera regione, dal momento che, nel corso dell'anno 2008, per le stesse ragioni sopra esposte, è stato già dichiarato il fallimento della Il Pollino SpA e della Proserpina SpA, società miste costituite dal commissario per l'emergenza rifiuti e deputate, rispettivamente, alla raccolta per i sottoambiti di Castrovillari (sottoambito 1) e di Vibo Valentia, mentre altre società miste, quali, la Sibaritide SpA di Rossano (sottoambito 6) e l'Appennino Paolano SpA di Amantea (sottoambito 6) sono state poste in liquidazione.

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In particolare, a Vibo Valentia per la raccolta differenziata dei rifiuti urbani operava una società mista la Proserpina, già dichiarata fallita, del tutto priva di un piano industriale, in grado di verificare l'utilizzo del personale e, sul punto, l'ex assessore regionale all'ambiente Silvestro Greco nel corso della sua audizione del 1o dicembre 2009 ha riferito una circostanza significativa per la sua paradossalità e, cioè, che nella società Proserpina, il rapporto tra operatori ecologici e amministrativi, nel caso di specie, era di 4 a 1, nel senso che vi erano 100 operatori ecologici e 40 amministrativi.
Ancora più grave è la denunzia contenuta nella relazione della sezione regionale di controllo della Corte dei conti, che nelle Conclusioni (doc. 350/2, pagg. 654 e segg.) così amaramente si esprime «Ciò che invece permane e, forse, si è addirittura aggravato è l'aspetto di sostanziale inadeguatezza di alcune delle società che gestiscono i sottoambiti; questo aspetto ha indubbiamente condotto al fallimento della società II Pollino ed alla messa in liquidazione delle società Proserpina, Appennino Paolano, Valle Crati e Sibaritide, non prima però che una grossa mole di risorse pubbliche transitasse dalle casse dei comuni a quelle di alcuni soci privati che vendevano alle società miste quei medesimi servizi che la società doveva prestare ai comuni».
Analogamente, osserva la Corte dei conti, rimane ingiustificata la mancata opposizione da parte dei comuni alle richieste di pagamento dei servizi di trasporto e conferimento dei rifiuti presso discariche molto distanti dai territori ovvero il mancato rispetto, da parte delle società per azioni miste, delle tariffe per lo smaltimento ovvero, ancora, la mancata verifica dei contenuti delle fatture emesse a carico dei comuni da parte dei gestori del servizio.
Tali mancate opposizioni sono state seguite da pagamenti da parte delle amministrazioni per servizi «sovrastimati» cioè venduti (e fatturati) per importi sensibilmente superiori ai costi di produzione o a quelli concordati con il commissario o le stesse amministrazioni nei contratti di servizio.
Tutto quanto sopra è avvenuto, per lo più, senza particolari opposizioni da parte di tutti gli amministratori locali che, talvolta, non hanno fatto valere le proprie prerogative in seno all'assemblea dei soci, pur in presenza di disservizi.
Infine, la Corte rileva che «Laddove sono state mosse contestazioni per iscritto alle società o si è proceduto alla contestazione delle fatture e, quindi, al mancato riconoscimento dei propri debiti, gli amministratori locali - in modo del tutto contraddittorio - non hanno in genere mancato di votare favorevolmente i bilanci, sicché, in termini di efficienza ed efficacia delle scelte pubbliche, può esprimersi neppure una valutazione di sola sufficienza...»
La situazione di crisi delle società miste in alcune realtà è aggravata dal fenomeno delle infiltrazioni mafiose.
Il capitano Aldo Iacobelli, Comandante provinciale dei carabinieri di Cosenza, nel corso della sua audizione del 1o dicembre 2009, ha riferito di aver registrato nel 2007 un caso di ingresso della malavita organizzata di stampo mafioso nella società Appennino Paolano SpA operante nel settore dei rifiuti, nell'ambito di un procedimento convenzionalmente denominato Nepetia-Enigma, partito dal comune di Amantea, poi sciolto per mafia. Nel giudizio abbreviato relativo a

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tale procedimento, è risultato provato che, grazie all'intervento di Carlo Samà, amministratore delegato di nomina pubblica dell'Appennino Paolano SpA, il capo clan Tommaso Gentile - che in tale giudizio è stato condannato alla pena di anni venti di reclusione - era diventato socio occulto di questa società mista deputata alla raccolta, al trasporto e al trasferimento dei rifiuti, oltre che del comune di Amantea, anche dei comuni di Cetraro e di Paola.
Peraltro, la vicenda ha visto anche la presenza attiva e, comunque, la partecipazione del capo clan di Cetraro, Franco Muto, al quale il Samà e i suoi soci si erano rivolti per realizzare il loro progetto criminoso poiché, secondo una prassi consolidata in terra di Calabria, era comunque necessaria la sua autorizzazione, in quanto il territorio cetrarese rientra sotto il suo controllo mafioso.
Guarda caso, risulta tuttora operativa, nella provincia di Cosenza, la società mista Alto Tirreno Cosentino, amministrata da Rovito Francesco, con precedenti per omesso versamento dell'iva e per associazione a delinquere finalizzata all'emissione di fatture inesistenti e alla truffa.
Né sorte migliore hanno tutte le altre società miste costituite dal commissario delegato per l'emergenza rifiuti. Anzi, la situazione è ulteriormente aggravata dal fenomeno della «duplicazione» delle società deputate alla raccolta dei rifiuti, nel senso che a Reggio Calabria, a Crotone, a Catanzaro e in altre grosse realtà della regione, accanto alle società miste - deputate alla raccolta differenziata - continuano ad operare le vecchie società aventi ad oggetto la raccolta dell'indifferenziato, che avrebbero dovuto essere poste in liquidazione.
L'unica evidente finalità di tale gestione sembra essere quella di garantire posti di lavoro, piuttosto che un servizio ai cittadini.
A tale proposito, merita di essere sottolineata la singolare situazione di Reggio Calabria che - come ha dichiarato, nel corso dell'audizione del 1o dicembre 2009, Giuseppe Scopelliti, all'epoca sindaco di Reggio Calabria e attualmente presidente della regione Calabria - vede la presenza nel settore dei rifiuti di due diverse società miste pubblico/private, partecipate entrambe addirittura dallo stesso comune, e cioè, la Leonia, che si occupa della raccolta indifferenziata dei rifiuti solidi urbani nel comune di Reggio Calabria, e la società Fata Morgana, nata su input del commissario per l'emergenza, che gestisce la raccolta differenziata nello stesso capoluogo, mentre in tutta la provincia di Reggio Calabria si occupa sia della differenziata, sia della non differenziata.
Il sindaco ha dichiarato che, a seguito dell'affidamento alla Leonia di tale servizio, erano cessate quelle continue azioni di sabotaggio poste in essere in danno degli automezzi (come quella, tipicamente mafiosa, di versare sale nel serbatoio della benzina), che si erano verificate anche nel recente passato, quando il servizio di raccolta dei rifiuti veniva gestito direttamente dal comune, con costi che - solo per la voce manutenzione - all'epoca, erano lievitati a un milione di euro all'anno.
Fatto quest'ultimo che getta un'ombra inquietante sulla presenza delle infiltrazioni mafiose nel servizio di raccolta dei rifiuti nel comune di Reggio Calabria, tanto più alla luce delle dichiarazioni rese, nel corso della sua audizione del 1o dicembre 2009, dal dottor

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Carmelo Casabona, questore di Reggio Calabria, il quale ha riferito che anche la Leonia, nel recente passato, aveva subito numerosi attentati, «nel 2007 hanno sparato ad un autocompattatore, nel corso del 2008 vi è stata una esplosione di colpi in direzione di un altro mezzo e altri attentati e, in data 1o novembre 2009, sono state incendiate quattro autovetture della famiglia De Caria, responsabile della ditta Leonia.
Il problema degli inquirenti - ha riferito sul punto il questore di Reggio Calabria - era quello di "capire se dietro a tutto questo possano esservi contrapposizioni oppure estorsioni", in ogni caso, di stampo mafioso.
In conclusione, all'esito di tale esperienza negativa, il servizio della raccolta differenziata è stato svincolato dalle società miste create dalla gestione commissariale ed è tornato in capo ai comuni, con nota commissariale nr. 2425 del 2008, (vedi nota della Questura di Catanzaro in doc. 316/1)».

V - La situazione delle discariche in Calabria e stato delle bonifiche dei siti contaminati

Il contesto come sopra rappresentato e, in particolare, la mancanza di regolari discariche autorizzate, favorisce fenomeni estesi e diffusi di comportamenti illegali non solo da parte dei cittadini, ma anche da parte degli stessi amministratori comunali, mediante il ricorso a discariche che, sebbene autorizzate dagli stessi comuni, non sono, comunque, «a norma», vale a dire non sono adeguatamente impermeabilizzate, allo scopo di evitare che il «percolato» derivante dai rifiuti finisca nel terreno sottostante e, in definitiva, nella falda.
Del resto, Goffredo Sottile, commissario delegato per il superamento della situazione di emergenza nel settore dei rifiuti urbani nel territorio della regione Calabria (a partire dal mese di luglio 2008 e fino al mese di luglio 2010), nel corso della sua audizione del 1o dicembre 2009, ha rivelato in modo drammatico tutta l'incapacità del suo ufficio ad affrontare l'emergenza rifiuti in Calabria. Egli ha preso le distanze dal sistema della raccolta differenziata e indifferenziata dei rifiuti urbani, in quanto di competenza dei comuni, ammettendo tuttavia: 1) che il sistema delle società miste pubblico/private, deputate alla raccolta differenziata dei rifiuti nei singoli comuni calabresi era stata istituita dal suo ufficio; 2) che tale sistema si era rivelato «un fallimento».
Il dottor Sottile, nel corso dell'audizione, ha illustrato i compiti del suo ufficio, consistenti: a) nella predisposizione e nel controllo del flusso giornaliero dei rifiuti verso gli impianti di separazione e trattamento e del successivo trasferimento degli scarti verso le «discariche di servizio» ovvero, in assenza di trattamento, verso le discariche per il «tal quale»; b) nella costruzione di nuove discariche o delle opere di ampliamento di quelle esistenti che, tuttavia, potevano essere realizzate solo con l'accordo con la provincia, previa intesa con il sindaco del comune interessato; c) nella costruzione di nuovi impianti di trattamento dei rifiuti. Tuttavia, egli ha ammesso che il proprio ufficio non aveva realizzato né nuove discariche, né nuovi


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impianti di trattamento dei rifiuti, a causa delle difficoltà incontrate con i sindaci dei comuni interessati, nonostante che, addirittura due province della regione Calabria siano, ancora oggi, prive di impianti di trattamento dei rifiuti: la provincia di Vibo Valentia e la provincia di Cosenza che con 750 mila abitanti risulta la più popolosa della regione e produce circa 280 mila tonnellate/annuo di rsu.
A sua volta, la provincia di Vibo Valentia, di nuova costituzione, con 167 mila abitanti e una produzione annua di circa 65 mila tonnellate di rifiuti, è anche del tutto priva di discariche e conferisce i rifiuti all'impianto di trattamento di Lamezia Terme.
La provincia di Cosenza ha numerose discariche pubbliche autorizzate (Acri, Castrolibero, Bocchigliero, Scalea, Cassano allo Ionio e Rossano), ma queste hanno una capacità di smaltimento molto limitata e, quindi, sono tutte ormai esaurite o in fase di esaurimento, sicché i rifiuti, non potendo essere trattati per l'assenza di impianti, vengono conferiti come «tal quale» nelle discariche di Catanzaro, di Crotone e di Lamezia Terme.
In tale contesto degradato fioriscono nel territorio cosentino le discariche abusive, posto che quelle censite sono ben 160, delle quali - come ha dichiarato Melchiorre Fallica, prefetto di Cosenza, nel corso della sua audizione del 2 dicembre 2009 - «un centinaio sono discariche costituite dagli stessi comuni in via temporanea per sopperire alla mancanza di vere discariche, pur di non lasciare i rifiuti sulla strada... In seguito la discarica temporanea è divenuta definitiva, come spesso succede, mentre le altre discariche sono dovute alla cattiva educazione dei cittadini, che buttano rifiuti dappertutto».
La caratteristica comune di tali discariche abusive è che non sono impermeabilizzate, con la conseguenza che il percolato impregna il terreno sottostante fino a raggiungere la falda, con danni permanenti per gli assetti ambientali.
Al fine di rappresentare le difficoltà incontrate per la realizzazione di nuove discariche, l'ex commissario per l'emergenza si è soffermato, in via esemplificativa, sulle difficoltà emerse in ordine alla discarica pubblica di San Giovanni in Fiore, dove «eravamo già avanti con il progetto» - ha affermato il dottor Sottile - ma i lavori erano stati sospesi, per la presenza di una inibizione da Z.P.S. (zona a protezione speciale), che il comune non aveva segnalato e ciò aveva causato perdite di tempo e denaro.
Altra difficoltà, questa volta, di natura politica, è stata quella relativa alla discarica di Santa Maria del Cedro (CS), dove l'ufficio del commissario stava per realizzare una discarica prevista nell'ordinanza sindacale, ma ciò non era stato possibile poiché, dopo il rinnovo dell'amministrazione comunale, il nuovo sindaco non intendeva assolutamente procedere. A Cassano allo Ionio (CS), era stata esperita la gara per la realizzazione della 4o vasca per circa 150 mila m3; i relativi lavori dovrebbero essere completati nel corso dell'anno e la nuova discarica sarebbe entrata in funzione nelle more del completamento della terza vasca attualmente in uso (vedi doc. 584/1).
Non v'è dubbio che si tratta di un intervento assolutamente marginale rispetto alle gravi deficienze del territorio cosentino.
L'ex commissario Sottile ha riferito che il suo ufficio aveva consegnato alle strutture regionali competenti, al fine di ottenere le

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autorizzazioni previste, il progetto definitivo per la realizzazione a Casignana (RC) di una nuova discarica per il «tal quale», per una capacità di circa 450 mila m3, a valle di quella esistente, mentre in quest'ultima i conferimenti proseguivano, grazie agli ampliamenti realizzati per circa 50 mila m3 (vedi doc. 177/2 e doc. 584/1).
La situazione non sembra destinata a migliorare nel breve periodo, posto che, come risulta dalla «relazione sintetica» dell'ex commissario delegato, in data 8 aprile 2010 (doc. 584/2), non sono in corso opere di realizzazione di nuove discariche pubbliche, ma solo semplici «atti di intesa» con i rispettivi comuni per la futura realizzazione di discariche a Corigliano Calabro (CS), a Rosarno (RC), a Mileto (VV), a Placanica (RC), Placanica (RC).
Nelle more, l'ufficio del commissario si è rivolto ai privati per la costruzione di nuove discariche, una delle quali è stata individuata a Pianopoli (CZ), località Gallù-Carratello, di proprietà di Enerambiente, e amministrata dalla Eco Inerti Srl, già autorizzata come discarica di «rifiuti speciali» dalla regione, ma con l'intesa che sarebbe stata adibita al «tal quale».
Pertanto, in forza della convenzione sottoscritta tra le parti in data 26 maggio 2010 e integrata con successivo atto del 5 ottobre 2010, l'ufficio del commissario delegato è divenuto l'utilizzatore della citata discarica di Pianopoli, per il conferimento di rsu e sottoprodotti di lavorazione provenienti dal sistema pubblico di gestione dei rsu della Calabria, in attesa della realizzazione delle discariche del sistema pubblico, già programmate.
In particolare, la discarica di Pianopoli riceve un flusso di rsu e di sottoprodotti di lavorazione degli stessi, provenienti da gran parte dei comuni della provincia di Cosenza e, addirittura, da sei dei sette impianti del sistema regionale di trattamento dei rifiuti.
La situazione è precipitata quando, da ultimo, in data 18 novembre 2010, è intervenuto un decreto di sequestro preventivo urgente della discarica di Pianopoli, emesso dalla procura di Lamezia Terme e convalidato dal GIP, in data 22 novembre 2010, per violazione degli artt. 137, comma 1, del decreto legislativo n. 152 del 2006 e 674 c.p. (doc. 633/2).
La misura cautelare è motivata dal fatto che, all'interno della discarica, era stata realizzata una tubazione non autorizzata che, in origine, era destinata a consentire il mero deflusso delle acque meteoriche, ma che, viceversa, approfittando anche della presenza di forti piogge, nei primi giorni del mese di novembre 2010, aveva iniziato a scaricare percolato da rifiuti (oltre a rifiuti di ogni genere), destinati a finire nel torrente Drema e da questo nel fiume Amato, dopo aver attraversato i terreni contigui alla discarica, di proprietà di tal Nanci Elisabetta, che aveva sporto denunzia.
Il sequestro della discarica ha mandato in crisi l'intero sistema dello smaltimento dei rifiuti in Calabria, che sopravvive in stato di perenne precarietà, costringendo l'ufficio del commissario a richiedere, con urgenza, in data 22 novembre 2010, alla procura della Repubblica «il dissequestro, anche, parziale della discarica in oggetto per consentire il regolare funzionamento del sistema pubblico che ... non ha allo stato altre possibilità di smaltimento e subirebbe un

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blocco pressoché totale, con la conseguente impossibilità di garantire la regolare raccolta del rifiuto urbano» (doc. 633/2).
Peraltro, prima del sequestro, la discarica di Pianopoli era venuta alla ribalta, a proposito dell'invio dei rifiuti solidi urbani provenienti dalla Campania, che avevano sollevato una forte contestazione della popolazione locale contraria ad accogliere tali rifiuti.
Naturalmente, in teoria, nulla vieta che, in forza di accordi specifici, rsu provenienti da altre regioni, privi di codice Cer arrivino presso gli impianti della Daneco Impianti Srl di Lamezia Terme per essere trattati; quindi, dopo il trattamento, muniti del codice Cer 191212, che indica i «rifiuti trattati», finiscano nella discarica di Pianopoli.
Comunque, è abbastanza singolare che una regione sostanzialmente in crisi rispetto allo smaltimento dei rifiuti si faccia carico di smaltire rifiuti provenienti da altre regioni.
Illustrano in modo efficace la permanenza dello stato di crisi le dichiarazioni rese da Carlo Ferrucci, Vice comandante regionale del Corpo forestale dello Stato il quale, nel corso dell'audizione del 1o dicembre 2009, ha riferito che ogni comune calabrese ha una propria discarica e che tutto il personale del Corpo forestale che opera sul territorio, quando si imbatte in una discarica o in un sito di abbandono, effettua una serie di rilevazioni, compresa la perimetrazione del sito, per poterlo poi georeferenziare e archiviare sul GIS di riferimento, che è il sistema informativo della montagna.
Fino alla metà del mese di ottobre 2009, data in cui è stata trasmessa a questa Commissione la sua relazione, i siti e/o discariche abusive monitorate nella regione Calabria dal Corpo forestale erano n. 485 (vedi doc. n. 194/1 del 26/11/2009) ma, nel frattempo, era stato individuato un ulteriore sito.
Ha riferito il Vice comandante Ferrucci che, dei 485 siti al momento individuati e censiti, 57 risultavano attivi (essendo stata rilevata la presenza di rifiuti urbani appena depositati), tra cui 16 discariche autorizzate (pur se tale numero non corrisponde ai dati forniti dall'ISPRA, che parla di 11 discariche autorizzate) - quelle consortili - mentre 365 siti si trovavano più o meno interrati, ma non erano stati bonificati, come previsto dalla norma, bensì erano stati semplicemente ricoperti, presumibilmente, lasciando i rifiuti nello stato in cui si trovano sotto la copertura.
In conclusione, se si escludono le poche discariche autorizzate, tutti gli altri siti o discariche attive sono abusive.
Alcune discariche abusive hanno dimensioni ragguardevoli come, solo per fare un esempio, quella sequestrata dai carabinieri del NOE a Castrovillari (CS), delle dimensioni di 640 mila metri quadri, utilizzata per lo smaltimento di rifiuti speciali pericolosi e non, per la quale sono stati deferiti alla competente autorità giudiziaria il sindaco ed il responsabile dell'area tecnica dell'epoca (vedi doc. 163/1 pagina 11).
In base alla tipologia dei rifiuti - ha riferito il vice comandante Ferrucci - è stata individuata in «281 siti la presenza di rifiuti urbani e in 215 quella di rifiuti speciali». Questi ultimi sono costituiti, soprattutto, a) da inerti provenienti da demolizioni, b) da accumuli e interramenti di pneumatici in numero consistente, c) da residui di

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macellazioni abusive o effettuate presumibilmente in maniera legittima, ma che poi hanno proseguito il loro cammino con il disfacimento dei rifiuti in maniera illegittima.
Queste sono le tre fattispecie prevalenti.
Infine, innumerevoli sono i siti in cui vengono abbandonati dai cittadini alla rinfusa carcasse di auto, nonché rifiuti ingombranti provenienti da appartamenti (elettrodomestici, mobili, letti, materassi).
Complessivamente, nell'intera regione, le superfici coperte da queste discariche illegali sono pari a circa 200 ettari (circa 2 chilometri quadrati) e il 25 per cento circa di questi siti si trova in area coperta da boschi.
Ciò costituisce un ulteriore pericolo, perché accade che, per coprire gli odori o per mascherare la quantità di accumulo di materiale, a tali discariche viene appiccato il fuoco, che si propaga molto facilmente al bosco.
Sicché, gli incendi boschivi della Calabria spesso partono, proprio, dai siti in cui vengono abbandonati i rifiuti.
Basti pensare che il maggiore fattore di rischio per il patrimonio ambientale calabrese scaturisce dagli incendi boschivi che ogni anno, soprattutto nel periodo giugno - settembre, si sviluppano numerosi.
A tal proposito, nella relazione del prefetto di Reggio Calabria si legge che, nel solo 2007 (anno particolarmente critico), gli incendi sono stati ben 1.880 ed hanno interessato una superficie complessiva di 43.126 ettari di cui 24.806 ettari boscati (allegato II al doc. 187/2).
La maggioranza degli incendi viene attribuita a cause dolose, ma le denunce e gli arresti in flagranza per incendio non sono sufficienti per costituire un valido deterrente.
A ciò aggiungasi il disastro idrogeologico e paesaggistico-ambientale, determinato dall'assoluto spregio della presenza dei relativi vincoli, posto che, addirittura, ben undici discariche abusive si trovano in aree protette.
Il vice comandante Ferrucci ha riferito che vi sono state due operazioni di ripulitura operate dall'Azienda forestale regionale calabrese, che ha utilizzato parte del suo personale per rimuovere soprattutto il materiale accumulato nelle aree boscate, che è stato trasferito in luoghi di stoccaggio temporaneo, pur se - ha commentato il comandante Ferrucci - «purtroppo, non è noto se ne sia stato effettuato lo smaltimento (del rifiuto) o, piuttosto, valutata la situazione generale delle discariche, non sia stato nuovamente ridistribuito malamente sul territorio».
In particolare, dalla relazione depositata risulta che delle 485 discariche presenti sul territorio calabrese - abusive e non - solo 37 risultavano bonificate e 12 sono state rimboschite (vedi doc. n. 194/1).
Quanto riferito sin qui dal comandante Ferrucci, supportato da una relazione specifica e dettagliata, contraddice le affermazioni di Silvestro Greco, all'epoca, assessore regionale all'ambiente il quale, nel corso della sua audizione del 1o dicembre 2009, con riferimento all'intero territorio regionale, ha parlato di almeno 1190 discariche esistenti, tra legali (quelle delle amministrazioni comunali) e illegali (tutte le altre), affermando che la regione ne aveva già caratterizzate e bonificate circa 450, nell'ambito di un progetto chiamato «Puliamo la Calabria», «grazie al Corpo forestale dello Stato, che ha identificato

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queste discariche, che noi in seguito abbiamo caratterizzato e bonificato. Ne restano circa 600».
In realtà così non è, in quanto il Corpo forestale dello Stato ha monitorato sul proprio sistema informativo «le discariche e i siti di abbandono» della regione, che sono in continua crescita e che, dopo l'ultimo rilievo, per quanto a conoscenza del comandante Carlo Ferrucci, nel giorno della sua audizione, erano divenuti 486.
Si tratta di un numero inferiore a quello di 600, indicato dall'assessore Greco alla data del 1o dicembre 2009, ma comunque rilevante, in presenza di un'attività di bonifica del tutto carente, fatto questo che va rimarcato in modo negativo.
L'ex commissario delegato, dottor Goffredo Sottile, ha inviato a questa Commissione, in data 4 agosto 2010 una relazione generale sull'attività del commissariato dal 1998 al 30 giugno 2010 (doc. 554/1). Nella relazione si riferisce di oltre 300 discariche comunali dismesse, già nel mese di dicembre 1998, su un totale di 409 discariche (nella media una discarica per ciascun comune calabrese), in quanto «non rispondenti ai requisiti di legge» e si dà atto dell'avvenuto censimento e della mappatura «nei 409 comuni calabresi di 696 di siti potenzialmente inquinati da rifiuti con volume superiore ai 250 m3, ai quali vanno aggiunti, come siti potenzialmente inquinanti, le 14 discariche in costruzione o in attesa di utilizzo e i tre impianti di selezione e valorizzazione dei rifiuti: Lamezia Terme, Sambatello-Reggio Calabria, Rossano».
Nella relazione si riferisce, inoltre, dell'avvenuta informatizzazione, già nel 1999, del livello di rischio dei vari siti e/o discariche (marginale, basso, medio, alto).
Sono stati individuati 40 siti ad «alto rischio», con punteggio di priorità da 439 a 230: si tratta di aree con un enorme volume di rifiuti, costituite da grosse discariche dismesse, per lo più a ridosso di corsi d'acqua e a breve distanza dalla foce dei fiumi, con danno ambientale in atto ed elevato rischio per la popolazione.
A tali tipologie vanno aggiunti i siti con una accertata presenza di rifiuti tossico - nocivi e pericolosi ad alto rischio ambientale, come i siti di Crotone, Cerchiara e Cassano, che - dopo l'acclarata inerzia dell'ufficio del commissario - sono stati compresi nel SIN, a partire dal mese di gennaio 2008.
Quanto all'attività di bonifica, l'ufficio del commissario delegato si è limitato a realizzare «piani di caratterizzazione», che hanno riguardato, tra le altre, l'area ex Officina Italgas Catanzaro, la centrale Enel del Mercure in Laino Borgo (CS), l'area ex Laboratorio BP di Siderno, il suolo dei comuni di Rosarno (loc. Zimbario), di Fiumara (loc. Valle dell'Orologio), di Corigliano (loc. Cotrica), alcuni interventi con l'ausilio dell'ARPACAL sui fiumi Noce e Crati in provincia di Cosenza e sul fiume Messina in provincia di Vibo Valentia, mentre la caratterizzazione dell'area occupata dalla Marlane è stata interrotta dopo il sequestro dell'area da parte della procura di Paola.
Si è trattato di interventi minimi che, all'evidenza, non hanno riguardato tutti i quaranta siti definiti «ad alto rischio», mentre - com'è noto - gli interventi di caratterizzazione sono solo il presupposto di bonifiche mai avvenute.

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A questo punto, occorre ritornare a monte, per rilevare che il punto di assoluta criticità del «sistema ambiente» calabrese è rappresentato dalla gestione dei rifiuti.
Invero, nel sopra citato «rapporto sullo stato dell'ambiente», redatto a cura della regione Calabria, si ribadisce quanto sinora esposto e, cioè, che è ancora elevata la quantità di rifiuti urbani conferiti in discarica.
D'altro canto, mentre le discariche regionali controllate stanno diminuendo, in quanto sono passate dalle 47 del 2001 alle 11 del 2006, i rifiuti speciali, pericolosi e non - secondo il rapporto - sono in costante aumento (411 mila 399 tonnellate nel 2004).
Un altro fattore di criticità ambientale riguarda la gestione dei veicoli fuori uso e dei loro componenti, e dei beni durevoli in genere.
I reati ambientali, sottostimati da stime e statistiche, sono percepiti dalle comunità come in continuo e perverso aumento.
Le attività di contrasto verso i reati ambientali e le azioni di tutela nel settore ambiente (come anche succede sull'intero territorio nazionale) sono affidate a una pluralità di enti e organismi statali, regionali e comunali, che se, da un lato, evidenziano il ruolo centrale del settore, per altro verso, inevitabilmente - a causa del numero degli organici e le diverse dipendenze gestionali e operative delle strutture preposte - rischiano di non garantire un livello ottimale di prevenzione e repressione degli abusi.
La situazione di forte criticità ambientale è stata sottolineata dal capitano Paolo Minutoli, Comandante del NOE di Reggio Calabria, e dal capitano Aldo Iacobelli, Comandante provinciale carabinieri di Cosenza, i quali, nel corso della loro audizione del 1o dicembre 2009, nel ribadire la persistenza in Calabria dell'emergenza ambientale, a motivo di una diffusa situazione di illegalità e della scarsa sensibilità verso la tutela dell'ambiente, con l'abbandono incontrollato dei rifiuti, hanno posto in evidenza che sussiste tuttora un abbandono incontrollato dei rifiuti sul territorio che dà luogo «a depositi o a discariche abusive, che differiscono tra di loro solo per la quantità dei rifiuti abbandonati e per la loro ubicazione».
In particolare, i militari dell'arma hanno ribadito che in Calabria vi sono oltre un migliaio di siti censiti contenenti rifiuti, siti che non possono essere definiti «tout court» discariche, dovendosi distinguere l'abbandono incontrollato dei rifiuti, che in genere avviene sul suolo demaniale (strada, fiumara, zona), dal deposito incontrollato di rifiuti da parte di chi su un terreno di proprietà, pur non potendolo fare - in quanto il terreno non è stato già in precedenza impermeabilizzato - deposita temporaneamente dei rifiuti per poi conferirli in discarica.
Discarica abusiva è quella che, per volume e per tipologia di rifiuto, è talmente ampia da essere classificabile come tale.
Purtroppo, l'abbandono dei rifiuti in siti incontrollati relativamente distanti dai luoghi di vita delle comunità - rifiuti sia di natura domestica, ma prevalentemente di natura artigianale e produttiva in genere - costituisce una pratica che in questa regione è ancora piuttosto diffusa, come è stato accertato direttamente dalla Commissione nel corso dei sopralluoghi eseguiti, a riscontro di quanto è

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emerso nel corso delle audizioni effettuate, oltre che dalle documentazioni consegnate.
Significativo esempio di abbandono è la circostanza - riferita dal capitano Aldo Iacobelli - verificatasi all'interno dell'aeroporto di Reggio Calabria, dove sono stati rinvenuti e sequestrati 80.000 metri cubi di asfalto, tolto e accantonato accanto alla pista, dopo l'esecuzione dei lavori di ammodernamento della stessa pista.
Dopo l'intervento dei militari dell'arma è stato chiesto il dissequestro ed è stata effettuata la bonifica dell'area, ma ciò è accaduto quando erano ormai trascorsi cinque anni dalla realizzazione dei lavori.
Questo rappresenta un esempio di deposito incontrollato di rifiuti, non di discarica abusiva, perché comunque si trattava di un'area circoscritta.
Al comportamento dei privati si aggiunge quello di tutti i quattrocento comuni calabresi, ognuno dei quali ha una propria discarica, spesso «non a norma», in quanto sprovvista della necessaria impermeabilizzazione, a causa della carenza di discariche consortili.
Il fenomeno delle discariche abusive da parte dei comuni è tutt'altro che cessato, visto che a Serra San Bruno, centro montano in provincia di Vibo Valentia, è in corso un'indagine preliminare su un sito, in cui addirittura lo stesso comune non solo ha realizzato una discarica «non a norma», ma non l'ha neanche censita.
Dal canto suo, anche il capitano Aldo Iacobelli si è soffermato sulla grave situazione di inquinamento ambientale in cui versa la Calabria, per via delle centinaia di discariche abusive, ovvero anche a motivo dell'uso improprio di discariche, sebbene regolarmente autorizzate e, comunque, «a norma», come la discarica di Casignana, in provincia di Reggio Calabria, di cui - come si è detto - è previsto il raddoppio. Da un controllo effettuato dai militari dell'arma, su quest'ultima discarica - che peraltro presenta difficoltà di accesso legate alla geomorfologia del terreno - è emersa la presenza di camion che arrivavano in discarica con documenti falsi, in quanto provenienti da ditte diverse da quelle che conferivano i rifiuti e, così, «nella confusione del sali e scendi, del carica e scarica il camion, capitava spesso di prendere il formulario dell'altro».
In seguito ad attività di indagine, il titolare della ditta che faceva queste attività è stato denunciato.
A proposito della discarica di Casignana, Angela Bruna Cardile, responsabile del servizio suolo e rifiuti ARPACAL Reggio Calabria, nel corso della sua audizione dell'1 dicembre 2009, ha riferito che nel mese di novembre del 2008, i cittadini si erano ribellati, a causa del cattivo odore. La discarica - che riceveva anche la fos da Sambatello - versava in una situazione disastrosa, dal momento che perdeva percolato da tutte le parti, sicché ne era stata disposta la chiusura finché, eseguiti i necessari interventi di bonifica, era stata riaperta in totale sicurezza.
Peraltro, il percolato della discarica di Casignana e delle altre discariche viene smaltito dalla IAM di Gioia Tauro, che tratta anche percolato proveniente dalla Sicilia.

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Accanto alle discariche abusive e/o gestite in modo irregolare - riferisce la Cardile - vi è l'utilizzo anomalo delle fiumare e, così, dal controllo delle dieci fiumare insistenti nel comune di Reggio Calabria è emersa una serie di illeciti dal punto di vista ambientale, «che vanno dall'abbandono incontrollato dei rifiuti, che creava situazioni di degrado ambientale, alla realizzazione di opere e di manufatti abusivi sia a ridosso delle fiumare, ma anche al loro interno, e persino con impianti di calcestruzzo realizzati a ridosso delle fiumare, con versamento diretto nelle fiumare di 2-3 metri cubi di calcestruzzo eccedente, oltre che delle acque di lavatura delle varie betoniere».
Del resto, l'emergenza nel 1997 era nata proprio dalla presenza di una serie di discariche, pubbliche e private prive dei requisiti di legge e, tuttavia, il provvedimento di commissariamento - inizialmente, destinato a durare sei mesi e prorogabile fino a 18 mesi - è stato prorogato, di anno in anno fino al 31 dicembre 2010.
Proprio in tale contesto di degrado, si era giunti al sequestro delle discariche comunali irregolari - pressoché tutte - fatto che poi ha portato alla dichiarazione dello stato di emergenza.
A distanza di oltre un decennio dal commissariamento la situazione non è cambiata, poiché nel frattempo le discariche abusive sono aumentate.
Alla stregua dei dati forniti dall'ingegnere Bruno Gualtieri, Direttore generale politiche dell'ambiente della regione Calabria, nella nota inviata a questa Commissione in data 17 novembre 2010 (doc. 608/2), non è migliore la situazione delle bonifiche delle discariche e dei siti inquinati che, a partire dal 2008, sono divenute di competenza regionale, mentre nel periodo precedente erano di competenza del commissario delegato per l'emergenza.
Sul punto va chiarito che il «piano regionale di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati» predisposto in coerenza con i criteri previsti dal decreto ministeriale n. 471 del 25 ottobre 1999 e recepito integralmente nel piano regionale di gestione dei rifiuti (approvato con ordinanza Commissariale n. 1771 del 26 febbraio 2002 dal commissario delegato per l'emergenza ambientale nel territorio della regione Calabria e aggiornato con ordinanza n. 6294 del 30 ottobre 2007), aveva individuato i siti potenzialmente inquinati del territorio regionale e, mediante l'applicazione di indicatori del rischio ambientale, li aveva suddivisi in siti ad alto, medio, basso e marginale rischio.
In tale contesto normativo e fattuale, con decreto del dirigente generale del dipartimento politiche dell'ambiente n. 365 del 26 gennaio 2006, era stata indetta la gara per la «caratterizzazione, progettazione preparatoria dei progetti definitivi di bonifica, ripristino ambientale e messa in sicurezza dei 33 siti definiti ad alto rischio dal piano delle bonifiche del piano regionale dei rifiuti» articolata in sei lotti, regolarmente aggiudicate da operatori economici con i quali era stato debitamente stipulato il contratto d'appalto.
Per l'esecuzione delle attività previste, erano stati impegnati complessivamente euro 5 milioni 270 mila, a valere sulle risorse liberate del POR Calabria 2000-2006, Asse I - risorse naturali - Misura 1.8 - Siti inquinati e aree ad elevato rischio ambientale - Azione 1.8 b. Com'è noto il POR (acronimo di piano operativo

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regionale) è il documento di programmazione regionale per l'utilizzo dei fondi strutturali europei.
La procedura di bonifica era stata avviata per 33 dei 40 siti definiti ad «alto rischio» dal piano regionale delle bonifiche. Nulla viene detto nella nota inviata in ordine alla effettiva bonifica di tali siti, salvo la previsione di spesa, indicata in euro 33.414.247,40 per i diciotto siti più pericolosi e in euro 35.221.716,57 per gli altri quindici siti, né viene riferito quali siano state le realizzazioni della regione, a partire dal 1o gennaio 2008, quando sono cessate le competenze del commissario delegato in ordine alla bonifica dei siti inquinati.
In realtà in Calabria non è stata realizzata alcuna attività di bonifica (neanche dei trentatré siti e/o discariche definite «ad alto rischio») né da parte del commissario delegato, né da parte della regione, come ha ammesso l'ingegnere Bruno Gualtieri, nel corso della sua audizione del 23 settembre 2010, affermando testualmente che «la Commissione europea ci taccia di produrre carte, ma non azioni di bonifica».
In effetti, allo stato - sulla base dei dati forniti dall'ingegnere Gualtieri - il numero complessivo dei siti da bonificare è in continua ascesa e supera il numero di settecento.
A fronte di tale situazione, l'ingegnere Gualtieri ha riferito: 1) che era in corso di espletamento la procedura di gara di importo pari a 6,5 milioni di euro, già disposta dal commissario delegato, per la bonifica solo di un centinaio di siti, tra i quali - tuttavia - non erano compresi proprio i siti ad «alto rischio»; 2) che egli per tale ragione, intendeva bloccare la gara; 3) che in ogni caso non vi erano fondi sufficienti per la bonifica di tutti i siti inquinati.
Invero, come si legge nella citata nota del 17 novembre 2010 (doc. 608/2) dello stesso ingegnere Gualtieri, la dotazione complessiva dei fondi comunitari europei destinati alle bonifiche dei siti inquinati e gestiti dal POR, per il periodo 2000-2006, era pari a circa 70 milioni di euro, somma questa che avrebbe dovuto essere impegnata entro la data del 31 dicembre 2006.
Poiché, alla data indicata, non vi erano stati impegni di spesa di tutti i fondi destinati alle bonifiche, il comitato di sorveglianza dall'ambiente alle infrastrutture aveva dirottato sulla viabilità fondi per l'importo di 50 milioni di euro.
Le affermazioni rese dall'ingegnere Gualtieri costituiscono la conferma delle valutazioni negative svolte dalla Commissione europea, come sopra riportate, e la riprova del fallimento delle attività di bonifica dei siti inquinati in Calabria.

VI - Problematiche relative all'inquinamento delle acque

Il dottor Dolcino Favi, procuratore generale della corte d'appello di Catanzaro, nel corso dell'audizione del 3 dicembre 2009, ha rappresentato la situazione complessiva del distretto, in ordine agli illeciti connessi al ciclo dei rifiuti, distinta tra le quattro procure del nord (Cosenza, Rossano, Castrovillari e Paola) e le altre procure della fascia centrale (Crotone, Lamezia e Vibo Valentia).


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Sulla base di un questionario da lui predisposto e inviato a tutti gli uffici di procura del suo distretto, sono emerse tre tipologie: 1) un'attività diffusa, di tipo contravvenzionale, di modesto livello, legata più a un problema di civiltà e di educazione civica che di codice penale; 2) un'attività di tipo omissivo-colposo, collocata a livello di azione amministrativa, dal momento che non sempre le amministrazioni comunali sono sufficientemente attente al problema dei rifiuti; 3) un'attività di tipo doloso, che è quella della quale si occupano, in modo particolare, gli uffici di procura.
Con riferimento al trattamento delle acque, il dottor Favi ha citato la procura di Rossano la quale aveva individuato e sottolineato tre principali cause di carenza dell'azione amministrativa: a) il mancato collettamento delle acque reflue; b) il mancato adeguamento delle fognature per il conferimento al trattamento; c) lo smaltimento delle acque o di altri rifiuti, senza le garanzie di protezione dell'ambiente e della salute.
In ogni caso, le ipotesi contravvenzionali più diffuse sono legate alla miriade di micro discariche di rifiuti speciali, ingombranti e simili.
Quanto alle ipotesi dolose, si va dalla dissimulazione della reale natura dei rifiuti, con la predisposizione di formulari contenenti indicazioni mendaci (Paola) al versamento di rifiuti liquidi industriali nel suolo, sottosuolo e corsi d'acqua (Cosenza); dal trasporto e successivo conferimento in discariche abusive (Cosenza) all'interramento e/o al trasporto illecito di rifiuti nocivi, pericolosi o tossici, come ferriti di zinco e oli esausti (Castrovillari). Vi sono ancora lo stoccaggio, il trattamento illegale di rifiuti speciali, mediante deposito, miscelazione e lavorazione illegale e il successivo utilizzo come materie prime (Lamezia), nonché il trasporto e il conferimento in discariche abusive (Catanzaro) e il trasporto e il conferimento in discariche non autorizzate (Vibo Valentia).
Il procuratore generale ha distinto quattro tipi di danno: 1) quello atmosferico, causato da metalli pesanti, come il cromo esavalente, con pericolo concreto per l'ecosistema, e da diverse sostanze tossiche (procura di Paola); 2) quello dell'ambiente, determinato: a) dall'inquinamento di terreni agricoli, a seguito di interramento di rifiuti tossici e alla messa in sicurezza di tali depositi abusivi, effettuata in modo assolutamente precario, insufficiente e pericoloso (procura di Castrovillari), b) dalla dispersione aerea di fibre di amianto (procura di Catanzaro); 3) il danno fluviale con il dato concreto dell'inquinamento del fiume Crati (procura di Rossano), della moria dei pesci e dell'inquinamento delle falde acquifere (procura di Catanzaro); 4) il danno alle acque marine (procure di Crotone e di Lamezia Terme), determinato anche da carenze nello smaltimento dei fanghi derivanti dalla depurazione (procura di Catanzaro).
A proposito depuratore a Gioia Tauro, gestito dalla società IAM, che presentava delle disfunzioni. il dottor Favi ha dichiarato che, sulla base degli accertamenti svolti era stato appurato che la disfunzione del depuratore insorgeva in occasione della campagna olearia (e cioè, nei periodi di dicembre, gennaio e febbraio di ogni due anni) ed era da ricondurre all'eccesso di polifenoli, che non consentiva all'impianto

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di depurazione di depurare i liquami nel loro complesso e, quindi, in sostanza di funzionare.
Su tale problematica è significativo l'intervento dell'ex assessore regionale all'ambiente Silvestro Greco, il quale ha riferito di un grave problema di contaminazione sia dei terreni che della falda, determinato proprio dai residui della lavorazione delle olive per la produzione di olio, che investe sia la zona della Sibaritide e di Rossano, dove vi è una forte produzione di olio, sia soprattutto la piana di Gioia Tauro, dove insistono ben duecento frantoi.
Tuttavia, proprio a Gioia Tauro, nonostante la presenza dell'impianto di depurazione dello IAM, che lavora tali residui, il versamento dei reflui nelle acque e nei terreni è proseguito, probabilmente, anche per l'assenza di controlli adeguati e generalizzati.
La regione si è attivata, facendo ai produttori di olio di oliva una proposta molto interessante e, cioè, l'invio di autobotti per il ritiro dei residui di lavorazione e il successivo trasferimento all'impianto di depurazione dello IAM.
La proposta della regione non è stata accettata dai produttori.
La ragione di tale diniego - secondo l'ex assessore all'ambiente - è determinata dal fatto che vi è un regime di rendicontazione finanziaria, rispetto alla produzione dei frantoi, in base alla quale, mediante i conferimenti allo IAM, si dichiara di fatto la propria produzione di olio e «questo non piace a nessuno».
All'evidenza, ciò non è gradito ai produttori, probabilmente, in funzione di indebiti benefici che gli stessi - sulla base della produzione dichiarata, che non coincide con quella reale - ottengono dall'Unione europea, a titolo di integrazione del prezzo dell'olio di oliva.
Anche il prefetto di Reggio Calabria, nel corso della sua audizione del 1o dicembre 2010, ha riferito dell'inquinamento dei fiumi Budello e Metramo e di un altro torrente che attraversa Gioia Tauro, costantemente inquinati dagli scarti di produzione dell'olio di oliva.
Altro discorso collegato è quello dell'inquinamento delle fiumare.
Il NOE di Reggio Calabria, competente su tali aree, su delega della locale autorità giudiziaria, ha sviluppato un attento «monitoraggio delle fiumare» comprese nella provincia di Reggio Calabria, monitoraggio che ha posto in evidenza diverse violazioni in campo ambientale e paesaggistico, tali da determinare un evidente stato di degrado ambientale, specie per quei corsi d'acqua che ricadono nel comune capoluogo (doc. 163/1).
Il demanio di tali fiumare appartiene all'ente provincia, la quale si difende dalle accuse di omesso controllo, adducendo l'impossibilità materiale di renderle inaccessibili a terzi, tanto è vero che l'illecito più frequente è costituito dall'abbandono incontrollato di rifiuti speciali, pericolosi e non, come laterizi, elettrodomestici, ecc.. Va osservato che nelle fiumare sono state riscontrate altre violazioni, che una più accurata opera di vigilanza sulle aste fluviali da parte dell'ente preposto sicuramente avrebbe contenuto, assicurando altresì alla giustizia i responsabili. In particolare, non solo al ridosso dei muri d'argine, ma addirittura sullo stesso letto del torrente è stata riscontrata la presenza di scarichi fognari e industriali abusivi, di manufatti abusivi (parti o intere case private, parti o interi opifici per

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la lavorazione di inerti), di autodemolitori abusivi, di impianti di depurazione di acque reflue e, finanche, di cantieri edili. Emblematica è la situazione del fiume «Valanidi», che in corrispondenza della fascia di rispetto posta nella biforcazione dell'asta fluviale ( Valanidi Io e IIo), vede la presenza di un impianto di trattamento rifiuti, nonché il costruendo mercato generale e interi edifici destinati ad uso abitativo.
Come ha riferito Pasquale Angelosanto, Comandante provinciale carabinieri di Reggio Calabria, nel corso della sua audizione in data 3 dicembre 2009, il contesto di abbandono e di conseguente degrado favorisce l'inserimento della criminalità organizzata. E così due società, direttamente collegate alla 'ndrangheta, si erano suddivise i lavori per la variante della strada statale 106 e praticavano il prelievo sistematico della ghiaia dalle fiumare, provocando altresì l'inquinamento dei torrenti e dei fiumi, con l'abbandono delle rimanenze della lavorazione del calcestruzzo nelle stesse fiumare.
Pertanto, non solo le acque del lavaggio del calcestruzzo, ma anche le quantità di calcestruzzo eccedenti quella richiesta dalla posa delle relative opere vengono abbandonate nelle fiumare (sul punto si tornerà di seguito nell'apposito capitolo dedicato alla situazione dei rifiuti nel reggino).
Infine, vi è l'inquinamento marino, posto che una recente relazione del CoNISMa sull'area marina protetta di Isola Capo Rizzuto, nell'ambito del monitoraggio generale svolto d'intesa con la regione Calabria, ha accertato nell'area anzidetta un livello di arsenico molto elevato rispetto alla norma, escludendo, però, che esso provenga dalle acque del mare.
Ha riferito il dottor Favi che, secondo la tesi del CoNISMa, scientificamente dimostrata, si trattava di residui industriali della «Pertusola» di Crotone e di altre industrie del crotonese - di cui si dirà ampiamente nei successivi capitoli della relazione - residui che, attraverso le acque piovane, si erano infiltrati nelle falde acquifere e poi erano finiti nel mare, come si deduceva dal fatto che, man a mano, che si procedeva nelle acque marine, il livello di arsenico diminuiva, anziché aumentare.
Sulla presenza dell'arsenico e di residui di materiali pesanti, questa volta nel Tirreno, ha riferito il dottor Giuseppe Borrelli, procuratore aggiunto di Catanzaro, nel corso dell'audizione del 3 dicembre 2009, parlando di indagini effettuate nel 2006 da parte della procura di Paola, in collaborazione con l'ARPACAL e con un tavolo tecnico costituito ad hoc, allo scopo di cercare di capire se si fossero verificati fenomeni di inquinamento sottomarino, ossia di contaminazione del sedimento sottomarino o della fauna ittica, in relazione al rinvenimento della motonave «Federico», prima ancora che si scoprisse che si trattava di questa, e non della nave cosiddetta dei «veleni», di cui aveva parlato il pentito di mafia, Francesco Fonti.
Si è sviluppato anche un contraddittorio sui risultati di queste analisi.
L'ARPACAL ha appurato un livello di arsenico particolarmente elevato nel fondo marino in una zona sicuramente non interessata da scarico di rifiuti radioattivi, perché immediatamente circostante il relitto della motonave Federico.

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In realtà, osserva il dottor Borrelli, la Calabria e, in particolare, il litorale tirrenico è caratterizzata dal fenomeno dell'inidoneità degli impianti di depurazione realizzati a svolgere le loro funzioni, che viene amplificato anche dalle carenze di gestione degli stessi. Si tratta di impianti realizzati in maniera inidonea, sottodimensionati o sovradimensionati, tecnicamente errati, e gestiti in maniera inidonea per carenze nella manutenzione, che derivano a loro volta dall'inadempimento, da parte dei comuni interessati, degli obblighi finanziari nel pagamento dello smaltimento delle acque. I comuni non adempiono ai loro obblighi finanziari perché ritengono inutile farlo, considerato che gli impianti non funzionano.
Si tratta di una situazione incredibile, che crea un circolo vizioso, in forza del quale nessuno risponde, perché ciascuno adduce la responsabilità di altri.
In tale contesto, tutti i fenomeni di inquinamento, che si riversino sia in fogna sia nei rivi d'acqua, si traducono in inquinamento marino.
Ancora una nota dolente, rappresentata da Carlo Ferrucci, vice comandante regionale del Corpo forestale dello Stato, nel corso della sua audizione è quella relativa ai fanghi da lavorazione prodotti dalla depurazione delle acque, che vengono dispersi sul territorio, dal momento che funzionano male i depuratori, soprattutto, quelli ubicati lungo le linee di costa.
Invero, accade che, quando un impianto va in sofferenza, si attivano le condotte di bypass ovvero i liquami transitano nell'impianto senza alcun efficace trattamento, con il risultato che, per gli impianti delle fasce costiere, i liquami vengono di fatto scaricati direttamente nel mare.
Purtroppo, tale usanza è molto diffusa soprattutto nel reggino.
Le affermazioni del comandante del Corpo forestale dello Stato trovano piena conferma nel «rapporto sullo stato dell'ambiente», redatto a cura della regione assessorato politiche dell'ambiente e dell'ARPACAL, che pone in evidenza una situazione di carenze strutturali nella depurazione delle acque e nella gestione dei rifiuti.
La copertura del servizio di depurazione delle acque non solo è pari al 73 per cento della popolazione, ma non mette al riparo dalla vetustà degli impianti e dai sovraccarichi estivi sulle coste. Di conseguenza, le acque marine costiere destinate alla balneazione soffrono di problemi ecologici e igienico-sanitari.
Anche Salvatore Vitello, procuratore della Repubblica di Lamezia Terme, nel corso della sua audizione del 3 dicembre 2009, ha rappresentato la grave situazione di inquinamento marino, determinato in prevalenza da colibatteri fecali, che affligge soprattutto le coste del lametino e una parte del vibonese, in pratica tutta la costa che si affaccia sul golfo di San'Eufemia. Vi è tuttora una polemica forte e soprattutto una grande preoccupazione, dal momento che il mare di Lamezia Terme non è balneabile, nonostante la lunghezza della costa lametina, a motivo dell'esistenza di un solo depuratore, nel quale confluiscono diversi comuni, ma che presenta gravi problemi di funzionamento.
Nella indagine relativa al depuratore di Lamezia, erano state richieste significative misure, ma il GIP si era dichiarato incompetente, poiché aveva dequalificato il disastro da doloso in colposo, ritenendo

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ipotesi più grave la truffa aggravata, in quanto il depuratore non funzionava e il contribuente continuava a pagare, sicché il relativo procedimento è finito per competenza a Catanzaro.
Fatto sta che i problemi di tale depuratore erano poi continuati, tant'è che, di recente, era pervenuta una nuova segnalazione in merito e l'ufficio della procura di Lamezia Terme è stato chiamato a gestire la nuova indagine sull'inquinamento proveniente dallo stesso depuratore, con la conseguente necessità di coordinamento con il procuratore di Catanzaro, in relazione alla prima indagine avente lo stesso oggetto.
La procura di Lamezia Terme, per la parte di territorio di sua competenza, aveva aperto un fascicolo di atti relativi al modello 45 e aveva incaricato il NOE e la compagnia dei carabinieri per la verifica delle fonti di inquinamento, che sono i fiumi e i torrenti nei quali vengono scaricati tutti i liquami dei diversi comuni della zona, i cui depuratori esistono, ma non funzionano.
Addirittura, si è verificato che nel comune di Pianopoli (CZ) i carabinieri hanno sottoposto a sequestro due piccoli depuratori, che avevano iniziato a funzionare solo all'arrivo dei militari dell'arma.
E da ultimo, in data 18 novembre 2010, proprio nel comune di Pianopoli - come si è visto - è stato disposto dalla procura di Lamezia Terme il sequestro preventivo urgente addirittura di una discarica, sequestro che ha determinato una crisi dell'intero sistema di smaltimento dei rifiuti.
Si tratta di un fatto di una gravità inaudita, posto che lo scarico del percolato da rifiuti non può essere definito fatto occasionale, dal momento che i Carabinieri hanno accertato l'esistenza di un grosso tubo di acciaio che, partendo dall'interno della discarica e, precisamente, dalla zona dove sono ubicati i serbatoi di stoccaggio del percolato, collettava lo stesso percolato direttamente all'esterno della discarica (633/2).
A sua volta, il dottor Domenico Airoma, sostituto procuratore della Repubblica in Cosenza, nel corso della sua audizione, ha segnalato all'attenzione di questa Commissione l'area industriale di Bisignano, in provincia di Cosenza dove è stato accertato che il depuratore comunale (nel quale, tra l'altro, scaricava anche un'azienda, la Consuleco, cui pervenivano fanghi di lavorazione industriale, provenienti da territori extraregionali) era privo di qualsivoglia autorizzazione.
Ne era stato, pertanto, disposto il sequestro ed era stata rilasciata un'autorizzazione provvisoria e la stessa procura aveva seguito l'adempimento delle prescrizioni imposte dall'autorità provinciale per valutare i provvedimenti consequenziali.
Si tratta di un classico esempio di supplenza della magistratura, a fronte delle carenze della pubblica amministrazione.
La situazione sopra rappresentata è stata corroborata dalle dichiarazioni del dottor Mario Spagnuolo, procuratore della Repubblica di Vibo Valentia il quale, nella sua audizione del 3 dicembre 2009, ha riferito che Vibo si caratterizza per la presenza di due poli industriali e di alcuni villaggi turistici che determinano le problematiche in materia di sistemi di depurazione di cui ha parlato il procuratore della Repubblica di Lamezia Terme, con un ulteriore

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passaggio emerso nel corso delle numerose indagini e cioè che, accanto ai depuratori che non funzionano, perché tecnicamente inadeguati, nel vibonese è invalsa la pratica di mancato allaccio ai depuratori, che restano cattedrali nel deserto e non vengono utilizzati. Di conseguenza tutto il litorale del golfo di Sant'Eufemia è inquinato e solo l'intervento giudiziario, paradossalmente, finisce per innescare un circuito virtuoso, nel senso che, a seguito delle indagini, gli imprenditori ritengono necessario allacciarsi ai depuratori.
Andando più a nord lungo il litorale tirrenico, anche la dottoressa Antonella Lauri, sostituto procuratore della Repubblica di Paola, ha lamentato il difetto di funzionamento dei depuratori, tant'è che il suo ufficio, nell'estate del 2009, ha proceduto a numerosi sequestri di depuratori, riscontrando anomalie e difetti di manutenzione, e spesso anche di vigilanza, da parte degli organi amministrativi preposti ai controlli.
Quindi, dopo i sequestri, la Procura della Repubblica aveva, di volta in volta, concesso l'autorizzazione alla rimozione temporanea dei sigilli, per porre in essere interventi che dovrebbero portare a una soluzione, entro l'estate del 2010, quando le conseguenze negative di tale situazione raggiungeranno il loro apice, causando il problema dell'inquinamento delle acque marine.
In tale contesto, ciò che appare più assordante è la evidente assenza della pubblica amministrazione, tanto più che a partire dal 1o gennaio 2008 la competenza sulla acque è passata alla regione.
In realtà, come ha ben spiegato l'ex assessore regionale all'ambiente Silvestro Greco, nel corso della sua audizione del 1o dicembre 2009, «in questa regione sono stati installati 770 depuratori, la metà dei quali neanche collegati alla rete elettrica, solo al fine di «fare», perché «fare» significava aggiudicare appalti, creare clienti eccetera. Oggi abbiamo un problema di depurazione - tra l'altro è in corso un'inchiesta della magistratura - perché non si è mai pensato a predisporre un piano di depurazione, ma a installare i depuratori. Ebbene, nello stesso modo, negli ultimi 10-15 anni (il commissariamento dura da 11 anni), di fatto da parte degli amministratori della cosa pubblica c'è stata una deresponsabilizzazione totale rispetto a questo settore. La presenza di un commissario, nel bene e nel male, permette di scaricare le responsabilità» e ancora «Il rischio è che, una volta concluso il mandato del commissario, restino i conti da pagare. Considerato che per la depurazione si tratta di cifre di tutto rispetto e dato che la Calabria è già nei guai per altri discorsi, non vorremmo dover pagare questi conti. Il commissario, lo ricordo, è governativo, quindi le azioni sono fatte dal Governo, il quale dovrebbe anche chiudere i conti. Questo vale in particolare rispetto alla depurazione, ma anche rispetto alla problematica della gestione dei rifiuti. Teoricamente, a mio avviso, una volta sistemata questa faccenda dei conti, noi potremmo andare a una normalizzazione, che sicuramente sarà difficile, dal momento che si dovranno, ad esempio, rieducare i sindaci. In questa regione la legge Galli non viene applicata; nessuno chiede soldi per occuparsi di fogne e di depurazione o, se qualcuno li chiede, poi li utilizza per fare le sagre. Bisogna essere realisti, dunque, ma se non si inizia non si va da nessuna parte».

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A sua volta, l'ingegnere Bruno Gualtieri, direttore generale politiche dell'ambiente della regione Calabria ha riferito che, nell'anno 1999, esistevano nella regione n. 595 «impianti di depurazione» (di cui 50 in fase di progettazione), e 179 «vasche Imhoff», per un totale di 774 infrastrutture censite, gran parte delle quali del tutto non funzionanti e le altre più o meno compromesse nella loro funzionalità (doc. 608/2).
Successivamente nel 2010, gli impianti di depurazione erano 459, ciò che sta a dimostrare che, nel frattempo, nessuno degli impianti progettati era stato realizzato.
Nel frattempo, è accaduto che la Commissione europea ha deciso di deferire l'Italia alla Corte di giustizia dell'Unione europea per violazione degli artt. 3 e 4 della direttiva 91/271 sul trattamento delle acque reflue urbane di almeno 31 agglomerati calabresi (in realtà sono oltre cinquanta).
Alla fine del mese di settembre 2010, il dipartimento regionale politiche dell'ambiente, dopo aver sentito i comuni e le autorità d'ambito presenti nel territorio regionale, ha definito un primo programma straordinario di opere fognarie e depurative per arrestare il corso della procedura d'infrazione e ottimizzare il sistema depurativo e fognario regionale.
Il programma prevede interventi (compatibilmente con le risorse finanziarie disponibili) su tutti i 31 agglomerati passibili di infrazione, che a loro volta comprendono circa 90 comuni calabresi, tra i quali spiccano capoluoghi di provincia, come Reggio Calabria, Cosenza e Crotone e grossi centri urbani, come Gioia Tauro, Lamezia Terme, Siderno, Locri, Castrovillari, Rossano, ecc..
Naturalmente, come accade quasi sempre in Calabria, non si parla mai di «opere realizzate», ma solo di «opere programmate».
Non a caso l'ingegnere Bruno Gualtieri, nel corso della sua audizione del 23 settembre 2010, ha riferito testualmente che «la criticità sui depuratori significa 31 siti, che sono in infrazione comunitaria e sono alla Corte di giustizia europea. La diffida per la Calabria è che se non superiamo questa criticità nel breve tempo, bloccheranno i fondi comunitari 2007-2013. Questa è la spada che ci portiamo sulla testa».
In conclusione sul punto, la situazione è rimasta identica a quella rappresentata dalla sezione regionale di controllo per la Calabria della Corte dei conti nelle due relazioni approvate nelle adunanze pubbliche, rispettivamente, in data 11 gennaio 2002 (doc. 626/2) e in data 2 luglio 2004 (doc. 626/3), che riguardano le indagini svolte sull'inquinamento delle coste e sulla gestione degli impianti di depurazione nei comuni costieri della fascia tirrenica compresi nelle province di Vibo Valentia, Catanzaro e Cosenza, con riferimento agli anni 2001, 2002 e 2003.
È importante rilevare non solo il forte degrado delle coste e l'inquinamento marino, ma anche la mancanza di una seria volontà volta a individuare le fonti inquinanti e, soprattutto, a perseguire i trasgressori e così interi comuni della zona esaminata continuano ad essere privi di fognatura, mentre le amministrazioni comunali negano l'esistenza del problema.

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Numerosi sono gli scarichi non censiti da parte dei comuni e delle province, mentre liquami di origine organica e industriale continuano ad essere riversati nei fiumi e a confluire nel mare: ne sono prova i risultati delle analisi effettuate alle foce dei fiumi, con valori parecchie decine di misure al di sopra della soglia di tollerabilità umana.
I pochissimi provvedimenti repressivi rimangono senza seguito di sorta, denotando una carente capacità di repressione amministrativa (non sono stati segnalati casi di ingiunzioni di obblighi di adempiere, chiusure coatte di impianti industriali o artigianali, sanzioni pecuniarie, apposizione di sigilli, richieste di sequestri).
Tutto ciò avviene in un contesto che vede l'assenza di ogni cooperazione istituzionale (comuni, province, all'epoca, anche il commissario delegato), «laddove si procede in ordine sparso o si sottace il problema, salvo poi emettere pubbliche dichiarazioni rettificative» (vedi doc. 626/3 pagina 16).
In tale contesto, la sottolineatura che viene naturale fare è che non si comprende la ragione per cui l'emergenza relativa alle bonifiche di aree contaminate e al sistema di depurazione delle acque è stata fatta cessare nel 2007, mentre è rimasta in essere l'emergenza relativa al ciclo dei rifiuti, considerato che, per un verso, la questione delle bonifiche e quella del ciclo della depurazione è lungi dall'essere uscita dalla fase dall'emergenza e, comunque, dall'essere entrata nella fase di ordinaria normalità e, per altro verso, che le varie emergenze nel territorio calabrese appaiono tutte collegate tra di loro, anzi, rappresentano l'interfaccia l'una dell'altra.

VII - Alcune valutazioni sulle modalità con cui è stato affrontato lo stato di emergenza rifiuti in Calabria

All'esito di queste analisi sulla drammaticità della situazione dei rifiuti, non è dato di comprendere le originarie scelte dell'ufficio del commissario delegato per l'emergenza rifiuti della Calabria che, agli inizi degli anni 2000, lo hanno portato a insistere, in modo esclusivo, per un sistema di smaltimento dei rifiuti, volto alla produzione e combustione del solo cdr, che ha lasciato pressoché intatte tutte le problematiche legate alle discariche, abusive e non.
Contrariamente a quanto affermato dal dottor Giuseppe Chiaravalloti, presidente della regione Calabria e commissario delegato dal 16 aprile 2000 al 20 luglio 2004, nella nota depositata in data 11 novembre 2010 e ribadita nel corso dell'audizione del 18 novembre 2010, non risulta che il decreto legislativo 22 del 1997 (cosiddetto decreto Ronchi) «impediva di fatto la combustione del R.U. (rifiuti urbani) "tal quali" e anzi imponeva il rispetto di specifiche per il cdr».
Sul punto, in via preliminare, va osservato che il cdr (costituito da rifiuti secchi, quali cartoni e materie plastiche) per essere di qualità, idoneo cioè a essere finemente triturato e bruciato in forni «a letto fluido» - come quelli, per intendersi, realizzati a Gioia Tauro (RC) e ad Acerra (NA) - deve provenire dalla raccolta differenziata, poiché solo la carta e la plastica (in quanto già parte secca), ove non destinata a imprese per il riciclo, si prestano ad essere trasformate immediatamente, mediante triturazione, in cdr; in alternativa il cdr


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deve provenire da un ciclo industriale di trattamento dei rifiuti urbani «tal quali» molto efficace nella separazione e qualificazione della frazione secca, ciò che richiede impiantistica e capacità gestionale molto elevate.
Infatti, a partire dalla raccolta indifferenziata dei rifiuti urbani è necessario, innanzitutto, procedere a un'operazione di separazione della parte secca dalla quella umida, quindi occorre eliminare dalla parte secca i materiali ferrosi e quelli vetrosi: il tutto avviene mediante il trattamento meccanico-biologico, che viene eseguito in appositi centri, dove il rifiuto «tal quale» viene destinato, dopo essere stata eventualmente compattato per ridurne il volume.
Le priorità vigenti, anche alla stregua della nuova direttiva europea 98/2008, sono nell'ordine: 1) la riduzione della produzione e pericolosità dei rifiuti; 2) il reimpiego e il riciclaggio; 3) il recupero come materia; 4) il recupero come energia; 5) lo smaltimento finale.
Da questo punto di vista la filiera «selezione-produzione cdr- combustione cdr» in forno «a letto fluido» non si colloca diversamente rispetto alla combustione del «rifiuto tal quale», posto che è la produzione di energia il vero recupero di entrambe le modalità di gestione. Con la differenza che, nel caso di produzione cdr, il sistema infrastrutturale e gestionale deve essere sufficientemente evoluto per garantire non solo la produzione, ma anche la buona qualità di tale prodotto, mediante un sistema di raccolta differenziata ovvero, in alternativa, attraverso le fasi di trattamento industriale del rifiuto, come di seguito schematizzate:
1) separazione della frazione secca da quella umida del rifiuto urbano tal quale, raccolto in maniera prevalentemente indifferenziata, peraltro, da soggetti diversi da quelli che gestiscono gli impianti;
2) lavorazione della frazione secca per migliorarne il potere calorifico sino alla sua vera e propria qualificazione come cdr.
L'adeguatezza del potere calorifico è correlato se non alla mancanza, quanto meno, alla scarsa presenza sia di materiale metallico, di vetri e di inerti, sia di materiale putrescibile: tutto ciò allo scopo di ottenere un prodotto che abbia un basso contenuto di umidità e sia privo di sostanze pericolose.
In particolare, ai fini della combustione, si rendono necessarie operazioni di separazione, trattamento, triturazione, vagliatura e/o trattamento fisico meccanico (presso - estrusione) ed eventuali trattamenti di essiccamento, addensamento e pellettizzazione;
3) conferimento del cdr, divenuto in questa fase un «rifiuto speciale», a un impianto di termovalorizzazione, che nel caso della Calabria è posto a Gioia Tauro (RC) ed è in grado di smaltire 120 mila tonnellate/anno di cdr, che viene prodotto, oltre che dall'impianto di trattamento meccanico-biologico di Gioia Tauro, anche dagli altri impianti di trattamento ubicati, rispettivamente, a Catanzaro, Lamezia Terme (CZ), Reggio Calabria (località Sambatello), Siderno (RC), Rossano (CS) e Crotone.
4) combustione del cdr con recupero di energia in impianto dedicato.

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Ora è ben vero che questa «filiera» è perfettamente compatibile con le norme vigenti all'epoca e tuttora in vigore, ma si comprende molto facilmente come questa cosiddetta «filiera» è sicuramente fra quelle tecnologicamente e gestionalmente più complesse per la valorizzazione energetica del rifiuto, tanto che a tutt'oggi - trascorsi vent'anni - nel nostro Paese restano, comunque, poche le realtà in cui questa modalità di gestione si sia imposta.
Invero, in nessuna realtà provinciale o regionale si è puntato solo su di essa, quale come unica opzione tecnologica per lo smaltimento dei rifiuti, salvo purtroppo che in Campania, regione ancora più travagliata della Calabria per la sua elevata densità abitativa, posto che - come si è detto - il termovalorizzatore di Acerra è in grado di bruciare il solo cdr, non anche il «rifiuto tal quale».
Puntare sulla improvvisa attuazione di una «filiera industriale», come quella descritta, in una situazione di emergenza e conseguente commissariamento e in una realtà, come quella della regione Calabria, che non aveva alle spalle (né ha acquisito, nel frattempo) alcuna esperienza di gestione industriale dei rifiuti - circostanza, del resto, acclarata nella stessa nota del dottor Giuseppe Chiaravalloti - si è rivelata un errore di valutazione, che ha finito con l'aggravare la situazione di crisi nel settore dei rifiuti solidi urbani, dalle discariche ai trasporti.
Tutto ciò a prescindere dai gravi rilievi gestionali, posti in evidenza dalla sezione regionale della Corte dei conti nella relazione approvata in data 21 dicembre 2009 (doc. 350/2 pagg. 653 e segg.), che danno conto del fatto che la «filiera industriale» dei rifiuti ha rappresentato non la soluzione del problema, bensì fonte di inquinamento e di perpetuazione di un sistema assolutamente privo di trasparenza.
A tal proposito, si pensi - solo per fare un esempio - ai servizi di trasporto dei rsu presso impianti di trattamento e/o discariche, distanti molte decine di chilometri, affidati senza regolare gara di appalto.
Infine, con riguardo alla più volte sollevata «tematica delle emissioni», va osservato che è vero che si registra in generale un miglioramento della combustione utilizzando il cdr, anziché il rifiuto tal quale, in ragione di potenziale riduzione delle emissioni di ossidi di azoto, ma questa opportunità di fatto si pareggia quando per gli impianti di combustione si adottano presidi di abbattimento dei fumi, quali i DENOX, che riducono le concentrazioni di ossidi di azoto, anche oltre i pur restrittivi limiti imposti dalla normativa in vigore.
A puro titolo di esempio e allo scopo di fornire un riscontro pratico a queste affermazioni, si possono richiamare altre situazioni, fra le tante, che si potrebbero citare.
Negli stessi anni e con le stesse leggi vigenti, a Brescia, è stato realizzato un termovalorizzatore per rifiuti urbani tal quali, capace oggi di trattare circa 800 mila tonnellate/anno di rifiuti urbani e industriali, in un'area territoriale molto più «stressata» dal punto di vista della qualità dell'aria sia per la quantità delle emissioni che vi insistono, sia per le condizioni meteoclimatiche dell'area della pianura padana, che risultano sicuramente più critiche rispetto a quelle di qualsiasi altra area del Paese.


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Ancora, la regione Emilia Romagna - che ha una popolazione complessiva di quattro milioni di abitanti e una produzione annua di rsu pari a tre milioni di tonnellate - è dotata complessivamente di otto impianti di incenerimento, uno per ciascuna provincia, di cui sette dedicati alla combustione del rifiuto urbano tal quale, e un solo impianto «a letto fluido», costruito a Ravenna e destinato a bruciare il cdr. Tutto ciò nonostante che - a differenza della Calabria - la raccolta differenziata sia superiore al 50 per cento.
La seconda considerazione da fare - che trova precisi riscontri nel contesto ambientale calabrese come sopra rappresentato - è quella relativa al fatto che, laddove gli impianti di selezione-produzione cdr non sono posti in adiacenza all'impianto di termovalorizzazione, si moltiplicano le fasi di gestione e di processo a rischio di infiltrazioni di gruppi di criminalità organizzata.
Nella «filiera» del cdr, infatti, alla raccolta del rifiuto urbano indifferenziato, svolta solitamente dai comuni, si aggiunge - come si è osservato - il trasferimento dei rifiuti in appositi centri, il loro successivo trasporto a impianti di selezione, a cura di un soggetto diverso, il trattamento del rifiuto per produrre cdr da parte di un altro soggetto e, infine, il definitivo trasporto all'impianto di termovalorizzazione.
Ora appare evidente che, in questi non pochi passaggi, in linea teorica tutti legali e tutti legittimi, si possono potenzialmente verificare rischi maggiori di infiltrazioni criminali e/o di inquinamento del territorio, rispetto a un sistema diverso che li vedrebbe drasticamente ridotti.
In tale contesto, non si comprendono le ragioni delle scelte fatte nel 2000 dal commissario delegato, dottor Giuseppe Chiaravalloti, scelte che si possono definire «raffinate», ma del tutto inidonee in una situazione di emergenza che ne richiedeva di rapide, sicure e agibili, come competono al commissario straordinario.
In definitiva - e non è cosa da poco in una terra che vede l'infiltrazione di gruppi criminali in tutte le attività economiche - l'incenerimento del «tal quale», a cui si sarebbe dovuta aggiungere la realizzazione di qualche grande discarica controllata pubblica, avrebbe ridotto al minimo i successivi passaggi di lavorazione dei rifiuti.
Ciò avrebbe costituito la soluzione migliore per dare una risposta all'emergenza e per traguardare, quindi, in un orizzonte temporale più ampio e con modalità ordinarie e non emergenziali, il passaggio verso la normalità e la legalità.
Fermo rimanendo il fatto che l'incenerimento del tal quale andava accompagnato alla creazione di un sistema di raccolta differenziata, come del resto accade in tutto il nord della penisola, dove la raccolta differenziata raggiunge e supera il 50 per cento dei rifiuti urbani.
La struttura commissariale calabrese, pur nell'assenza totale della raccolta differenziata, ha cercato, ma invano, di creare «ex novo» un sistema che ancora oggi, a distanza di un decennio, stenta a decollare. Il commissario delegato per l'emergenza rifiuti in Calabria, al fine di avviare la raccolta differenziata, ha costituito società miste pubblico/private, che versano - pressoché tutte - in stato di sofferenza, per

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gli elevati costi determinati da assunzione di personale in esubero, e che non hanno prodotto alcun servizio.
Inoltre, nei capoluoghi di provincia operano accanto alle società miste, deputate alla raccolta differenziata, anche le vecchie municipalizzate per la raccolta indifferenziata, con la conseguente presenza sullo stesso territorio di due distinti enti, a partecipazione comunale, che hanno il medesimo oggetto e, cioè, la raccolta dei rifiuti.
La terza considerazione (di carattere squisitamente politico) investe la «problematicità» della scelta del grande appalto affidato a un unico soggetto imprenditoriale (nel caso di specie, incaricato sia della realizzazione, sia della gestione di tutta l'impiantistica per lo smaltimento dei rifiuti in Calabria), «problematicità» che prefigura una situazione di potenziale rischio o complessità, non per ragioni di mera legalità o legittimità, ma perché è evidente che le eventuali difficoltà - di carattere economico-finanziario o imprenditoriale - di tale unico soggetto rischiano di fatto di mettere in ginocchio l'intero sistema regionale.
Inoltre, va considerato che affidamenti a soggetti privati che vedono, comunque, una compartecipazione degli enti pubblici per la realizzazione degli impianti nelle fasi autorizzative (come ad esempio accade per la VIA o per la localizzazione delle aree in cui insediare gli impianti) sono sicuramente destinati ad essere accompagnati da ulteriori problemi legati agli ambiti delle rispettive competenze, che finiscono con il determinare rimpalli di responsabilità, come in effetti si è verificato in Calabria. La veridicità di questa affermazione è suffragata dal numero e dalla dimensione economica dei contenziosi, che da lunghissimi anni contrappongono il commissariato di governo al soggetto appaltatore (TEC-Veolia), inchiodando conseguentemente la situazione all'esito di tali contenziosi, che muovono cifre di decine di milioni di euro e cristallizzano la situazione nella crisi in cui si trova.
Le suddette considerazioni trovano un preciso riscontro nelle critiche che, ormai nel lontano anno 2005, la sezione centrale di controllo della Corte dei conti sulla gestione delle amministrazioni dello Stato ha svolto all'istituto commissariale nella deliberazione n. 1/2005/G, nelle cui «conclusioni» ha sottolineato: 1) che l'assetto organizzativo dell'emergenza rifiuti ha perso gli originali caratteri della precarietà ed eccezionalità e si è venuto configurando come una complessa e duratura organizzazione «extra ordinem», che si è affiancata a quella ordinaria, paralizzandone spesso l'operatività; 2) che tale deroga, reiterata e pluriennale, alle ordinarie competenze - derivata dalla inefficacia dell'agire amministrativo delle amministrazioni locali e dall'inadeguatezza tecnica e finanziaria, rispetto alla complessità dei problemi e dei compiti da svolgere - si pone in contrasto con lo spirito della riforma del titolo V della Costituzione, che ha delineato un modello amministrativo basato sugli enti locali e sulla sussidiarietà; 3) che ciò ha incentivato una prassi abnorme, la quale ha portato all'adozione di regimi commissariali derogatori anche per situazioni di pericolo determinate sostanzialmente da inefficienze, ritardi e imprevidenza degli ordinari apparati amministrativi, permettendo così alla emergenza di operare anche nell'ambito specifico degli apparati ordinari; 4) che, in definitiva, il ricorso

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all'emergenza non ha portato a una più efficace applicazione della complessa disciplina ambientale, bensì a un doppio risultato negativo e, cioè, per un verso, ha differito nel tempo l'applicazione delle sue stringenti statuizioni e, per altro verso, ha incentivato la sfiducia nei confronti dell'amministrazione ordinaria, nell'erroneo convincimento che si possano garantire l'efficienza e l'efficacia degli interventi solo mediante misure straordinarie e ricorrendo alla deroga delle norme, viste sempre più come impaccio.
Singolare - osserva ancora la Corte dei conti, nelle conclusioni anzidette - risulta il fatto che il commissariamento venga sollecitato quasi sempre dagli stessi organi regionali diminuiti nelle loro funzioni, che non temono la surrogazione, anche perché - per prassi, che si è andata consolidando nel corso degli anni dell'espansione dell'istituto del commissariamento - la scelta del commissario delegato, paradossalmente, è andata sempre più incentrandosi sugli stessi sostituiti, e cioè i Presidenti delle regioni, così compenetrandosi nella amministrazione ordinaria e attribuendo competenze straordinarie ad organi ordinari.
Naturalmente, ciò non è avvenuto a caso, posto che gli strumenti di protezione civile hanno consentito il potenziamento dei poteri e dei mezzi a disposizione dei singoli presidenti regionali.
Peraltro - come ha rilevato il Consiglio di Stato (sez. V, 13/12/2002 n. 6809) - si è creato il rischio di consolidare la sovrapposizione di un sistema amministrativo e di gestione alternativo, a quello ordinario, con l'effetto «di estromettere completamente i comuni e quindi le comunità che esprimono l'Amministrazione di livello locale dalla gestione di significativi aspetti della vita delle comunità medesime». Già in precedenza, la Corte dei conti (sez. contr. 19/11/1996 n. 151) aveva parlato di anomalia istituzionale, «che introduce alterazioni alle normali competenze di enti e organi pubblici, neutralizza sostanzialmente la forza del controllo giuridico, attraverso il riconoscimento di poteri di deroga normativa, contribuendo altresì a radicare il convincimento che interventi straordinari sanino le inefficienze e cancellino le responsabilità.»
In definitiva, il commissariamento non ha avuto come la finalità principale quella di affidare la gestione dell'emergenza rifiuti a organi tecnici più attrezzati allo scopo di dare piena attuazione alla disciplina vigente sui rifiuti, né ha portato alla velocizzazione dei procedimenti amministrativi necessari all'uscita dall'emergenza, ma il più delle volte ha avuto il solo scopo di attribuire poteri straordinari all'organo investito di una certa funzione.
Tutto ciò ha prodotto precisi effetti negativi determinati: a) dall'assenza di forme di confronto democratico con le realtà locali; b) dalla mancata applicazione della normativa sulla concorrenza nell'affidamento degli appalti, con conseguente violazione delle regole della trasparenza, imposte dalle normative comunitarie e nazionali.
Sul primo punto - osserva la Corte dei conti - poiché le comunità locali tendono spesso ad opporsi ai progetti, chiedendone la modifica o addirittura il ritiro, la mancata partecipazione di queste al processo decisionale ha portato all'assunzione delle decisioni strategiche da parte dei commissari in maniera solitaria, avvalendosi delle proprie facoltà di deroga alla legislazione vigente. Tali scelte - peraltro

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comunicate, solo in un secondo momento, alle comunità interessate - spesso, non hanno trovato né accoglimento, né condivisione, determinando, di conseguenza, non solo inefficienze di ordine amministrativo e giuridico, ma - com'è avvenuto in Calabria - anche forti opposizioni da parte delle popolazioni locali, nei cui rispettivi siti era stata prevista la realizzazione degli impianti di trattamento e/o di discariche.
Si tratta della sindrome nimby (not in my back yard), secondo cui in presenza di opere, anche di pubblica utilità che hanno un potenziale impatto ambientale, le comunità locali tendono ad opporsi in maniera radicale, chiedendo la modifica o il ritiro del progetto. Invero, un processo decisionale in cui le scelte vengono assunte da un ristretto numero di persone, che condividono un interesse di fondo dell'iniziativa e soltanto in seguito ne danno comunicazione all'esterno, è considerato uno dei fattori scatenanti della sindrome nimby.
Sul secondo punto, la deroga ai principi della concorrenza e trasparenza nell'attività contrattuale, ampiamente praticata da tutti i commissari - in contesti ambientali particolarmente difficili per la presenza di una radicata criminalità economica organizzata, che avrebbe dovuto indurre, al contrario, ad una rigorosa e trasparente selezione delle imprese - ha contribuito a produrre la rilevante quantità di indagini penali, amministrative e contabili, che hanno coinvolto molti dei vertici delle strutture commissariali succedutesi nel tempo.
Peraltro - e non si tratta di fatto secondario - nessuno dei contratti stipulati dai commissari delegati è stato sottoposto al controllo preventivo della Corte dei conti.
Come si è visto, l'ingente ricorso nella gestione dei rifiuti a società miste pubblico-private, spesso non competitive, inefficienti, polverizzate, in un intreccio difficilmente districabile tra interessi pubblici e privati, ha prodotto in Calabria, oltre alla violazione delle direttive comunitarie in materia di affidamento dei relativi appalti, gravi problemi di infiltrazioni malavitose.
E, ancora - prosegue la Corte dei conti, in perfetta sintonia con quanto la Commissione parlamentare di inchiesta ha potuto verificare in Calabria - le ordinanze hanno previsto adempimenti assai onerosi, assegnando ai commissari obiettivi da considerarsi già probabilmente prima facie irrealizzabili, in relazione ai tempi brevi di validità dei provvedimenti. In tal modo, la mancata realizzazione delle finalità originariamente prefissate ha costituito fondamento per una ulteriore proroga dello stato di emergenza e per la conseguente conferma dei poteri straordinari anche nell'immediato futuro, con un progressivo slittamento dei termini previsti per la realizzazione degli obiettivi.
Paradossalmente l'inefficienza del regime commissariale ha assicurato a se stesso la sopravvivenza in un circolo vizioso, dove il ritorno alla ordinarietà è divenuta una prospettiva assai lontana, mentre anche in Calabria si assiste al fenomeno di quella «produzione alluvionale di ordinanze, modificative di competenze e di obiettivi, talora confuse e di non facile lettura».
Queste conclusioni sono in piena sintonia con quelle contenute nella relazione ispettiva svolta nel secondo semestre del 2006 dal

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dottor Michele Maggio, su incarico del sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri (doc. 619/6). La relazione, dopo aver posto in evidenza i diversi settori dell'inquinamento ambientale regionale nonché le diverse problematiche insite all'interno di detti settori che coinvolgono anche gli assetti socio-politici locali e interessano l'intero territorio regionale, conclude affermando che in Calabria l'attività svolta dalla struttura organizzativa accentrata del commissario delegato per l'emergenza rifiuti non ha prodotto risultati soddisfacenti in termini di efficienza, volta ad affrontare in modo adeguato la situazione di emergenza, «salvo che per lo stratosferico numero di ordinanze che, nel periodo compreso tra l'inizio della gestione commissariale e il secondo semestre dell'anno 2006, avevano raggiunto e superato le quattromilaottocento unità». Alla luce delle indagini svolte, si ravvisano «i possibili effetti positivi che avrebbero potuto trarsi da una struttura operativa decentrata, affidando, ad esempio, la responsabilità degli interventi a stazioni appaltanti diversificate, dirette da sub commissari territorialmente competenti, eventualmente anche per soli gruppi di opere». Ciò, sia al fine di imprimere una spinta efficientistica e di concretezza all'attività commissariale delegata, sia allo scopo di evitare che il decorso del tempo possa porre in discussione l'appropriatezza dell'utilizzazione dello strumento normativo previsto dalla legge 24 febbraio 1992, n. 225, considerato che le disposizioni contenute in tale legge sono state emanate per far fronte a situazioni eccezionali di emergenza, in quanto tali, contrastabili con singoli provvedimenti «tampone», da non radicarsi in una ordinarietà operativa, come invece è accaduto in Calabria nel settore dell'emergenza rifiuti.
Infine, anche lo stesso capo del dipartimento della protezione civile, nel corso della sua audizione del 20 luglio 2006 davanti alla XIII Commissione permanente del Senato della Repubblica, si è espresso in termini negativi sulla gestione commissariale rilevando che «L'esempio negativo per antonomasia è quello relativo alla gestione dei rifiuti, fermo restando che alcune regioni hanno fatto meglio ed altre peggio. Nella gestione dei rifiuti i commissari sono serviti soprattutto a deresponsabilizzare il territorio e credo che ciò abbia rappresentato un grave errore.»
Purtroppo, ancora oggi, a distanza di oltre un lustro dalle puntuali e pertinenti osservazioni degli organi ispettivi e di controllo della gestione del commissario del governo, non vi è stato - a livello politico governativo - nessun cambio di rotta nel sistema di gestione dell'emergenza rifiuti. Pertanto, nonostante il suo palese fallimento, la gestione commissariale dell'emergenza rifiuti in Calabria prosegue con le medesime modalità.

VIII - Traffico di rifiuti pericolosi

Quanto a rifiuti pericolosi provenienti illegalmente da fuori regione, su incarico della procura di Paola, è in corso un monitoraggio al metro quadro di tutta l'area del torrente Oliva, che vede il Corpo forestale dello Stato impegnato con cinque squadre, allo scopo di


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individuare l'eventuale presenza di sostanze tossiche e/o radioattive, presumibilmente, racchiuse in fusti, poi interrati.
Allo stato, non è stato riscontrato nulla, ma le indagini proseguono, con tempi necessariamente non brevi perché il monitoraggio investe decine di ettari.
Sul punto, è intervenuta anche la dottoressa Antonella Lauri, sostituto procuratore della Repubblica in Paola, la quale - nel corso della sua audizione del 3 dicembre 2009 - ha riferito di una indagine ancora in corso nel comune di Serra d'Aiello (CS), dove è stata riscontrata, nei pressi dell'alveo del fiume Oliva, da un lato, la presenza di metalli pesanti, in particolare il mercurio, e, dall'altra, su un rilevato posto nella stessa area, la presenza di cesio 137. È agli atti una consulenza tecnica del pubblico ministero che esclude che la presenza del cesio 137 sia riconducibile a fenomeni di ricaduta naturale o - per fare un esempio - all'esplosione di Chernobyl, per via della profondità a cui è stato trovato il materiale che, viceversa, tende invece a rimanere in superficie. I carotaggi eseguiti sono stati effettuati a una profondità compresa tra i due e i sei metri e il consulente nominato ha escluso che si sia verificato un fenomeno di permeazione di tale materiale, che tende appunto a rimanere in superficie.
Le indagini in corso sono non solo di carattere tecnico, ma anche volte a far luce sulla provenienza del materiale rinvenuto.
A proposito della provenienza di rifiuti speciali, il sostituto procuratore distrettuale antimafia di Catanzaro, Vincenzo Luberto, nell'audizione del 3 dicembre 2009, ha sottolineato l'incongruità dello smaltimento di tali rifiuti in Calabria, considerato che l'agenzia nazionale per l'ambiente, l'ISPRA, ha calcolato una capacità di smaltimento di rifiuti speciali calabrese molto alta, di quasi 43 mila tonnellate per anno, pari a circa il 7 per cento dei rifiuti nazionali, quantitativo che non corrisponde assolutamente alla produzione di rifiuti speciali nella regione.
Il dottor Luberto ha riferito che i dati processuali, come gli altri elementi di indagine, non consentono di imbastire un procedimento volto alla dimostrazione di un'importazione di rifiuti speciali dal territorio non calabrese e, quindi, di censire giudiziariamente un fenomeno di questo tipo.
La Commissione, comunque, non può che prendere atto del fatto che, da dati di carattere oggettivo, emerge che la Calabria è terra di smaltimento di rifiuti speciali, provenienti da altre regioni. Ciò, evidentemente, a prescindere dalla presenza di rifiuti radioattivi rinvenuti nel fiume Oliva e dal problema delle cosiddette «navi a perdere».
A dimostrazione della presenza e della rilevanza del fenomeno, nel mese di maggio 2009, con l'Operazione Leucopetra la procura di Reggio Calabria, con l'ausilio del Corpo forestale dello Stato, ha chiuso una indagine, durata quattro anni, che ha portato all'individuazione dei fanghi di combustione della centrale Enel di Brindisi, anche pericolosi, che venivano trasportati in Calabria, dopo essere stati artatamente declassificati. Tali fanghi venivano miscelati con argille e sepolti nelle cave poste nell'area di Lazzaro, Motta San Giovanni (RC), un comune sullo Ionio, a quindici chilometri da Reggio Calabria. In

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tal modo, all'interno di queste cave, sono state portate circa 100 mila tonnellate di rifiuti speciali. L'indagine, chiusa con dieci arresti sia a Brindisi, che a Reggio Calabria, vede coinvolti i dirigenti della Centrale Enel di Brindisi e i proprietari della cava, nella quale venivano occultati questi rifiuti (8).
In parallelo con la suddetta indagine ve ne è un'altra che vede la Calabria utilizzata, non quale terra di destinazione finale dei rifiuti pericolosi, bensì quale punto di transito degli stessi.
Il comandante Aldo Iacobelli, nel corso dell'audizione del 1o dicembre 2009, ha riferito di un'indagine concernente l'esportazione dei rifiuti provenienti da altre regioni, denominata «Grande Muraglia», che aveva investito il porto di Gioia Tauro, utilizzato come transito per spedizioni transfrontaliere destinate alla Cina, al Sud Africa ed a paesi del Medio Oriente. Le indagini, iniziate nel 2005, a seguito del sequestro operato dal NOE di due container nel porto di Gioia Tauro, sono state svolte dalla procura di Palmi e hanno visto l'esecuzione di venti ordinanze di custodia cautelare per reati di associazione per delinquere, falso e traffico internazionale di rifiuti, ma poi per competenza territoriale il procedimento è stato trasferito a Salerno.
Dalle indagini svolte è emerso che centinaia di container carichi di plastica non trattata e di rifiuti pericolosi provenienti dai porti di Livorno, Genova, Civitavecchia, Venezia e Bari, arrivavano sulle banchine del porto di Salerno, dove venivano stivati e sottoposti a una prima lavorazione, che consentiva la perdita apparente delle originarie caratteristiche di rifiuti per divenire materia prima secondaria.
I container contenenti i suddetti rifiuti venivano trasportati a Gioia Tauro, dove venivano scaricati e poi messi in navi più grosse, prima di lasciare l'Italia diretti a Hong Kong, accompagnati da falsi documenti di trasporto e false dichiarazioni da esibire alle dogane per eludere i controlli. Da Hong Kong i container contenenti i rifiuti venivano portati via terra e scaricati nel nord della Cina, dove una parte della merce veniva trasformata in «materia prima» (da riutilizzare nella fabbricazione di giocattoli, piatti e bicchieri) e una parte abbandonata in immense discariche a cielo aperto. Ha riferito il comandante Iacobelli che le indagini dell'arma hanno consentito di intercettare le mail con le foto degli impianti in Cina in una foresta, nelle quali si vedeva come questa plastica arrivava, veniva pulita in vasche, liquefatta e resa nuovamente pasta per poter essere imballata e utilizzata sia per la Cina, sia per essere rivenduta nei Paesi europei.
Nell'esportazione di tali rifiuti plastici sono coinvolti diversi imprenditori del Lazio, della Puglia, della Campania, ma nessun imprenditore calabrese, sicché, nella specie, la Calabria è stata utilizzata solo come porto di trasferimento, mentre due cinesi fungevano da collegamento tra la fabbrica cinese e le aziende locali.
Le indagini effettuate sulle imprese di Lazio, Campania e Puglia che conferivano materiale plastico per l'esportazione in Cina hanno consentito di appurare: 1) che le stesse erano sprovviste degli

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strumenti necessari per lavorare la plastica, ma avevano soltanto i compattatori, per cui compattavano il materiale in balle e caricavano sui container; 2) che le imprese suddette avevano in essere contratti di appalto con i comuni per la raccolta dei rifiuti plastici e, dunque, venivano pagati per ritirare il materiale plastico, che, viceversa, esportavano in Cina, senza sottoporlo ad alcun trattamento, sicché conseguivano in modo illecito un doppio guadagno.
Sottolinea il capitano Iacobelli che il mercato cinese ha regole precise che impongono a chi voglia spedire rifiuti in Cina di rivolgersi a un centro di eccellenza che, per questa parte di Europa, si trova a Marsiglia, i cui funzionari controllano la qualità, in quanto la Cina non importa i rifiuti, perché fa cattiva pubblicità (com'è avvenuto nel caso della «Mattel»), ma solo materia prima secondaria.
Nella specie, la banda non si serviva del centro di eccellenza di Marsiglia, ma - come si è detto - l'ingresso dei rifiuti plastici in Cina avveniva, in modo surrettizio, tramite Hong Kong, con l'aiuto di funzionari compiacenti. Dal canto loro, al fine di mascherare il traffico, i due soggetti cinesi che fungevano da collegamento, inviavano in Cina le foto di un carico pulito, mentre viceversa spedivano rifiuti plastici di vario tipo, per di più intrisi di ogni sostanza.
L'indagine era stata trasmessa per competenza alla procura di Salerno. Tuttavia, nel corso della loro audizione in data 7 ottobre 2010 davanti a questa Commissione, Angelo Frattini, all'epoca dei fatti sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Salerno, e Domenico Santoro, giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Reggio Calabria, hanno riferito che il GUP di Salerno, in data 9 giugno 2010, ha dichiarato la propria incompetenza per territorio, sollevando conflitto di competenza dinanzi alla Corte di cassazione, che non si è ancora pronunziata.
Quanto alle dimensioni del fenomeno, il dottor Frattini, dopo aver confermato l'impianto accusatorio, che vedeva alcune società baresi (Aermar e Duesse) svolgere attività di intermediazione nel recupero dei rifiuti e numerose altre (Ecoterra, Baldacci, Nando, Remas) occuparsi del trasporto e del trattamento, ha riferito che dalle conversazioni telefoniche emergeva un giro di affari di grosse dimensioni, pur se, nel breve periodo di monitoraggio delle attività delittuose effettuato dai carabinieri del NOE, era stata appurata la partenza dal porto di Gioia Tauro di solo 2.648 tonnellate dei suddetti rifiuti per un controvalore di circa quattrocentomila euro.
Il capitano Iacobelli ha riferito inoltre di rifiuti ferrosi, spediti attraverso il porto di Gioia Tauro in Pakistan o in altri paesi dell'area mediorientale, asiatica o africana e, infine, di un sequestro di rifiuti importati in Italia da Israele. Dovevano essere pani di piombo delle batterie puliti dagli acidi, da utilizzare in un'industria della provincia di Messina, mentre, in realtà, si trattava di batterie frantumate, messe nel carico e poi compattate. Nella sostanza, in presenza di tali impurità, per non aver subìto un processo di trattamento o di lavorazione, si trattava di rifiuti.
Su quest'ultima vicenda vi erano già rinvii a giudizio.
Infine, un'indagine della procura della Repubblica presso il tribunale di Sala Consilina (SA) ha investito una traffico di rifiuti dalla Calabria in Campania.

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Sono state, infatti, concluse le indagini preliminari nel procedimento penale n. 626/2010 RGNR mod. 21 a carico di Coppola Antonio + 13 per l'articolo 416 c.p. in relazione all'articolo 260 decreto legislativo 152 del 2006, con l'emissione in data 26/07/2010 di avviso ex articolo 415 c.p.
Gli imputati - secondo l'accusa - nel periodo compreso tra il 2001 e il 2005, si erano associati tra di loro in funzione di un grosso traffico illecito di rifiuti, effettivamente realizzato nello stesso periodo di tempo, tramite la ditta Metalfer di Antonio Coppola, che usavano quale copertura dell'illecita attività.
In tal modo, gli imputati gestivano il trasporto di ingenti quantità di rifiuti di vario genere, speciali e non speciali, pericolosi e non pericolosi, in transito dalla Calabria con ingresso e scarico in Campania, in violazione delle ordinanze del commissario per l'emergenza ambientale della regione Campania, che proibivano l'introduzione nella regione Campania di ogni tipologia di rifiuto extraregionale, in assenza di protocolli di intesa di autorizzazione in deroga al divieto.
L'organizzazione provvedeva al trasporto di rifiuti mediante autotreni condotti dagli stessi associati i quali, al fine di evitare i controlli su strada da parte della polizia, facevano ricorso al sistema della cd «staffetta», perché preceduti da un'autovettura condotta da altri partecipi che, anticipandoli, segnalavano la presenza e le possibili verifiche al carico durante il tragitto.
Infine, i rifiuti venivano depositati dei rifiuti presso la sede della stessa Metalfer (doc. 624/2).

IX - La provincia di Cosenza

La Commissione di Inchiesta ha svolto le sue missioni in Calabria focalizzando, in modo particolare, la realtà di tre province calabresi e, cioè, la provincia di Cosenza, quella di Reggio Calabria e, infine, quella di Crotone che, sotto il profilo ambientale, si presenta addirittura drammatica.
Il capitano Aldo Iacobelli, Comandante provinciale carabinieri di Cosenza, e il capitano Paolo Minutoli, Comandante NOE Reggio Calabria, sentiti dalla Commissione in data 1o dicembre 2009, hanno riferito che la provincia di Cosenza è presidiata dall'arma dei carabinieri con un comando provinciale, 9 compagnie di carabinieri, 1 tenenza e 89 stazioni, illustrando altresì la struttura dei NOE in Calabria con la presenza di due nuclei, uno con sede a Catanzaro e un altro con sede a Reggio Calabria, attualmente composto da 7 militari, che si occupano della provincia di Reggio Calabria e di Vibo Valentia, e da altri 9 militari, che si occupano della provincia di Catanzaro, Crotone e Cosenza. Considerato l'esiguo numero, per gli scopi istituzionali i NOE si avvalgono dell'importante apporto dell'arma territoriale.
I militari sottolineano che la situazione orografica della Calabria, negli anni, ha comportato grossi problemi sia per la raccolta, sia per il trasporto dei rifiuti e, tuttavia, dal 12 settembre 1997 in poi, da quando è stato dichiarato lo stato di emergenza, il problema non si


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è risolto non solo a causa del terreno montuoso e, quindi, di precise difficoltà naturali, quanto soprattutto per il blocco del sistema di raccolta, di trasferimento e di gestione dei rifiuti.
La causa principale di questa situazione di stallo dipende dalla mancata realizzazione nella provincia di Cosenza degli impianti di preselezione, già indicati nel piano, che prevedeva tre impianti con annesse discariche di servizio e un termovalorizzatore.
Anche il prefetto Melchiorre Fallica, sia nel corso dell'audizione del 2 dicembre 2009, sia nella sua relazione (doc. n. 169/1), insiste sulla gravità della situazione in cui versa la provincia di Cosenza che, «allo stato attuale, è quella che presenta il maggior deficit di impianti, in quanto sul suo territorio è presente il solo impianto tecnologico di Rossano, afferente al sistema "Calabria Sud", che tratta circa il 15 per cento del rifiuto prodotto nell'intera provincia».
A ciò aggiungasi la già rappresentata anomalia costituita dal fatto che tale impianto non è dotato di linea di produzione di cdr, per cui il prodotto in uscita dall'impianto, il cosiddetto «secco pressato» (CER 19.12.12), per poter essere utilizzato nel termovalorizzatore di Gioia Tauro (RC), deve essere ulteriormente lavorato in un impianto tecnologico di selezione. con produzione di cdr.
La mancata realizzazione degli impianti indicati nel piano comporta che lo smaltimento dei rifiuti nella provincia di Cosenza avviene ancora in assoluta prevalenza o nelle poche discariche presenti, peraltro in via di saturazione, o fuori della provincia, con conseguenti aggravi dei costi economici e ambientali.
Più in generale, nella provincia di Cosenza, sono mancati: 1) la realizzazione degli impianti di preselezione; 2) il decollo della raccolta differenziata, laddove la percentuale della raccolta differenziata è di gran lunga inferiore al teorico 12 per cento (percentuale peraltro molto bassa) indicato dal commissario delegato, mentre le sette piccole discariche autorizzate presenti nella provincia di Cosenza (Acri, Bocchigliero, Castrolibero, San Giovanni in Fiore, Scalea, Cassano allo Ionio e Rossano) sono del tutto insufficienti a smaltire circa 280 mila tonnellate/anno di rsu prodotti.
Lo stesso sistema organizzativo della raccolta dei rifiuti non è neanche decollato. Il piano regionale ha suddiviso il territorio provinciale in sei sottoambiti: 1) Castrovillari, per l'area nord della provincia, con 26 comuni; 2) Cosenza-Rende, per l'area centrale, con 44 comuni; 3) Presila Cosentina, per l'area meridionale, con 17 comuni; 4) Sibaritide, per l'area orientale, con 35 comuni; 5) Alto Tirreno, per l'area nord/ovest, con 14 comuni; 6) Appennino Paolano, per l'area sud/ovest, con 19 comuni (vedi relazione del prefetto di Cosenza in data 20/11/2009 doc. n. 169/1).
In ciascuna di tali aree era previsto che la raccolta dei rifiuti venisse garantita da altrettante società miste (51 per cento pubblico e 49 per cento privato), qui di seguito elencate: per il sottoambito 1, la Pollino SpA, con sede a Castrovillari; per il sottoambito 2, la Valle Crati SpA, con sede a Rende; per il sottoambito 3, la Presila Cosentina SpA, con sede a Rogliano; per il sottoambito 4, la Sibaride SpA, con sede a Corigliano Calabro; per il sottoambito 5, la Alto Tirreno Cosentino SpA, con sede a Scalea; per il sottoambito 6, la Appennino Paolano SpA, già posta in liquidazione.

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Come si è già rilevato nella parte generale sulla emergenza rifiuti in Calabria, tale scelta, che in altre realtà nazionali ha dato esiti positivi, nella provincia di Cosenza si è rivelata disastrosa, dal momento che i comuni - la gran parte dei quali ha un numero esiguo di abitanti - chiamati a conferire liquidità alle società private sono inadempienti.
Di conseguenza, le società private, che dovrebbero assicurare il servizio, non riescono a pagare i fornitori, mentre gli utenti, a loro volta, si sottraggono al pagamento della tarsu, adducendo l'inadeguatezza del servizio reso.
In pratica, si è formato un giro vizioso che non è riuscito a garantire il servizio e neppure a formare un reddito, laddove queste società, per la loro natura di società di capitali, avrebbero invece dovuto realizzarlo.
Emblematica - come si è già anticipato nella parte generale - è la situazione della società mista Valle Crati SpA, gestore del servizio di raccolta dei rifiuti dei comuni della provincia e anche della città di Cosenza, nei cui confronti la procura della Repubblica di Cosenza ha proposto una richiesta di fallimento, sulla quale sta per pronunziarsi il tribunale.
Tutto ciò in un contesto ambientale degradato, che vede nella provincia di Cosenza la presenza di ben centosessanta discariche abusive, delle quali addirittura un centinaio sono state costituite dagli stessi comuni in modo irregolare e, cioè, «non a norma», in quanto sprovviste di adeguata impermeabilizzazione per la raccolta del percolato.
Invero, come - a mo' di giustificazione - ha dichiarato il dottor Sottile, all'epoca commissario delegato, nel corso della sua audizione, i sindaci «si sono assunti questa responsabilità perché, piuttosto che lasciarli in strada (i rifiuti), hanno preferito metterli in questo posto. In seguito, questa discarica temporanea è diventata permanente, come spesso succede. Altre (discariche o siti) sono invece dovute alla cattiva educazione dei cittadini, che buttano rifiuti dappertutto»
Peraltro, va sottolineato che i siti, quando sono di grosse dimensioni, devono considerarsi «discariche abusive» a tutti gli effetti, e non semplici siti.
Rimane, comunque, il fatto grave che una discarica «non a norma», in quanto non adeguatamente impermeabilizzata e monitorata, crea gli stessi problemi di inquinamento delle falde di una discarica abusiva e questo costituisce una precisa responsabilità degli amministratori comunali che le hanno realizzate in modo improprio.
Al fine di rimarcare la negligente inadeguatezza di tutti gli enti preposti alla disciplina del sistema rifiuti, merita di essere sottolineato il fatto che la provincia di Cosenza non ha particolari problemi da affrontare in tema di rifiuti, dal momento che, non essendovi industrie sul territorio, non vi sono rifiuti pericolosi, ma solo i rifiuti speciali provenienti dalle strutture ospedaliere.
Come si è sopra accennato, a proposito delle società miste, deputate alla raccolta dei rifiuti nei singoli comuni, il prefetto di Cosenza ha precisato che si trattò di una decisione a livello del commissario delegato per l'emergenza rifiuti, il quale stabilì di creare queste società obbligatorie miste pubblico-private tra Ionio-Sibaritide,

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Centro-Appennino Paolano, Tirreno-Alto, Tirreno Cosentino e Centro-Valle Crati, con una partecipazione dei comuni nella misura del 51 per cento e dei privati nella misura del 49 per cento.
Allora - ha proseguito il dottor Fallica - sembrava un'operazione vantaggiosa, perché - in teoria - avrebbe consentito alla società di funzionare bene con l'apporto della tecnologia dei privati, ma nel corso degli anni si è rivelata fallimentare, perché - tanto per fare un esempio - i 43 o 44 comuni della provincia di Cosenza che fanno parte del consorzio Valle Crati SpA hanno cominciato a non pagare, vuoi perché non avevano molti fondi, in quanto piccoli (a parte Corigliano, Cassano e Rossano sullo Ionio, Cosenza e Rende al centro, Paola e Amantea sul Tirreno), vuoi perché consideravano il servizio reso dalla società del tutto inadeguato.
Secondo gli accordi - ha proseguito il prefetto - la parte pubblica eleggeva solitamente il presidente della società mista, mentre il direttore generale era scelto dalla parte privata, tanto che un'altra società mista, la Sibaritide, partecipata dai privati nella misura del 44 per cento, aveva come amministratore delegato un uomo di Raffaele Vrenna, condannato in primo grado per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa e poi assolto in appello, nell'ambito della cosiddetta «indagine Puma». Dopo la condanna in primo grado, Raffaele Vrenna ha subito l'interdittiva prefettizia, poi revocata a seguito dell'assoluzione in appello.
Peraltro, il Vrenna, mediante la società Sovreco, gestisce direttamente la più grande discarica della Calabria, quella di Columbra, località vicina a Crotone, con una capacità di circa 1 milione 600 mila m3, in grado di ricevere anche i rifiuti tal quale raccolti nell'area di competenza della Sibaritide.
A sua volta, la Valle Crati conferisce i rifiuti nella discarica pubblica di San Giovanni in Fiore, gestita dal Consorzio Valle Crati, ma, essendo tale discarica quasi esaurita, i rifiuti vengono portati a Catanzaro, con una spesa aggiuntiva pari a circa 1 milione di euro all'anno (vedi verbale audizione del sindaco di Cosenza, Perugini) e ciò ha avuto ed ha tuttora una incidenza non indifferente sugli oneri di gestione della società.
Inoltre, nel corso degli anni, su questo fenomeno si è inserita una crescita esponenziale della manodopera di tutte le società interessate alla raccolta dei rifiuti sia per le pressioni dei sindaci, sia perché le stesse società, a loro volta, hanno ampliato il loro apparato amministrativo.
In tale contesto, il prefetto dottor Fallica ha riferito che sicuramente nella Valle Crati, come nelle altre società miste, sono stati assunti dei «delinquenti», ritenendo anche probabile che costoro siano in rapporto con la criminalità, con finalità che - all'evidenza - non possono essere se non quelle del controllo del territorio.
Fatto sta che, nel breve volgere di qualche anno, la Valle Crati SpA - che poteva funzionare benissimo con duecento persone - come si è già osservato, ha progressivamente raggiunto il numero di circa trecentocinquanta dipendenti, di cui una cinquantina sono divenuti, addirittura, impiegati amministrativi, «promossi a coordinatori o ad altre qualifiche fantasiose».

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Questi ultimi non hanno più lavorato in strada e, quindi, rappresentano un peso per la società senza nessun utile, peso maggiorato dal fatto che percepiscono anche un salario maggiore.
Allo stato, la società non è in grado di garantire il servizio, avendo spese troppo elevate: il solo salario del personale è di circa 800 mila euro al mese, senza considerare il costo dei cinquanta impiegati amministrativi, nonché le spese per la manutenzione dei mezzi e per il gasolio. Di converso, i comuni non pagano il servizio, poiché non riscuotono dai cittadini la tarsu o la tia.
Ad oggi i debiti complessivi dei 43 o 44 comuni riuniti in consorzio verso la Valle Crati è lievitato a circa dieci milioni di euro, sette milioni dei quali fanno capo al solo comune di Cosenza, mentre il residuo risulta variamente ripartito tra gli altri comuni del consorzio, fino ad arrivavate a poche migliaia di euro per i comuni più piccoli.
Tutto ciò a fronte di una raccolta differenziata, da parte dei 43 comuni consorziati nella Valle Crati, che è pari a zero.
È così accaduto che, da prima dell'estate 2009, la Valle Crati non ha avuto più la possibilità di garantire un minimo servizio, non avendo la liquidità per pagare il gasolio e riparare gli automezzi e, tantomeno, per corrispondere il salario agli operai, creditori di quasi quattro mesi di stipendio.
Si consideri, infine, che le scarse somme disponibili - oltre quelle necessarie per pagare salari e stipendi ai dipendenti - sono state oggetto di pignoramento da parte di Equitalia.
Non solo i problemi di Cosenza non sono stati risolti, dal momento che la città rimane comunque molto sporca, ma a tali problemi si sono aggiunti quelli degli operai di Valle Crati, i quali insistono - anche con l'appoggio dei sindacati - per ottenere la garanzia di non perdere il posto di lavoro.
Di conseguenza, nelle ordinanze sindacali con cui il servizio di raccolta dei rifiuti viene affidato ad altre società private, il sindaco di Cosenza ha disposto il distacco degli operai da Valle Crati alla nuova ditta privata affidataria del servizio.
In particolare, il sindaco di Cosenza si è rivolto a una ditta di Lamezia Terme, Ecologia Oggi, alla quale ha chiesto di utilizzare 126 lavoratori della Valle Crati che già operavano su Cosenza ed Ecologia Oggi, dopo una lunga trattativa, ha accettato. L'ordinanza ha la durata di tre mesi. Nel frattempo, il sindaco si sta adoperando per bandire la gara.
Tale operazione - osserva il dottor Fallica - ha suscitato dubbi e perplessità sul piano giuridico, ciononostante, si sta procedendo in questo modo.
I piccoli comuni si sono staccati dal Consorzio e gestiscono in proprio la raccolta e il conferimento dei rifiuti, esclusa per il futuro immediato la loro volontà di partecipare a un consorzio così grande, rivelatosi - alla prova dei fatti - assolutamente inefficiente, con costi di gestione esorbitanti, rispetto agli introiti dovuti da parte dei comuni che non pagano, in quanto contestano al consorzio Valle Crati i giorni di mancata raccolta per ciascun mese.
Pertanto, il sindaco di Cosenza, per primo, seguito a ruota da moltissimi altri sindaci della provincia, ha emanato delle ordinanze

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urgenti, ai sensi dell'articolo 54 del Testo unico delle leggi locali, appaltando il servizio direttamente a ditte private (che spesso - ma non sempre - facevano parte della società misto pubblico-privata), essendo per tutti i comuni interessati preferibile pagare direttamente la nuova società appaltatrice, anziché Valle Crati, che non è in grado di garantire il servizio di raccolta dei rifiuti.
Significativa del livello di opacità della situazione è poi la circostanza che i privati della società Corsortile Crati (che rappresenta il socio privato della Valle Crati SpA) - tra i quali figura l'Alto Tirreno Cosentino SpA, altra società mista, il cui amministratore unico è Rovito Francesco, con precedenti penali - dopo la conclamata crisi della Valle Crati SpA, della cui compagine sociale fanno parte, si siano attivati per ottenere dal comune di Cosenza il servizio di raccolta dei rifiuti, senza l'espletamento di gara alcuna, ma solo in virtù della cosiddetta «gara a evidenza pubblica», a suo tempo espletata per l'ingresso nella società privata Consortile Crati.
Il comune di Cosenza - solo in funzione della salvaguardia dei posti di lavoro - ha deciso di occuparsi della raccolta dei rifiuti, dapprima, procedendo con ordinanze e, poi, con gare, nel cui bando ha inserito l'obbligo della società appaltatrice del servizio di assumere, in parte, i lavoratori di Valle Crati.
Tutto questo - va sottolineato - nell'assenza di ogni iniziativa da parte dell'amministrazione provinciale la quale, fintanto che non partiranno i famosi ATO non intende interessarsi della questione e ciò, a dispetto delle maggiori capacità di aggregazione che - almeno in teoria - la provincia può esercitare rispetto ai singoli comuni. Capacità di aggregazione che, purtroppo, è del tutto carente al livello del comune di Cosenza, dal momento che non vi è accordo neppure tra Cosenza e Rende, i due comuni più importanti della provincia, oltre che contigui, laddove Rende vorrebbe «salvare» Valle Crati, mentre il sindaco di Cosenza ha da tempo deciso di venirne fuori.
In questa incertezza, la situazione è peggiorata e domina solo una grande confusione.
In un quadro confuso anche sotto il profilo amministrativo, si inseriscono le dichiarazioni del dottor Domenico Airoma, procuratore aggiunto della procura della Repubblica in Cosenza il quale, nel corso dell'audizione del 3 dicembre 2009, ha riferito in ordine alle indagini sulle cosiddette micro-discariche, nonché sulle aree industriali dismesse, soffermandosi sulla gestione del ciclo dei rifiuti urbani da parte della pubblica amministrazione e, in particolare, sulla situazione di emergenza ambientale connessa alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani della città di Cosenza. Sul punto, non solo vi sono le denunzie di diversi comuni, per l'omessa raccolta dei rifiuti solidi urbani, tanto da indurre il sindaco di Cosenza a emanare ordinanza contingibile e urgente di revoca dell'affidamento dei servizi alla concessionaria Valle Crati, società mista, ma anche «l'avvio di procedimenti contabili della Corte dei Conti, aventi a oggetto l'utilizzazione dei fondi per la raccolta differenziata, erogati dal commissariato per l'emergenza ambientale, ma mai iniziata».
Invero, a seguito degli accertamenti effettuati dalla procura della Repubblica in Cosenza è emerso che molti beni strumentali destinati ai cassonetti per la raccolta differenziata erano abbandonati inutilizzati

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«nel sito di trasferenza» in località Coda di Volpe, gestito appunto dalla Valle Crati. Sono state presentate denunzie anche da società erogatrici di finanziamenti privati, le quali lamentano, addirittura, il mancato versamento da parte della Valle Crati SpA del quinto dello stipendio ceduto dagli operai.
Davanti a questi fattori, sintomatici di uno stato di insolvenza, la procura di Cosenza ha avanzato richiesta di fallimento nei confronti della società Valle Crati, ai sensi degli articoli 6 e 7 della legge fallimentare, ravvisando la causa principale dello stato di insolvenza, principalmente, nell'elevato numero dei dipendenti, che determina un costo fisso per l'azienda di quasi il 60 per cento (vedi doc. 201/1).
Sul punto, ha riferito il dottor Airoma, è sufficiente considerare che, nel giro di poco meno di quattro anni, il numero dei dipendenti è quasi raddoppiato, passando da circa 200 a più di 400 unità. Di questi, peraltro, ben 46 sono impiegati, quadri e dirigenti, non addetti ai servizi di raccolta e smaltimento. Ciò ha determinato un andamento progressivo della esposizione debitoria nei confronti di Equitalia per i debiti previdenziali e assistenziali, arrivata a circa 13,5 milioni di euro.
Devono, inoltre, aggiungersi i debiti verso i fornitori, tanto più alla luce del fatto che la Valle Crati, versando in una situazione di impotenza economico-funzionale, noleggia mezzi e subappalta servizi, con i conseguenti debiti che derivano dall'erogazione di servizi e mezzi da parte di terzi fornitori.
In conclusione - ad oggi - l'esposizione complessiva della società Valle Crati ammonta a più di 30 milioni di euro, costituita principalmente da contributi IRPEF, IRES ed IRAP non versati all'Erario e da debiti verso i fornitori di beni e di servizi. La società è del tutto priva di liquidità e di affidamenti dal sistema bancario, che ha manifestato la propria indisponibilità ad anticipare l'importo delle fatture emesse dalla società nei confronti dei comuni del consorzio.
A loro volta, i comuni si comportano in modo contraddittorio, posto che, per un verso, hanno approvato il bilancio dell'esercizio 2008 della Valle Crati e, per altro verso, contestano anche giudiziariamente tali crediti, del complessivo importo di oltre 16 milioni di euro, per la ragione che è del tutto carente il servizio di raccolta dei rifiuti nei rispettivi comuni.
La scarsa liquidità, rivenienti dalle somme fornite dal comune di Cosenza servono soprattutto per pagare i 354 dipendenti della società, nonché il corrispettivo del servizio di trasporto dei rifiuti dalla stazione di trasferimento di Rende alle discariche, costo che Casciaro Franco, amministratore delegato della Valle Crati SpA, nell'audizione del 3 dicembre 2009, ha indicato in euro 23 alla tonnellata, ma non è stato però in grado di indicare il costo al chilometro.
Il dottor Airoma ha inoltre riferito che sono in corso altre indagini, che riguardano le attività di intimidazione poste in essere, negli ultimi mesi, nei confronti di imprenditori e anche di autocompattatori della Valle Crati. Gli accertamenti sono diretti a verificare l'infiltrazione di gruppi criminali locali in tali attività.
Ulteriori indagini sono in corso in relazione alle partecipazioni societarie e alle cointeressenze nelle società private che fanno parte di Valle Crati e in quelle che hanno gestito i subappalti e i noli per

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conto della società, sempre allo scopo di verificare eventuali cointeressenze e/o infiltrazioni della locale criminalità organizzata.
Emblematiche della situazione in cui versano la città di Cosenza e la sua provincia sono le dichiarazioni rese nel corso della sua audizione del 2 dicembre 2009 da Salvatore Perugini, sindaco di Cosenza, il quale ha riferito: 1) che, al di là di una discarica pubblica consortile, quella di San Giovanni in Fiore, nella provincia di Cosenza, che pure copre il 43 per cento del territorio calabrese, non vi sono impianti di trattamento dei rifiuti; 2) che la Valle Crati SpA è una società mista, costituita per il 51 per cento dal Consorzio Valle Crati (al quale partecipano 43 comuni della provincia di Cosenza - compreso il capoluogo, nonché altri grossi comuni, quali Rende, Castrolibero e Montalto, per finire a comuni con cinquecento abitanti, come quello di Lattarico) e per il 49 per cento dalla Consortile Crati Srl, un consorzio costituito nel 2000, i cui soci privati sono stati scelti con la gara cosiddetta «a evidenza pubblica», di cui si è detto.
La società è partecipata da soci cosentini (Calabria Maceri SpA, Giosè Marchese, titolare dell'omonima ditta individuale, Astra, CEA - Consorzio Energia ambiente, Appennino Paolano SpA, Alto Tirreno Cosentino SpA, di cui è amministratore unico Rovito Francesco, Pollino SpA e Tecnologie Meridionali Srl), i quali si interessano della raccolta dei rifiuti, e da non meglio precisati soci milanesi che si interessano della depurazione (ma il sindaco non ha spiegato in quale modo).
In realtà, «i soci forti» di tale compagine sono la Calabria Maceri SpA e Giosè Marchese, che compaiono, quali soci privati anche in altre società miste e, precisamente, nell'Alto Tirreno Cosentino SpA (sottoambito 5) e nell'Appennino Paolano SpA (sottoambito 6).
A ciò aggiungasi l'ulteriore anomalia - significativa di evidenti conflitti di interesse - rappresentata dal fatto che le due società miste sopra citate, unitamente alla Pollino SpA - anch'essa società mista pubblico-privato (sottoambito 1), peraltro, già dichiarata fallita - compaiono nella Consortile Crati Srl, socio privato della Valle Crati SpA (vedi relazione prefetto di Cosenza doc. n. 169/1).
Alla luce di quanto sopra esposto, destano qualche perplessità i criteri con cui è stata svolta la «gara a evidenza pubblica» per l'assunzione dei soci privati.
Tornando alla Valle Crati SpA, la società ha un consiglio di amministrazione che vede la presenza di ben undici consiglieri, tra cui lo stesso sindaco Perugini, che vi è entrato nel 2006, all'atto della sua elezione.
Il comune di Cosenza aveva stipulato con la Valle Crati SpA un contratto per la raccolta e il trasferimento in discarica dei rifiuti, trasferimento che, in forza degli accordi contrattuali, doveva avvenire a Rende, cioè a tre chilometri di distanza da Cosenza, per la necessità di compattare i rifiuti prima di trasferirli in discarica, dapprima a Rossano, poi a Crotone e, infine, a Catanzaro. A Rende vi è una piattaforma di trasferimento, dove vi sono compattatori, ciascuno dei quali compatta 30/40 tonnellate di rifiuti, prima del loro successivo trasferimento alla discarica di Catanzaro.
Tuttavia, il comune di Cosenza non ha voluto riconoscere alla Valle Crati SpA il costo del trasporto dei rifiuti a Rende e ciò ha

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determinato con la società un contenzioso, che vede la chiamata in garanzia dell'ufficio del commissario per l'emergenza.
La gestione della piattaforma di trasferimento non è pubblica, bensì privata e il sindaco Perugini ha dichiarato di non avere neanche l'idea di quale fosse il costo aziendale sul ciclo completo di raccolta dei rifiuti, nonostante che egli sia, oltre che sindaco, anche componente del consiglio di amministrazione della Valle Crati, poiché «la società non ha mai avuto un direttore generale» . Il sindaco Perugini ha affermato in modo generico che, fatto 100 il costo del servizio, la relativa copertura era di circa «il 30-40 per cento» - di gran lunga inferiore al dato nazionale che è del 60 per cento - tanto più alla luce della massiccia evasione della tarsu (vigendo il regime di tassa, e non quello a tariffa), con 17 milioni di cartelle giacenti presso il concessionario nel periodo compreso tra il 2001 e il 2008.
Invero, il problema del sindaco Perugini, oltre, naturalmente, quello di «pulire la città», è quello di «salvaguardare quanto possibile i posti di lavoro, perché ci rendiamo conto che in questo momento si tratta di 350 famiglie». Il comune di Cosenza effettua alla Valle Crati SpA, «il versamento mensile di 6/700 mila euro», al solo scopo di consentire alla società di pagare gli stipendi dei lavoratori di tutto il bacino di utenza, e ciò a prescindere dal servizio di raccolta dei rifiuti appaltato - come si è visto - alla società Ecologia Oggi di Lamezia Terme.
Va sottolineato il successivo trasferimento dei rifiuti nelle discariche di destinazione (dapprima Crotone e, poi, Catanzaro), con un percorso di circa 200 chilometri al giorno, non è stato appaltato a terzi, a seguito di regolare gara specifica.
Con nota in data 3 dicembre 2009, il dirigente del Settore energia ciclo rifiuti del comune di Cosenza, facendo riferimento all'audizione del sindaco del giorno precedente, ha inviato alla Commissione, ha certificato che il costo del trasporto degli rsu alla discarica per lo smaltimento, è di euro 0,1285 per Km/tonnellata.
Tale servizio viene svolto, all'interno della Valle Crati, dagli stessi imprenditori cosentini che fanno parte della società Consortile Crati (Calabria Maceri SpA, Giosè Marchese, Astra, CEA - Consorzio Energia ambiente, Appennino Paolano SpA, Alto Tirreno cosentino SpA, Il Pollino SpA, Tecnologie Meridionali Srl).
Tuttavia, non risulta che costoro siano, a loro volta, titolari di aziende di trasporto posto che, a specifica domanda sul punto il sindaco ha risposto testualmente: «Non lo so».
Franco Casciaro, amministratore delegato della Valle Crati SpA, nell'audizione del 3 dicembre 2009, ha spiegato, in modo alquanto farraginoso, che il servizio di trasporto dei rifiuti da Rende alle discariche era stato appaltato dal comune di Cosenza - per la prima e unica volta nel lontano 1999 e prima della costituzione della SpA - al Consorzio dei comuni Valle Crati, che lo aveva subappaltato alla Calabria Maceri, uno dei soci della Corsortile Crati Srl (che, com'è noto, comprende la parte privata della Valle Crati SpA).
Tale appalto era stato conferito dal comune prima della costituzione della società mista Valle Crati SpA, avvenuta, come si è detto, nel 2000 con la partecipazione del Consorzio Valle Crati al 51 per cento e della Corsortile Crati al 49 per cento. Quindi, dopo la

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costituzione della società mista, la Valle Crati SpA era subentrata nel rapporto del consorzio dei comuni con la Calabria Maceri.
Non è dato poi di conoscere la ragione per cui non sono state effettuate gare di appalto del servizio di trasporto dei rifiuti direttamente dalla Valle Crati SpA, a partire dall'anno 2000 ad oggi.
Attualmente il servizio di raccolta dei rifiuti è stato alla Valle Crati e, in forza di ordinanza sindacale della durata di mesi tre, è stato affidato a Ecologia Oggi, una ditta di Lamezia Terme, che si è impegnata a utilizzare i 126 lavoratori di Valle Crati che operavano su Cosenza. In tale contesto appare evidente che la Valle Crati SpA, a prescindere dallo stato di insolvenza in cui versa, è divenuta ormai un guscio vuoto, essendo stata esautorata di ogni funzione.
Né la situazione è diversa per le altre società miste costituite nella provincia di Cosenza
E, così, dal rapporto informativo, in data 17 novembre 2009, del comando regionale della Calabria della Guardia di Finanza, Compagnia di Castrovillari (doc. n. 148/2), risulta che il reparto, a seguito di una richiesta di «rapporto Informativo» della sezione regionale di controllo per la Calabria della Corte dei Conti, ha eseguito accertamenti, a far data dal mese di settembre 2008, sulla Pollino SpA, società pubblico/privata, costituita per la raccolta dei rifiuti - sottoambito 1 della provincia di Cosenza - dichiarata fallita, con sentenza in data 8 gennaio 2008.
Al termine degli accertamenti è stata appurata, per la Pollino SpA, una situazione del tutto identica a quella di Valle Crati. Anche il fallimento della Pollino SpA, avvenuto nel corso dell'anno 2007, è dipeso in modo preponderante dal costo del personale, assunto in maniera clientelare e in misura sicuramente superiore a quello necessario per il servizio di raccolta dei rifiuti; ciò a fronte della contrazione degli introiti realizzati, derivanti in modo prevalente dai contributi di 25 comuni consorziati nel comprensorio.
La stessa situazione, come sopra rappresentata per Valle Crati e Pollino, è configurabile nella Sibaritide, che comprende i comuni che si affacciano sullo Jonio, tra cui Corigliano e Rossano, i quali sono afflitti da grossi problemi nella gestione dei rifiuti e non pagano le società private.
Tuttavia, la situazione economica della Sibaritide, pur essendo negativa, non è disastrosa come quella di Valle Crati: la società «produce» un deficit di 70 mila euro al mese, ha meno operai dell'altra (circa 150), mentre la parte amministrativa è composta «solo» da una quindicina di persone.
In effetti, la Sibaritide non solo ha meno operai, ma è partecipata per il 44 per cento dalla società privata Sovreco, una ditta di livello medio-alto che ha garantito la discarica di Crotone, con un lucro per il privato, in questo caso Raffaele Vrenna, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il prefetto di Cosenza ha riferito che in una recente riunione con i sindaci della zona e con i sindacati è stata concordata la messa in liquidazione della Sibaritide.
Un'altra società, l'Appennino Paolano, era già stata chiusa da tempo.
Rimangono, tuttora, operative la società Alto Tirreno Cosentino, società mista amministrata da Rovito Francesco, con precedenti per

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omesso versamento dell'iva e per associazione a delinquere finalizzata all'emissione di fatture inesistenti e alla truffa, nonché la Pre Sila Cosentina, che opera nella Valle del Savuto e che, nel mese di novembre 2008, ha subito l'incendio di sei automezzi di raccolta e di smaltimento rifiuti, reato, probabilmente, connesso ad attività estortive di stampo mafioso, come riferisce il Giovanni Bartolomeo Scifo, questore di Cosenza.
In tale contesto, rimane il fatto, acclarato anche dall'ex assessore regionale all'ambiente Silvestro Greco, che «la provincia di Cosenza è quella che produce, in assoluto, la maggior quantità di rsu nella regione e la città capoluogo non ha mai fatto un lavoro sulla differenziata», mentre i rifiuti già portati a Crotone, sono stati successivamente portati a Catanzaro, con un percorso di circa 200 chilometri al giorno, non essendo ancora pronte le previste (dall'assessore Greco) discariche di San Giovanni in Fiore e a di Castrolibero.
Per concludere, il sindaco di Cosenza ha affermato la propria «sfiducia» verso la costituenda ATO, ancora non istituita dalla regione Calabria, in considerazione del suo altamente probabile cattivo funzionamento, non essendo, a suo avviso, immaginabile che tale ente sarebbe stato in grado di soddisfare le varie e diverse esigenze di 155 comuni, alla luce della negativa esperienza di un consorzio di 43 comuni confluito in Valle Crati.
Va osservato che quest'ultimo non è un problema da poco, se si considera che, non solo nei «piani rifiuti» predisposti dal commissario delegato, ma anche nei programmi regionali, all'esito del commissariamento, è prevista proprio la costituzione degli ATO per ciascuna provincia, pur se spesso il numero degli abitanti non appare sufficiente a garantire il funzionamento a regime degli impianti di smaltimento dei rifiuti. Non è questo il caso di Cosenza, nel cui territorio, però, insistono molti comuni di piccole dimensioni, con pochi abitanti e, dunque, con esigenze che non sono in alcun modo assimilabili a quelle di comuni delle dimensioni di quello dello stesso capoluogo e di pochi altri comuni della provincia.
Sono state proprio tali divergenti esigenze, unita a una gestione - a dir poco - non oculata della società mista Valle Crati SpA a determinare il fallimento, anche politico, di tale esperienza, e questo spiega lo scetticismo del sindaco Perugini verso i costituendi ATO, destinati a comprendere tutti i comuni della provincia di Cosenza, e non soltanto quelli riuniti nei vari consorzi.
Non a caso, in tale contesto, i sindaci delle maggiori città (Corigliano, Rossano, Cariati e forse Cassano), d'intesa con i sindacati, hanno maturato il proposito di stipulare una convenzione tra comuni che consente di avere meno spese rispetto al consorzio, al fine di bandire un'unica gara e affidare a un unico gestore privato tutto il servizio.
Non aggiunge nulla agli elementi di conoscenza acquisiti Gerardo Mario Oliverio, presidente della provincia di Cosenza, il quale, nell'audizione del 2 dicembre 2009 ha riferito: 1) che per oltre cinque o sei anni, i tre quarti rifiuti della provincia di Cosenza sono stati portati in una discarica di Crotone, il cui titolare Vrenna è stato oggetto di una condanna penale; 2) che tale trasporto era stato interrotto una volta intervenuta la condanna di primo grado del

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Vrenna e prima dell'assoluzione in appello, dopo che vi era stata una levata di scudi da parte della popolazione crotonese, in presenza di una proposta di elevamento di altri due metri di abbancamento sulla stessa discarica; 3) che quella del termovalorizzatore, è questione tuttora aperta, per la quale egli aveva sentito il sindaco di San Lorenzo del Vallo (CS), il quale aveva «dato disponibilità» per realizzare un termovalorizzatore nel proprio territorio.
All'evidenza, sul punto, si tratta solo di una disponibilità tutta da verificare, alla luce delle pregresse esperienze negative in ordine alla costruzione di un inceneritore in uno dei comuni della provincia di Cosenza.
Il prefetto di Cosenza, Melchiorre Fallica, ha riferito che le problematiche economico-finanziarie, che investono tutte le società miste per la raccolta dei rifiuti, hanno provocato un forte impatto sul territorio, anche sotto il profilo dell'ordine pubblico, in quanto - proprio con riferimento alla situazione della società Valle Crati - si sono verificate clamorose manifestazioni di protesta delle maestranze che - a motivo del mancato pagamento di due mensilità e della quattordicesima - hanno reagito con l'interruzione dei servizi pubblici seguita dall'occupazione del palazzo della provincia, sul cui tetto si erano attestati i manifestanti, e dal blocco dell'autostrada, principalmente l'uscita di Rende, quindi di Cosenza nord.
Peraltro - osserva il prefetto di Cosenza nella sua relazione (doc. 169/1) - a queste forme estreme di contestazione, secondo alcune risultanze investigative riferite riservatamente dalla locale questura, non era estranea una precisa strategia di uno degli operai, il quale guidava tutte le manifestazioni di piazza, tenendo contatti con la stampa per dare maggiore risalto alle proteste, nel tentativo - non andato a buon fine - di ingresso della Alto Tirreno Cosentino SpA (società facente parte della società Corsortile Crati) nella «fetta di mercato» che la società Valle Crati stava per lasciare libera.
Del resto, la Alto Tirreno Cosentino SpA, con sede in Scalea, ha come amministratore unico Francesco Rovito, nato a Rende il 3/7/1974, con precedenti per omesso versamento dell'iva e per associazione a delinquere finalizzata all'emissione di fatture inesistenti e alla truffa. Inoltre, la stessa Questura di Cosenza ha rilevato che per il perseguimento di tale risultato l'imprenditore era affiancato dalla cosca denominata «degli zingari», facente capo alla famiglia Abruzzese che nel territorio cosentino ha sviluppato una strategia delinquenziale particolarmente aggressiva.
Alla crisi del servizio di raccolta dei rifiuti si accompagna quello delle discariche «non a norma», costituite da ciascun comune per sopperire alla mancanza di discariche regolari, dal momento che nella provincia di Cosenza le discariche regolari sono costituite da una discarica pubblica e una privata, a Rossano; altre discariche comunali, di piccole dimensioni, si trovavano ad Acri, Bocchigliero, Scalea, San Giovanni in Fiore e Castrovillari.
Tali discariche, tutte per rsu tal quali e a servizio di comuni in cui praticamente non si effettua raccolta differenziata, versano al limite dell'esaurimento e, allo stato, non sussiste la possibilità di allargarle per la posizione di contrasto assunta dagli stessi comuni.

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A peggiorare la situazione ambientale vi sono i numerosi siti in cui i cittadini abbandonano i loro rifiuti.
A dispetto delle affermazioni sul punto dell'ex assessore Greco, il prefetto di Cosenza, Melchiorre Fallica, ha ribadito che sussistono serie difficoltà di costruire un inceneritore a Cosenza, così pure nella zona di Corigliano-Rossano-Cassano, a causa dell'opposizione dall'opinione pubblica e degli ambientalisti. Egli ha concluso ricordando che se nell'immediato non saranno autorizzate nuove discariche a San Giovanni in Fiore e a Castrolibero, sarà stato necessario portare i rifiuti dei 155 comuni della provincia di Cosenza a Crotone e a Catanzaro, come già in parte avviene.
In conclusione, la provincia di Cosenza versa nella non invidiabile situazione: 1) di non avere un efficiente servizio di raccolta di rifiuti, nonostante la suddivisione del territorio in sei sottoambiti, dove operano altrettante società miste pubblico-privato, che spesso si trovano in conflitto di interessi al loro interno e avevano la finalità di assicurare assunzioni di personale, piuttosto che di garantire un qualunque servizio; 2) di non avere del tutto un sistema di raccolta differenziata; 3) di non avere discariche adeguate; 4) di opporsi alla costruzione nel proprio territorio di impianti di trattamento, di nuove discariche e di un inceneritore.
Quanto alle infiltrazioni mafiose e criminalità comune nel ciclo dei rifiuti nella provincia, il questore di Cosenza ha rappresentato la presenza sul territorio della provincia delle varie cosche mafiose e, in particolare, quella della famiglia Abruzzese, zingari ormai stabilizzati, che hanno fatto un salto di qualità, passando da un'attività delinquenziale primaria a strategie più complesse, con un profilo organizzativo molto più articolato.
Vi sono, inoltre, le famiglie Bruni, Cicero, Lanzino, che operano sul territorio cosentino; vi è la famiglia Muto sul versante di Amantea; le famiglie Gentile e Serpa a Tricarico. Comunque, tra tutte, le famiglie più importanti sono quelle dei Muto e dei Gentile.
Altrettanto affermati nella zona del cassanese, con collegamenti con il crotonese, sono i Forastefano, che con gli Abruzzese rappresentano una criminalità particolarmente agguerrita «anche come modus operandi e gestualità».
Il prefetto di Cosenza, nella sua relazione (doc. n. 169/1) riferisce altresì che nella zona di Amantea sussiste una significativa presenza della criminalità organizzata nello specifico settore della raccolta dei rifiuti, quale emerge dall'operazione Nepetia/Enigma, risalente al 2007, che ha posto in evidenza un chiaro riferimento alla cosca Muto di Cetraro, la quale con l'intimidazione e l'incombenza sul territorio aveva consentito la partecipazione di Tommaso Gentile, capocosca di Amantea, alla società che gestiva il servizio di raccolta pubblica.
In un quadro contrassegnato da costante precarietà tale fatto costituisce la riprova dell'interesse attuale della malavita organizzata verso il settore, sia nella prospettiva di intercettare gli investimenti futuri, sia - nell'immediato - lucrando sullo smaltimento dei rifiuti speciali, resi tali a seguito di incendi provocati in alcune discariche che vi sono verificati il 4 luglio 2008 a Tarsia, il 22 luglio 2008 a Castrovillari, il 25 luglio 2008 a Rossano e il 28 luglio 2008 a Scalea.

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Un altro caso di infiltrazione riguarda la zona della Sibaritide per la Sovreco, ma Vrenna è stato assolto dalla specifica accusa, pur essendo emersi elementi di intesa con ambienti mafiosi, come si vedrà di seguito, trattando la posizione del relativo gruppo
Il dottor Airoma e il dottor Fallica hanno escluso, per la provincia di Cosenza, altre infiltrazioni mafiose nel ciclo dei rifiuti, pur se nell'area del Savuto vi erano stati incendi di automezzi, tra cui un notevole episodio di tredici automezzi incendiati, tuttavia, legato a fatto estorsivo di stampo mafioso, piuttosto che all'intenzione di entrare nel circuito della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti.
Sul punto si è soffermato anche Giovanni Bartolomeo Scifo, questore di Cosenza, il quale ha riferito che nel mese di novembre 2008 erano stati incendiati sei automezzi della società di raccolta e di smaltimento rifiuti PreSila Cosentina che opera nella Valle del Savuto, episodio al quale, in data 19 marzo 2009, aveva fatto seguito l'incendio di quattordici automezzi del comune di Trebisacce, tra cui un autocompattatore e un'autospazzatrice.
Sono state inoltre deferite, alla competente autorità giudiziaria di Cosenza, le posizioni giuridiche dei vertici aziendali del Consorzio Valle Crati per la gestione non autorizzata dell'impianto di trasferimento dei rifiuti solidi urbani di Rende e per l'inosservanza delle prescrizioni imposte dall'ufficio del commissario delegato.
Sono state infine sequestrate, a Tortora, due vasche dell'impianto di depurazione di acque reflue civili, utilizzate illegalmente per lo stoccaggio di rifiuti speciali pericolosi da parte della società Ecologica Sud Srl.
La relazione del prefetto di Cosenza (doc. n. 169/1) dedica particolare attenzione alle modalità di gestione dei veicoli fuori uso e dei rottami ferrosi, dal momento che, a seguito di controlli mirati alla verifica della corretta gestione dei rottami ferrosi e dei veicoli fuori uso, è emerso che alcune aziende, titolari di mera iscrizione all'albo nazionale gestori rifiuti, insieme ad altre autorizzate al solo trasporto di rifiuti non pericolosi, hanno dato vita a vere e proprie attività di traffico di rifiuti.
Nello specifico, in virtù delle sole autorizzazioni sopra descritte, sono stati realizzati dei centri illegali di raccolta e trattamento rifiuti speciali - pericolosi e non - mediante i quali è stata artificiosamente mutata la natura dei rifiuti in materie prime seconde, al fine della successiva commercializzazione in altre regioni (Sicilia, Basilicata, Campania e Puglia).
Tale attività di indagine ha permesso, già nella prima fase investigativa, di deferire all'autorità giudiziaria di Rossano più di 150 persone ed è stato disposto il sequestro di alcuni insediamenti e di mezzi utilizzati per la movimentazione e il trattamento dei rifiuti.
La situazione è, tuttora, al vaglio dell'autorità giudiziaria di Rossano.
Peraltro, il dottor Leonardo Leone De Castris, procuratore della Repubblica di Rossano, premesso che la realtà del territorio era prettamente agricola, ha rilevato che, tenuto conto di questa peculiarità socio-economica, le problematiche più importanti del suo circondario riguardano sostanzialmente la «sansa» e il «pellet», un prodotto di origine vegetale, ma che, addizionato con additivi estremamente

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tossici, genera problemi, tanto di dispersione di polveri sottili nell'aria, quanto di ricaduta e quindi di rifiuto vero e proprio.
Altro problema è quello relativo alle modalità di gestione delle cosiddette «isole ecologiche», realizzate in diversi territori comunali; in particolare, nelle province di Catanzaro e di Cosenza.
Dalle verifiche effettuate dai carabinieri del NOE su quattro di questi centri di stoccaggio - i quali dovrebbero servire solamente alla raccolta di rifiuti urbani raccolti in modo differenziato - è emerso che gli stessi erano privi di qualsiasi titolo abilitativo, nonché sprovvisti dei necessari requisiti tecnici gestionali di cui al decreto ministeriale ambiente 8 aprile 2008, modificato dal decreto ministeriale ambiente 13 maggio 2009.
Nello specifico, le quattro aree focalizzate si sono rivelate delle vere e proprie discariche, dove, oltre ai rifiuti differenziati, sono stati depositati anche rifiuti speciali, pericolosi e non.
Le attività di indagine hanno permesso di deferire, alla competente autorità giudiziaria di Rossano, le posizioni giuridiche di circa venti persone, alcune delle quali amministratori pubblici locali, il sequestro delle oasi ecologiche e di alcuni mezzi e macchine operatrici utilizzati per la movimentazione ed il trattamento dei rifiuti (vedi relazione in data 6 novembre 2009 del comando carabinieri per la tutela dell'ambiente - gruppo Napoli - doc. n. 163/1).
Altro fenomeno negativo investe le discariche del circondario di Paola, con conseguenti indagini a carico di noti e ignoti, per l'attività di smaltimento o di conferimento illecito di rifiuti.
Vi sono società formalmente incaricate del trasporto e dello smaltimento dei rifiuti che si avvalgono di impianti formalmente deputati, per esempio, ad attività di compostaggio, dove, viceversa, vengono fatti confluire rifiuti solidi urbani o di altra natura, predisponendo anche formulari contenenti dichiarazioni mendaci sulla natura del rifiuto conferito in discarica o negli impianti in cui dovrebbe essere svolta solo attività di compostaggio.
Vi sono poi fenomeni - definiti isolati - di imprenditori che provvedono, di volta in volta, a smaltire, in luoghi di fortuna o nelle immediate adiacenze delle imprese, rifiuti prodotti nell'ambito dell'attività imprenditoriale svolta.
È questo il caso dell'industria tessile, denominata «ex Marlane», presente sul territorio di Praia a Mare, ma ormai dismessa nell'anno 2004.
Al riguardo, la dottoressa Antonella Lauri, sostituto procuratore della Repubblica in Paola, ha riferito che, a seguito di attività di campionamenti, carotaggi e analisi dei campioni raccolti, è stata scoperta e accertata la presenza nell'area antistante lo stabilimento industriale non solo di bidoni e fusti contenenti i coloranti utilizzati nell'industria, ma anche di metalli pesanti e di ammine aromatiche in altissime concentrazioni.
Vi è un avviso di conclusioni delle indagini preliminari sul fatto che, all'evidenza, le persone che nel corso del tempo si sono succedute alla guida dell'impresa hanno ritenuto di non smaltire in maniera lecita i rifiuti, ma di interrarli in alcune buche realizzate in quest'area, di fatto di proprietà privata, la quale presentava un altissimo grado di contaminazione da metalli pesanti, tra cui il cromo esavalente.

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Anche l'ex assessore regionale all'ambiente, Silvestro Greco, si è soffermato su tale vicenda «abbiamo, poi, il problema della Marlane di Praia» - ha detto - specificando che: «non solo questa fabbrica, che produceva lane, le colorava liberamente, ma l'aspetto più inquietante è che sono state seppellite, nel corpo stesso della fabbrica, tonnellate di contaminanti».
È evidente che l'ex assessore regionale all'ambiente, che è anche un tecnico della materia, ha ben chiaro il problema: tuttavia, va rilevato che non risultano iniziative dell'assessorato volte alla bonifica di tale sito, tanto più alla luce della denuncia da lui fatta, nel corso della sua audizione, in ordine alle «continue segnalazioni di alterazioni di alcuni trend epidemiologici, che vedono l'aumento di alcune neoplasie specifiche in alcune aree del territorio regionale. Questo è il dato che ci preoccupa maggiormente, poiché evidentemente è legato a un problema di presenza e di passaggio di contaminanti nella rete trofica».
In tale contesto, a conclusione delle indagini, la procura della Repubblica presso il tribunale di Paola, in data 21 aprile 2010, ha chiesto il rinvio a giudizio e il GIP ha fissato l'udienza preliminare al 13 luglio 2010 di Storer Silvano e altre 13 persone (vedi doc. 545/2) per i reati di omicidio colposo aggravato (articolo 589, co. 1, 2, 4 c.p.) e di lesioni personali colpose aggravate (articolo 590, co. 1, 2, 3 c.p.), rispettivamente, rubricati ai capi a), b), c), d), e), poiché gli imputati, a partire dal 1973 e fino al 4 aprile 2004, data della chiusura dello stabilimento industriale, omettevano di adottare gli accorgimenti organizzativi, strutturali e igienici necessari per contenere l'esposizione ad ammine aromatiche e a metalli pesanti, imposti dalla normativa specifica.
Con tali comportamenti gli imputati determinavano l'insorgenza di varie forme di carcinoma maligno - riconducibili all'esposizione dei lavoratori ai coloranti e alle sostanze chimiche utilizzate come mordente, nel ciclo produttivo dell'impresa - cagionando la morte o gravi lesioni a oltre cento dipendenti, tutti ammalatisi di cancro e alcuni di essi poi deceduti.
Ai responsabili dello stabilimento è stato contestato anche il reato di disastro ambientale (articolo 256, co. 3, decreto legislativo 152/06) e il reato di cui all'articolo 437 c.p. perché, come accertato in Praia a Mare nel novembre 2007, adibivano il terreno adiacente la sede dell'impresa tessile «Marlane» a discarica di rifiuti pericolosi, riversando e sotterrando sullo stesso fanghi e materiale di risulta (fusti, bidoni, mandrini per l'avvolgimento dei filati, fanghi contaminati con ammine aromatiche e metalli pesanti) provenienti dall'attività industriale di filatura, tessitura e tintoria svolta presso il predetto stabilimento, nonché materiale (amianto e lana di vetro) proveniente dalle attività di ristrutturazione dello stabilimento medesimo.
Con l'aggravante che il disastro ambientale è stato causato con la contaminazione della predetta area - a vocazione mista industriale, residenziale e turistica - ubicata nelle immediate vicinanze del litorale marino, sulla quale venivano rinvenute altissime concentrazioni di metalli pesanti, quali nichel, vanadio, cromo esavalente, cromo totale, mercurio, zinco, arsenico, piombo e PCB.

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In conclusione, l'inquinamento industriale dell'area di Praia a Mare presenta problematiche analoghe a quelle di Crotone, di cui si dirà di seguito. A Praia a Mare, come a Crotone, si è verificato uno sfruttamento criminoso del territorio e delle persone, le cui conseguenze negative sono destinate a durare ancora per molto tempo e a lasciare il loro carico negativo anche alle future generazioni.

X - La provincia di Reggio Calabria

X.1 - Le infiltrazioni mafiose nel settore dei rifiuti

Non è possibile affrontare il tema del ciclo dei rifiuti nella provincia di Reggio Calabria, senza prima descrivere il particolare contesto criminoso ambientale, quale è emerso dalle dichiarazioni dei rappresentanti delle istituzioni, nel corso delle loro audizioni, e dalle relazioni depositate.
In particolare, il dottor Giuseppe Pignatone, procuratore distrettuale antimafia di Reggio Calabria, nel corso dell'audizione del 1o dicembre 2009, si è soffermato sul fatto - ormai dato acquisito e di comune esperienza - che non esistono attività economiche che sfuggano all'infiltrazione delle forme di criminalità organizzata radicate sul territorio di Sicilia, Campania e Calabria, eccezion fatta per quelle ad alta tecnologia.
La Calabria ha un indice di densità criminosa mafiosa altissimo - per quello che valgono le statistiche - di otto o dieci volte maggiore rispetto a quello della Sicilia, sicché il rapporto tra abitanti e persone appartenenti a organizzazioni mafiose è ancora più alto di quello della Sicilia e della Campania.
Il dottor Pignatone - a riprova dell'esistenza di connivenze, infiltrazioni e condizionamenti, talvolta a livello di amministratori dei comuni, a volte, molto più semplicemente, della struttura amministrativa, che spesso si intreccia con la prima - si è riportato a quanto riferito anche dal prefetto di Reggio Calabria e, cioè, che nell'ultimo periodo, nella sola provincia di Reggio, sono state sciolte le amministrazioni comunali di cinque o sei comuni, sulla base delle risultanze di indagini della direzione distrettuale antimafia, poi utilizzate in sede amministrativa.
In particolare, il procuratore ha citato la vicenda che, nel mese di luglio del 2008, aveva portato all'arresto di numerose persone sulla piana di Gioia Tauro (al quale era seguito lo scioglimento dei comuni interessati), fra cui l'allora sindaco di Gioia Tauro, Giorgio Dal Torrione, rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa o partecipazione.
Appare significativo di un'elevata capacità di infiltrazione mafiosa il fatto che il Dal Torrione fosse anche segretario generale di un comune vicino a quello di Gioia Tauro, posto che la stessa persona fisica in un comune aveva la qualità elettiva, in quello accanto ricopriva la carica di vertice della struttura amministrativa.
Il procuratore si è soffermato sull'interesse delle cosche mafiose verso la lucrosa attività connessa allo smaltimento dei rifiuti, riferendo di un processo (n.1669/01 R.G.) chiamato a suo tempo «rifiuti SpA»,


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in cui le cosche dei Libri e Condello, due delle più importanti della città di Reggio e in generale della provincia di Reggio Calabria, dopo aver sponsorizzato e affiancato l'attività di altre persone, facenti parte di un'altra cosca mafiosa, quella degli Alampi, si erano immesse nel ciclo dei rifiuti e avevano sfruttato le attività di alcune discariche di diversi comuni, cioè di Fiumara di Muro, un piccolo paese sulla costa tirrenica, e di Motta San Giovanni, che si trova sulla costa ionica. Quindi, le due cosche mafiose avevano posto in essere un'attività di condizionamento della gara di appalto del comune di Reggio Calabria per la manutenzione del CEDIR, il centro direzionale, in cui sorgono alcuni uffici, sia giudiziari - compresi la procura e il tribunale - sia comunali.
La gara era stata aggiudicata, nonostante le manovre estorsive di queste organizzazioni mafiose, a un'altra ditta, la Siclari, non appoggiata da alcuna cosca, alla quale era stata avanzata la richiesta, non adempiuta per circostanze - come recita il codice - indipendenti dalla volontà della ditta, di versare agli Alampi il mancato guadagno, all'epoca calcolato in un miliardo e mezzo di lire.
Emblematica nella suddetta vicenda processuale era l'accertata alleanza tra i Condello e i Libri, cosche un tempo rivali (ciascuna delle quali, tuttavia, conservava il controllo di una parte della città di Reggio Calabria) che tuttavia - dopo la lunga guerra di mafia che, tra il 1985 e il 1991, li aveva visti contrapposti - già agli inizi degli anni 2000, avevano stretto sul piano imprenditoriale degli accordi, che partivano proprio dal settore particolarmente lucroso dei rifiuti; sicché, sulla base del denaro e dell'interesse avevano superato i vecchi rancori.
Viceversa, esterno alla criminalità mafiosa in senso stretto è l'altro processo di cui ha parlato il procuratore, ossia Caserta Vincenzo e altri, che portava nel registro generale il numero 5988/06 modello 21.
Questo processo, denominato «Operazione Leucopetra» e sul quale si è soffermato anche il vice comandante regionale del Corpo forestale dello Stato, Carlo Ferrucci, non vede la presenza di infiltrazioni mafiose, ma è interessante per l'oggetto dello smaltimento illecito.
Si trattava di circa 100 mila tonnellate di rifiuti, in particolare fanghi prodotti dalla centrale ENEL di Brindisi, smaltiti con la connivenza di impiegati e dirigenti dello stesso stabilimento di Brindisi - ma senza alcun coinvolgimento dei vertici dell'Enel - nei cui confronti erano state adottate misure cautelari e il relativo procedimento era pervenuto alla fase dell'avviso di deposito atti, ai sensi dell'articolo 415 bis cpp.
I suddetti impiegati e dirigenti dell'Enel di Brindisi smaltivano questa notevolissima quantità di fanghi, alcuni anche pericolosi, in modo illecito nella discarica di Motta San Giovanni, nei pressi di Reggio Calabria.
La ricostruzione effettuata, sulla base delle risultanze dell'indagine fondate, da un lato, su attività tecnica di intercettazione, dall'altro, su controlli di camion da parte del Corpo forestale dello Stato (il principale responsabile delle indagini), ha consentito di appurare che l'interesse di queste persone era di realizzare risultati brillanti per l'azienda di Brindisi ai fini di carriera, premi di produzione e simili.

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In tale contesto erano stati falsificati i formulari, posto che i moduli di accompagnamento riportavano indicazioni generiche di tipologia ordinaria, mentre i camion contenevano rifiuti speciali.
Di recente - ha ricordato il dottor Pignatone - è stato definito un procedimento con la denominazione di «Arca», uno dei nomi che si attribuiscono a tali operazioni - in cui non vi era un riferimento specifico allo smaltimento dei rifiuti, ma a un problema parallelo e collegato, ossia all'uso degli inerti, di materiale non da cava, nonostante quanto previsto nel capitolato di appalto, e di materiale di risulta di altro genere.
In questo processo è stata contestata agli imputati la frode nelle pubbliche forniture o la truffa aggravata - vi è stata una sentenza di primo grado in abbreviato - con esiti incerti per l'accusa, in quanto alcuni imputati sono stati condannati per l'articolo 416 bis c.p. e anche per frode, altri no. Attualmente è in corso il giudizio di appello.
In tale contesto, è stato accertato l'uso di materiale diverso da quello da cava e da quello previsto dai capitolati e nel corso delle indagini sono stati effettuati diversi arresti. I processi sono in corso: quello con rito abbreviato - ha dichiarato il procuratore - si è concluso con ventisette condanne pochi giorni fa, quello con rito ordinario è alla fase della requisitoria.
Ebbene, alla stregua dei risultati delle indagini eseguite, con riferimento ai lavori della variante di Palizzi della strada statale 106, cosiddetta ionica - per la quale, nel giugno del 2008, il pubblico ministero aveva disposto addirittura il fermo dei lavori - è stato accertato che molti lavori, aggiudicati come general contractor alla Condotte SpA, di fatto, poi venivano eseguiti da ditte collegate alle cosche mafiose.
In pratica, si tratta del sistema già posto in evidenza, nel corso della loro audizione, dal prefetto e dal questore di Reggio Calabria.
Nell'ambito di questa indagine, vi è anche una contestazione, su cui sono in corso alcune perizie, che attiene all'uso di materiale previsto dal capitolato o di qualità inferiore, fatto - questo - consequenziale alla presenza di infiltrazioni mafiose negli appalti delle opere pubbliche.
Peraltro, anche la relazione del comando carabinieri per la tutela dell'ambiente - gruppo Napoli, di cui si è detto (doc. n. 163/1), illumina in modo sinistro quest'ultima vicenda processuale, come sopra rappresentata, perché sottolinea la presenza delle «'ndrine» calabresi, storicamente attratte dagli illeciti prodotti dal cosiddetto ciclo del cemento (cave abusive; illeciti di natura paesaggistico ambientale ed edilizi; reati contro la pubblica amministrazione legati sempre alla costruzione di opere pubbliche), avuto riguardo della natura più mite delle sanzioni previste per la violazione delle norme poste a tutela dell'ambiente, a fronte di introiti finanziari paragonabili ai grossi traffici di droga.
E, così - come si è visto - nell'ambito del «ciclo del cemento», le cosche hanno posto la loro attenzione sui lavori anche dell'autostrada Salerno - Reggio Calabria, oltre che della strada statale 106.
Proprio su queste importanti vie di comunicazione, si sono verificati episodi che hanno visto l'interramento, come materiale di riempimento, di rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi.

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Tali atti, considerata l'enorme attenzione che la criminalità organizzata, da sempre, pone sulla realizzazione di queste grandi vie di comunicazione, lascia presagire che i seppellimenti abbiano avuto il placet delle «'ndrine» locali.
Pertanto - secondo il comando dei carabinieri per la tutela dell'ambiente - non può escludersi che le stesse «'ndrine» abbiano utilizzato tale sistema per liberarsi di rifiuti pericolosi, nelle more di poter utilizzare le gallerie dismesse della vecchia Salerno - Reggio Calabria, che sono diventati siti di grande interesse per la locale criminalità organizzata in funzione del loro successivo riempimento con rifiuti speciali pericolosi (tossici o nocivi) o, addirittura, di natura radioattiva.
Di grande interesse, per comprendere il ruolo della 'ndrangheta e il suo peso specifico sul territorio e nella società reggina, sono le dichiarazioni rese da Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria, assegnato dal mese di novembre del 1993 al mese di gennaio del 2006 alla procura di Locri e applicato alla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, con competenza sulla fascia ionica della provincia di Reggio Calabria che va da Monasterace a Melito Porto Salvo.
Tornando al tema specifico dei rifiuti, sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in tale settore il prefetto di Reggio Calabria, Francesco Musolino, nel corso della sua audizione del 1o dicembre 2009, dopo aver richiamato la propria relazione in atti (doc. 187/1), sottolineando che la presenza della criminalità organizzata di stampo mafioso nel ciclo dei rifiuti risulta ampiamente accertata a seguito di indagini effettuate dalle forze di polizia, pone in evidenza due contesti molto importanti ai fini della comprensione del fenomeno.
Il primo è costituito dal cosiddetto contesto ambientale, che rende permanente e attuale il pericolo di infiltrazioni mafiose, posto che, su novantasette comuni della provincia di Reggio Calabria, cinque risultano commissariati per mafia, tra cui il comune di Gioia Tauro, di cui si è detto, mentre un paio sono stati sciolti per l'articolo 141 del decreto legislativo n. 267 del 2000, perché non riuscivano a darsi una gestione.
Di norma, circa l'8-9 per cento dei comuni della provincia è commissariato e questo costituisce sintomo e, al contempo, riprova sia di infiltrazioni mafiose, sia di incapacità amministrativa e politica complessiva, che è quella che - secondo la sua autorevole opinione - dipende dalle difficoltà di bilancio e dal mancato pagamento delle quote di partecipazione alle società miste deputate alla raccolta dei rifiuti.
Del resto, dal punto di vista della criminalità organizzata - ha sottolineato il dottor Musolino - è storica l'attenzione delle varie famiglie su questo settore, così com'è storica l'attenzione delle famiglie mafiose del reggino ad altri settori analoghi, nei quali non occorre una grande specializzazione per operare, quali - ad esempio - il movimento terra e tutte quelle operazioni imprenditoriali che, in qualche maniera, non necessitano di una grande professionalità.
Il secondo contesto è costituito dal dato economico complessivo connesso alla raccolta dei rifiuti.

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Alla stregua dei dati contenuti nella relazione del comando provinciale della Guardia di finanza di Reggio Calabria, in data 1o dicembre 2009 (doc. 193/1), nella provincia di Reggio Calabria le ditte iscritte nell'albo nazionale gestione rifiuti allo stato sono centoquattordici, mentre il giro d'affari - escluso l'indotto - vale dichiaratamente 150 milioni di euro (considerate anche le attività sviluppate in provincia dalla TEC SpA) ed è pari al 2 per cento del P.I.L. della stessa area territoriale.
La quasi totalità delle aziende è di piccole dimensioni, con un volume d'affari inferiore a 7,5 milioni di euro: di queste, ventotto aziende superano il milione di euro di volume d'affari, mentre la sola «Leonia SpA» - società mista deputata alla raccolta dei rifiuti nel capoluogo - raggiunge un volume annuo di affari di circa 15 milioni di euro, somma che corrisponde a quella di circa 14 milioni di euro che il comune di Reggio Calabria spende annualmente per assicurare il servizio di raccolta dei rifiuti.
Alla luce di tali dati, si spiega l'interesse delle varie famiglie della 'ndrangheta verso questo settore, tant'è che l'ufficio del prefetto ha effettuato un'analisi sulle certificazioni antimafia, rilevando dati a dir poco allarmanti. È proprio questa l'anomalia di sistema, che merita di essere sottolineata.
Secondo i dati forniti dal prefetto di Reggio Calabria (vedi doc. 187/1), le ditte che nella provincia di Reggio Calabria, a vario titolo, si occupano del ciclo dei rifiuti sono 171 (un numero assolutamente spropositato in relazione al numero di abitanti serviti, come correttamente fa rilevare la senatrice Daniela Mazzuconi, componente della Commissione).
Di queste - si legge nella relazione del prefetto - ben 115 non sono note al sistema, non essendo mai stata chiesta per loro alla prefettura la certificazione antimafia; 12 hanno avuto certificazione antimafia interdittiva; 31 sono state destinatarie di certificazione antimafia liberatoria; 3 sono in amministrazione giudiziaria, mentre per 8 ditte è in corso la relativa istruttoria, essendo stata richiesta per la prima volta la certificazione antimafia.
In conclusione, sulle 46 ditte circa (12 + 31+ 3) note al sistema, solo 12 hanno certificazione negativa, più o meno il 20 per cento, una percentuale già di per sé molto scarsa rispetto alle ditte note, che diventa addirittura irrilevante se rapportata all'elevatissimo numero di imprese (115) che, pur occupandosi di rifiuti, non sono note al sistema.
Si tratta di un dato che rivela, già di per sé, in modo drammatico quanto sia elevato il livello di diffusione dell'illegalità che pervade l'intera provincia di Reggio Calabria, tanto più alla luce delle successive dichiarazioni del prefetto Musolino, come di seguito riportate.
Invero, a specifica domanda del presidente della Commissione, Gaetano Pecorella, in ordine al fatto che ben 115 aziende - pur occupandosi di rifiuti e pur essendo iscritte alla Camera di commercio per tale attività, non sono note ai fini della certificazione antimafia - il dottor Musolino ha, dapprima, riferito che la spiegazione può essere ricercata nel fatto che almeno parte di esse non ha lavorato con il pubblico ovvero che, di fatto, non esercita tale attività.

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E, tuttavia, secondo il prefetto, è anche possibile - anzi è probabile - che le ditte, una volta ottenuta la certificazione antimafia e vinto l'appalto, affidino il servizio in subappalto a una delle 115 aziende sconosciute dal sistema, consentendo così alla mafia di prosperare, tanto più che il ricorso al subappalto o alla semplice sostituzione del personale costituisce un dato oggettivo e, purtroppo, acclarato.
Significativamente, il dottor Musolino, come esempio sui sistemi da adottare per evitare le infiltrazioni mafiose, pur ammettendo l'esistenza in concreto di difficoltà operative, ha citato ciò che sta accadendo su un altro fronte, quello relativo al «quinto macro-lotto» dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria, lì dove la prefettura, insieme alle forze di polizia, ha da tempo avviato una pianificazione particolare dei controlli, basati su un sistema informatico, che consente di verificare chi sono i soggetti che materialmente ed effettivamente prestano la loro attività lavorativa all'interno del cantiere.
A sua volta, il dottor Carmelo Casabona, questore di Reggio Calabria, nel corso della sua audizione del 1o dicembre 2009, ha riferito che vi è una imprenditoria che, con il sostegno della 'ndrangheta e ricorrendo all'influenza tipica della mafia in genere, si immette nel settore dei rifiuti, gestendo appalti, come risulta provato dalla sentenza n. 5635/01 R. GIP di Reggio Calabria del 22 dicembre 2008, che, nel condannare un imprenditore, Matteo Alampi, ha fatto luce sulla metodologia adottata dalla 'ndrangheta nel sistema della raccolta dei rifiuti.
Inoltre, il dottor Casabona, prendendo spunto da tale processo, ha rimarcato l'esistenza, nelle gare di appalto, di accordi tra tutti i concorrenti, alcuni dei quali accettano di fare la figura delle comparse, per un preciso tornaconto, come quello di vedersi affidati servizi in subappalto ovvero di ottenere altri appalti, privi di interesse per la criminalità.
Sul punto, il questore ha parlato dell'esistenza «quasi di una consorteria», che consente la gestione degli appalti in base agli appetiti del momento e di una fase «quasi democratica» del sistema illecito nella distribuzione degli appalti.
Proprio ricorrendo a tali sistemi è accaduto nella vicenda «Alampi» che le cosche dei Libri e dei Condello, storicamente avverse tra loro, in questa occasione, non si sono scontrate, anzi hanno raggiunto un accordo.
Infine, il questore di Reggio Calabria ha citato le vicende che hanno visto coinvolta nel recente passato la Leonia che - come si è detto - effettua la raccolta dei rifiuti nella città di Reggio Calabria.
La società ha subito numerosi attentati: nel 2007 hanno sparato a un auto compattatore, nel corso del 2008 vi è stata una esplosione di colpi in direzione di un altro mezzo e altri attentati e, in data 1o novembre 2009, sono state incendiate quattro autovetture della famiglia De Caria, responsabile della ditta Leonia.
Il problema degli inquirenti - ha concluso il questore di Reggio Calabria - era quello di «capire se dietro a tutto questo possano esservi contrapposizioni oppure estorsioni», in ogni caso, di stampo mafioso.

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Anche Pasquale Angelosanto, Comandante provinciale dei carabinieri di Reggio Calabria, nell'audizione del 1o dicembre 2009, ha sottolineato la presenza, nel ciclo dei rifiuti, della criminalità organizzata, che ottiene appalti dalle amministrazioni pubbliche, riferendo in ordine ad alcune indagini.
Un'indagine, di cui si è già riferito, ha avuto per oggetto l'attività di smaltimento dei rifiuti solidi urbani (rsu) da parte di società legate alla 'ndrangheta.
Dal quadro probatorio - quale acclarato da una sentenza del tribunale di Reggio Calabria che, nel dicembre del 2008, ha condannato tutti gli imputati per associazione mafiosa - risulta l'inserimento mafioso negli appalti dei comuni del territorio reggino.
Invero, alcuni imprenditori, gli Alampi, specializzati nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani (rsu), in collegamento con la cosca mafiosa dei Libri, avevano costituito delle società ad hoc (la Edilprimavera, la Rossato Fortunato e altre ancora) per effettuare tali attività.
Su tale processo (n. 1669/01 R. G.), denominato «rifiuti SpA» - come si è visto - si è soffermato anche il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, nel corso della sua audizione.
L'aspetto più inquietante dell'intera vicenda è costituito dal fatto che, al momento in cui sono state eseguite le indagini dei carabinieri, le gare di appalto erano state già regolarmente espletate, a dispetto ovvero in assenza di certificazione antimafia.
Purtroppo, tale dato è significativo dell'assenza della pubblica amministrazione nell'attività di contrasto alle infiltrazioni mafiose, che solo il puntuale rispetto della legge - soprattutto, da parte degli enti territoriali (comuni, province e regioni) - è in grado di assicurare.
Il Comandante Angelosanto, inoltre, ha riferito di un'altra indagine convenzionalmente denominata «Bello Lavoro», sviluppata nel 2008, dalla quale emerge l'utilizzo delle fiumare della provincia di Reggio Calabria, per l'esecuzione di lavori che avevano a oggetto la costruzione di una variante sulla strada statale 106 nella zona di Palizzi: si tratta di opere realizzate mediante il prelievo accertato - anche con arresti in flagranza di reato - di ghiaia e materiale inerte da alcune fiumare, in particolare, da quella di Amendolea.
Interessati a realizzare questo lavoro erano due società, la D'Aguì Beton e la IMC di Costantino Stilo, direttamente collegate alle cosche della 'ndrangheta, dal momento che Costantino Stilo, è nipote di Giuseppe Morabito, detto «il tiradritto», uno dei principali esponenti della 'ndrangheta in Calabria, mentre Terenzio D'Aguì, titolare della D'Aguì Beton, risulta inserito nella cosca che fa riferimento all'altro Morabito, cioè a Bruno Morabito.
In pratica, le due società si erano suddivise i lavori per la variante della strada statale 106 e praticavano il prelievo sistematico della ghiaia dalle fiumare, provocando altresì l'inquinamento dei torrenti e dei fiumi, con l'abbandono delle rimanenze della lavorazione del calcestruzzo nelle fiumare stesse.
Pertanto, non solo le acque del lavaggio del calcestruzzo, ma anche le quantità di calcestruzzo eccedenti quelle richieste dalla posa delle relative opere venivano abbandonate nelle fiumare.

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L'indagine ha portato, nel giugno del 2008, al fermo di indiziati di delitto per 33 indagati per associazione di tipo mafioso, cui ha fatto seguito la condanna in primo grado per associazione mafiosa nei confronti di 27 dei 33 indagati, tra cui i titolari delle società IMC e D'Aguì Beton.
Peraltro, il degrado in cui versano le fiumare del reggino emerge in maniera drammatica dalla già citata relazione, in data 6.11.2009, del comando carabinieri per la tutela dell'ambiente - gruppo di Napoli (doc. 163/1), da cui risulta che il NOE di Reggio Calabria, competente su tali aree, su delega della locale autorità giudiziaria, ha sviluppato un attento monitoraggio delle fiumare comprese nella provincia di Reggio Calabria, monitoraggio che ha posto in evidenza diverse violazioni in campo ambientale e paesaggistico, tali da determinare un evidente stato di degrado ambientale, specie per quei corsi d'acqua che ricadono nel comune capoluogo.
Il demanio di tali fiumare appartiene all'ente provincia, che si difende dalle accuse di omesso controllo, adducendo l'impossibilità materiale di rendere le fiumare inaccessibili a terzi, tanto è vero che l'illecito più frequente è costituito dall'abbandono incontrollato di rifiuti speciali, pericolosi e non, come laterizi, elettrodomestici, ecc.
Va osservato, tuttavia, che nelle fiumare sono state riscontrate altre violazioni, che una più accurata opera di vigilanza sulle aste fluviali da parte dell'ente preposto sicuramente avrebbe contenuto, assicurando altresì alla giustizia i responsabili.
In particolare, non solo al ridosso dei muri d'argine, ma addirittura sullo stesso letto del torrente è stata riscontrata la presenza di scarichi fognari e industriali abusivi, di manufatti abusivi (parti o intere case private, parti o interi opifici per la lavorazione di inerti), di autodemolitori abusivi, di impianti di depurazione di acque reflue e, finanche, di cantieri edili.
Emblematica è del resto la situazione del fiume «Valanidi», che in corrispondenza della fascia di rispetto posta nella biforcazione dell'asta fluviale (Valanidi Io e IIo ), vede la presenza di un impianto di trattamento rifiuti, nonché il costruendo mercato generale e interi edifici destinati ad uso abitativo.
Infine, Alberto Reda, Comandante provinciale della Guardia di Finanza di Reggio Calabria, nell'audizione del 1o dicembre 2009, ha riferito che in termini di polizia ambientale, l'azione della G.d.F. nell'ultimo settennio si è sostanziata concretamente nell'individuazione e nel rinvenimento di aree adibite a discariche abusive.
I risultati di servizio complessivamente conseguiti nel settennio in esame, oltre nell'anno in corso, hanno portato al sequestro di aree demaniali e private per un totale di 400 mila metri quadrati, al sequestro di 70 discariche abusive, alla denuncia di 419 persone, di cui 8 in stato di arresto.
Inoltre, nel corso dell'anno 2009, una specifica operazione condotta nell'area portuale di Gioia Tauro ha consentito, in collaborazione con l'agenzia delle dogane e i carabinieri del NOE, l'individuazione e il successivo sequestro di rifiuti ferrosi diretti verso il Pakistan, provenienti da una ditta della Piana di Gioia Tauro, per un totale di 43.760 chilogrammi.

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Per quanto riguarda l'azione di polizia giudiziaria, nel periodo 2002-2009, la Guardia di finanza ha segnalato alla competente autorità giudiziaria circa 400 soggetti e ha accertato oltre 450 reati, in relazione sia al cosiddetto codice ambientale (decreto legislativo n. 152 del 2006), sia a reati previsti dal codice penale, in particolare per questi ultimi, l'invasione di terreni ed edifici, il deturpamento, la violazione dei sigilli e via elencando.
Tra le attività di indagine di maggiore rilievo, anche il comandante Reda ha segnalato quella denominata «rifiuti SpA», iniziata nel 2001 e conclusasi nel 2006, che ha riguardato una consorteria di soggetti operanti in ambienti di criminalità organizzata che, per attuare i loro piani criminosi, si sono avvalsi dell'opera della famiglia Alampi, imprenditori fino a quel momento incensurati e facenti capo a Matteo Alampi, legato a doppio filo agli ambienti politici (il sindaco di Reggio Falcomatà) e malavitosi (Libri, De Stefano, Condello, Piromalli).
L'attività investigativa, condotta dal GICO della Guardia di finanza di Reggio Calabria, unitamente al ROS dei carabinieri di Roma, si è in particolare concentrata sui fatti di gestione relativi alle discariche di rifiuti solidi urbani all'epoca operative nel territorio della provincia reggina ovvero quelle site nei comuni di Fiumara, Motta San Giovanni e Gioia Tauro (vedi doc. 193/2).
Le indagini sono culminate con l'emissione di 19 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di altrettanti soggetti ritenuti responsabili dei reati di associazione mafiosa, estorsione e corruzione, reati collegati ad appalti pubblici nel settore della raccolta e del successivo smaltimento di rifiuti solidi urbani, con riferimento principalmente alle aziende Meridional servizi Srl, servizi ambientali e Caledil.
Ai titolari di queste aziende è stato contestato di aver influenzato la concessione di un determinato numero di appalti, mediante l'utilizzo di un certo numero di imprese compiacenti e, laddove non si riusciva a influenzare il risultato finale dell'appalto, mediante il ricorso a metodologie tipicamente mafiose, quali l'intimidazione e l'estorsione: il tutto, naturalmente, finalizzato all'accaparramento di questi appalti. È stata, altresì, riscontrata l'esistenza dei classici falsi documentali per certificare apporti di rifiuti differenti rispetto a quelli effettivamente forniti.
Nel mese di luglio del 2007, l'attività investigativa ha portato all'emissione, da parte della sezione misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, di provvedimenti di sequestro nei confronti dei beni dei soggetti sottoposti a ordinanze di custodia cautelare, per un valore di circa 5 milioni di euro.
Ulteriori sviluppi, nel mese di ottobre 2009, hanno portato poi all'esecuzione di altri sequestri, sempre nell'ambito dell'attività di misure di prevenzione, nei confronti di beni, autoveicoli e patrimonio aziendale della società «Meridional servizi Srl», iscritta all'albo dei gestori dei rifiuti in ambito provinciale.
Vale la pena di ripercorrere la vicenda processuale al fine di meglio comprendere il «modus operandi» delle cosche reggine, sulla base della relazione in atti del comando provinciale di Reggio Calabria della Guardia di finanza (doc. 193/2)
All'epoca dei fatti accertati, la discarica di Fiumara era gestita da un'ATI (associazione temporanea di imprese), appositamente costituita

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nei primi mesi del 1999 e composta dalla capogruppo «Servizi Ambientali Srl», società operante nel settore della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti, iscritta all'albo nazionale degli smaltitori, con sede legale in Vercelli, nonché da due società reggine: la «Meridional servizi s.a.s.», con sede in Lazzaro (RC), avente ad oggetto sociale altre attività di servizi N.C.A. e proprietaria di alcuni mezzi per la lavorazione dei rifiuti, e la ditta individuale Calarco Giorgio, con sede in San Roberto (RC), operante nel settore dei lavori generali di costruzione edifici, responsabile del trasporto e dello spargimento del materiale inerte da utilizzare come copertura dei rifiuti.
Le discariche di Motta San Giovanni e di Gioia Tauro venivano gestite invece da un'ATI appositamente costituita nel settembre del 1999, composta dalla capogruppo «Rossato Fortunato Srl», società con sede in Pianiga (VE) operante nel settore dello «smaltimento di rifiuti solidi», anch'essa in possesso dell'iscrizione all'Albo nazionale degli smaltitori, e dalla «Edilprimavera Srl», con sede in Reggio Calabria, società impegnata nel settore dell'edilizia e riconducibile alla famiglia Alampi.
L'attività investigativa ha permesso di disvelare l'esistenza di una articolata struttura associativa che, mediante molteplici condotte di rilievo penale che andavano dalla turbativa d'asta, all'estorsione, alla truffa e alla frode nelle pubbliche forniture, condizionava il sistema di raccolta e smaltimento dei rifiuti nella provincia di Reggio Calabria.
In particolare, le investigazioni hanno consentito di individuare un comune «modus operandi» applicato dai soggetti indagati che si sviluppava attraverso le seguenti fasi:
1) la costituzione di associazioni temporanee d'impresa, che vedeva quale «capogruppo» una società, possibilmente del nord Italia, operante nel settore dello smaltimento dei rifiuti e in possesso dei requisiti necessari per la partecipazione della gara, da affiancare poi, a gara vinta, a una o più società reggine «amiche», attraverso le quali gestire direttamente gli impianti per il perseguimento di finalità illecite;
2) il condizionamento dell'esito delle gare di appalto mediante l'esercizio di violenze e minacce nei confronti di soggetti potenzialmente interessati a partecipare alla gara, ma del tutto estranei al sodalizio criminale - così come accertato per la gara per la gestione della discarica di Motta San Giovanni - con la conseguente limitazione della partecipazione alla gara soltanto a soggetti compiacenti con i quali concordare preventivamente le percentuali di ribasso e, quindi, ottenere l'aggiudicazione con percentuali molto esigue (ad esempio la gara per la gestione dell'impianto di Fiumara è stata aggiudicata all'ATI facente capo alla «servizi Ambientali Srl» con un ribasso dello 0,2 per cento);
3) la gestione della discarica in violazione delle direttive impartite dall'ente appaltante, utilizzando macchinari e materiali non conformi alle normative di settore, al fine di ottenere un notevole abbattimento dei costi di gestione dell'attività (es. impianto di Fiumara) ovvero utilizzando artifici e raggiri consistenti nella falsa fatturazione per prestazioni non effettuate, allo scopo di indurre il comune competente a versare all'ATI somme non dovute.

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In particolare, con le false fatturazioni veniva attestato lo stoccaggio, lo «spianamento» e la copertura di quantitativi di rifiuti in misura superiore a quella effettiva, nonché il pagamento «secondo tariffa» di somme relative a quantitativi di rifiuti «smaltiti», eccedenti rispetto alla realtà.
Particolarmente indicativo dell'intero contesto operativo di riferimento appare quanto accertato nel corso delle indagini in relazione alle vicende societarie della «Servizi Ambientali Srl», capogruppo nell'ATI aggiudicataria dell'appalto per la gestione della discarica di Fiumara.
Tale compagine societaria era inizialmente completamente riconducibile a soggetti del Nord Italia.
Costoro, tuttavia, prima di partecipare alla gara di appalto per la gestione dell'impianto di smaltimento di Fiumara, si sono premurati di stringere accordi, attraverso esponenti della 'ndrangheta residenti in Piemonte - alcuni dei quali in soggiorno obbligato - con il «locale» di 'ndrangheta di Fiumara (cosca Imerti/Zito, strettamente legata alla cosca di Pasquale Condello, alias «il Supremo», all'epoca dei fatti ancora latitante) concordando - dopo aver ottenuto la garanzia di vincere la gara - la ripartizione degli utili «reali», prodotti mediante la gestione fraudolenta della locale discarica, tra quattro «entità» (e non tra tre, tante quante erano le componenti dell'ATI), dovendo «la quarta parte» essere destinata «al territorio» (espressione utilizzata, durante il suo interrogatorio, dall'ingegnere Pietro Stero, amministratore delegato e socio della Servizi Ambientali Srl), ovvero essere destinata alla 'ndrangheta.
Secondo complessi calcoli ricostruiti dagli investigatori, le quote di utile «reale» venivano ricavate mediante l'emissione di F.O.I. (fatture per operazioni inesistenti) che giustificavano conferimenti di quantitativi di rifiuti superiori alla realtà, grazie anche alla compiacenza dell'autorità preposta al controllo della corretta contabilizzazione delle operazioni, ovvero il responsabile unico del procedimento (RUP), identificato nel responsabile del settore tecnico del comune di Fiumara, il quale per i propri «servizi» veniva compensato con la somma di 2 mila euro al mese.
E, tuttavia, ciò non era sufficiente a soddisfare le bramosie dell'organizzazione criminale, considerato che, con il passare del tempo, l'ingegnere Stero e gli altri soci di riferimento della «Servizi Ambientali Srl», sempre più pressati dalle maggiori richieste di natura economica della criminalità organizzata, hanno finito con il cedere le quote di proprietà della «Servizi Ambientali Srl» a imprenditori campani, in particolare a Lanzuolo Anna, convivente di Domenico Romano, esponente di spicco della nuova camorra armata, cosca Romano/Agizza, riconducibile a Carmine Alfieri.
A seguito di tale operazione, braccio operativo occulto della nuova compagnie è divenuto Alberto Franco Luciano soggetto pluripregiudicato, di origine reggina, legato alle cosche Joniche dei Morabito/Mollica.
Anche questi ultimi si sono accordati con la cosca locale, mantenendo inalterata la composizione dell'ATI, aggiudicataria dell'appalto e la conseguente divisione degli utili.


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Le risultanze investigative sul conto della famiglia Alampi, facente capo a Matteo Alampi, imprenditore spregiudicato, hanno consentito di appurare: 1) che costui era legato a doppio filo ad ambienti politici (il già sindaco di Reggio Calabria, Italo Falcomatà) e ad ambienti malavitosi (cosca Libri, De Stefano, Condello, Piromalli e, nell'ambito dell'indagine «Armonia», diverse cosche Joniche reggine); 2) che la «Edilprimavera Srl», società del gruppo Alampi - che già si era distinta nel panorama imprenditoriale reggino per aver sempre mantenuto una posizione egemone nell'aggiudicazione degli appalti pubblici nel settore dell'edilizia - a partire dai primi anni del 1990 si era interessata al settore dei rifiuti, con la gestione delle discariche, del trasporto dei rifiuti prodotti dagli impianti di produzione del cdr, in quanto dotata di struttura societaria e di un patrimonio aziendale (soprattutto in automezzi), ben in grado di consentire un agevole ingresso in tale attività imprenditoriale; 3) che l'ingresso della famiglia Alampi nel settore dei rifiuti era stato favorevolmente accolto sia dallo schieramento mafioso facente capo a «Pasquale Condello», sia da quello «De Stefaniano»; 4) che il settore dei rifiuti ha consentito alla società e ai soci di conseguire ingenti guadagni, anche ricorrendo ad artifizi e raggiri documentali, da qui le accuse e le condanne per truffa e frode nei pubblici servizi.
All'esito del dibattimento davanti il tribunale di Reggio Calabria, sono state condannate 13 persone con l'irrogazione di 115 anni di reclusione, per reati che vanno dall'associazione a delinquere di stampo mafioso, alla turbativa d'asta, alla truffa e alla frode nei pubblici servizi.
Il processo ha in particolare delineato la figura di Matteo Alampi come quella dell'imprenditore-boss capace di «dialogare» sia con Domenico Libri, sia con la cosca opposta di Pasquale Condello e Giuseppe De Stefano.

X.1.1 - La struttura della 'ndrangheta

Il dottor Gratteri è stato audito dalla Commissione, al fine di chiarire il ruolo di Francesco Fonti, a proposito delle cosiddette navi dei veleni oggetto di altra relazione.
Nel corso dell'audizione del 1o dicembre 2009 - sia pure con riferimento alla posizione di Fonti - il dottor Gratteri ha fornito uno spaccato della 'ndrangheta nel territorio reggino, che vale la pena di ripercorrere, poiché ha parlato di «presenza asfissiante» della 'ndrangheta nel territorio di Reggio Calabria, riferendo di una densità mafiosa definita «incredibile», posto che risulta acclarato che in paesi di 3 mila abitanti, ve ne sono 1.500 «battezzati» dalla 'ndrangheta, tutte persone di sesso maschile di età compresa tra i quattordici e gli ottant'anni.
Si tratta di una situazione drammatica se si considera che, per essere battezzati nella 'ndrangheta, ci deve essere un «garante», un affiliato che accompagna il nuovo adepto davanti al capo del «locale» e che è il responsabile della riuscita o malriuscita del picciotto.
Il «locale» è la zona di influenza di una determinata cosca della 'ndrangheta, così legittimata per aver ricevuto l'investitura ufficiale


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dalla casa madre dell'organizzazione mafiosa, rappresentata dal «locale» di San Luca.
L'affiliando, prima del battesimo, deve essere un «contrasto onorato», nel senso che deve trattarsi di persona che - benché «non battezzata» (questo il significato del termine «contrasto») - è affidabile per l'organizzazione, in quanto in possesso di alcune caratteristiche imprescindibili per entrare a farne parte, in quanto deve essere ritenuto «omertoso» e non deve avere alcun tipo di parentela e/o di frequentazione con appartenenti alle forze dell'ordine.
Colui che viola le regole della 'ndrangheta viene sottoposto a precise sanzioni. Il «colpevole», infatti, può essere posato, e cioè «messo in sonno» - come per i massoni - per alcuni mesi o gli si può mettere la testa nel water e tirare l'acqua o urinare sul piede. Si tratta di sanzioni gravi sotto il profilo psicologico, perché costituiscono il fallimento nell'entrare a fare parte della'ndrangheta e/o nel salire i gradini e le gerarchie nei «locali».
Il codice di onore prevede anche la morte, alla quale si ricorre solo come estrema «ratio», come era accaduto per l'omicidio del medico Ioculano (imputato Piromalli), che, prima di essere ammazzato, era stato «avvisato per ben tre volte».
Il dottor Gratteri ha parlato anche della filosofia criminale della 'ndrangheta, che è quella di fare meno rumore possibile, al fine di cercare alleanze con uomini delle istituzioni, nella convinzione di riuscire ad arrivare in appello o in cassazione per «aggiustare i processi».
Invero, per una famiglia della 'ndrangheta, è fisiologico che ogni anno dieci dei loro adepti possano essere arrestati. È nell'ordine delle cose. Fare rumore non serve. La strage di Duisburg, per esempio, è stata un errore che la 'ndrangheta ha pagato, perché ne sono seguiti più di cinquanta arresti.
Il dottor Gratteri si è quindi soffermato sulla carriera criminale di Francesco Fonti, il quale era nato a Bovalino in una famiglia non mafiosa, aveva studiato nel liceo scientifico di Locri ed era stato battezzato, come 'ndranghetista, nel «locale» di 'ndrangheta di Siderno - «locale prestigioso», perché vi operava un boss di rango, come Antonio Macrì - dove era stato portato da Pietro Bartolo e da Totò Cordì e da altri giovani 'ndranghetisti, già suoi compagni di scuola.
Fonti sarebbe dovuto entrare nel locale di 'ndrangheta di Bovalino, dove era residente, ma la famiglia Romeo di San Luca - una delle famiglie storiche, di élite della 'ndrangheta, il cui capostipite, Romeo, detto «Stacco», classe 1879, reggeva «il crimine» di San Luca - lo aveva invitato a San Luca, in quanto il locale di Bovalino era ritenuto di «serie B» o di «serie C».
La famiglia Romeo «Stacco» lo aveva, quindi, delegato a distribuire la cocaina nelle province di Bologna e di Modena. Riferendo, in qualità di collaboratore di giustizia sulle circostanze relative a tali attività delittuose, il Fonti era stato «preciso come un orologio svizzero», in quanto la DDA di Reggio Calabria era riuscita a riscontrare tutto ciò che egli aveva riferito nell'ambito del procedimento denominato «Sorgente», in omaggio allo stesso Fonti.

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Invero, diverse squadre mobili d'Italia, tra cui quelle di Bologna, Reggio Calabria e Milano, coordinate dallo SCO di Roma, si erano interessate delle dichiarazioni di Fonti Francesco, il quale aveva parlato, denunciando circa 230-240 persone, poi indagate.
Il dottor Gratteri aveva iniziato a interrogare il Fonti, nel lontano 1993, dopo che il dottor Vincenzo Macrì lo aveva, a sua volta, interrogato per quindici mesi, nel corso dei quali il collaboratore di giustizia aveva sempre parlato di droga, di affiliati alla 'ndrangheta che si trovavano in Piemonte - dove aveva operato per un periodo - e in Emilia Romagna; Fonti aveva parlato, quindi, della 'ndrangheta della provincia di Reggio Calabria.
Gli interrogatori, almeno una trentina, erano proseguiti per altri cinque o sei anni in numerosi altri processi e Fonti aveva ripetuto al dottor Gratteri quasi sempre gli stessi fatti, tutti legati al traffico di droga e all'associazione per delinquere di stampo mafioso, finalizzata a tale traffico.
Prima del 2005, Fonti - che, peraltro ha subito numerosissime condanne per truffa - non aveva mai parlato di «navi».
Del resto, nel traffico di droga il Fonti era molto esperto e aveva una buona dimestichezza, con riferimento al dosaggio e ai prezzi, sì da poter essere definito un esperto in questo campo.
A seguito delle sue dichiarazioni, ritenute credibili, le persone delle quali aveva parlato con riferimento agli stupefacenti, sia i Romeo di San Luca, detti «Stacco», sia i Giorgi, sempre di San Luca, sia altri trafficanti avevano subito pesanti condanne e si tratta di soggetti appartenenti a famiglie di élite della 'ndrangheta e grandissimi trafficanti nazionali di cocaina, gente che trattava anche mille o duemila chili di cocaina per volta.
Con costoro il Fonti non aveva legami di sangue; egli in Calabria aveva solo alcuni lontani parenti, con cui non aveva frequentazioni.
Il collaboratore di giustizia non aveva mai parlato di altro.
Mai, in particolare, il Fonti aveva riferito ai magistrati - che nel corso degli anni lo hanno ripetutamente interrogato - vicende connesse al traffico illecito dei rifiuti, tanto più che egli all'interno della 'ndrangheta non aveva il grado per accedere a determinate operazioni.
Secondo il dottor Gratteri, Francesco Fonti, nella sua qualità di trafficante di cocaina, non occupava un grado elevato nella struttura mafiosa, in quanto sicuramente egli non faceva parte dei gradi dalla «Santa» in su - Santa, Vangelo, Quartino e Trequartino - ma era al di sotto.
Egli aveva un ruolo sostanzialmente esecutivo e non decisionale e, dunque, era sgarrista o camorrista, non di più.
Ha ancora riferito il dottor Gratteri che, per parlare di temi superiori al traffico di droga o per parlare dell'esecuzione di omicidi, è necessario avere un grado elevato nella 'ndrangheta, altrimenti non vi si può accedere, nemmeno a livello di discussione, mentre il Fonti - a dispetto delle sue affermazioni - non ricopriva il grado di «santista» grado che, in via di assoluto principio, l'organizzazione non attribuisce a un trafficante di cocaina, ma solo a persone che svolgono compiti di concetto.

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Allo scopo di rappresentarne il livello, il dottor Gratteri ha riferito che tra i «santisti», vi sono medici primari o anche avvocati, mentre il Fonti aveva solo un diploma. Il «santista», quale grado elevato della 'ndrangheta, è chiamato a far parte della massoneria deviata, ha contatti con i vertici della pubblica amministrazione, non commette reati materiali, parla, ascolta e delinea strategie, concetti, filosofia criminale, a livello di struttura apicale, di regia.
Il «santista» non è un corriere o un trafficante di droga, non gestisce cocaina, non può essere un killer, né può ammazzare.

X.2 - La gestione dei rifiuti a Reggio Calabria e nella provincia

Dopo aver illustrato nel capitolo che precede il livello di infiltrazioni mafiose nel ciclo dei rifiuti e, dunque, il contesto ambientale di Reggio Calabria e della provincia, è possibile comprendere i limiti che anche la stessa gestione commissariale incontra in questa provincia, gestione commissariale che, comunque alla prova dei fatti, a Reggio Calabria come nelle altre province della regione, ha incontrato delle difficoltà, che non è riuscita a superare, perpetrando quello stato di emergenza posto a fondamento del provvedimento di commissariamento.
A questo punto, è necessario passare all'esame della situazione di Reggio Calabria, con spunti che investono comunque la situazione dell'intero territorio calabrese, partendo dall'esame delle dichiarazioni rese dai rappresentanti delle istituzioni nel corso delle loro audizioni e delle relazioni depositate.
Giuseppe Scopelliti, già sindaco di Reggio Calabria, al momento della sua audizione del 1o dicembre 2009, e oggi presidente della regione Calabria, ha riferito a questa Commissione che nella città di Reggio Calabria operano nel settore dei rifiuti due diverse società: la «Leonia», che si occupa della raccolta indifferenziata dei rifiuti solidi urbani, e la società «Fata Morgana», nata su input del commissario per l'emergenza, che gestisce la raccolta differenziata.
La «Leonia» è una società mista pubblico-privato, che vede la partecipazione dell'amministrazione comunale, nella misura del 51 per cento, e di un gruppo privato, rappresentato dalla «Ecoterm» SpA, nella misura del 49 per cento.
Per quanto riguarda la «Fata Morgana», il comune di Reggio Calabria, che rappresenta il 37 per cento, è in società con una serie di altri comuni e con un solo privato, costituito da un gruppo di Reggio Emilia, che possiede il 45 per cento della società.
Il sindaco - a specifica domanda del presidente della Commissione, Gaetano Pecorella, il quale ha insistito anche sui motivi della presenza di una doppia società di raccolta dei rifiuti nel capoluogo e sui costi dell'operazione anzidetta - ha dichiarato di non ricordare i motivi che lo avevano indotto, pur essendo egli al tempo sindaco, ad aderire a due distinte società, benché aventi il medesimo oggetto, sia pure su modelli di raccolta diversi e, cioè, in un caso indifferenziata e in un altro differenziata e, nel riservarsi «di fornire degli elementi aggiuntivi», non meglio precisati, ha riferito - quasi, a come giustificazione - che tale situazione sussiste anche in altri comuni


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della Calabria, come del resto confermato dal commissario per l'emergenza rifiuti, dottor Sottile.
Comunque, il sindaco Scopelliti, dopo aver osservato che, nel comune di Reggio Calabria, nell'anno 2008 la percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti era stata pari al 16,03 per cento, nettamente inferiore al 35 per cento previsto dal decreto Ronchi (pur se i progressi in corso facevano prefigurare il raggiungimento della quota del 30 per cento), ha riferito che, proprio per consentire il raggiungimento di tale risultato, era stata bandita una gara - che stava ormai per concludersi entro qualche settimana - per l'assegnazione della raccolta differenziata.
La gara vede la partecipazione solo delle due società che già operano nella raccolta dei rifiuti e cioè la società «Leonia» e la società «Fata Morgana», anche se va rilevato sul punto che il prefetto di Reggio Calabria ha affermato, nel corso della sua audizione davanti alla Commissione, che non gli risultava che vi fossero state delle gare, a partire dal momento del suo insediamento circa due anni prima.
Ebbene - secondo il sindaco - il dualismo nella raccolta dei rifiuti era destinato a cessare se la gara fosse stata vinta dalla società «Leonia», la quale aveva già dato buona prova di sé con l'avvenuta stabilizzazione di oltre 150 lavoratori e con un servizio efficiente, che trovava il pieno gradimento dei cittadini. Tuttavia, il sindaco Scopelliti non ha fornito risposta alla domanda dell'onorevole Alessandro Bratti su come era stato scelto il partner privato della «Leonia», né sulla composizione dell'assetto sociale della stessa «Ecoterm SpA».
Inoltre, il sindaco non ha fornito alcuna indicazione del costo complessivo della raccolta dei rifiuti, limitandosi ad affermare che, con l'ingresso dei privati nella gestione dei rifiuti, i costi di manutenzione erano fortemente diminuiti.
Si tratta di un problema di non poco conto, dal momento che, come rileva la senatrice Daniela Mazzuconi, uno dei problemi che si riscontrano nelle regioni con infiltrazioni malavitose è la difficoltà di definire i costi e quindi di valutare l'eventuale interesse della malavita a partecipare a operazioni i cui costi si prestano ad essere gonfiati.
Il sindaco ha dichiarato, inoltre, che a seguito dell'affidamento alla «Leonia» del servizio di raccolta dei rifiuti, erano cessate quelle continue azioni di sabotaggio poste in essere in danno degli automezzi - come quella, ad es. di versare sale nel serbatoio della benzina - che si erano verificate anche nel recente passato, quando il servizio di raccolta dei rifiuti veniva gestito direttamente dal comune, con costi che - solo per la voce manutenzione - all'epoca, erano lievitati a un milione di euro all'anno.
Alla domanda del presidente della Commissione, Gaetano Pecorella, che lo invitava a spiegare le ragioni di tale «mutamento di rotta» nei costi di manutenzione degli automezzi, il sindaco Scopelliti ha risposto testualmente che «oggi lo stesso dipendente viene valorizzato nella sua dignità di lavoratore. Un tempo, i nostri dipendenti difficilmente venivano mandati a visita periodicamente, non erano forniti dei mezzi e degli strumenti necessari, non avevano mascherine, non avevano neanche l'abbigliamento idoneo. L'attuale valorizzazione porta a una maggiore responsabilità, a un'idea che l'utilizzo delle strutture pubbliche sia diverso da quello del privato» e, alla contestazione

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del presidente della Commissione d'inchiesta «scompaiono gli attentati perché date le mascherine? Non c'è alcuna relazione tra le due cose», si è limitato a rispondere «No, perché c'è un controllo dell'autoparco, che garantisce maggiore attenzione e vigilanza».
Tuttavia, il sindaco Scopelliti, a pagina 11 del resoconto della sua audizione, in modo significativo ha ammesso testualmente: «Oggi, abbiamo instaurato un sistema, che certo sul piano legato alle infiltrazioni può essere valutato diversamente, ma io guardo ai risultati, dei quali mi ritengo soddisfatto, anche se pretendo sempre di più dalla società, ma riconosco che è in corso una grande trasformazione. Durante le festività natalizie, la nostra città era sommersa dai rifiuti come Napoli e il giorno di Natale con il capo di gabinetto uscivamo per misurare il grado di altezza dei rifiuti. Dopo due anni, questo non si verifica più e il giorno di Natale, nonostante la crescita della popolazione, abbiamo un risultato di grande efficienza. Il giorno di Natale si raccolgono i rifiuti, il giorno 26 la società lavora, e per me questo è un risultato».
Infine - contrariamente a quanto riportato dal prefetto Francesco Musolino - il sindaco Scopelliti ha affermato che a Reggio Calabria non vi erano stati problemi di ordine pubblico, legati al ritardo nel pagamento degli stipendi ai dipendenti della «Leonia», in quanto - a suo dire - il ritardo di due-tre mesi doveva considerarsi assolutamente fisiologico, mentre «vi era stato il problema di qualche manifestazione, perché un mese e mezzo addietro, un dirigente della Leonia aveva subìto un attentato ai mezzi della propria famiglia, per cui un gruppo di dipendenti aveva protestato, perché volevano l'attenzione delle istituzioni».
In tale contesto ambientale, rimane il dubbio, espresso dal questore di Reggio Calabria, Carmelo Casabona, «se dietro a tutto questo possano esservi contrapposizioni o estorsioni».
Proseguendo in ordine al ciclo dei rifiuti, il sindaco Scopelliti ha riferito: a) che, una volta chiusa la discarica di Longhi Bovetto e dopo l'utilizzo delle discariche di Fiumara, Motta San Giovanni, Melicuccà, i rifiuti vengono portati per il servizio di trattamento nella stazione di Sambatello dove, dopo una prima lavorazione, vengono trasferiti a Gioia Tauro, Siderno e Lamezia; b) che l'amministrazione comunale è consapevole del rischio di un collasso sul ciclo dei rifiuti, determinato dalle difficoltà dell'impianto di Sambatello, che spesso era fermo per guasti vari, con conseguente interruzione del servizio per più giorni (di qui la necessità di trasferire i rifiuti a Casignana o in altre realtà); c) che il comune di Reggio Calabria, per la copertura del servizio, aveva adottato il regime a tassa (tarsu), peraltro, molto bassa rispetto ai costi del servizio.
E, tuttavia, il sindaco Scopelliti, ancora una volta, non è stato in grado di indicare tali costi.
Francesco Musolino, prefetto di Reggio Calabria, nell'audizione del 1o dicembre 2009, ha riferito che la provincia di Reggio Calabria non soffre di particolari emergenze, dal momento che per la raccolta dei rifiuti urbani operavano sul territorio quattro società.
Viceversa, è carente il sistema di smaltimento di tali rifiuti, dal momento che, a fronte di una necessità pari a 280 mila tonnellate di rifiuti, lo smaltimento è di circa 204 mila tonnellate di rifiuti.

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Dunque, nella provincia di Reggio Calabria, viene smaltito solo il 70-80 per cento di quello che viene prodotto e raccolto e la differenza, pari al 30-40 per cento dei rifiuti prodotti, finisce in discarica in maniera indifferenziata, pur se sono in corso iniziative volte a completare il ciclo complessivo dello smaltimento.
La raccolta dei rifiuti è affidata a società miste pubblico-privato - con capitale sociale posseduto al 51 per cento dai comuni - costituite ad hoc, ma «senza particolari procedure nella scelta della parte privata», nonostante l'avvenuta istituzione dal primo aprile del 2008 di una stazione unica appaltante nella provincia di Reggio Calabria, organizzata come quella istituita a suo tempo a Crotone.
Nella relazione del prefetto di Reggio Calabria (doc. 187/1), depositata nel corso della sua audizione, si legge che l'attuale sistema di gestione dei rifiuti solidi urbani (trattamento e smaltimento finale) è regolamentato da un contratto di project financing, stipulato tra l'ufficio del commissario e il concessionario, la società TEC SpA, già acquisita nel 2007 dalla società francese Veolia.
Nello specifico, il sistema provinciale è costituito da tre impianti di selezione e trattamento rifiuti, Sambatello (RC), Siderno e Gioia Tauro, nonché da un impianto di termovalorizzazione in Gioia Tauro, di cui è in fase di realizzazione il raddoppio.
Gli impianti ricevono direttamente i rifiuti solidi urbani dalla raccolta stradale, separano i rifiuti e producono il cdr, combustibile da rifiuti, che viene bruciato presso il termovalorizzatore di Gioia Tauro; quindi gli scarti di produzione e di combustione, non pericolosi, vengono conferiti presso la discarica di Rossano (CS).
Completa il quadro della gestione dei rifiuti urbani sul territorio provinciale la discarica consortile di Casignana, località Petrosi, che riceve i rifiuti prodotti da 24 comuni del basso ionio reggino.
I menzionati impianti integrati di selezione rsu e valorizzazione della raccolta differenziata e quello di termovalorizzazione sono gestiti dalla società «TEC» SpA.
Come si è detto, le suddette installazioni industriali risultano avere una capacità operativa, rispettivamente, pari a 204.000 tonnellate/anno per la selezione rifiuti e pari a 120.000 tonnellate/anno per la termovalorizzazione, a fronte di una produzione di rsu e RD di circa 280.000 tonnellate/anno nell'intera provincia: di qui la necessità di realizzare nuovi impianti di trattamento dei rifiuti e discariche di servizio.
Con ordinanza N. 8486 del 16 novembre 2009 il commissario delegato per il superamento della situazione di emergenza nel settore dei rifiuti urbani nel territorio della regione Calabria, d'intesa con la provincia di Reggio Calabria e con il comune di Melicuccà, ha approvato il progetto preliminare per la realizzazione della discarica di servizio del sistema integrato di smaltimento rifiuti denominato «Calabria Sud», sito in località La Zingara del comune di Melicuccà.
Il progetto per la bonifica e l'ampliamento dell'ex discarica comunale di Motta San Giovanni (RC) non è andato a buon fine, a causa del mancato accordo con l'amministrazione comunale.
Il gestore di «Calabria Sud», inoltre, sta predisponendo gli atti progettuali necessari per la realizzazione di tre discariche di servizio da realizzarsi in provincia, la prima, a Siderno (RC); la seconda, a

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Rosarno (RC), in ordine alla quale esiste un protocollo che prevede la bonifica della discarica esaurita e la realizzazione della nuova; la terza, a Motta San Giovanni (RC), per la quale si prevedono le stesse modalità operative illustrate per Rosarno.
Come si è detto, si tratta solo di progetti, non essendovi nulla di deciso e, soprattutto, non è stata realizzata alcuna discarica di servizio, come è chiaramente emerso dal lodo arbitrale che, per tale mancata realizzazione, ha condannato la Presidenza del consiglio dei ministri - ufficio del commissario delegato, nella qualità di concedente, al risarcimento dei danni subiti dalla società concessionaria TEC SpA.
Allo stato, quindi, nel sistema «Calabria Sud» vi sono cinque impianti di trattamento dei rifiuti, rispettivamente a Rossano (CS), a Crotone e - in provincia di Reggio Calabria - a Gioia Tauro, a Sambatello e a Siderno, tutti affidati alla TEC SpA del gruppo Veolia.
L'occupazione totale nelle cinque aziende supera i 700 dipendenti.
Tornando al tema della raccolta dei rifiuti, il prefetto di Reggio Calabria ha riferito che nel capoluogo si sono verificate turbative dell'ordine pubblico nascenti dal mancato pagamento degli stipendi delle società incaricate della raccolta dei rifiuti.
Si tratta di quattro società, a prevalente capitale pubblico, i cui comuni - quindi gli stessi soci - molto spesso, non conferiscono le relative quote di partecipazione o non lo fanno in maniera corrente o compiuta, sicché accade che i dipendenti, non venendo pagati, danno luogo a proteste, a volte seguite anche da occupazioni di spazi pubblici.
Verosimilmente - secondo il prefetto - ciò è conseguenza del fatto che, a monte, i comuni non riscuotono i tributi e che spesso si trovano sull'orlo del dissesto, com'è accaduto per il comune di Gioia Tauro, peraltro, governato da una terna commissariale, a seguito dell'avvenuto scioglimento per infiltrazioni mafiose.
Concludendo sul punto, anche nel territorio di Reggio Calabria, si assiste al fenomeno del fallimento dell'esperienza delle società miste pubblico-privato per la raccolta dei rifiuti, già esaminato nelle province di Cosenza e di Vibo Valentia e, come si vedrà di seguito, anche di Catanzaro.
In ordine all'inquinamento idrico - riferisce il prefetto Musolino - nella provincia di Reggio Calabria, come già in quella di Cosenza, non vi sono aree industriali particolarmente pericolose, stante l'esiguità dei relativi insediamenti e, tuttavia, poiché l'olivicoltura è uno dei punti di forza della provincia, accade che gli scarti della lavorazione delle olive vengano generalmente conferiti in canali di scolo, più o meno naturali, che poi confluiscono in corsi d'acqua, con tutte le conseguenze del caso.
In particolare, vi sono alcuni fiumi, o meglio torrenti, come il fiume Budello, il Metramo e un altro torrente che attraversa Gioia Tauro, che sono costantemente inquinati da agenti di questo genere, durante la raccolta delle olive.
La prefettura di Reggio Calabria sta organizzando un piano coordinato di controllo ambientale in modo da consentire alle forze di polizia a competenza specifica e, cioè, al Corpo forestale dello Stato, al NOE, alle polizie locali, alla polizia provinciale, di operare secondo

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criteri di organicità e in maniera coordinata, con particolare riferimento alla pulizia delle aste fluviali, all'individuazione di siti da bonificare e da tenere sotto controllo.
A sua volta, Carmelo Casabona, questore di Reggio Calabria, si è riportato alla relazione con allegati (188/1), depositata nel corso della sua audizione del 1o dicembre 2009, nella quale ha posto in evidenza i dati più significativi della gestione dei rifiuti nella provincia di Reggio Calabria.
La provincia di Reggio Calabria nel quadro regionale per la gestione del comparto rifiuti è inserita nell'ambito territoriale ottimale 5.3 e, per ciò che concerne l'assegnazione e/o la gestione degli impianti di trattamento dei rifiuti sul territorio provinciale, non ha svolto nessuna gara, né ha seguito alcuna procedura.
Anche il dottor Casabona ha riferito quanto già noto e precisamente: 1) che la Veolia ha in concessione, in provincia di Reggio Calabria, quattro impianti che ricevono gli rsu direttamente dalla raccolta stradale, separano i rifiuti e producono il cdr (combustibile da rifiuti), che viene bruciato presso il termovalorizzatore di Gioia Tauro; 2) che gli impianti di selezione e produzione di cdr sono tre siti, rispettivamente, in c\/d S.Leo di Siderno; in località Sambatello di Reggio Calabria e in c\/d Cicerna di Gioia Tauro, oltre al termovalorizzatore anch'esso sito in c\/d Cicerna di Gioia Tauro; 3) che il cdr prodotto a Gioia Tauro viene mescolato ai quantitativi provenienti da Sambatello e Siderno e bruciato nel termovalorizzatore; 4) che gli scarti di produzione cdr e di combustione, non pericolosi, vengono poi conferiti presso la discarica di Rossano.
Completa il quadro della gestione dei rifiuti solidi urbani sul territorio provinciale la discarica consortile di Casignana, località Petrosi, che riceve gli rsu prodotti da 24 comuni del basso ionio reggino.
Nell'allegato n. 1 della relazione sono indicati gli impianti di conferimento degli rsu prodotti dai 97 comuni della provincia.
La raccolta degli rsu da parte dei comuni avviene con l'affidamento del servizio a società miste o ad altri privati forniti dei requisiti di legge, certificati dall'iscrizione all'albo nazionale gestori ambientali istituito presso il Ministero dell'ambiente.
Allo stato, la provincia di Reggio Calabria sta effettuando la ricognizione delle modalità di gestione del servizio di trasporto degli rsu da parte dei singoli comuni.
Gli impianti di trattamento dei rifiuti speciali (sia pericolosi che non pericolosi) in procedura ordinaria, regolamentati dagli articoli 208-210 del decreto legislativo n. 152 del 2006 esistenti sul territorio della provincia di Reggio Calabria sono stati autorizzati dalla regione Calabria e dall'ufficio del commissario.
A partire dal 1o dicembre 2009 le competenze su queste autorizzazioni sono state assunte dalla provincia, che sta predisponendo l'elenco degli impianti sopradetti.
Le ditte abilitate al trasporto dei suddetti rifiuti devono essere anch'esse iscritte all'albo nazionale gestori ambientali.
Per quanto riguarda le aziende che sono iscritte nel registro provinciale delle procedure semplificate di gestione dei rifiuti speciali non pericolosi, di cui agli artt. 214-216 del decreto legislativo n. 152

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del 2006, queste applicano le norme tecniche di trattamento dei rifiuti regolamentate dal DM 5/2/98, come modificato ed integrato dal DM 186/06.
Per completezza informativa, nell'allegato n. 2 al doc. 188/1 vengono indicate le predette ditte iscritte nel registro provinciale con la destinazione d'uso, la dislocazione e il funzionamento attuale.
Mentre nell'elenco n. 3 si implementa il dato precedente con l'indicazione della natura e della composizione societaria, secondo le risultanze della Camera di commercio.
Numerose sono invece le discariche conosciute e inquinate da bonificare, alla stregua di una ricognizione fatta dalla stessa regione Calabria, tant'è che nell'allegato no4 vi è un elenco di ben 190 siti, in ordine di decrescente pericolosità, secondo le valutazioni della stessa regione.
Le associazioni ambientaliste iscritte alla Consulta provinciale dell'ambiente risultano quelle indicate nell'allegato n. 5.
Le istituzioni sanitarie interessate (ASP di Reggio Calabria e ASL di Locri) non hanno prodotto studi scientifici sull'impatto degli impianti dei rifiuti sulla salute pubblica, né risultano mirati e documentati studi epidemiologici, in quanto sono stati forniti solo genericamente i numeri di patologie tumorali che hanno colpito le persone negli ultimi 10 anni.
Il questore ha aggiunto che tutte le discariche non sono «a norma» - pur se non abusive, in quanto presenti nel sistema regionale di gestione dei rifiuti - dal momento che non è noto il loro contenuto e, tuttavia, la regione non ha predisposto un piano per la loro bonifica.
Il dottor Neri, assessore all'ambiente della provincia di Reggio Calabria, nel corso dell'audizione del 1o dicembre 2009, ha descritto una situazione particolare in ordine alle competenze che merita di essere rappresentata al fine di comprendere le difficoltà operative per superare la fase dell'emergenza nel settore dei rifiuti. Il dottor Neri ha riferito che le autorizzazioni per le «discariche di servizio» sono di competenza del commissario, ma che alla provincia spetta il controllo cosiddetto «di secondo livello», nel senso che, quando il commissario, d'intesa con la stessa provincia, individua un sito, l'osservatorio provinciale costituito presso la provincia redige la relazione che, se negativa, ne blocca l'iniziativa.
Spetta alla provincia la redazione di un proprio piano, da inserire all'interno del piano regionale su indicazione del commissario, il quale - a sua volta - può non tener conto di quanto previsto nel piano provinciale.
È così accaduto - ha riferito il dottor Neri, solo per fare un esempio - che la provincia di Reggio Calabria abbia stabilito che il raddoppio del termovalorizzatore dovesse essere fatto, non a Gioia Tauro, bensì nella provincia di Cosenza, come previsto nel piano originario, ma questa indicazione era stata disattesa dal commissario, il quale aveva deciso il raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro.
In pratica, alla luce di quanto sopra rappresentato dal dottor Neri, commissario e provincia esercitano un reciproco potere di veto e tutto viene ribaltato su terzi, non avendo, nella specie - per ritornare

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all'esempio anzidetto - la provincia di Reggio Calabria il potere di stabilire che l'inceneritore doveva essere realizzato nella provincia di Cosenza.
Significativo dello stato dei rapporti tra l'ufficio del commissario e la provincia di Reggio Calabria è l'affermazione del dottor Neri, secondo cui il passaggio alla provincia dei poteri del commissario è destinato a creare grandi difficoltà, in mancanza di un «periodo di accompagnamento» previsto dalla legge, con il passaggio dall'ufficio del commissario alla provincia «di tante informazioni» non trasmesse.
Il dottor Neri ha dichiarato di non avere dati di conoscenza diretti sull'eventuale presenza di infiltrazioni criminali per fatti collegati alla pubblica amministrazione, non avendo, allo stato, la provincia bandito alcuna gara. Ha aggiunto, però, che il problema sarebbe potuto sorgere nel momento in cui l'amministrazione provinciale avesse bandito la gara per «il gestore unico» dell'intera provincia di Reggio Calabria, come imposto dalla legge.
Allo scopo di fare quello che era stato fatto per le acque, l'amministrazione provinciale avrebbe costituito la «ATO 5 rifiuti» e avrebbe indetto la relativa gara, il cui valore era stato già stimato dai tecnici della provincia nella somma di 300 milioni di euro.
In questa fase - ha proseguito il dottor Neri - la provincia di Reggio Calabria, proprio per procedere alla gara, stava completando la fase ricognitiva con tutti i comuni del circondario, ognuno dei quali aveva in corso un proprio contratto con una delle tre società miste (una per l'area ionica, l'altra per l'area centro e una terza per l'area tirrenica), che si occupavano della raccolta differenziata.
Queste società erano tutte destinate a scomparire, in quanto la gara che sarebbe stata bandita avrebbe riguardato il ciclo integrato dei rifiuti che, al momento, veniva gestito per una parte dalla TEC - controllata al 100 per cento da Veolia - e, per un'altra parte dalle società miste, che si occupano della raccolta differenziata.
Tuttavia - secondo l'assessore provinciale all'ambiente - è possibile, anzi è altamente probabile che alla fine tutto passi nella gestione unica della Veolia, società deputata a realizzare le discariche e gli impianti, posto che nel 2000 la Veolia aveva vinto la gara come gestore unico per la durata di quindici anni.
Il relativo contratto di appalto non era stato eseguito solo perché alla società «non era stato dato tutto quello che doveva esser dato secondo le specifiche del contratto, per problemi che ci furono all'epoca. Si tratta comunque della seconda multinazionale a livello mondiale quindi abbiamo uno dei gestori più importanti che si occupa di tutto».
Diversamente dal dottor Neri, Silvestro Greco, all'epoca assessore regionale all'ambiente, nel corso della sua audizione del 1o dicembre 2009, ha riferito che, nella prospettiva della fine del commissariamento, era stati già predisposti tutti i percorsi giuridici e amministrativi necessari per consentire a ogni provincia di costituire l'«ATO rifiuti» e, quindi, di gestire la vicenda direttamente, come ente intermedio, con conseguente trasferimento delle risorse necessarie.

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Tuttavia, l'assessore Greco, subito dopo tale affermazione, che sembrava di carattere immediatamente operativo, a fronte di un preciso rilievo della senatrice Mazzuconi, componente della Commissione, si è dichiarato favorevole all'abolizione dei costituendi ATO provinciali, «ritenendo che in Calabria si possa costituire un unico ATO regionale, sia in materia di rifiuti sia, come ambito territoriale ottimale, rispetto alla depurazione, ai bacini imbriferi e via dicendo», alla luce della stessa natura orografica della Calabria, che è «un lavatoio naturale, avendo un Appennino nel centro e due bacini sui versanti».
Rileva, invero, correttamente la senatrice Mazzucconi che i costituendi ATO provinciali - come delineati nel programma regionale depositato - si presentano in modo molto diverso tra loro, soprattutto in relazione al numero di abitanti, posto che gli ATO di qualche provincia non hanno abitanti in numero sufficiente a giustificare l'esistenza di impianti destinati a funzionare «a regime».
La regione Calabria, inoltre, con due milioni di abitanti e un milione di tonnellate, rientra nel range nazionale, con la conseguenza che avrebbe avuto bisogno di un piano di rifiuti in grado di concentrare molto di più gli impianti e, dunque, di un unico ATO regionale, al fine di superare, grazie a questa concentrazione, gli «strani rapporti» esistenti tra alcune strutture e la malavita organizzata.
Problema di non poco conto, alla luce delle notevoli risorse destinate a questa attività.
Alberto Reda, comandante provinciale della Guardia di finanza di Reggio Calabria, nel corso dell'audizione del 1o dicembre 2009, ha ricordato anche lui che il «Sistema integrato Calabria Sud» è costituito da tre impianti di selezione e trattamento rifiuti e, precisamente, quello di Sambatello di Reggio Calabria, quello di Siderno e quello di Gioia Tauro, nonché da un impianto di termovalorizzazione, sempre nel comune di Gioia Tauro, del quale, come è ampiamente noto, è in fase di realizzazione il raddoppio.
I menzionati impianti integrati di selezione rsu e valorizzazione della raccolta differenziata e quello di termovalorizzazione sono, invece, gestiti dalla società «TEC SpA».
L'occupazione totale nelle cinque aziende supera i 700 dipendenti (v. relazione depositata, doc. 193/1 e allegati).
Nella raccolta dei rifiuti solidi urbani e nella raccolta differenziata, invece, operano nella provincia principalmente quattro società miste, in quello che viene definito il quinto ambito territoriale della regione Calabria (ATO 5). Tali società, con capitale detenuto al 51 per cento dai comuni, sono «Pianambiente» per l'area tirrenica, «Fata Morgana» per la zona di Reggio Calabria, «Locride ambiente» SpA per l'area ionica. Nella città di Reggio Calabria opera anche la società «Leonia» SpA, che svolge il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani indifferenziati.
L'universo delle società che operano nel settore dei rifiuti è costituito da circa 115 aziende nella provincia di Reggio Calabria, il cui giro d'affari, secondo i dati rilevati sull'anagrafe tributaria, vale dichiaratamente circa 150 milioni di euro, che rappresentano il 2 per cento del PIL dell'intera provincia, che si aggira intorno ai 9 miliardi di euro (vedi doc.193/1).

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XI - La provincia di Crotone

In un territorio contrassegnato, per un verso, da un grave inquinamento ambientale e, per altro verso, da forti sospetti di collusioni malavitose, come di seguito illustrati, deve essere esaminata la situazione in cui versa la provincia di Crotone nella gestione ordinaria dei rifiuti, alla stregua di quanto rappresentato dal prefetto di Crotone, Vincenzo Panico, nelle sue relazioni del 10 marzo 2010 (doc. 306/1) e del 16 giugno 2010 (doc. 481/1).
L'ambito territoriale ottimale (ATO) della provincia di Crotone ha assunto la denominazione di ATO n. 3.
Fino all'estate 2008, l'ATO n. 3 era autosufficiente, in quanto dotato di un «impianto di selezione», posto nel comune di Crotone, località Ponticelli, gestito dalla Veolia SpA e inserito nel sistema «Calabria Sud» (vedi relazione del prefetto di Crotone, pagina 11, doc. 481/1); inoltre, era attiva una discarica rsu, sempre in territorio del capoluogo, in località Columbra, gestita dalla Sovreco SpA, società privata facente parte del gruppo Vrenna, leader nel settore.
La raccolta differenziata veniva attuata - sebbene con scarsi risultati, ben lontani dagli obiettivi nazionali - e vi era una piattaforma di trattamento dei materiali differenziati, di proprietà di Salvaguardia ambientale SpA, anch'essa del gruppo Vrenna.
La discarica di Columbra assorbe i rifiuti di 16 comuni della provincia di Crotone e di 56 della provincia di Cosenza, mentre i restanti dieci comuni della provincia di Crotone si servono dell'impianto di selezione di Ponticelli, gestito dalla Veolia SpA.
La preferenza per il conferimento in discarica, rispetto all'avvio all'impianto di selezione, era motivato da ragioni di convenienza economica.
A seguito delle vicende che hanno indotto al rilascio di informazioni ostative ex articolo 10 del decreto del Presidente della Repubblica n. 252 del 1998 nei confronti della Sovreco SpA, il commissario delegato per l'emergenza rifiuti, con ordinanza n. 7376 del 21 ottobre 2008, ha acclarato l'impossibilità per la pubblica amministrazione di mantenere rapporti contrattuali con la Sovreco SpA.
Di conseguenza, dall'autunno del 2008, tutti i rifiuti solidi urbani della provincia sono stati destinati alla discarica di Ponticelli della Veolia SpA.
Il 31 gennaio 2009, a seguito delle suddette vicende del Vrenna, è stata chiusa anche la piattaforma di trattamento dei materiali differenziati, di proprietà di Salvaguardia ambientale SpA - anch'essa facente parte del gruppo Vrenna - con conseguente sospensione dei servizi di raccolta differenziata dei rifiuti e giacenza lungo le strade.
Dopo il rifiuto da parte della Veolia SpA di utilizzare l'impianto di selezione di Ponticelli anche per la raccolta differenziata, la frazione differenziata secca dei rifiuti del comune di Crotone, in un primo momento, è stata conferita all'impianto di EnerAmbiente, sito nel comune di Catanzaro. Successivamente, il comune di Catanzaro a partire dal 24 dicembre 2009 e poi il comune di Crotone a partire dal 5 gennaio 2010 - in mancanza di altre discariche - hanno deciso di


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conferire di nuovo tali rifiuti, frazione differenziata secca, all'impianto di Salvaguardia ambientale SpA del gruppo Vrenna, solo per novanta giorni (v. relazione del prefetto di Crotone del 10 marzo 2010 in doc. 481/1 pagina 9).
Sulle vicende che hanno interessato il gruppo Vrenna, va precisato che, per un verso, la corte d'appello di Catanzaro, con sentenza in data 28 luglio 2009, ha mandato assolto Raffaele Vrenna dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa, nell'ambito della c.d. «Puma», riducendo la pena inflitta per altri reati dal tribunale di Crotone, ad un anno e otto mesi di reclusione, facendo venire meno le condizioni ostative al rilascio della certificazione antimafia, e, per altro verso, il Consiglio di Stato, con ordinanza n. 3222/2009, pronunziata a seguito di istruttoria supplementare, ha stabilito l'insussistenza - allo stato - di elementi ostativi al rilascio di informazioni antimafia (vedi relazione in data 10 marzo 2010 del dottor Vincenzo Panico, prefetto di Crotone, in doc. 306/1 pagg. 45/49).
«In conseguenza di tali pronunzie, il prefetto di Crotone - come lo stesso ha dichiarato nel corso della sua audizione del 10 marzo 2010 - non ha ravvisato ulteriori elementi di tentativi di infiltrazione, che potessero legittimare una riformulazione dell'ordinanza interdittiva, motivo per il quale il gruppo socio minoritario, essendo cessato l'effetto interdittivo, opera con la partecipazione minoritaria ancora nella Sovreco e nella Salvaguardia ambientale»
A partire dal 10 marzo 2010, con disposizione del commissario per l'emergenza, i rifiuti solidi urbani provenienti dai comuni di Cutro, Isola di Capo Rizzuto, Petilia Policastro e Mesoraca sono stati conferiti alla discarica Alli del comune di Catanzaro.
Si tratta di una situazione drammatica, dal momento che l'ATO n. 3, cioè la provincia di Crotone, è sprovvisto di discariche.
Purtroppo, tale situazione non è destinata a migliorare, considerato che, nelle relazioni sul ciclo dei rifiuti del prefetto di Crotone (docc. 306/1 e 481/1) si sottolinea che la prevista costruzione di nuove discariche in località Giammiglione - precisamente di una discarica di servizio, da parte della TEC Veolia inserita nel sistema «Calabria Sud», nonostante la posizione geografica della provincia di Crotone - nonché la costruzione delle ulteriori discariche promosse nella stessa località dalla Maio Guglielmo Srl - per lo smaltimento di rifiuti pericolosi e non - per complessivi 4 milioni e 200 mila metri cubi, e dalla Syndial SpA - per lo smaltimento dei rifiuti provenienti dalla bonifica del dismesso sito industriale «ex Pertusola» - per complessivi 1 milione e 500 mila metri cubi, trovano la «forte contrarietà degli enti pubblici locali, provincia e comuni interessati, del mondo associativo e in genere dell'opinione pubblica».
L'opposizione popolare alla costruzione delle nuove discariche è determinata dai timori di nuovi guasti ambientali, prodotti dai rifiuti nocivi delle fabbriche chimiche, timori supportati dai presunti abusi, avvenuti nella discarica sita in località «Columbra», che per un decennio ha incamerato rifiuti provenienti dalle altre province calabresi.
Da ultimo, il 22 febbraio scorso la regione ha espresso giudizio di compatibilità ambientale favorevole ed ha rilasciato l'autorizzazione integrata ambientale per la realizzazione di una discarica per rifiuti

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speciali non pericolosi dedicata esclusivamente allo smaltimento dei rifiuti contenenti amianto nel comune di Scandale, in località Santa Maria.
L'impianto in questione sarà il primo ad essere attivato in provincia, avrà una capacità di abbanco di 450 mila metri cubi e sarà gestito dalla «Ecolsystema Srl».
Anche con riguardo a tale struttura, è in corso di formazione una notevole corrente di opinione pubblica contraria alla realizzazione.
Una considerazione finale va fatta e, cioè, che nella provincia di Crotone non vi sono discariche pubbliche, ma solo discariche private.

XI.1 - La raccolta dei rifiuti nei comuni della provincia di Crotone

Non è migliore la situazione in cui versa la raccolta dei rifiuti nei comuni della provincia di Crotone, che presenta le stesse problematiche delle altre province della regione, tutte connesse alla gestione delle cosiddette società miste.
In ossequio ai poteri conferitigli, l'ufficio del commissario delegato per l'emergenza rifiuti nella regione Calabria ha approvato con ordinanza n. 573 del 16 marzo 1999 il «piano generale della raccolta differenziata nella regione Calabria» pubblicato sul BUR della Calabria n. 30 del 26 marzo 1999.
Con la suddetta ordinanza è stato stabilito che la raccolta differenziata dei rifiuti nei sottoambiti delle ATO deve essere svolta da società per azioni miste, a partecipazione pubblica locale maggioritaria, costituite dallo stesso ufficio del commissario.
Tali società miste sono i cosiddetti «soggetti attuatori» delle aree di raccolta e hanno la funzione di aggregare i vari comuni, per garantire una gestione unitaria e mettere a disposizione le risorse umane ed economiche per 1'attuazione del piano.
Pertanto, il piano regionale di gestione dei rifiuti (richiamato dalla delibera del Consiglio provinciale di Crotone n. 22 del 20 settembre 2002, che ha approvato il piano Provinciale di gestione dei rifiuti) ha inserito la provincia di Crotone, nella parte relativa alla gestione dei rifiuti nell'ambito territoriale ottimale n. 3, in conformità con quanto previsto nell'articolo 23 del decreto legislativo n. 22/1997.
È stato previsto il sottoambito n. 10 di Crotone, che comprende tutti i 27 comuni della provincia (doc. 220/2).
In tale contesto, su disposizione del commissario delegato per l'emergenza rifiuti, è stata costituita la «Akros SpA», società mista pubblico/privata, con partecipazione del 49 per cento delle società del gruppo Vrenna, incaricata di gestire la raccolta differenziata.
La suddetta società risulta destinataria, in molti comuni della provincia, ma non in tutti - oltre che della raccolta differenziata - anche del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani.
In forza del piano regionale anzidetto - i singoli comuni dell'ATO della provincia di Crotone avrebbero dovuto trasferire tutti i servizi di igiene urbana (raccolta e trasporto rifiuti, raccolte differenziate, spazzamento e altri servizi di pulizia, ecc.) e stipulare apposite convenzioni (O.C. n. 1464 del 12/06/01) con la società mista per la raccolta differenziata (nella specie, la sopramenzionata AKROS SpA)


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individuata dall'ufficio del commissario delegato per l'emergenza rifiuti, in modo da ridurre le spese e avviare una gestione integrata ed industriale dei servizi di igiene urbana.
Nella realtà ciò non è avvenuto, dal momento che, per un verso, le percentuali della raccolta differenziata sono, allo stato, inesistenti, come ha riferito il presidente della provincia di Crotone, Stanislao Zurlo nel corso della sua audizione del 10 marzo 2010 («Nel 2008 e parte del 2009, la differenziata non si è quasi effettuata perché, non essendovi la discarica, diventava una pratica paradossalmente antieconomica») e, per altro verso, la metà dei comuni della provincia di Crotone (ATO n. 3) non ha aderito al servizio di raccolta rifiuti indifferenziata, preferendo la gestione in economia.
A loro volta, i comuni che hanno aderito a quest'ultimo servizio non versano alla «Akros SpA» le relative quote di competenza (il cui totale complessivo non riscosso dalla società, alla data del 18 marzo 2008, ammontava ad euro 5.411.836,99).
A ciò aggiungasi una ulteriore anomalia, rappresentata dal fatto che nel comune di Crotone, accanto alla «Akros SpA», sussiste una società municipalizzata che si occupa «di servizi ambientali», la «Akrea SpA», un dualismo assolutamente inconcepibile, alla luce delle dimensioni del capoluogo (vedi docc. 306/1 e 481/1, pagina 10 e, cioè, le relazioni del prefetto di Crotone, rispettivamente, del 10 marzo 2010 e del 16 giugno 2010).
Le difficoltà della «Akros SpA» si sono aggravate con i primi mesi del 2009 quando - anche per le note difficoltà aggiuntive di contesto del gruppo Vrenna - la società non riusciva ad assicurare la regolare corresponsione delle retribuzioni, con conseguente sciopero da parte delle maestranze nella raccolta dei rifiuti.
Attualmente, a seguito di un'assemblea dei soci, tenutasi il 5 novembre 2009, è in atto il tentativo di ricapitalizzare la società, per ripianare debiti per oltre 6 milioni di euro, allo scopo di evitarne la messa in liquidazione.
Ancora una volta, il sistema delle società miste posto in essere dall'ufficio del commissario per l'emergenza rifiuti si è rivelato fallimentare.

XI.2 - Le infiltrazioni malavitose nel ciclo dei rifiuti nella provincia di Crotone e il ruolo del gruppo Vrenna

Il questore di Crotone, Giuseppe Gammino, nel corso dell'audizione del 10 marzo 2010, ha riferito che, come in buona parte della Calabria, il territorio crotonese è diviso in gruppi criminali che controllano singole zone, nel senso che ogni comune o gruppo di comuni fa riferimento a 'ndrine o gruppi di criminalità organizzata.
In particolare, il questore di Crotone ha parlato dell'operazione «Puma», iniziata nel 2004-2005 con investigazioni della polizia di Stato, con una serie di servizi di intercettazione.
Le fasi delle indagini non si riferiscono direttamente a compartecipazioni o cointeressenze della malavita organizzata al sistema dei rifiuti: al trasporto, alla lavorazione, al regime dei rifiuti in generale o al deposito di rifiuti. Le indagini hanno fatto emergere il collegamento


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fra il costruttore Raffaele Vrenna e un gruppo criminale di stampo mafioso operante in zona che si è occupato della costruzione abusiva di un complesso turistico a Praialonga.
In quelle intercettazioni si assiste al tentativo da parte di questi soggetti inseriti nel gruppo criminale di proporre al Vrenna l'apertura di una ulteriore discarica a Isola di Capo Rizzuto. Intercettato, Vrenna sembra tergiversare e non si dichiara interessato. Questo sarà oggetto di valutazione processuale per far venir meno l'originaria condanna a quattro anni di Raffaele Vrenna per il reato di associazione per delinquere.
Tuttavia, le inchieste giudiziarie che hanno investito questi gruppi criminali, compreso quelli che attualmente per il territorio di Crotone fanno riferimento ai Giampà, Bonaventura e Luigi Vrenna - parente di Raffaele Vrenna, che insieme a suo fratello Giovanni gestisce il gruppo Vrenna - hanno posto in evidenza nei relativi riscontri processuali l'esistenza di attività consuetudinarie di controllo del commercio, con fenomeni di estorsione radicata, di gestione del traffico di droga, di usura, di qualsiasi pratica faccia riferimento ad attività violente.
Nel caso di specie, è mancato un riscontro, che abbia consentito di collegare i soggetti privati che operano nel settore dei rifiuti con la gestione diretta della mafia.
Tuttavia - osserva il questore di Crotone - benché ciò non abbia avuto un riscontro processualmente rilevante, è emersa l'esistenza di posizioni cosiddette «di reciproco rispetto» tra i mafiosi e Vrenna, che riuscivano a relazionarsi e a intendersi, e dunque di rapporti che possono definirsi «gelatinosi», per usare una terminologia recentemente entrata in uso in altre inchieste.
Secondo il questore di Crotone - l'imprenditore, che è anche imprenditore del gruppo Vrenna rifiuti, in quell'occasione è un imprenditore edile, che sta costruendo abusivamente e che si avvale non soltanto dell'attiva collaborazione della politica e di dipendenti infedeli del comune, ma anche della compartecipazione di soggetti della criminalità organizzata, i quali quindi contribuiscono alla violazione delle leggi con costruzioni abusive.
Tutto questo si verifica nell'ambito di una costante relazione, che la stessa autorità giudiziaria definisce «paritaria», di grande rispetto reciproco tra Vrenna e i mafiosi, anche nei momenti di difficoltà, quando l'arma dei carabinieri effettua sequestri, blocca e danneggia gli interessi economici di chi ha già investito denaro, ovvero di gruppi della criminalità che stanno costruendo e spendendo. Tutto questo viene scritto, ma non si riesce a dimostrare un riferimento diretto.
La situazione quale sopra rappresentata si comprende appieno alla luce del radicamento economico e, in senso ampio, politico di Raffaele Vrenna e del gruppo che a lui fa capo nel territorio calabrese e, principalmente, nella provincia di Crotone.
Il gruppo Vrenna, leader nel settore della gestione dei rifiuti in Calabria, è formato essenzialmente da tre imprese, «Salvaguardia ambientale SpA», «Sovreco SpA», «Mida Srl», il cui «core business» è costituito rispettivamente, dalla logistica - compresa la gestione integrata dei rifiuti e le bonifiche - dallo smaltimento in discarica di proprietà di rifiuti pericolosi e non, dal trattamento di inertizzazione

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e dallo smaltimento per termodistruzione di rifiuti speciali pericolosi e non (vedi relazione in data 15 giugno 2010 del prefetto di Crotone pagg. 64 e segg. in doc. 481/1).
Del gruppo fanno parte anche altre società partecipate che, nello specifico, sono la «Ambiente & servizi Catanzaro», la «Akros SpA» e la «Sibaritide SpA», società miste pubblico - privato impegnate nella gestione integrata nell'ambito della raccolta dei rifiuti solidi urbani. Altre società del gruppo sono, inoltre, la «V. Energy» attiva nella progettazione, realizzazione e gestione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, la «V&V Consulting», specializzata nella consulenza aziendale e nella caratterizzazione ambientale mediante laboratori propri e di terzi e la «Mediaservice Srl», agenzia di marketing e comunicazione.
Raffaele Vrenna è punto di riferimento del menzionato gruppo imprenditoriale, proprietario di importanti quote societarie e già presidente di Assindustria provinciale e del F.C. Crotone Calcio.
Con sentenza n. 21 del 9 giugno 2008, il tribunale di Catanzaro ha ritenuto Raffaele Vrenna responsabile dei reati di cui agli artt. 110 e 416 bis del Codice penale; artt. 81, 110, 479 codice penale, con l'aggravante di cui all'articolo 7 legge n. 203/1991; artt. 81, 110, 319, 321 del codice penale, articolo 86 decreto del Presidente della Repubblica n. 570/1960 e articolo 1 L. 108/1968, con l'aggravante di cui all'articolo 7 della legge 203/1991 e lo ha condannato alla pena di anni quattro di reclusione.
A seguito di ciò, in data 17 luglio 2008, il prefetto di Crotone ha emesso numerosi provvedimenti interdittivi ex articolo 10 e di accertamento successivo ex articolo 11, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica n. 252 del 1998, relativi alle principali aziende del gruppo.
In data 8 agosto 2008, il commissario delegato per il superamento delle criticità ambientali nel territorio della regione Calabria ha disposto la sospensione dei conferimenti alla discarica sita in «Località Columbra» del comune di Crotone, di proprietà della «Sovreco SpA», benché di primaria importanza nel sistema di smaltimento regionale.
Conseguentemente, il flusso di destinazione dei rifiuti solidi urbani di 16 comuni di questa provincia e di 56 comuni del cosentino è stato dirottato su discariche alternative.
Successivamente, al termine di una riunione tenutasi presso gli uffici del commissario delegato per l'emergenza rifiuti, in data 11 agosto 2008, alla quale hanno partecipato i massimi rappresentanti della regione e di tutti gli enti locali interessati, il prefetto di Crotone ha disposto, con ordinanza n. 13413/AA.GG. del 12 agosto 2008, la sospensione immediata del proprio precedente provvedimento in data 8 agosto, ripristinando il conferimento nella discarica di proprietà della Sovreco SpA.
La nuova ordinanza commissariale è stata motivata dalla constatazione della situazione che si stava determinando sul territorio, tale da giustificare l'applicazione dell'articolo 11, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica n. 252 del 1998, che prevede la facoltà, e non l'obbligo, di recesso nel caso in cui gli elementi

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relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula del contratto.
Sempre nella stessa data, 12 agosto 2008, le società del gruppo Vrenna hanno richiesto l'aggiornamento delle informazioni antimafia sulla base dell'intervenuto conferimento, da parte di Raffaele Vrenna, di tutte le partecipazioni azionarie ad un trust appositamente costituito. Quindi, in data 18 agosto 2008, l'ex procuratore della Repubblica, Dr. Francesco Tricoli, appena cessato dal servizio per collocamento in quiescenza, ha accettato di ricoprire il ruolo di trustee delle partecipazioni azionarie di Raffaele Vrenna nelle società del relativo gruppo.
A seguito di un'approfondita istruttoria, resa particolarmente impegnativa dall'inesistenza di casi precedenti di utilizzo del negozio di trust per finalità antimafia, il prefetto di Crotone, in data 8 ottobre 2008, su conforme parere dell'avvocatura distrettuale dello Stato, ha confermato la sussistenza di elementi ostativi al rilascio delle informazioni di cui all'articolo 10 del decreto del Presidente della Repubblica n. 252 del 1998.
Successivamente, le società interessate hanno presentato, in data 18 novembre 2008, una seconda istanza di aggiornamento delle informazioni antimafia, fondata su una riformulazione del negozio di trust che, secondo le intenzioni degli istanti, recepiva le articolate argomentazioni del precedente provvedimento negativo.
La nuova istruttoria effettuata ha condotto a un identico risultato negativo, basato su perduranti perplessità sull'uso del trust in materia antimafia e su ulteriori condizioni relative al contesto complessivo di gestione delle società del gruppo Vrenna che, in data 26 marzo 2009, hanno presentato ricorso al T.A.R. Calabria, sede di Catanzaro avverso il suddetto provvedimento.
Analogamente, la F.C. Crotone Srl, di cui le menzionate imprese sono socie, ha impugnato innanzi allo stesso T.A.R. la delibera di questo consiglio provinciale n. 74 del 22 dicembre 2008, con la quale era stata disposta la risoluzione di una convenzione di sponsorizzazione con la società sportiva in questione.
In entrambi i casi, il T.A.R. adito ha rigettato la richiesta di sospensiva, con provvedimenti n. 338 e n. 350 del 2009.
Per ciò che concerne l'ordinanza relativa al contenzioso promosso dalla F.C. Crotone Srl, nella parte motiva ha posto in evidenza che le argomentazioni difensive svolte dalla parte ricorrente non erano suscettibili di positiva valutazione; mentre il provvedimento giurisdizionale relativo alla seconda fattispecie rilevava che la figura giuridica del trust, nel caso di specie, non era idonea a garantire il soddisfacimento dell'interesse pubblico, incentrato sull'esigenza di evitare la possibile influenza delle organizzazioni criminali nella gestione di rapporti in cui siano coinvolti organismi riconducibili alla sfera pubblica.
Il Consiglio di Stato, adito in sede di appello cautelare, con ordinanza n. 3222/2009, del 23 giugno 2009 ha invece accolto il gravame promosso dalle società del gruppo Vrenna, ritenendo che le stesse avessero adempiuto alle richieste del prefetto di diversa conformazione del trust.

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La predetta ordinanza ha dato termine fino al 31 ottobre 2009 per l'eventuale integrazione del provvedimento del prefetto contenente ulteriori specifiche, prescrizioni fatta salva la valutazione di elementi sopravvenuti.
Successivamente, lo stesso Consiglio di Stato - adito in sede di giudizio di ottemperanza - con ordinanza n. 4286 del 26 agosto 2009, ha dichiarato che il proprio precedente provvedimento cautelare avesse carattere self-executing e che, pertanto, le misure interdittive disposte dal prefetto di Crotone dovessero ritenersi sospese.
In data 28 luglio 2009, la corte d'appello di Catanzaro investita del gravame proposto da Raffaele Vrenna, nell'ambito del procedimento penale da cui è scaturita la vicenda descritta, ha ridotto la condanna a un anno e otto mesi di reclusione e ha mandato assolto l'interessato dalle fattispecie di reato ostative al rilascio delle informazioni da parte del prefetto ex articolo 10 decreto del Presidente della Repubblica n. 252 del 1998.
Nel frattempo, è giunta a conclusione l'istruttoria supplementare richiesta dal Consiglio di Stato con l'ordinanza n. 3222 del 2009 e, su conforme unanime parere dei responsabili provinciali delle forze di polizia, è stato deciso che, allo stato, non vi sono elementi ostativi al rilascio delle informazioni antimafia.
Da ultimo, il T.A.R. Calabria, con sentenza n. 535 del 2010, ha dichiarato improcedibile il ricorso delle società del gruppo Vrenna per cessazione della materia del contendere.
Secondo il questore di Crotone - anche a prescindere dalla suddette vicende processuali, sussiste in ogni caso una situazione di fatto di egemonia sul territorio da parte del gruppo Vrenna che è indiscutibile, posto che, anche nella fase critica, il commissario delegato per l'emergenza rifiuti si è visto costretto a riaprire o comunque permettere la gestione, anche se controllata, delle discariche del gruppo Vrenna, in quanto sono le uniche che riescono a gestire la generale crisi di sistema.
Tale situazione è confermata anche nel documento presentato dal prefetto di Crotone (doc. 481/1), dal quale emerge che il commissario è stato costretto nel tempo a chiudere tutte le discariche presenti nei vari comuni, con la conseguenza che anche altre province calabresi si servono di queste discariche. Recentemente, una valutazione dell'ASP stabilisce che anche i rifiuti speciali della zona industriale non possano andare in un ipotetico costruendo sito, ma dovrebbero confluire nella solita discarica, che purtroppo rappresenta l'unico punto in cui si può andare a conferire, posto che tutte le altre discariche sono state, progressivamente, considerate inidonee.
A conferma della posizione egemone del gruppo Vrenna nel territorio di Crotone, va sottolineato che il commissario delegato per il superamento della situazione di emergenza ambientale in Calabria, con provvedimenti n. 8828 del 7 aprile 2010 e 8886 del 27 aprile 2010, ha autorizzato i comuni di Isola di Capo Rizzuto, Petilia Policastro, Mesoraca, Cutro, Cotronei, S. Severina, Belvedere di Spinello, Roccabernarda, San Mauro Marchesato e Cirò a conferire i propri rsu nella discarica di proprietà della «Sovreco SpA».
Successivamente, con l'ulteriore ordinanza n. 8901 del 27 aprile 2010, la medesima autorità ha disposto di autorizzare temporaneamente

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la «TeL SpA», nelle more dell'esecuzione delle analisi per la valutatone dell'indice respirometrico dinamico, il conferimento della fos nella discarica sopra menzionata.
In precedenza, il 6 aprile 2010, tra l'ufficio del commissario e la società da ultimo citata era stato sottoscritto un accordo con il quale si era convenuto di far conferire temporaneamente a quell'impianto degli rsu dei soli comuni di questa provincia e/o gli scarti di lavorazione provenienti dalla struttura tecnologica di trattamento ovvero dell'«impianto di selezione» dei rsu, posto nel comune di Crotone, località Ponticelli, gestito dalla Veolia SpA.
Anche il procuratore della Repubblica in Catanzaro, nella sua audizione del 3 dicembre 2009, ha fatto riferimento a collaboratori che hanno parlato dell'inserimento di appartenenti alla criminalità organizzata nella gestione e nello smaltimento illecito dei rifiuti. Uno è di Crotone, si chiama Luigi Bonaventura, un pentito di calibro, in quanto esponente di rilievo della grossa cosca Vrenna-Corigliano-Bonaventura, il quale aveva fornito contributi molto validi per smantellare soprattutto il suo gruppo e gli altri gruppi con i quali era in rapporti.
Sono state svolte indagini da parte della procura della Repubblica in Crotone e della D.D.A. di Catanzaro (c.d. indagine «Puma») nei confronti di un noto imprenditore nel settore dei rifiuti, Raffaele Vrenna, proprietario tra le altre della società «Sovreco» e titolare della discarica più grande della Calabria, quella di Columbra, località vicina a Crotone.
Raffaele Vrenna - parente di Luigi Vrenna, detto «Zu Luigi 'u Zirru», il capostipite della «'ndrina» Vrenna - Bonaventura - Corigliano, boss di Crotone fino alla metà degli anni Settanta - era stato condannato in primo grado dal tribunale di Crotone per «concorso esterno in associazione mafiosa», per aver favorito con le sue attività imprenditoriali il clan «Maesano» di Isola Capo Rizzuto, ma - come si è visto - era stato assolto da tale reato dalla Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza del 29 settembre 2009 (vedi relazione del comando carabinieri per la tutela dell'ambiente, doc. n. 163/1).

XI.3 - La depurazione delle acque nella provincia di Crotone e situazione dell'intera costa calabrese

Non è migliore la situazione dei depuratori, considerato che, a seguito di monitoraggio della qualità delle acque di balneazione (decreto del Presidente della Repubblica n. 470 del 1982), effettuato dall'ARPACAL nel mese di ottobre 2009, sono state riscontrate criticità microbiologiche lungo le seguenti aree costiere: 1) Foce fiume Neto; 2) Lido San Leonardo di Crotone; 3) Capo Piccolo; 4) Le Castella; 5) Foce del fiume Tacina.
Nella relazione del dottor Vincenzo Panico, prefetto di Crotone (doc. 306/1), in data 10 marzo 2010, si legge che «a seguito di sopralluoghi e campionamenti cadenzati dalla norma di settore le sopraelencate aree costiere hanno mostrato contaminazione fecale di


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origine antropica, le cui criticità sono state comunicate ai sindaci competenti territorialmente».
In tale contesto, ci si sarebbero aspettate iniziative concrete da parte dei sindaci dei comuni interessati per il ripristino della corretta funzionalità dei depuratori. Viceversa, nulla di tutto ciò è avvenuto, dal momento che, come si legge nella relazione del prefetto, «è in corso di esecuzione un progetto di caratterizzazione eco tossicologica delle foci dei principali corpi idrici superficiali presenti in ambito provinciale. Il report intermedio sarà ultimato nel maggio-giugno p.v.» (vedi doc. 306/1, pagina 14).
In conclusione, i dati negativi nella gestione ordinaria della raccolta dei rifiuti urbani e della depurazione delle acque si sommano - aggravandolo - al disastro ambientale, determinato dall'accumulo in più siti dei rifiuti speciali pericolosi provenienti dai due stabilimenti dell'ex Pertusola e dell'ex Montedison.
Il mancato funzionamento dei depuratori costituisce un dato costante anche della realtà crotonese. Al riguardo è sufficiente richiamare le dichiarazioni rese, in data 1o dicembre 2009, a questa Commissione dall'ex assessore all'ambiente, Silvestro Greco, il quale, con riferimento al ruolo svolto dal commissario per l'emergenza rifiuti, ha riferito che nella regione Calabria «sono stati installati 770 depuratori, la metà dei quali neanche collegati alla rete elettrica, solo al fine di "fare", perché "fare" significava aggiudicare appalti, creare clienti, eccetera... perché non si è mai pensato a predisporre un piano di depurazione, ma a installare depuratori», aggiungendo polemicamente che, una volta chiusa la fase del commissariamento e pagati tutti i conti in sospeso «si dovranno, ad esempio, rieducare i sindaci. In questa regione la legge Galli non viene applicata; nessuno chiede soldi per occuparsi di fogne e di depurazione o, se qualcuno li chiede, poi li utilizza per fare le sagre. Bisogna essere realisti, dunque, ma se non si inizia non si va da nessuna parte».
A conferma delle affermazioni dell'ex assessore regionale all'ambiente, il mancato funzionamento dei depuratori è stato rappresentato a questa Commissione d'inchiesta, nel corso dell'audizione del 3 dicembre 2009, anche dal dottor Giuseppe Borrelli, procuratore aggiunto di Catanzaro, dal dottor Salvatore Vitello, procuratore della Repubblica di Lamezia Terme, e dal dottor Mario Spagnuolo, procuratore della Repubblica di Vibo Valentia, i quali hanno messo in evidenza la grave situazione di inquinamento marino, che affligge tutta la costa tirrenica che si affaccia sul golfo di Sant'Eufemia, quale emerge dall'esistenza di numerosi procedimenti penali presso i rispettivi uffici di procura.
E così il dottor Vitello ha riferito che le fonti di inquinamento sono rappresentate da fiumi e torrenti, nei quali scaricano i liquami i diversi comuni della zona, i cui depuratori esistono ma non funzionano ovvero, com'è accaduto sono stati accesi solo all'arrivo dei carabinieri.
Il dottor Spagnuolo ha riferito un passaggio emerso nel corso di numerose indagini per cui accanto a depuratori che non funzionano, perché tecnicamente inadeguati, nel vibonese è frequente la situazione di mancato allaccio ai depuratori che così non vengono utilizzati.

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Per concludere con le parole del dottor Borrelli, «si tratta di impianti realizzati in maniera inidonea, sottodimensionati o sovradimensionati, tecnicamente errati e gestiti in maniera inidonea per carenze nella manutenzione, che derivano a loro volta dall'inadempimento, da parte dei comuni, degli obblighi finanziari nel pagamento dello smaltimento delle acque. Tali comuni non adempiono ai loro obblighi finanziari perché ritengono inutile farlo, considerato che gli impianti non funzionano».
Tutto ciò comporta che gli inquinanti, che si riversano sia nelle fogne, sia nei rivi d'acqua, si traducono in inquinamento marino.

XI.4 - La vicenda ex Pertusola

In un contesto di generale degrado del territorio, va inserita la drammatica situazione dell'inquinamento ambientale in cui versano i comuni di Crotone, nonché i comuni di Cassano allo Ionio e di Cerchiara di Calabria, dove sono stati trasferiti i rifiuti pericolosi (ferrite di zinco) prodotti a Crotone.
In considerazione dell'elevato tasso di inquinamento e della gravità della situazione, la Commissione ha effettuato due missioni a Crotone con sopralluoghi avvenute, rispettivamente, in data 10 e 11 marzo 2010 e in data 16 e 17 giugno 2010.
La Commissione, nel corso delle suddette missioni, ha audito il prefetto e il questore di Crotone, il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Crotone, il presidente della provincia di Crotone, i sindaci di Crotone, di Cassano allo Ionio e di Cerchiara di Calabria, il direttore dell'ASL di Crotone e i rappresentanti delle associazioni ambientaliste, quindi, in data 11 marzo 2010, ha eseguito un sopralluogo nell'area denominata «ex Pertusola» - posta sulla strada statale ionica, a circa 1,5 chilometri da Crotone - e presso l'istituto tecnico commerciale «Lucifero», ubicato in città.
Successivamente, in data 17 giugno 2010, i consulenti della Commissione hanno eseguito un altro sopralluogo nelle aree «ex Pertusola» ed «ex Montedison».
Le indagini svolte dalla Commissione - mediante l'audizione dei rappresentanti delle istituzioni, l'acquisizione di una notevole mole di documenti e il sopralluogo eseguito - hanno consentito di mettere in luce una situazione di assoluta drammaticità ambientale, con rischi seri e concreti per la salute dei cittadini in tutte le aree del crotonese che, nel corso degli anni hanno visto, e tuttora vedono, la presenza di discariche non protette di prodotti altamente nocivi per l'ambiente, costituiti da enormi quantità di polveri di amianto, di fosforiti derivanti dalla produzione di fertilizzanti, nonché di «ferrite di zinco» e del derivato «scoria cubilot», rifiuto quest'ultimo che è stato utilizzato in modo indiscriminato in numerosi edifici, anche pubblici, della città di Crotone.
In particolare, il dottor Raffaele Mazzotta, procuratore della Repubblica in Crotone, nel corso dell'audizione del 10 marzo 2010 e di quella precedente del 3 dicembre 2009, ha ripercorso l'intera vicenda, riferendo che a Crotone era stata significativa per decenni la presenza di due enormi stabilimenti: quello della «ex Pertusola Sud»,


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che produceva zinco, era stato realizzato da una società francese nel 1920 e, infine, era passato sotto il controllo del «gruppo Enichem» e quello della «ex Montedison» - comprensivo delle due aree industriali, denominate «ex Fosfotec» ed «ex Agricoltura», che dapprima faceva capo alla Montecatini e che dopo varie vicissitudini societarie, era passato anch'esso sotto il controllo del «gruppo Enichem» - che produceva fertilizzanti, fosforo, fosforite e altri prodotti chimici.
Ad oggi la proprietà di entrambi gli stabilimenti industriali fa capo alla «Syndial SpA», società del gruppo Enichem.
I due stabilimenti anzidetti, ubicati a poca distanza dalla città di Crotone - e, attualmente in stato di totale abbandono, come ha potuto constatare questa Commissione - occupavano un'area prospiciente il litorale ionico per una lunghezza di circa due chilometri, erano confinanti tra di loro e ciascuno di essi aveva una propria «discarica a mare», compresa tra l'area di rispettiva pertinenza e il litorale marino.
Le due enormi fabbriche, nel corso degli anni '90, hanno cessato la loro produzione e, tuttavia, pur a distanza di tanti anni, sono rimaste tuttora intatte le gravi problematiche dell'inquinamento ambientale, causate dalla pregressa attività industriale.
Nell'ambito di un procedimento penale (n. 1138/99) per disastro ambientale e inquinamento a carico di persone note, denominato «Inchiesta Black Mountain» - a motivo del colore nero del granulare della cosiddetta «scoria cubilot», che ancora nel 1999, molti anni dopo la cessazione dell'attività industriale, si trovava ammassata in enormi quantità nel piazzale antistante lo stabilimento Pertusola, sì da formare una «montagna» - in data 25 settembre 2008, è stato eseguito il sequestro preventivo di vaste discariche non autorizzate di rifiuti pericolosi, costituite da Conglomerato Idraulico Catalizzato» (CIC).
Il CIC è il prodotto della miscelazione, in impianti dedicati posti nello stabilimento «Pertusola Sud» di Crotone, della «scoria cubilot» - un rifiuto pericoloso, prodotto di seconda fusione della lavorazione dello zinco, mentre la «ferrite di zinco» proviene dalla prima fusione dello zinco - con la «loppa d'alto forno» - un rifiuto speciale non pericoloso proveniente dagli altiforni dell'acciaieria «ILVA» di Taranto.
La «loppa d'alto forno» era destinata a neutralizzare la «scoria cubilot», all'esito di un processo di miscelazione che, nella specie, non è stato eseguito correttamente.
Nell'ambito del suddetto procedimento penale n. 1138/99 mod. 21 (v. doc. 307/1), la procura della Repubblica presso il tribunale di Crotone, in data 18 febbraio 2010, ha depositato richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di 45 indagati noti (Mano Vincenzo + 44, tra i quali compaiono Mascazzini Gianfranco, direttore generale della direzione per la qualità della vita del Ministero dell'ambiente e numerosi altri funzionari dello stesso Ministero, quali componenti di un gruppo di lavoro chiamato a esprimere il loro parere sugli effetti nocivi della «scoria cubilot»), per i reati di cui agli artt. 81, 40, 110-113 cod. pen., all'articolo 51, commi 3 e 5 (in relazione degli artt. 9, 27 e 28) del decreto legislativo n. 22 del 1997, come sostituito

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dall'articolo 256, commi 3 e 5, del decreto legislativo n. 152 del 2006, dal momento che, come si legge nel capo a) dell'imputazione, i suddetti rifiuti pericolosi, a partire dal 1999 ad oggi, sono stati smaltiti in enormi quantitativi, depositati in diverse aree site sia all'interno dello stesso complesso industriale della «Pertusola Sud spa», sia nella confinante area di proprietà della stessa società, denominata «Discarica a mare», in quanto posta a diretto contatto con il litorale marino (località «Armeria»).
Ai suddetti imputati sono stati contestati anche i reati di cui agli artt. 434 e 439 c.p., per avere cagionato un disastro doloso e avere avvelenato le acque di falda.
Alla richiesta di rinvio a giudizio ha, quindi, fatto seguito la fissazione dell'udienza preliminare, in data 11 maggio 2010, poi rinviata al 13 luglio 2010.
In ordine alla quantità di scorie nocive, il procuratore della Repubblica ha riferito che l'ammontare complessivo delle stesse è pari a 450 mila tonnellate ammassate nel piazzale antistante lo stabilimento «ex Pertusola Sud» e nella pertinente «discarica a mare».
Su quest'ultimo punto, nel corso dell'audizione del 10 marzo 2010 davanti a questa Commissione, Teresa Oranges, direttrice provinciale di Crotone dell'ARPACAL, ha riferito che lungo tutta la costa crotonese vi è una discarica «che praticamente comincia dove inizia la Pertusola e finisce dove sbocca l'Esaro», dove sono state «abbancate» le scorie, senza alcuna misura di salvaguardia e «come sottofondo non è stato fatto nulla, perché all'epoca non esisteva la normativa».
A ciò aggiungasi che parte delle suddette scorie tossiche sono state portate fuori dall'area dello stabilimento industriale e della discarica a mare e sono state utilizzate in diversi siti, ubicati nella stessa città di Crotone, anche da imprese appaltatrici di lavori pubblici, che le avevano acquistate «a costo zero» e per di più «con una piccola quota di contribuzione per la lavorazione e il trasporto», offerta dalla stessa Pertusola, come ha riferito il dottor Mazzotta nella sua audizione del 10 marzo 2010.
L'utilizzo della «scoria cubilot» è avvenuto in maniera del tutto impropria in luogo della sabbia o di materiali da cava, con evidente profitto per le imprese appaltatrici di tali lavori.
L'uso della «scoria cubilot» ha determinato anche una sensibile alterazione delle regole di mercato, dal momento che nelle gare di appalto pubbliche le imprese che utilizzavano la suddetta scoria nociva, come materiale di riempimento, erano in grado di praticare prezzi più bassi di quelli che utilizzavano materiali inerti e ciò ha consentito loro di aggiudicarsi appalti pubblici (9).
Un caso esemplare, quanto oggettivo, in cui «l'economia malata», violando la legge, non solo ha provocato un danno ambientale, ma ha prevalso sulle elementari regole della concorrenza e del mercato, distruggendo «l'economia sana».

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Tale considerazione trova un preciso riscontro nella «Relazione territoriale sulla Calabria», approvata nella seduta del 4 novembre 2003 dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, istituita nella XIV Legislatura con legge 31 ottobre 2001 n. 399 e presieduta dall'onorevole Paolo Russo. Nella relazione si riferisce che: «Dai dati acquisiti risultano smaltiti, in cantieri di proprietà "Croton Scavi", scorie "cubilot" per 127.890.147 chilogrammi e in cantieri di proprietà "Ciampà Paolo srl" altri 83.387.125 chilogrammi. Smaltimento che ha comportato rilevanti utili alle predette società e notevoli danni alle ditte concorrenti, costrette a comprare a costi più alti materiale di cava, mentre per le scorie "cubilot" le ditte venivano addirittura sovvenzionate per il relativo ritiro».
Non a caso, dunque, nei confronti dei titolari delle suddette imprese vi è la richiesta di rinvio a giudizio della procura di Crotone, nell'ambito del procedimento anzidetto (Mano Vincenzo + 44).
Nel corso degli anni, le scorie tossiche sono state utilizzate per realizzare, mediante strati complessivi anche di alcuni metri di spessore, il fondo di numerose costruzioni, quali - tra le tante, peraltro non tutte individuate - quella destinata alla questura di Crotone, alla scuola primaria «San Francesco», all'istituto per la ragioneria «Lucifero», alla banchina di riva del porto commerciale, nonché per costruire un intero quartiere dell'Aterp, in località Trafinello e Lampanaro.
Il totale accertato dalla procura della Repubblica dei siti nei quali è stata utilizzata la «scoria cubilot» è di ventiquattro, di cui ventidue a Crotone, uno a Isola di Capo Rizzuto (la cabina Enel) e uno a Cutro (il piazzale della scuola nel rione «Pozzoseccagno»), tutti oggetto di provvedimento di sequestro da parte del GIP presso il tribunale di Crotone.
I risultati scientifici dei carotaggi disposti dalla procura di Crotone sulle scorie dell'ex Pertusola hanno consentito di verificare «la presenza in tutti i siti di arsenico, nichel, vanadio, piombo e zinco in quantità ben al di sopra dei limiti consentiti, sostanze nocive se respirate e venute a contatto con le persone» (10). Tali composti metallici derivano tutti dalla scoria «cubilot», che non era stata adeguatamente aggregata alla «loppa d'alto forno» in modo da formare un CIC «ben confezionato e compattato», che, dunque, era nocivo per la salute dei cittadini.
Va sottolineato che, nel corso dell'audizione del 16 giugno 2010, il dottor Mazzotta ha riferito di avere depositato, in data 13 aprile 2010 (doc. 479/5), nell'ufficio del GIP di Crotone richiesta di perizia nelle forme dell'incidente probatorio, in ordine all'accertamento dello stato dei luoghi e della tossicità dei materiali presenti, da effettuarsi da un collegio di periti nominato dal GIP, nel contraddittorio delle parti, prima che interventi di bonifica - ad oggi non ancora effettuati dagli enti preposti e dai soggetti obbligati - modifichino lo stato dei luoghi dei

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siti contaminati. Pertanto, prima dell'esaurimento delle operazioni peritali, non potranno essere effettuati interventi di bonifica.
Nel frattempo, la procura della Repubblica potrà autorizzare ulteriori attività di caratterizzazione e di messa in sicurezza.
Altro capitolo è quello dell'accertamento degli effetti sulla salute dei cittadini, a causa della presenza dei materiali tossico-nocivi, ricompresi nel cosiddetto «cubilot» e pacificamente utilizzati anche in alcuni istituti scolastici di Crotone.
A tale proposito, la procura della Repubblica presso il tribunale di Crotone ha affidato le indagini medico-diagnostiche al consulente tecnico, professore Sebastiano Andò, che le ha eseguite su 290 alunni di scuole primarie e secondarie di Crotone, avvalendosi di una equipe di anatomo-patologi universitari.
Come si legge nella consulenza tecnica del professore Andò (doc. 230/2), l'obiettivo dello screening effettuato è stato quello di «quantizzare» nella fascia di popolazione più vulnerabile, quella scolare, l'entità della eventuale contaminazione da metalli pesanti dovuta alla esposizione di rifiuti tossici con cospicua presenza degli stessi, mediante una selezione della popolazione scolastica delle aree a rischio e delle aree di controllo, sottoposte a un esame comparato tra di loro.
A tale scopo è stato scelto un campione di alunni che frequentano i manufatti scolastici per la cui realizzazione è stato utilizzata, come materiale edilizio, la miscela tossica in oggetto costituita dal cosiddetto «conglomerato idraulico catalizzato» (area a rischio), «insieme ad una popolazione campione di controllo prelevata nella stessa città in aree con contesti eco-ambientali sovrapponibili, ma di cui non è documentabile il rischio di esposizione diretta ai rifiuti tossici» (area di controllo).
I risultati relativi alle determinazioni analitiche di alcuni metalli pesanti, effettuate nel sangue, nelle urine e nei capelli nella popolazione proveniente dalle scuole primarie e secondarie delle aree di controllo e in quelle a rischio, sono stati trattati con una serie di test statistici per stabilire il tipo di distribuzione dei dati e l'attribuzione di un significato tossicologico.
Nella tabella 1 (A-C), allegata alla relazione del consulente tecnico, sono riportati i risultati delle determinazioni sperimentali ottenuti per le scuole primarie e secondarie prese in considerazione in questa indagine.
Ebbene, l'analisi dei livelli di significatività ottenuti (p), ha posto in evidenza un incremento significativo delle concentrazioni sieriche del nichel (Ni), dello zinco (Zn), del cadmio (Cd), dell'uranio (U) e del piombo (Pb) nei soggetti provenienti dall'area a rischio, rispetto a quella di controllo (Tabella 1 A).
Le valutazioni del professore Sebastiano Andò e della sua equipe non lasciano margini di dubbio sulle conseguenze dannose subite dagli alunni delle strutture scolastiche definite «a rischio», quelle cioè i cui manufatti vedono la presenza della miscela tossica, costituita dal «conglomerato idraulico catalizzato». Dalla concentrazione dei metalli, valutata nelle diverse matrici biologiche, emerge che i siti investigati come aree «a rischio» sono stati realmente esposti alla

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contaminazione di alcuni metalli pesanti, in un lungo arco di tempo precedente le indagini del consulente tecnico.
A proposito delle sopra riportate conclusioni del consulente tecnico del pubblico ministero e della sua equipe, il procuratore della Repubblica in Crotone - in risposta a una polemica insorta con l'Istituto superiore di sanità, che in una nota trasmessa al Ministero dell'ambiente contestava i dati riportati dal professor Andò in quanto non significativi per mancanza di identità dei modelli di comparazione dal momento che i ragazzi della scuola primaria sarebbero stati comparati con ragazzi della scuola secondaria e per la presenza di fattori confondenti - ha ribadito la piena attendibilità delle indagini e dei risultati scientifici delle analisi eseguite dal professore Andò, il quale aveva comparato soggetti omogenei e, cioè, i ragazzi della scuola primaria «Alcmeone San Francesco» con i ragazzi della scuola primaria «Bernabò» (pagina 18 delle note di trascrizione in data 10 marzo 2010).
La validità dei criteri di una comparazione utilizzati emerge, in modo pacifico, dalla stessa lettura della relazione del professor Andò e dai relativi allegati (doc. 230/2, Tabelle 1A, 1B, 1C).
Fin qui la relazione del consulente di parte professor Sebastiano Andò, che richiede i necessari approfondimenti che, sicuramente, avverranno in sede dibattimentale.
In questa sede, tenuto conto dei limiti di indagine medico-scientifica di questa Commissione, non può non osservarsi che ci si trova di fronte ad uno scenario di esposizione estremamente complesso, ragione per cui, prima di arrivare a delle conclusioni definitive è assolutamente necessario analizzare altre variabili, posto che esistono altre fonti che possono aver determinato l'accumulo di metalli nell'organismo dei ragazzi (dieta, abitudine al fumo, ecc.).
Lo studio del professor Andò, per come è stato strutturato, può essere considerato uno studio pilota, indicativo di una situazione espositiva, ma probabilmente non conclusivo, posto che nell'approccio utilizzato manca soprattutto la somministrazione del questionario che è fondamentale per valutare tutti i fattori confondenti.
In ogni caso e con le perplessità sopra esposte, non sussistono dubbi di sorta sulla grave situazione di inquinamento ambientale determinata dalla scoria «cubilot», pur se a livello scientifico non sono noti gli effetti a medio e lungo termine che tale esposizione ha determinato sulla popolazione residente sul territorio.
In tale contesto, per evidenti ragioni di opportunità, la procura della Repubblica, a differenza di quanto accaduto per la determinazione delle cause dell'inquinamento, non ha fatto richiesta di incidente probatorio in ordine agli effetti nocivi della scoria «cubilot», rinviando il relativo accertamento alla sede propria del dibattimento.
A seguito della consulenza tecnica del professor Andò - comunicata dalla procura della Repubblica presso il tribunale di Crotone, in data 24 settembre 2009, ai ministri dell'ambiente, del lavoro e della salute e dell'istruzione, nonché ai presidenti della regione e della provincia, al prefetto di Crotone, al direttore generale dell'azienda sanitaria provinciale, al presidente dell'ATERP e ai dirigenti scolastici degli istituti interessati - è stata disposta, con ordinanza sindacale del

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28 settembre 2009, la chiusura a tempo indeterminato della scuola primaria «San Francesco» e dell'ITC «Lucifero».
Sono stati, quindi, eseguiti nell'area dell'ITC «Lucifero» - già sequestrata dall'autorità giudiziaria - lavori di «messa in sicurezza d'emergenza».
Come ha potuto constatare la Commissione, nel corso del sopralluogo effettuato in data 11 marzo 2010, a seguito delle informazioni assunte sul punto dal preside del istituto scolastico, tali lavori non sono consistiti nella rimozione dei rifiuti tossici o nella loro inertizzazione, bensì in una semplice copertura in cemento e materiale bituminoso dell'area in cui sono tuttora depositati, allo scopo di evitare la dispersione eolica di particelle dannose per la salute.
Comunque, dopo l'esecuzione dei lavori, l'area anzidetta è stata dissequestrata e l'istituto scolastico è stato riaperto, in data 16 novembre 2009.
Nel frattempo, la procura della Repubblica ha chiesto il rinvio a giudizio per 45 indagati per i reati di cui all'articolo 256 del codice dell'ambiente, con riferimento alle enormi discariche abusive realizzate, e agli artt. 434 e 439 c.p., per avere cagionato un disastro doloso e avere avvelenato le acque di falda. Il GUP del tribunale di Crotone ha fissato l'udienza preliminare in data 11 maggio 2010, poi rinviata al 13 luglio 2010.
Poiché tra gli indagati vi era anche Edoardo Ronchi, già Ministro dell'ambiente, la sua posizione era stata stralciata per essere sottoposta al vaglio del tribunale dei ministri che, in data 15 giugno 2010, ha archiviato la relativa posizione.
In particolare, all'ex Ministro dell'ambiente era stato contestato di aver introdotto la scoria «cubilot» nel novero dei rifiuti non pericolosi con il decreto del Ministero dell'ambiente del 5 febbraio 1998, allegato 1, punto 4.1 e di non essersi poi attivato per la modifica del suddetto decreto.
La contestazione trovava la sua spiegazione logica nella considerazione che, nel precedente decreto ministeriale del 5 settembre 1994, la scoria «cubilot» rientrava nella categoria dei rifiuti pericolosi (doc. 230/6), come tale destinata ad essere smaltita in impianti adeguati, escludendo ogni possibilità di recupero.
Nel caso di specie - secondo il procuratore della Repubblica - sarebbe stato utilizzato, con dolo, un espediente concernente la scoria «cubilot», che sarebbe stata così denominata, non in relazione al prodotto lavorato - nella specie, la ferrite di zinco - bensì al tipo di forno usato per la stessa lavorazione (forno molto diffuso in tutta l'industria metallurgica, ferrosa e non). Con tale espediente le scorie provenienti dalla lavorazione dello zinco - già classificate con il codice CER 10.05.01, in quanto rifiuto pericoloso - sarebbero state classificate con il codice CER 10.08.01, lo stesso utilizzato per le «scorie cubilot in senso ampio», cioè con riferimento al tipo di forno usato per la lavorazione delle scorie, come tale comprensivo sia dei rifiuti pericolosi, sia dei rifiuti non pericolosi.
Tutto ciò sebbene la scoria «cubilot», derivante dalla lavorazione dello zinco contenga metalli pesanti, principalmente arsenico e, in varie misure, piombo, zinco, cadmio, cobalto, rame vanadio,

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berillio e ferro, in concentrazione di molto superiore ai limiti di legge.
In ogni caso, la scoria «cubilot», prima di essere utilizzata, avrebbe dovuto essere opportunamente lavorata e adeguatamente aggregata alla «loppa d'alto forno»- prodotto non nocivo - in modo da formare un CIC «ben confezionato e compattato», in grado di renderla inerte. Ciò non è stato fatto, con conseguenze drammatiche per l'ambiente e per le persone.
Non è, dunque, un caso che ai sequestri anzidetti, nel mese di gennaio 2009, abbia fatto seguito anche il sequestro di un tratto della strada «consortile» del comune di Crotone, corrispondente ad una area di complessivi 14 mila metri quadrati, nell'ambito delle attività di polizia giudiziaria, delegate dalla locale autorità giudiziaria e relative ad altro procedimento, afferente a presunte irregolarità sui lavori di ampliamento della citata arteria e iscritto a modello 44 contro ignoti (proc. pen. n. 2509/2008).
Nella specie, è stato accertato che, al di sotto del manto stradale, vi è la presenza di rifiuti pericolosi - come la «ferrite di zinco» (scarto della lavorazione idrometallurgica dello zinco) - riconducibili a scorie industriali provenienti dallo stabilimento dell'«ex Pertusola» di Crotone.
In tale contesto, nell'ambito del procedimento principale (n. 1138/99), si spiega la richiesta di rinvio a giudizio della procura di Crotone non solo nei confronti di Ciampà Giovanni, amministratore della società «Ciampà Paolo Srl», e degli altri imprenditori che commerciavano le scorie «cubilot», ma anche nei confronti dei direttori dei numerosi cantieri edili di Crotone in cui le suddette scorie sono state utilizzate, ivi compresi, tra gli altri, i direttori dei lavori della scuola ITC «A. Lucifero», della «banchina di riva del porto commerciale di Crotone», dell'ATERP, Località «Margherita», «Lampanaro», «Trafinello».
Inoltre, è stato richiesto il rinvio a giudizio dei responsabili delle ASL, dei responsabili del «settore ambiente» presso il comune di Crotone, dell'ufficio bonifiche dell'area delle province di Crotone e Catanzaro, dei commissari delegati all'emergenza ambientale per i periodi di rispettiva competenza e, infine, degli stessi vertici del Ministero dell'ambiente, tra i quali Gianfranco Mascazzini, all'epoca direttore generale presso il Ministero dell'ambiente, che ha presieduto, presso lo stesso Ministero, le numerose - quanto inutili - conferenze dei servizi per la bonifica dei siti inquinati, in una posizione - a dir poco - del tutto inopportuna, alla luce dei gravi e specifici reati in seguito contestati.
A Mascazzini e ad altri funzionari del Ministero dell'ambiente - tutti componenti della Commissione, presieduta dallo stesso Mascazzini e deputata alla catalogazione dei rifiuti - viene contestato di aver introdotto la scoria «cubilot» nel novero dei rifiuti non pericolosi così come catalogati al punto n. 4.1 dell'Allegato 1 del decreto ministeriale dell'ambiente del 5 febbraio 1998 e di averne consentito il deposito e la permanenza nei siti sequestrati, così cagionando dolosamente un disastro per la salute e l'incolumità pubblica (articolo 434 c.p.) e provocando con dolo l'avvelenamento delle acque di falda e di quelle marine (articolo 439 c.p.).

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XI.5 - La «fibretta di amianto in polvere», usata negli stabilimenti «ex Montedison»

Come si è sopra anticipato, le scorie provenienti dalla lavorazione dello zinco non costituiscono l'unico grave problema di Crotone, in quanto sussistono tuttora sul territorio i residui tossici delle lavorazioni eseguite nello stabilimento «ex Montedison», di proprietà dell'«Enichem», con danni ambientali incalcolabili, in conseguenza delle enormi quantità di polvere di amianto, tuttora depositate nella discarica a mare dello stabilimento «ex Montedison», confinante con la discarica a mare dell'«ex Pertusola».
Lo stabilimento Montedison della produzione di fertilizzanti, utilizzava nella lavorazione la c.d. «fibretta di amianto», le cui polveri - com'è scientificamente acclarato ormai da decenni - hanno un preciso nesso di causalità diretto con il «mesotelioma pleurico e dei bronchi», con il «carcinoma polmonare» e con l'«asbestosi» o fibroma polmonare.
Il procuratore della Repubblica in Crotone, dottor Raffaele Mazzotta, e il sostituto procuratore, dottoressa Daniela Caramico D'Auria, nel corso della loro audizione del 10 marzo 2010, avanti a questa Commissione, hanno riferito che l'indagine ha riguardato in particolare un reparto della Montedison denominato «reparto forno fosforo», che aveva l'obiettivo della produzione di «fosforo giallo».
A tal proposito, alcuni operai hanno consegnato agli inquirenti un manuale operativo della storia dell'impianto, che ha consentito di comprendere come lo stesso funzionasse e quali fossero i problemi per i lavoratori.
Si è così accertato che tale impianto era stato commissionato dall'allora Montecatini alla società «Victor chemical works», una società canadese. Si trattava di un impianto che, fin dall'inizio, aveva problemi di funzionamento (circostanza documentata anche dal suddetto manuale), riguardanti la tenuta degli elettrodi necessari per farlo funzionare, che dovevano abbassarsi e alzarsi con un andamento costante, in modo da consentire una temperatura ottimale per la realizzazione del prodotto finale.
Poiché - per come era costruito l'impianto - la tenuta degli elettrodi non consentiva sia l'ingresso dell'aria, sia la fuoriuscita dei gas, la Montedison, al fine di impedire effetti di combustione - a differenza di altri forni, già utilizzati nello stesso periodo anche in Francia e in Germania, che facevano riferimento a tenute idrauliche - ha fatto ricorso alla «fibretta di amianto in polvere», che è stata utilizzata nel processo di lavorazione per costipare questi «interstizi», come venivano tecnicamente definiti dal manuale, e bloccare i premistoppa, allo scopo di evitare la fuoriuscita di gas.
L'amianto possiede la caratteristica di una particolare resistenza al calore, tanto che gli operai dell'ex Montedison erano dotati di tute da lavoro ignifughe, contenenti fibre di amianto; indumenti che venivano lavati in casa alla pari di un qualsiasi altro capo di vestiario con conseguente ulteriore diffusione delle polveri di amianto all'interno delle abitazioni private.


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L'amianto utilizzato nell'ambito del processo di lavorazione all'interno dello stabilimento della Montedison veniva sostanzialmente trattato come un normale materiale, sicché gli operai accatastavano manualmente sulle bocche di ingresso degli elettrodi la «fibretta d'amianto in polvere», che veniva da loro lavorata e pressata, in modo tale da impedire o il passaggio dell'aria o la fuoriuscita del gas. Infine, la «fibretta d'amianto», impregnata di fosforo, veniva - con frequente periodicità - rimossa e sostituita con altra fresca.
Questo era sicuramente il reparto più a rischio, perché l'amianto era adoperato manualmente dagli operai.
Riferisce il procuratore della Repubblica che, dalle indagini svolte, è emerso che i sistemi di protezione adottati dalla società erano inesistenti, in quanto costituiti da semplici mascherine di cotone e da occhiali che, nel reparto in questione, per via dell'elevata temperatura, erano chiaramente inidonei all'uso.
Nel reparto vi era inoltre un unico aspiratore, le cui bocche e il cui camino di uscita si trovavano sul tetto, con un effetto dannoso duplice poiché, in caso di assenza di vento, le polveri derivanti dall'uso della «fibretta di amianto» ricadevano nei reparti di altri lavoratori, i quali non erano dotati neanche di un minimo dispositivo di protezione individuale.
È stato accertato, viceversa, che in presenza di vento - sono stati acquisiti anche rapporti meteorologici per dimostrare quali fossero i quartieri più colpiti della città di Crotone - la dispersione di polveri di amianto aveva investito anche ambienti limitrofi, fino ad arrivare al quartiere Gesù e al quartiere Marinella, quartieri di Crotone poco distanti dallo stabilimento, risultati quelli più colpiti.
A specifica domanda del presidente della Commissione sulle «modalità di smaltimento dell'amianto», il sostituto procuratore della Repubblica, Daniela Caramico D'Auria, ha riferito che il cosiddetto «rifiuto amianto, veniva trattato ugualmente alle altre lavorazioni della produzione e, quindi, come un normalissimo rifiuto. Esso veniva abbancato nei pressi della Montedison e poi smaltito, senza alcuna peculiarità in considerazione del materiale» (pagina 15 del verbale di audizione del 10 marzo 2010).
Peraltro, anche i consulenti tecnici della procura della Repubblica, Pietro Comba, dell'Istituto superiore della sanità, e Mauro Sanna, chimico, hanno riferito nel loro scritto, pubblicato dall'associazione ambientalista «Fabbrikando l'avvenire» sul «Libro bianco sull'amianto a Crotone», che la «fibretta d'amianto rimossa, non più utilizzabile, veniva inviata, unitamente ad altri rifiuti, presso la discarica dello stabilimento, che si trovava in vicinanza della strada consortile, lato mare» (doc. 310/1, pagine 27/28).
Del resto, nello stabilimento industriale si faceva largo uso dell'amianto sotto forma di tele, cartoni, cordoni, guarnizioni, fibretta, strisce, ecc.
Tale uso trova un preciso riscontro nell'ordine di acquisto n. A 6403/0560, effettuato in data 27 gennaio 1988, dalla «Pertusola Sud» alla Bersani Srl di Milano di «fibra amianto macinato F 28 in sacchi da Kg. 40», al prezzo di lire 500/Kg. (vedi foglio 63 del doc. 310/1).
In tal modo - come si legge nell'avviso di conclusioni delle indagini della procura della Repubblica presso il tribunale di Crotone

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nel procedimento n. 308/2003, di cui si dirà di seguito - nel corso di oltre trent'anni e, cioè, a partire dal 14 dicembre 1960 fino al mese di novembre 1992, data di chiusura della fabbrica - che ha coinciso con l'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, che ha vietato l'uso dell'amianto - sono stati smaltiti, in modo del tutto improprio, migliaia di tonnellate di amianto purissimo (circa 11 mila/12 mila come riferito dal rappresentante della suddetta associazione ambientalista, Pino Greco nella sua audizione del 10 marzo 2010).
Dopo l'uso, l'amianto è stato «abbancato» insieme al fosforo.
Quest'ultima circostanza risulta confermata dal fatto che nell'anno 2005, dopo dodici anni dalla cessazione dell'uso dell'amianto e dalla chiusura dell'Enichem, in una zona distante circa trecento metri dal «forno fosforo» sono stati effettuati alcuni prelievi, dai quali è emersa una elevata concentrazione di amianto (circa 1,4 fibre/litro).
Nella relazione redatta in data 24 gennaio 2009 (doc. 310/1, pagina 58) dal dottor Francesco Rocca, specialista in medicina del lavoro e responsabile del servizio igiene e sicurezza negli ambienti di lavoro (S.P.I.S.A.L.) dell'azienda sanitaria provinciale di Crotone, viene ipotizzato un tempo di dimezzamento di sei mesi perché le fibre di amianto si riducano a metà. Di conseguenza, il dottor Rocca deduce che, nell'anno 1993, la presenza dell'amianto nella zona era di circa 3.214 fibre/litro, misura superiore al doppio, rispetto a quella da lui accertata oltre dieci anni dopo.
Tale dato scientifico dimostra che le fibre di amianto venivano «abbancate» insieme agli altri rifiuti nocivi, tra cui il fosforo, in una discarica posta nelle immediate vicinanze dello stabilimento «ex Montedison».
Circa gli effetti sulla popolazione, il procuratore della Repubblica ha riferito che non vi sono dati scientifici in ordine alla incidenza delle sostanze sopra indicate sulla salute dei cittadini poiché - su iniziativa dello stesso dottor Mazzotta - solo di recente era stato istituito un registro dei tumori per le province di Crotone e di Cosenza.
Le due province sono state accomunate in quanto per l'istituzione del registro anzidetto è necessario un bacino di utenza di 250 mila abitanti e la provincia di Crotone ne ha solo 173 mila, di cui 60 mila il capoluogo, sicché si è reso necessario il riferimento anche alla popolazione della provincia limitrofa di Cosenza.
In tal modo, soltanto nel mese di ottobre 2008, è stato stipulato un protocollo di intesa tra l'azienda sanitaria di Crotone e quella di Cosenza.
A motivo della carenza di dati certi e acclarati, il procuratore della Repubblica di Crotone ha incaricato i consulenti tecnici Comba e Sanna di effettuare l'accertamento del nesso eziologico di quali casi oggetto di indagine potevano effettivamente essere ricondotti a malattie professionali o a morte derivanti da esposizione ad amianto, mediante l'acquisizione di documentazione clinica, e ciò indipendentemente dalla circostanza che il soggetto afflitto da tali patologie avesse o no lavorato nello stabilimento dell'ex Montedison.
I casi certi individuati dai consulenti del pubblico ministero sono complessivamente sette e hanno riguardato, in particolare, cinque

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dipendenti diretti e indiretti dell'ex Montedison e le mogli di altri due dipendenti, nel frattempo, tutti deceduti.
Secondo il procuratore della Repubblica, i casi accertati rappresentano la punta dell'iceberg rispetto a quello che non si è potuto accertare per l'insufficienza e/o la carenza dei dati acquisiti.
Muovendosi in un'ottica penalistica, sono stati indicati esclusivamente i casi per i quali è stata accertata, secondo un giudizio prognostico-probabilistico, la ricollegabilità all'esposizione ad amianto.
Si tratta di soggetti tutti ammalatisi di «mesotelioma pleurico», ciascuno dei quali aveva avuto un periodo più o meno lungo di latenza a causa dell'esposizione all'amianto. Ciò è accaduto non solo per i lavoratori della Montecatini, ma anche per le mogli di due operai, le quali erano solite lavare gli indumenti di lavoro dei rispettivi mariti ed erano così entrate in contatto con le polveri di amianto. Così accertato il nesso di causalità - nell'ambito del procedimento penale n. 398/2003 - sono stati iscritti nel registro degli indagati i diversi direttori degli stabilimenti dal 1974 al 1995, il responsabile del forno fosforo e il medico di fabbrica, per i reati di omicidio colposo aggravato dalla colpa cosciente e disastro colposo.
Nell'ambito di tale procedimento, a carico di «Aguggia + 6» (doc. 308/1), il dottor Mazzotta ha riferito - nel corso della sua audizione del 16 giugno 2010 - che, a seguito della richiesta di rinvio a giudizio degli imputati, dopo la costituzione delle parti, il GUP del tribunale di Crotone ha fissato l'udienza del 5 ottobre 2010.
Tuttavia, i pochi casi oggetto del suddetto procedimento penale non sono esaustivi del problema dell'inquinamento da amianto esistente a Crotone, poiché è necessario sottolineare: 1) che il periodo di latenza per il «mesotelioma» è di 20-40 anni, per cui il «cessato allarme» è previsto per il 2033; 2) che nel decennio compreso fra i primi anni '90 e i primi anni del 2000 sono stati accertati e documentati per l'Enichem quattro casi di mesotelioma pleurico, due casi indiretti - la moglie di un lavoratore - e tre casi di asbestosi, altra malattia polmonare conseguente all'inalazione di elevate quantità di fibre di amianto, mentre per la Pertusola Sud - dove pure si faceva uso dell'amianto - i casi di mesotelioma sono tre; 3) che la stima delle maestranze esposte nel corso degli anni e, presumibilmente ancora in vita, è di circa 3 mila/4 mila unità, mentre sono circa 2 mila le cause giacenti presso il tribunale di Crotone, volte ad ottenere il riconoscimento dei benefici previdenziali previsti per coloro i quali sono stati esposti a fibre di amianto (vedi relazione sopra citata del dottor Rocca, doc. 310/1 pagina 59).
Comunque, i dati acquisiti non sono completi, in quanto nel «Libro bianco sull'amianto a Crotone», pubblicato dall'associazione ambientalista «Fabbrikando l'avvenire» (doc. 310/1, pagg. 60, 61 e 62), è stata allegata l'ordinanza 5 maggio 2003, n. 2473, del commissario delegato per l'emergenza ambientale nel territorio della Calabria, nonché presidente della regione Calabria, Giuseppe Chiaravalloti, ordinanza con la quale è stato costituito un gruppo di lavoro per le attività di indagine epidemiologica presso la sede dello stesso commissario delegato.
Ebbene, nella suddetta ordinanza si dà atto di due studi: il primo studio - a cura dell'Organizzazione mondiale della sanità, pubblicato

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sulla rivista «Epidemiologia e prevenzione», riguardante «ambiente e stato di salute nella popolazione delle aree ad alto rischio di crisi ambientale in Italia» - dopo aver posto in evidenza l'incidenza dei tumori nella popolazione maschile e femminile di un'area spaziale eterogenea composta da 36 comuni di un cerchio con centro Crotone e raggio di 40 Km, conclude che «gli eccessi osservati a Crotone, con particolare riferimento al tumore polmonare tra gli uomini, suggeriscono un possibile ruolo delle esposizioni legate alle attività industriali dell'area, soprattutto di carattere professionale».
Nel secondo studio, condotto dall'Istituto superiore di sanità - pubblicato nel n. 2 del 2002 di «Rapporti Istisan» - relativo a una indagine sulla mortalità per tumore maligno nella pleura nei comuni italiani, viene indicato, per il comune di Crotone, un tasso standardizzato molto più elevato in relazione alle altre città calabresi indagate.
Non si conoscono purtroppo gli esiti del «gruppo di lavoro», costituito nel lontano 2003 dal commissario delegato per l'emergenza ambientale.

XI.6 - La «fosforite» derivante dalla produzione di fertilizzanti negli stabilimenti «ex Montedison»

Nel contesto di degrado ambientale in cui versa il territorio di Crotone, si è verificato un ulteriore episodio riportato nel rapporto informativo del comando regionale della Guardia di finanza, in data 17 novembre 2009 (doc. 148/2), nel quale si legge che, nel mese di luglio 2008 - dopo numerose segnalazioni, le quali riferivano di episodi di spontanea combustione sull'arenile antistante la zona industriale e a seguito delle prime risultanze scaturite dalle indagini (11) - il Nucleo di polizia tributaria di Crotone ha ottenuto dall'autorità giudiziaria il sequestro di un'area di complessivi 40 mila m2, denominata «Farina - Trappeto», anch'essa di proprietà della «Syndial SpA» (doc. 479/6).
La causa dei fenomeni di autocombustione sulla spiaggia è rappresentata dalla presenza di fosforo bianco a diretto contatto con l'atmosfera.
Invero, l'area ubicata immediatamente a sud della discarica «Pertusola», in prossimità della foce del fiume Esaro, in località Botteghelle del capoluogo, è risultata adibita a discarica abusiva di rifiuti pericolosi, tipo «fosforite», derivanti dalla produzione di fertilizzanti da parte dell'«ex stabilimento Montedison».
All'esito di sopralluoghi dei tecnici dell'ISPRA, effettuati nei giorni 5 agosto e 4/5 settembre 2008, sono stati rinvenuti in grande quantità sassi di colore grigio/azzurro di diversa pezzatura, mentre dalla documentazione in possesso dell'ISPRA è emerso che solo nel 1991 sono stati prodotti e smaltiti da Enichem Augusta Industriale (ex Ausidet, società proprietaria della discarica Farina-Trappeto) rifiuti classificati come «scorie di produzione di forno fosforo», per un ammontare di 53 mila tonnellate (ca. 32 mila 100 m3).
Per il periodo precedente sono state conferite nella suddetta discarica centinaia di tonnellate delle suddette scorie, definite, contrariamente


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al vero, come inerti e non pericolose, mentre si trattava di metasilicati (residui di fusione del processo termico di produzione del fosforo). Peraltro, tutta la documentazione aziendale è andata persa a causa dell'inondazione del fiume Esaro e di un incendio.
È comunque emerso, dai dati in possesso dell'ISPRA, che nel tratto di mare antistante la discarica sono state scaricate circa 5 milioni di tonnellate di fosfogessi, in grado addirittura di alterare l'andamento della linea della costa.
Infine, la sezione di Polizia giudiziaria - Nucleo investigativo sanità e ambiente (N.I.S.A.), in data 2 dicembre 2008, ha trasmesso i risultati di analisi svolte dall'ARPACAL sulla discarica anzidetta, da cui risulta un elevato indice di radioattività. (12)
A seguito di convocazione presso il Ministero dell'ambiente di apposita conferenza di servizi, in data 24 settembre 2009, la «Syndial SpA» ha assunto l'impegno di eseguire, entro il mese di maggio 2010, nell'area «Farina - Trappeto», i seguenti lavori: 1) la copertura temporanea dei rifiuti; 2) la rimozione di fanghi e silicati da stoccare in area di deposito; 3) la bonifica della discarica con rimozione del materiale.
Non si conosce l'esito di tale intervento, nonostante le notizie richieste da questa Commissione d'inchiesta alla Syndial.
Per l'inquinamento dell'area «Farina-Trappeto» è pendente un procedimento penale a carico di ignoti (n. 2509/08, modello 44) per gestione non autorizzata di rifiuti e disastro doloso e avvelenamento delle acque di falda (doc. 479/4).

XI.7 - Interventi per la bonifica delle aree industriali comprese nel SIN di Crotone

La situazione di degrado in cui versa il territorio di Crotone è nota da tempo, considerato che, già con D. M. 18 settembre 2001, n. 468, è stato approvato il regolamento recante il programma nazionale di bonifica e di ripristino ambientale e che, in tale contesto, l'area di Crotone - costituita dall'area industriali ex Montedison, comprensivo delle due aree industriali, denominate «ex Fosfotec» ed «ex Agricoltura», dell'area ex Pertusola e dalla discarica di Tufolo - è stata riconosciuta quale sito inquinato di interesse nazionale, ai fini della messa in sicurezza e della bonifica.
Il decreto 26 novembre 2002 del Ministro dell'ambiente ha definito la perimetrazione dei predetti siti di interesse nazionale, comprendendo - oltre ai siti inquinati di Cassano e Cerchiara, anche quelli di Crotone, ma non tutti quelli oggetto del provvedimento di sequestro da parte della magistratura - peraltro, decisi molti anni dopo e, cioè, in data 22 settembre 2008 e 11 maggio 2009 - bensì solo cinque di tali siti: in particolare, le aree degli stabilimenti industriali - ex Pertusola ed ex Montedison, comprensiva quest'ultima delle aree ex Agricoltura e ex Fosfotec, con le relative discariche a mare, nonché


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l'area archeologica, sita sulla statale ionica, di fronte ai due stabilimenti principali, con la conseguenza, non di poco conto sul piano pratico, che solo la bonifica delle aree comprese nel SIN rientra nella competenza del Ministero dell'ambiente, mentre la bonifica delle altre aree spetta al comune di Crotone.
Al fine di sottolineare la vastità del territorio inquinato e la conseguente complessità dei necessari interventi di bonifica, vale la pena di ricordare che la perimetrazione del SIN comprende un territorio di circa 530 ettari a terra e 14,52 Km2 a mare, comprensivi di 1,32 Km2 di area portuale (13).
In precedenza, l'ordinanza del Presidente del consiglio dei ministri n. 3062 del 6 luglio 2000 ha attribuito al commissario delegato per l'emergenza ambientale le competenze in materia di bonifiche, in luogo dei comuni e della regione: fatto questo che non ha avuto incidenza alcuna, a seguito del mutamento delle competenze, come si dirà di seguito.
In forza dei poteri riconosciutigli, l'ufficio del commissario delegato, cioè la presidenza della regione Calabria, nel mese di febbraio 2002, ha indetto la gara di appalto pubblica per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale del territorio.
La gara è stata vinta dalla «Fisia Italimpianti - gruppo Impregilo», dopo che, con ordinanza n. 4002 in data 11 luglio 2002, il TAR Lazio aveva respinto la richiesta di sospensiva, proposta dalla «Pertusola Sud» e dalla subentrante «Singea», società del «gruppo Eni», che peraltro avevano depositato un loro progetto di bonifica del territorio, denominato BASI.
Subito dopo l'espletamento della gara anzidetta, lo stesso decreto 26 novembre 2002 del Ministro dell'ambiente - che aveva definito la perimetrazione dei suddetti siti inquinati, già inseriti nei SIN - ha attribuito al commissario delegato per l'emergenza rifiuti - istituito con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 12 settembre 1997 - i poteri in merito alla gestione dei rifiuti speciali e pericolosi, nonché in merito alla bonifica dei siti industriali contaminati. Tali poteri erano già stati assegnati al presidente della regione Calabria nella sua qualità di commissario delegato per l'emergenza ambientale dal Ministro dell'Interno, delegato al coordinamento della protezione civile, con ordinanza n. 2696 del 21 ottobre 1997.
La gestione straordinaria sarebbe dovuta essere una esperienza transitoria e limitata nel tempo, per superare la fase emergenziale e consentire alla regione di continuare, autonomamente, la gestione ordinaria dello smaltimento dei rifiuti.
L'ufficio del commissario delegato per l'emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani nella regione Calabria, risalente all'ottobre 1997, a seguito di proroghe annuali ha continuato a funzionare e, ad oggi, ne è stata fissata la scadenza alla data del 31 dicembre 2011.
Al fine di completare il quadro informativo sulle competenze, va detto che con l'ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri

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n. 3645 del 22 gennaio 2008 - che ha prorogato ancora una volta la figura del commissario per l'emergenza rifiuti - è venuta meno l'attribuzione alla struttura commissariale dei poteri relativi ai lavori di messa in sicurezza di emergenza, bonifica e ripristino ambientale di tutte le aree comprese nel Sin (ex Pertusola, ex Montedison, ecc..).
Di conseguenza, il commissario per l'emergenza rifiuti ha comunicato allo stesso Ministero, con nota prot. n. 10170 del 16 giugno 2008, la cessazione delle attività di competenza e la riconsegna delle aree alla Syndial, effettuata in data 23 giugno 2008. (14)
In tale contesto, nonostante la drammaticità della situazione, l'esame del progetto definitivo, redatto dalla «Fisia Italimpianti - gruppo Impregilo», che nei primi mesi del 2002 si era aggiudicata la gara di appalto per la bonifica dei siti inquinati, è avvenuto solo due anni dopo e, cioè, in data 2 aprile 2004 nella conferenza di servizi indetta presso il Ministero dell'ambiente e chiamata a esprimere il suo parere sul progetto.
Va detto subito - fatti salvi i successivi approfondimenti - che, dopo il parere negativo su tale progetto espresso dagli enti interessati, non è successo nulla fino al mese di febbraio 2008, quando il contratto di appalto con la «Fisia Italimpianti» è stato risolto, a seguito della condanna della stessa società alla pena accessoria dell'interdizione dai pubblici appalti, comminata dal tribunale di Napoli.
A fronte della situazione di stallo nei rapporti con la suddetta «Fisia Italimpianti» l'attenzione del commissario per l'emergenza rifiuti e del Ministero dell'ambiente si è spostata sulla «Syndial SpA», proprietaria dei siti inquinati e facente parte del «gruppo Enichem», che già aveva presentato un proprio progetto di bonifica (cosiddetto BASI), quale soggetto obbligato alla bonifica, in forza delle disposizioni contenute nel decreto legislativo. n. 152 del 2006.
Nel frattempo, tuttavia, i danni all'ambiente sono aumentati, visto che, in una delle tante conferenze dei servizi tenutasi presso il Ministero dell'ambiente e, precisamente, già nella conferenza di servizi istruttoria del lontano 25 settembre 2003 sono stati esaminati gli esiti degli accertamenti analitici, eseguiti dall'ARPACAL, su campioni di prodotti agricoli coltivati nelle aree adiacenti gli stabilimenti «ex Pertusola Sud», che hanno posto in evidenza livelli di concentrazione di taluni metalli pesanti, in particolare piombo e cadmio, superiori ai limiti di legge (15) (fogli nn. 67 e 68, allegati al «Libro Bianco» dell'associazione ambientalista «Fabbrikando l'avvenire», doc 310/1).
In conseguenza di tale situazione, con nota in data 8 ottobre 2003 (prot. no 9945/RIBO/D1/B), il Ministero dell'ambiente ha chiesto al comune di Crotone provvedimenti urgenti, finalizzati all'inibizione della coltivazione e al consumo dei prodotti agricoli sui terreni ricadenti nel perimetro del sito oggetto di inquinamento e il comune di Crotone si è adeguato, disponendo, con ordinanza no 530 del 17 ottobre 2003, l'immediata inibizione della coltivazione e del consumo dei prodotti agricoli provenienti dai terreni di cui sopra. Tuttavia,

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considerato il tipo di economia agricola che caratterizza la zona, non è dato conoscere se la suddetta ordinanza sia stata rispettata, né quali misure siano state in concreto adottate per assicurarne il rispetto, né infine, a distanza di ormai molti anni, quale sia la situazione attuale.
È evidente, comunque, che si è in presenza di un vero e proprio disastro ambientale, in ordine al quale, tuttavia, nessuna seria iniziativa finora è stata presa.
Tutte le principali aree sono state inserite all'interno del sito di interesse nazionale di Crotone, proprio al fine di consentire l'intervento del Ministero dell'ambiente e, pur tuttavia, ad oggi non sono state intraprese iniziative concrete per i necessari e urgenti interventi di bonifica.
La pluralità delle competenze ha anzi determinato un vero e proprio ingorgo amministrativo nel quale, per la necessità di trovare l'accordo unanime di tutti i soggetti interessati, sono state assunte solo decisioni di carattere generale, prive di ogni carattere operativo. Ad oggi, le opere di bonifica, più volte programmate, non sono ancora iniziate.
Tutto ciò a fronte della eccezionale gravità dell'inquinamento, dal momento che i residui tossico-nocivi provenienti dall'area ex Pertusola non sono limitati alla terraferma, ma hanno invaso anche tutto il litorale marino crotonese, arrivando a colpire anche l'area marina protetta di Isola Capo Rizzuto, dove una relazione del Consorzio interuniversitario per le scienze del mare (CoNISMa) ha accertato un livello di arsenico molto elevato rispetto alla norma, escludendo, però, che esso provenga dalle acque del mare.
A tale proposito il dottor Dolcino Favi, procuratore generale presso la Corte d'appello di Catanzaro, nell'audizione del 3 dicembre 2009, ha riferito che, secondo la tesi del CoNISMa, scientificamente acclarata, si tratta di residui industriali, con tutta probabilità, provenienti anch'essi dall'area ex Pertusola di Crotone, residui che, attraverso le acque piovane si sono dapprima infiltrati nelle falde acquifere e per poi finire in mare.
Tale rilevante circostanza si deduce agevolmente dal fatto che allontanandosi dalla costa il livello di arsenico, invece di aumentare, diminuisce, segno evidente del fatto che gli agenti inquinanti provengono dalla terra ferma e non dal mare.
Anche l'allora assessore regionale all'ambiente, Silvestro Greco, nel corso dell'audizione, in data 1o dicembre 2009, ha parlato di un'area di fronte alla zona di Crotone - un tratto di mare di almeno due miglia - dove vi è una colonna di sedimento estremamente contaminata di metalli pesanti.
Al riguardo, il doc. 220/2, contenente la relazione del presidente della provincia di Crotone, Stanislao Zurlo, riporta a pagina 8 una tabella con i dati risultanti dalle analisi effettuate, nell'anno 2007, dal laboratorio chimico-tossicologico del dipartimento provinciale di Cosenza dell'Arpacal sui sedimenti marini, dai quali emerge una grave situazione di inquinamento dovuto al superamento dei valori limite dei già citati parametri chimici.
A fronte di tale programma, allo stato, è stata realizzata solo la nuova «banchina sud» del porto di Crotone, ma non è stato risolto il grave problema dell'inquinamento, rilevato dall'Arpacal nei sedimenti

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marini alle profondità da 9 a 12 metri, in quanto nella conferenza di servizi ci si è limitati a richiedere ulteriori approfondimenti analitici di sedimenti marini, da prelevare a maggiore profondità, di cui non si conosce l'esito (v. doc. 220/2 pagina 8).
Dopo ormai molti anni, nessun intervento è stato effettuato per riportare il sito in questione alle condizioni di normalità.

XI.8 - La mancata bonifica dei siti inquinati ricompresi nel SIN di Crotone

Osserva questa Commissione che le vicende penali, con i relativi sequestri predisposti dall'autorità giudiziaria, sono di molto successive allo svolgimento del lungo, quanto inconcludente, iter amministrativo svolto per affrontare il problema dei numerosi siti inquinati della provincia di Crotone e, in particolare, del capoluogo, nonché dei comuni di Cassano allo Ionio e di Cerchiara di Calabria, posti nella provincia di Cosenza.
Un iter del quale si è già fatto cenno e che vale la pena di ripercorrere, per sommi capi, perché costituisce uno spaccato dell'inefficienza di tutte le pubbliche amministrazioni, nazionali e locali, deputate ad affrontare la situazione di disastro ambientale che coinvolge l'intero territorio crotonese.
Il presidente della provincia di Crotone, Stanislao Zurlo, in merito alla problematica dei rifiuti provenienti dallo stabilimento «ex Pertusola Sud», con la citata nota in data 1o dicembre 2009 (doc. 220/2), ha precisato, in ordine alle competenze, che, anche per gli interventi di bonifica dei siti come per i rifiuti, le funzioni tecnico-amministrative sono state demandate all'ufficio del commissario per l'emergenza rifiuti, mentre l'approvazione dei piani di caratterizzazione e dei progetti preliminari e definitivi di bonifica delle aree di Crotone spetta al Ministero dell'ambiente, trattandosi di sito interesse nazionale.
Tanto premesso, il presidente della provincia di Crotone osserva che, nel corso degli anni, sono state numerose le conferenze di servizi ministeriali, a partire da quella in data 26 marzo 2003 per finire all'ultima in data 22 ottobre 2009, indette - ai sensi dell'ex articolo 14 della L. 241/90 - presso gli uffici della direzione generale per la qualità della vita del Ministero dell'ambiente, cioè presso gli uffici del dottor Gianfranco Mascazzini, in servizio all'epoca dei fatti.
Tali conferenze di servizi hanno visto la partecipazione del rappresentante del Ministero, del commissario delegato per l'emergenza ambientale e, a partire dal 2002, del commissario per l'emergenza rifiuti, di tutti gli enti territoriali (regione, comune, provincia), dei soggetti obbligati (Syndyial SpA), nonché degli organismi di controllo (Iss, Asp, Apat oggi Ispra e Arpacal).
Nulla è però accaduto, poiché la «Syndial» non ha rispettato gli impegni assunti, come riferisce il presidente della provincia di Crotone, Stanislao Zurlo, il quale, alla data di trasmissione della relazione a questa Commissione d'inchiesta (1o dicembre 2009), ha dovuto constatare che «la suddetta società non ha, a tutt'oggi, provveduto ad alcun intervento di bonifica, né di sostanziale messa in sicurezza di emergenza nei siti di interesse nazionale, al fine di


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tutelare la salute pubblica ed a salvaguardia dell'ambiente, secondo le modalità riportate nello stesso decreto direttoriale», né, comunque, ha attivato la procedura operativa e amministrativa di cui all'articolo 242, comma 2, del decreto legislativo n. 152 del 2006.
Nel frattempo, in relazione ai rifiuti provenienti dallo stabilimento «ex Pertusola Sud» di Crotone, sono intervenuti, due sequestri da parte del GIP presso il tribunale di Crotone ed è questa l'unica novità di rilievo nel corso di tanti anni di inerzia da parte delle pubbliche amministrazioni coinvolte. Con il primo sequestro, in data 22 settembre 2008 (n. 1727/00 RG/GIP, proc. pen. n. 1138/99 RGNR mod. 21), è stato disposto il sequestro preventivo «di 18 aree, di cui 16 ricadenti nel comune di Crotone (Kr), una nel comune di Cutro (Kr) ed una nel comune di Isola Capo Rizzuto (Kr), oggetto di abbancamento ed interramento di rifiuto speciale pericoloso non ammissibile a procedura semplificata di recupero rappresentato da materiale denominato "loppa d'altoforno" e "cubilot", utilizzato invece del conglomerato idraulico catalizzato (CIC) e proveniente dallo stabilimento "Pertusola sud"».
Con il secondo sequestro, in data 11 maggio 2009 (n. 1727/00 RG/GIP, in relazione allo stesso procedimento penale), è stato, invece, disposto il sequestro preventivo del soprasuolo e del sottosuolo «di ulteriori 6 aree», ricadenti nel comune di Crotone (Kr), oggetto di abbancamento e interramento dello stesso rifiuto speciale pericoloso.
La situazione creatasi nel circondario di Crotone è di eccezionale gravità, posto che, come si legge anche nel documento del presidente della provincia, «dalle risultanze analitiche, considerazioni e relative tabelle eseguite e redatte dal dipartimento di chimica dell'università della Calabria, su incarico della procura della Repubblica di Crotone, è emerso un forte indice di inquinamento sul suolo superficiale (top-soil), nel sottosuolo e nelle falde acquifere, nelle quali sono stati riscontrati elementi chimici (metalli pesanti, in primis arsenico, ed in varie misure di piombo, zinco, cadmio, cobalto, rame vanadio, berillio, ferro la cui concentrazione è superiore ai limiti di legge e per siti ad uso verde pubblico e privato residenziale)». Nel suddetto documento si precisa che «il materiale inquinante riscontrato è sicuramente nocivo non solo per l'ambiente, ma anche per la salute dell'uomo, specie se esposto a pH acido, tanto che il sequestro preventivo dei siti è stato disposto anche al fine di impedire la movimentazione del sottosuolo con eventuale diffusione di contaminanti».
Circostanza quest'ultima confermata dalle sopra riportate conclusioni del consulente tecnico della procura di Crotone.
Peraltro deve essere sottolineato che solo cinque dei ventidue siti sequestrati nel territorio del comune di Crotone rientrano nei siti di interesse nazionale, alla cui bonifica è deputato il Ministero dell'ambiente.
Per gli altri diciassette siti inquinati, tra cui quelli sui quali insistono le scuole, la bonifica è di competenza del comune di Crotone, che nei mesi scorsi, utilizzando fondi messi a disposizione dalla regione, ha disposto un piano di caratterizzazione, che prevede l'esecuzione di «almeno 270 carotaggi (cioè prelievi di campioni) e la realizzazione di 81 piezometri per la verifica della qualità dell'acqua di falda».
In tal modo acclarata, senza ombra di dubbio, la situazione di disastro ambientale in cui versa il territorio di Crotone, si rende

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opportuna una disamina dei motivi della mancata bonifica dei siti inquinati compresi nel SIN. Si tratta di problema che investe non solo le aree sulle quali insistevano gli stabilimenti ex Pertusola ed ex Montedison, ma anche tutti gli altri siti - oggetto di sequestro da parte dell'autorità giudiziaria - nei quali sono stati dispersi i residui nocivi delle lavorazioni dei due stabilimenti industriali.
Partendo dal resoconto della situazione, quale prospettato dal presidente della provincia di Crotone, Stanislao Zurlo, il primo motivo può essere ravvisato nella pluralità delle competenze suddivise tra il Ministero dell'ambiente, il commissario delegato per l'emergenza ambientale e, a partire dal mese di gennaio 2002, dal commissario per l'emergenza rifiuti, la provincia e il comune, competenze accompagnate dal diritto di intervento di tutti i vari enti tecnici e di controllo (ASP, APAT oggi ISPRA, ARPACAL, ASL, ISS).
Ciascuno dei vari enti interessati è effettivamente intervenuto nell'annosa vicenda, ponendo problemi più che offrendo soluzioni, a fronte del drammatico inquinamento ambientale che investe l'intero habitat di Crotone.
In tale contesto, con riferimento ai siti di interesse nazionale, si inserisce anche il comportamento della «Syndial SpA», nella sua qualità di proprietaria dell'ex Pertusola Sud, la quale - tra le altre - ha ignorato la direttiva impartita dalla direzione generale del Ministero dell'ambiente (16) affinché provvedesse all'immediata attuazione degli interventi di messa in sicurezza d'emergenza della falda e dei suoli e, con nota del 7 novembre 2003, ha risposto al Ministero, distinguendo le problematiche connesse all'area compresa all'interno del sito ex Pertusola Sud da quelle connesse all'area esterna (v. nota ministeriale del 27 gennaio 2004).
In particolare, per l'area interna, la «Syndial SpA» - richiamando l'ordinanza ministeriale n. 3149 del 1o ottobre 2001 del Ministero dell'interno - ha sostenuto che l'adozione degli interventi di messa in sicurezza di emergenza, caratterizzazione e bonifica del sito non erano di competenza del Ministero dell'ambiente, bensì dell'ufficio del commissario delegato per l'emergenza ambientale nel territorio della regione Calabria.
Viceversa, per l'area esterna, la «Syndial SpA» si è rifiutata tout court di adempiere a quanto richiesto dal Ministero dell'ambiente, sostenendone l'illegittimità, sul presupposto che non sussistevano elementi di attribuzione di responsabilità dell'inquinamento a suo carico (v. citata nota ministeriale del 27 gennaio 2004).
Tuttavia, con successiva nota del 2 dicembre 2003, la Syndial - con riferimento, quindi, alla sola area interna - ha comunicato di voler procedere agli interventi di demolizione degli impianti e strutture industriali presenti nello stabilimento ex Pertusola Sud, a tutela dell'incolumità delle persone e dei dipendenti presenti nel sito.
A tale dichiarazione d'intenti non è seguita alcuna concreta attività da parte della Syndial, con riferimento alla bonifica dell'area compresa nello stabilimento «ex Pertusola».

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Né, peraltro, alcuna attività è stata posta in essere da parte della «Fisia Italimpianti - gruppo Impregilo» che in precedenza aveva vinto la gara di appalto dei lavori di bonifica di tutti i siti inquinati.
Ai fini della valutazione della vicenda relativa al contratto «Fisia Italimpianti» appare rilevante la ricostruzione fornita dal capo di gabinetto del Ministero dell'ambiente, Michele Corradino, nel corso dell'audizione del 23 settembre 2010: «...il commissario trasmette al Ministero dell'ambiente nell'ottobre del 2003 il progetto (di "Fisia Italimpianti") che viene preso in considerazione e deciso nella conferenza di servizi dell'aprile del 2004, circa sei mesi dopo. Anche da un'analisi comparata rispetto agli altri procedimenti amministrativi che sono svolti presso il Ministero, mi sembra che ci sia una congruità nei tempi: sei mesi sono un tempo abbastanza adeguato per la valutazione di un progetto così complicato. Successivamente ci sono delle altre conferenze di servizi: una dello stesso aprile del 2004, una del giugno 2004, una del settembre 2004 e una decisoria finale del settembre del 2004.
A partire da questo momento c'è tutta un'attività di sollecito per le inadempienze, forse, del commissario. In particolare, in una conferenza di servizi del luglio 2005 vengono stigmatizzati i ritardi di questo commissario; nel luglio del 2006, nuovamente, con una riunione tenuta presso la regione Calabria, il Ministero sollecita l'attività del commissario; nel luglio del 2006, in una successiva conferenza di servizi, stigmatizza i ritardi e impone delle attività urgenti, che tuttavia non vengono realizzate perché verranno realizzate soltanto successivamente, dopo che il commissario sarà decaduto dalla sua attività.
Per la verità, però, ci troviamo anche di fronte a un momento importante nel giugno del 2006 perché il commissario, diverso nella persona fisica, dubita della legittimità della gara e trasmette gli atti all'Autorità di vigilanza dei lavori pubblici.
L'Autorità di vigilanza dei lavori pubblici nel marzo del 2007 risponde, e risponde per la verità anche l'avvocatura dello Stato nel maggio del 2007. Tuttavia, la rinegoziazione che viene chiesta da quest'autorità non avviene perché il provvedimento del tribunale di Napoli del giugno del 2007 rende impossibile continuare a trattare con questa azienda che ha un provvedimento interdittivo da parte dell'autorità giudiziaria, e pertanto si interrompe il rapporto.
Il 22 gennaio del 2008 cessano i poteri commissariali e il 23 giugno dello stesso anno vengono riconsegnate le aree a Syndial. Il Ministero dell'ambiente, applicando l'articolo 250 del Codice dell'ambiente, che prevede che in via prioritaria le bonifiche devono essere compiute dal soggetto proprietario responsabile dell'inquinamento, richiede a Syndial di farsi carico degli obblighi di messa in sicurezza e di bonifica in qualità di proprietaria. Questo avviene con la conferenza dei servizi dell'8 gennaio del 2009.»
Pertanto, alle segnalazioni e ai solleciti del Ministero dell'ambiente, a partire dal giugno 2004, non ha fatto seguito alcuna richiesta da parte del commissario per l'emergenza rifiuti nei confronti della società appaltatrice, né risultano interventi di sollecito volti ad ottenere l'adeguamento del progetto di bonifica presentato dalla

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«Fisia Italimpianti», alla stregua delle osservazioni svolte dai soggetti intervenuti.
Solo molti anni più tardi e, precisamente, nel mese di febbraio 2008, il contratto di appalto con la «Fisia Italimpianti» è stato risolto, non per inadempimento della società appaltatrice delle opere di bonifica non realizzate, bensì in conseguenza della pena accessoria dell'interdizione a contrarre con la pubblica amministrazione, inflitta dal tribunale di Napoli.
Nel frattempo, si sono succedute numerose conferenze di servizi per deliberare sull'approvazione di elaborati progettuali e per rinnovare le richieste di intervento della struttura commissariale.
In particolare, nella conferenza di servizi del 19 luglio 2005, il dottor Gianfranco Mascazzini, all'epoca direttore generale della direzione per la qualità della vita del Ministero dell'ambiente, dopo aver sottolineato ai presenti il ritardo nell'attuazione degli interventi di messa in sicurezza d'emergenza delle acque di falda e della messa in sicurezza d'emergenza mediante demolizione dell'area Industriale «ex-Pertusola Sud», ha rinnovato al commissario delegato per l'emergenza rifiuti l'invito all'adozione - entro trenta giorni dalla data di ricevimento del verbale della citata conferenza di servizi - di una serie di provvedimenti, quasi che il tempo non fosse mai trascorso, quanto meno a partire dalla prima conferenza dei servizi del 26 marzo 2003.
Con riferimento all'area «ex Agricoltura», uno dei due siti inquinati compresi nell'area «ex Montedison», il dottor Mascazzini nella stessa conferenza dei servizi ha posto in evidenza la grave situazione di contaminazione dei suoli, dovuta al superamento della presenza di metalli (As, Cd, Hg), soprattutto nello strato superficiale e, per quanto riguarda le acque, anche di composti inorganici, idrocarburi e composti organici.
Inoltre, nella stessa area l'Apat, oggi Ispra, ha rilevato la presenza di fosfogessi che presentano concentrazioni di radioattività superiori, da 10 a 100 volte, alle concentrazioni presenti nelle fosforiti e ha pertanto richiesto alla «Syndial SpA» di realizzare una barriera di contenimento fisico per lo sbarramento delle acque di falda, in continuità con quella prevista nell'area ex Pertusola Sud, nonché di realizzare le relative opere di drenaggio, a monte della barriera medesima, finalizzate ad impedire la diffusione della contaminazione verso l'ambiente marino.
Allo stato, nessuna di tali opere è stata realizzata.
Va, inoltre, posto in evidenza che le varie conferenze di servizi tenute presso il Ministero dell'ambiente sono state precedute da molte riunioni istituzionali sul territorio calabrese.
In data 7 ottobre 2004 su richiesta del procuratore della Repubblica in Crotone, è stata indetta una riunione presso la prefettura di Crotone, concordata con il commissario delegato per l'emergenza rifiuti, allo scopo di esaminare sia le questioni relative alle procedure avviate per la messa in sicurezza e bonifica del sito di interesse nazionale, sia le attività di demolizione e di costruzione da effettuare.
In tale sede, la sezione di polizia giudiziaria NISA della procura della Repubblica di Crotone, con delega sui reati ambientali, ha

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sollevato la problematica della presenza delle fosforiti nella discarica «Farina - Trappeto».
Fatto è che, considerata la delicatezza dei problemi in questione, tutte le autorità locali, compresa quella giudiziaria e le forze di polizia, che partecipavano alla suddetta riunione, si sono limitate a concordare sulla necessità di intensificare i controlli, in particolare sulle attività di demolizione, e hanno deciso di approfondire le attività di caratterizzazione, avviando appositi studi epidemiologici (sic!).
Nel corso degli anni non è accaduto nulla, fino ad arrivare all'ultima riunione presso il Ministero dell'ambiente, tenuta il 22 ottobre 2009 (vedi doc. 481/1 contenente la relazione in data 16 giugno 2010 del prefetto di Crotone, dottor Vincenzo Panico), nella quale è stato puntualizzato lo stato di attuazione degli interventi, come di seguito riportati:
1) è attiva la barriera delle acque di falda nell'area «ex Agricoltura»;
2) per l'attivazione dei pozzi nell'«area ex Pertusola», si attende l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria, in quanto si tratta di terreni sequestrati;
3) la demolizione degli stabilimenti interni all'«ex Pertusola» sarà attivata nelle prossime settimane;
4) l'esecutività del progetto complessivo di bonifica è condizionato al parere del nucleo VIA regionale sulla realizzanda specifica discarica, che dovrebbe situarsi in località Giammiglione del comune di Scandale ma, come si vedrà di seguito, la popolazione di tale comune è insorta contro la costruzione di una discarica, destinata a contenere i rifiuti nocivi provenienti dall'ex Pertusola;
5) è in corso di completamento la cantierizzazione della discarica «Farina-Trappeto», prima fase della messa in sicurezza, in ordine alla quale la sezione di polizia giudiziaria - Nucleo investigativo sanità e ambiente, in data 2 dicembre 2008, nel trasmettere al prefetto di Crotone i risultati delle analisi svolte dall'Arpacal, ha segnalato una concentrazione anomala di emissioni radioattive: «dagli elementi forniti si desume che nella suddetta località vi è una concentrazione superficiale Bop/cm2 almeno doppia del fondo Beta» (vedi doc. 481/1 cit. pagina 21).

A proposito di quest'ultimo sito, agli atti vi è l'ordinanza n. 2 del 12 maggio 2009 (all. 3 al doc. 220/2), con cui la provincia di Crotone - settore ambiente ha ordinato alla «Syndial SpA», nella qualità di proprietaria del sito, di procedere alla bonifica dell'ex discarica denominata «Farina-Trappeto», contenente materiali radioattivi, entro e non oltre trenta giorni dalla comunicazione della suddetta ordinanza.
A tale ordinanza - non eseguita dalla Syndial - ha fatto seguito, in data 24 settembre 2009, una riunione presso il Ministero dell'ambiente, nel corso della quale la società ha presentato il suo progetto che prevede la copertura temporanea dei rifiuti, la rimozione di fanghi


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e silicati da stoccare in area di deposito e la bonifica della discarica con rimozione del materiale.
Dalla relazione del prefetto di Crotone (doc. 481/1) risulta che, in esecuzione di quanto previsto, sono state effettuate attività di rimozione del terreno superficiale mediante utilizzo di escavatori, nonché operazioni di campionamento per la caratterizzazione dei rifiuti affioranti recuperati dall'arenile e stoccati in depositi temporanei
L'attività in questione è oggetto di attenta e costante azione di verifica da parte della provincia, da ultimo esplicitata con sopralluogo effettuato il 4 maggio scorso, che con successive relazioni ha informato i diversi enti interessati, in primo luogo il Ministero dell'ambiente, sullo stato degli interventi.
In particolare, i tecnici dell'amministrazione provinciale hanno rilevato, sia nell'area oggetto dei lavori, sia in quella immediatamente vicina che si estende fino alla foce del fiume Esaro e non soggetta ad interventi attuali, la presenza di minerali di fosforite e materiale vario, presumibilmente proveniente da scarico di scarti di lavorazione dell'ex stabilimento Montedison, nonché di fanghi misti di colore bianco grigiastro.
È stata inoltre rilevata la presenza di blocchi di materiale inerte con l'odore tipico e le caratteristiche dello zolfo.
In relazione a quanto sopra, la provincia ha chiesto a Syndial di voler redigere un progetto operativo anche per l'area denominata area 2, non ancora interessata da interventi, nonché di attendere le risultanze dei campionamenti dell'Arpacal per effettuare il conferimento in discarica del materiale rimosso, mentre l'area 1 è costituita dell'area marino-costiera prospiciente lo stabilimento ex Pertusola.
Il Ministero dell'ambiente, con nota del 4 maggio 2010, sulla base delle risultanze analitiche intermedie, ha richiesto all'ISPRA, all'Istituto superiore della sanità, al Ministero della salute, all'ASP ed alla regione Calabria, un parere tecnico per l'eventuale definizione ed adozione di ulteriori adeguati interventi.
A tale nota il Ministero, richiamando un rapporto acquisito in data 14 maggio 2010 dalla procura della Repubblica sulle attività di indagine in corso, ha fatto seguito con una richiesta, datata 27 maggio 2010, agli stessi enti di verificare, mediante idoneo sopralluogo, previa autorizzazione all'accesso dell'autorità giudiziaria, lo stato delle attività di messa in sicurezza dei luoghi e dei materiali interessati dai fenomeni di autocombustione nelle aree in oggetto nonché di indicare i necessari provvedimenti da adottare.
Da ultimo, il 9 giugno 2010, la procura della Repubblica ha portato ad esecuzione, attraverso il personale del comando provinciale della guardia di Finanza e del nucleo investigativo sanità ed ambiente, un provvedimento di sequestro probatorio della discarica in questione nonché un decreto di perquisizione degli uffici centrali della «Montedison SpA».
Secondo la ricostruzione degli investigatori l'area - che era autorizzata solo per lo smaltimento di materiale di risulta di scavi, costruzioni e demolizioni - sarebbe stata utilizzata per lo smaltimento di migliaia di tonnellate di rifiuti speciali, residui della lavorazione dei fertilizzanti prodotti nello stabilimento chimico.

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Infine, deve essere rimarcato che il prefetto di Crotone, nella relazione del 16 giugno 2010, ha sottolineato che il complesso dei lavori che dovrà essere effettuato, pari a circa 500 milioni di euro, è tale da fare ritenere plausibile un interesse dei gruppi criminali qui operanti ad un'infiltrazione nei relativi appalti. Proprio per tale ragione si è ritenuto opportuno approntare, d'intesa con la Confindustria provinciale, uno schema di protocollo volto a consentire, attraverso il gruppo interforze costituito ai sensi del decreto ministeriale 14 marzo 2003, una profonda attività di monitoraggio al fine di attuare, ove del caso, cautele antimafia analoghe a quelle previste dal decreto del Presidente della Repubblica n. 252 del 1998. Lo strumento pattizio in questione è stato stipulato il 10 maggio 2010 presso la prefettura di Crotone, alla presenza del sottosegretario di Stato all'Interno, Sen. Nitto Francesco Palma.
È stata prevista presso il Ministero dell'ambiente una riunione tecnica per fare un punto aggiornato della situazione, anche con riferimento agli interventi della società «Kroton Gres 2000 SpA», subentrata alla «Sasol Italy» nella proprietà dell'area industriale. Al riguardo lo stesso Ministero aveva già formalmente richiesto elementi alla «Sasol Italy», tenuto conto delle difficoltà operative della società acquirente dell'area.
Nella conferenza di servizi istruttoria del 26 luglio 2010 il Ministero dell'ambiente, ha richiesto alla società «Kroton Gres 2000»:
- l'avvio, entro 20 giorni dalla data della conferenza stessa, di idonei sistemi di messa in sicurezza d'emergenza in relazione alla contaminazione delle acque sotterranee da arsenico, alluminio, ammonio e solfati;
- la presentazione, entro 90 giorni dalla data della conferenza stessa, dei progetti di bonifica dei suoli, contaminati da arsenico, antimonio, cadmio, selenio, tallio, mercurio, piombo e cromo, e delle acque di falda.

Ad oggi non risulta pervenuta dall'azienda alcuna comunicazione o elaborato progettuale.
A conclusione di questo excursus storico dell'iter istruttorio relativo alla problematica della bonifica del sito di interesse nazionale, la nota del presidente della provincia di Crotone conclude che le varie conferenze di servizi e le «riunioni operative» effettuate in realtà hanno avuto solo «carattere di mera interlocutorietà», senza alcun segnale di concretezza nell'affrontare e risolvere l'annosa questione dell'inquinamento dei terreni, delle falde acquifere e dei fondali marini, determinato dalle pregresse attività industriali all'interno del sito in questione.
Va sottolineato che nel corso della gestione del commissario per l'emergenza rifiuti, dal 2002 al 2008, spettava allo stesso commissario e alla sua struttura, in virtù dei poteri loro conferiti con le varie ordinanze del Presidente del Consiglio dei ministri, attivarsi direttamente per dare attuazione alle decisioni assunte nelle numerose conferenze dei servizi svoltesi presso il Ministero dell'ambiente nel corso degli anni anzidetti.


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Solo dopo la fine della gestione commissariale, nel caso in cui il responsabile non provveda alle opere di bonifica del sito contaminato - nella specie, della Syndial, quale soggetto obbligato - l'eventuale esecuzione in danno è demandata, ai sensi dell'articolo 252, comma 5, del decreto legislativo n. 152 del 2006, al Ministero dell'ambiente in quanto titolare del procedimento amministrativo, che si avvale dell'Apat, oggi Ispra, dell'Istituto superiore di sanità e dell'Enea, nonché di altri soggetti qualificati pubblici o privati.
Per quanto fin qui esposto, la Commissione parlamentare d'inchiesta non può che fare proprie le conclusioni del presidente della provincia di Crotone, Stanislao Zurlo, e prendere atto del fallimento di tutte le istituzioni interessate alla bonifica del territorio di Crotone, con particolare riferimento alle strutture commissariali, che nel tempo si sono avvicendate con preoccupante frequenza - 8 commissari delegati anche per la problematica bonifiche dal 1997 al 2008 - e agli enti di controllo locali, che avevano il compito di garantire l'esecuzione degli interventi.
In tal senso occorre segnalare che i rapporti conflittuali instauratisi tra le strutture commissariali e gli uffici regionali preposti alle questioni ambientali (assessorato all'ambiente), posti in evidenza da Bruno Gualtieri, direttore generale del dipartimento ambiente della regione Calabria, nel corso della sua audizione del 23 settembre 2010, hanno fortemente influito sui ritardi nell'attuazione degli interventi di bonifica.
Una volta chiusa la gestione commissariale, va rilevato che dopo la risoluzione del contratto di appalto per la bonifica del territorio, concluso con la «Fisia Italimpianti» - avvenuta nel mese di febbraio 2008 - non è stata svolta altra gara di appalto. La bonifica del territorio è stata così affidata alla «Syndial», cioè alla società facente parte del «gruppo Enichem», responsabile dell'inquinamento ambientale di Crotone, in virtù delle disposizioni contenute negli artt. 3 bis e 239, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che hanno stabilito che la bonifica del territorio compete, in primo luogo, ai soggetti che lo hanno inquinato, in virtù del principio che «chi inquina paga», richiamato espressamente dall'articolo 239 citato, oltre che dall'art 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.
La «Syndial SpA», a sua volta, ha operato una netta distinzione tra la bonifica delle aree interne ai siti di sua proprietà e la bonifica delle aree esterne, sostenendo di non essere tenuta a bonificare queste ultime, non ravvisando profili di responsabilità a suo carico. In effetti, nella conferenza di servizi del 22 ottobre 2009, la «Syndial SpA» si è impegnata alla bonifica non dell'intero territorio della città di Crotone, ma solo delle aree industriali di sua proprietà e delle relative discariche a mare.
Fatto sta che, comunque, ad oggi - come è stato constatato anche da questa Commissione di inchiesta, nel corso del sopralluogo effettuato in data 11 marzo 2010 e dai consulenti tecnici nel successivo sopralluogo del 17 giugno 2010 - non risulta ancora attivata la demolizione degli stabilimenti interni all'«ex Pertusola», nonostante l'impegno di inizio lavori «nelle prossime settimane»,

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assunto dalla «Syndial SpA» nella conferenza di servizi del 22 ottobre 2009.
Sulla base di quanto deliberato dalle ultime conferenze dei servizi convocate dal Ministero dell'ambiente e delle dichiarazioni fornite dall'ingegner Sergio Polito, amministratore delegato di Syndial, nel corso dell'audizione del 23 settembre 2010 e del successivo aggiornamento fornito dallo stesso con nota del 28 febbraio 2011, si può rappresentare il seguente quadro sullo stato di avanzamento degli interventi di competenza Syndial nel SIN di Crotone-Cassano-Cerchiara:

A) Aree di stabilimento ex Pertusola sud, ex Agricoltura, ex Fosfotec

A.1) Caratterizzazione delle aree

La conferenza di servizi decisoria del 1o luglio 2003 aveva approvato con prescrizioni il «piano di caratterizzazione dei terreni e delle acque delle aree Enichem ex Agricoltura SpA trasmesso da Enichem (ex Agricoltura SpA) il 26 marzo 2003». I risultati della caratterizzazione sono stati esaminati nel corso della conferenza di servizi decisoria del 19 maggio 2005 che ne ha preso atto con prescrizioni.
Successivamente, la conferenza di servizi decisoria del 16 settembre 2004 approvava con prescrizioni il piano di caratterizzazione integrativa dell'area ex Pertusola Sud, trasmesso dal commissario per l'emergenza ambientale in Calabria il 30 agosto 2004. I risultati sono stati esaminati nel corso della conferenza dei servizi dell'11 luglio 2007 che ne ha preso atto con prescrizioni.
La conferenza dei servizi decisoria dell'11 luglio 2007 deliberava di chiedere alla «Syndial SpA» di presentare per le aree ex Fosfotec l'integrazione del piano di caratterizzazione che prevedesse almeno un sondaggio ogni 2 mila 500 m2 e, tuttavia, ad oggi l'integrazione del piano di caratterizzazione dell'area ex Fosfotec non risulta presentata.
La Syndial nel corso della conferenza di servizi del 26 luglio 2010 ha chiesto di poter effettuare l'integrazione solo nelle aree contaminate, dichiarando che avrebbe formulato una proposta.
Dal successivo aggiornamento fornito dall'ingegnere Sergio Polito, con nota del 28 febbraio 2011, si apprende che Syndial è in attesa degli esiti di un sopralluogo da parte di Arpacal e Provincia, richiesto dal Ministero dell'ambiente conferenza di servizi del 20 dicembre 2010, al fine di stabilire «se la contaminazione rilevata nell'area sia ascrivibile alle attività ex Fosfotec».
A questo punto, appare evidente che, a distanza di quasi tre mesi dalla deliberazione assunta nella conferenza di servizi, tale sopralluogo volto a stabilire le responsabilità dell'inquinamento non solo è del tutto tardivo rispetto alla cessazione delle attività inquinanti, ma finora non ha dato esito alcuno.

A.2) Acque di falda

La conferenza di servizi del 23 luglio 2009 ha deliberato di ritenere approvabile la revisione del progetto di bonifica delle acque


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di falda - barriera idraulica lungo costa in corrispondenza aree di proprietà Syndial - e la realizzazione dell'impianto di trattamento acque che sarà realizzato in zona «ex Agricoltura» richiedendo l'attivazione di idonei interventi di messa in sicurezza della falda, nelle more dell'emanazione del decreto di approvazione del progetto di bonifica.
Nell'occasione, è stato inoltre richiesto alla Syndial di verificare, mediante idoneo sistema di monitoraggio, l'efficacia della barriera idraulica fronte mare con l'impegno, in via subordinata, di progettare un'opera di confinamento fisico fronte mare. La Syndial ha comunicato di aver attivato in data 3 dicembre 2009 l'emungimento delle acque di falda dai piezometri esistenti, già realizzati dal Commissario per l'emergenza ambientale in Calabria.
Successivamente, nel corso della conferenza di servizi del 26 luglio 2010, la Syndial ha comunicato che i tempi di completamento dell'intera barriera idraulica sono di circa 2 anni (2012), dal momento che il decreto di approvazione del progetto le era stato notificato solo nel mese di febbraio 2010, mentre il sistema di monitoraggio non era stato attivato in quanto la barriera ad oggi non è stata ancora completata, essendo stata realizzata solo nella misura di circa il 40 per cento.
Sul punto, va sottolineato che l'ingegner Sergio Polito, presidente della Syndial, nel corso dell'audizione del 23 settembre 2010, davanti a questa Commissione, si è impegnato alla costruzione di ulteriori 60 pozzi, destinati a integrarsi a quelli già esistenti costruiti negli anni precedenti, con un impianto di trattamento delle acque di falda di notevole capacità, pari a circa 200 m3 l'ora di acque emunte. L'ingegner Polito ha anche indicato nella fine del 2013 la bonifica della falda e quindi la messa in sicurezza totale di tutto il sito di Crotone.
Nel successivo aggiornamento, trasmesso con nota del 28 febbraio 2011, lo stesso ingegner Polito comunica di «aver appaltato le attività di campo e di ingegneria finalizzate all'approfondimento del quadro idrogeologico del sito e alla successiva integrazione/revisione del modello idraulico e progettazione esecutiva».
Va osservato che se, come dichiarato da Syndial nella nota suddetta, la progettazione esecutiva verrà completata entro il 2011 e l'intervento di messa in sicurezza non inizierà prima del 2012, è evidente che il termine del 2013 indicato a questa Commissione d'inchiesta dall'ingegnere Polito per la bonifica della falda appare del tutto «ottimistico».
A titolo informativo si ricorda che il decreto legislativo n. 152 del 2006 e successive modifiche e integrazioni prevede che gli interventi volti ad impedire la diffusione della contaminazione ad altre matrici ambientali, dovrebbero essere completati entro 48 ore dall'accertamento della contaminazione. Pertanto va stigmatizzata ancora una volta una ingiustificabile inerzia da parte dell'Azienda.

A.3) Suoli

La conferenza di servizi decisoria del 23 luglio 2009 aveva ritenuto approvabile il progetto di bonifica dei suoli delle aree ex Pertusola,


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ex Fosfotec ed ex Agricoltura, a condizione che fossero rimossi tutti i rifiuti presenti nelle aree, così come determinati sulla base di una verifica in loco da parte di Iss, Ispra, Arpacal e provincia di Crotone.
Il sopralluogo è stato effettuato il 29 settembre 2009 nelle aree non sottoposte a sequestro e ne è stata evidenziata la presenza di uno strato di materiale di circa 15 m3 sopra una rampa di carico di un impianto posto alle spalle del forno cubilot e di un altro piccolo cumulo di materiale, posto di fronte al capannone delle celle elettrolitiche, di circa 10 m3.
Nel corso della conferenza di servizi del 26 luglio 2010 è stata ribadita la richiesta di rimozione dei rifiuti presenti nelle 3 aree di stabilimento, così come determinati nel corso del sopralluogo. L'ingegner Sergio Polito, nel corso dell'audizione del 23 settembre, ha dichiarato che entro il 2013 sarà completata la bonifica dei suoli presenti nelle aree di stabilimento, senza tuttavia chiarire se la rimozione dei rifiuti presenti nella aree di stabilimento, quale intervento di messa in sicurezza preliminare alla bonifica, è stata ad oggi attuata.
Nella successiva nota del 28 febbraio 2011, l'ingegnere Sergio Polito ha dichiarato di aver provveduto, a valle del decreto di autorizzazione in via provvisoria emanato dal Ministero dell'ambiente, in data 25 gennaio 2011, ad avviare le attività preliminari e propedeutiche alla progettazione esecutiva - assegnazione incarichi per test di laboratorio, indagini di campo, analisi di laboratorio ed ingegneria esecutiva - delle tecnologie individuate.
Sul punto va rilevato che le valutazioni relative all'applicabilità delle tecnologie selezionate avrebbero dovuto essere eseguite già in fase di presentazione del progetto, dal momento che il decreto legislativo n. 152 del 2006 e successive modifiche e integrazioni, ha eliminato la fase di progettazione preliminare proprio allo scopo di accelerare l'attuazione degli interventi.
Dunque, appare preoccupante il ritardo dell'azienda nell'attuazione degli interventi laddove dichiara di voler avviare le attività di bonifica del I lotto - e quindi non di tutta l'area - solo nel mese di ottobre 2011 tanto più alla luce della considerazione che la tecnologia selezionata, la fitodepurazione che prevede l'utilizzo di piante per la rimozione degli inquinanti, non è tra quelle maggiormente «ingegnerizzate», sicché attività di studio così lunghe non sono giustificabili.
In merito ai rifiuti presenti nelle aree di stabilimento l'ingegner Polito, sempre nella nota del 28 febbraio 2011, ha dichiarato che tali rifiuti non sono attribuibili alle attività condotte da Syndial. In contrario, va osservato che Syndial, quantomeno in qualità di custode dell'area, è comunque responsabile della gestione di tali rifiuti che, come stabilito dalla normativa vigente, costituiscono una potenziale sorgente di contaminazione per suolo e acque sotterranee. È dunque inaccettabile che si rimanga in attesa di ulteriori verifiche.

B) Piano di «decommissioning» degli impianti presenti nelle aree di competenza Syndial

Il piano, richiesto in sede di conferenza dei servizi del 23 luglio 2009, è stato trasmesso nel mese di settembre 2009 e il Ministero ha


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condotto l'istruttoria congiuntamente ad Ispra formulando, nel corso della conferenza di servizi del 26 luglio 2010 alcune prescrizioni, ma dando il via libera all'attuazione del cronoprogramma
L'ingegner Polito, nel corso della suddetta audizione, ha dichiarato che entro il 2011 tutte le demolizioni saranno completate. Le demolizioni del primo lotto sono iniziate il 1o settembre 2010.
Nella nota trasmessa alla Commissione d'inchiesta in data 28 febbraio 2011, Syndial ha comunicato di non avere ancora ricevuto risposta, dal mese di febbraio 2010, dal Comune di Crotone e dalla Soprintendenza ai beni archeologici della Calabria, in merito all'eventuale interesse locale al mantenimento di alcuni edifici industriali. Si evidenzia, anche in questo caso, un grave ritardo degli enti locali.

C) Iniziative per la realizzazione di una discarica di servizio da realizzare in località Giammiglione (KR)

La direzione per la tutela del territorio e delle risorse idriche ha comunicato che il progetto di bonifica trasmesso dalla Syndial in data 5 dicembre 2008 e acquisito dal Ministero dell'ambiente prevedeva, tra l'altro, la realizzazione di una discarica di servizio agli interventi di bonifica da realizzare in località Giammiglione, che è una frazione del Comune di Crotone, ai confini con il Comune di Scandale, comune interno a 350 s.l.m., inserito nella comunità montana «Alto Marchesato Crotonese».
In particolare, il progetto prevedeva: 1) la realizzazione di una nuova discarica di servizio agli interventi di bonifica; 2) gli interventi di rimozione delle discariche a mare ex Pertusola sud ed ex Fosfotec e ripristino morfologico delle aree; 3) gli interventi di rimozione degli abbancamenti delle ferriti di zinco presso i siti di Chidichimo, Contrada Caprara e Tre Ponti nei comuni di Cassano e Cerchiara; 4) lo studio di fattibilità tecnico-economico-ambientale per la realizzazione di una cinturazione fisica di confinamento fronte mare; 5) l'intervento di bonifica delle acque di falda; 6) l'intervento di bonifica dei suoli nelle aree ex Pertusola, ex Agricoltura ed ex Fosfotec.
Come si è detto, quanto alla discarica, si prevedeva che il relativo impianto fosse ubicato in località Giammiglione, nel comune di Crotone, al confine con il territorio del comune di Scandale.
Tale sito è già stato oggetto, a partire dal novembre del 1998, di una procedura di valutazione d'impatto ambientale relativa a una discarica di II categoria, tipo B, per lo smaltimento dei rifiuti prodotti nell'area industriale di Crotone su iniziativa del consorzio per il nucleo di industrializzazione di Crotone.
Sul punto, va sottolineato:
1) che con decreto n. 6087, dell'8 maggio 2001, dunque quasi dieci anni fa, il Ministero dell'ambiente aveva espresso giudizio positivo di compatibilità ambientale con prescrizioni su tale progetto;
2) che il sito, individuato catastalmente del comune di Crotone al foglio 19, particelle 2 e 3, ha superficie complessiva di circa 600 mila m2 e una volumetria pari a 1 milione e 500 mila m3 e che presso l'impianto di Giammiglione è previsto il conferimento dei rifiuti


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presenti nelle discariche a mare ex Fosfotec ed ex Pertusola in comune di Crotone, nei siti di Tre Ponti e Chidichimo in comune di Cassano allo Ionio e nel sito di Capraro in comune di Cerchiara di Calabria;
3) che, in particolare, nella discarica di Giammiglione è previsto il conferimento: a) del terreno contaminato proveniente dalla realizzazione della diaframmatura dell'area messa in sicurezza permanente presso lo stabilimento ex Agricoltura; b) del materiale di risulta proveniente dalla demolizione area ex ferriti presso lo stabilimento ex Pertusola; c) del materiale di risulta proveniente dalle demolizioni dei manufatti presenti presso gli stabilimenti ex Fosfotec, ex Agricoltura ed ex Pertusola; d) del materiale di risulta proveniente dall'esecuzione degli scavi di scotico delle aree interne gli stabilimenti ex Fosfotec, ex Agricoltura ed ex Pertusola; e) del terreno e materiale contaminato presente all'interno degli stabilimenti (CIC, ecc.); f) dei fanghi provenienti dall'impianto di trattamento acque di falda;
4) che i rifiuti/materiali verranno conferiti all'impianto tal quali, cioè senza alcun trattamento, secondo quanto riportato nei progetti operativi di bonifica specifici per ciascuna area di intervento, dal momento che l'impianto in progetto è classificato come discarica per rifiuti pericolosi, ai sensi dell'articolo 4, punto c), del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n.36.

La conferenza di servizi decisoria dell'8 gennaio 2009 ha deliberato di ritenere approvabile il progetto della nuova discarica asservita agli interventi di bonifica, sub condizione dell'approvazione di VIA e AIA, da parte della regione Calabria e che fossero rispettate le prescrizioni formulate dalla conferenza di servizi istruttoria del 19 dicembre 2008. La medesima conferenza di servizi decisoria, ha deliberato, inoltre, di chiedere alla Syndial che l'approntamento della discarica avvenisse entro 90 giorni dall'acquisizione delle formali approvazioni.
In tale contesto, la direzione per la tutela del territorio e delle risorse idriche del Ministero dell'ambiente, in sede di conferenza dei servizi del 26 luglio 2010, ha richiesto alla regione Calabria lo stato di avanzamento della procedura amministrativa finalizzata alla formulazione della pronuncia di compatibilità ambientale sulla discarica di Giammiglione, per la quale la Syndial ha presentato richiesta alla regione.
La regione Calabria ha dichiarato che la pronuncia di compatibilità ambientale sarebbe stata disponibile entro circa 30 giorni, preannunziando tuttavia un probabile esito negativo della stessa.
In conseguenza di tale orientamento della regione, il presidente della Syndial - nel corso della sua audizione del 23 settembre 2010 - ha dichiarato che nel caso, molto probabile, fosse stata negata l'autorizzazione alla costruzione della nuova discarica di Giammiglione, d'accordo anche con il Ministero dell'ambiente, era stata già studiata la messa in sicurezza permanente delle discariche in situ.
Pertanto, le discariche che si trovano all'interno del sito di interesse nazionale di Crotone sono destinate a rimanere lì dove si trovano con una messa in sicurezza tombale completa di tutte le discariche esistenti.


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Tuttavia, nel corso della sua audizione, l'ingegnere Polito non ha indicato alcuna data per il completamento della messa in sicurezza permanente. Non vi è dubbio che le relative opere non saranno completate entro il 2013, ma presumibilmente nel 2015-2016, dal momento che - allo stato - si è ancora alle attività di ingegneria preliminari, non essendo, peraltro, stato formalmente comunicato il diniego della regione sulla discarica di Giammiglione.
All'esito dell'excursus anzidetto e alla luce di quanto ha dichiarato il dottor Gianfranco Mascazzini, ex direttore generale della direzione generale qualità della vita del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, nel corso dell'audizione del 12 aprile 2011, questa Commissione d'inchiesta ha non poche perplessità sulla scelta operata a suo tempo dalla Syndial SpA e approvata dal Ministero dell'Ambiente, in ordine al trasferimento dei rifiuti nocivi dalle aree inquinate dell'ex Pertusola e dell'ex Fosfotec alla costruenda discarica di Giammiglione, località ubicata nello stesso territorio comunale.
In via generale, va osservato che, quando si movimentano milioni di metri cubi di materiale da un posto noto a un altro, sussiste il rischio che qualcosa non funzioni. Alla certezza di trasferire l'inquinamento da un sito a un altro si accompagna il rischio concreto di vedere disperso il materiale da bonificare su una ben più ampia superficie e, quindi, con spese e danni ancora maggiori, tanto più nel caso di specie, che prevedeva centinaia di migliaia di viaggi di camion, che avrebbero dovuto attraversare l'intera costa crotonese carichi di molti milioni di metri cubi di materiali contenenti scoria cubilot, fosfogessi e fibretta d'amianto, da trasferire nella discarica di Giammiglione, località sita a ridosso della stessa città di Crotone in una zona collinare.
In realtà - come ritenuto dal dottor Mascazzini nel corso della sua audizione - appare preferibile la bonifica in situ e cioè l'opportunità di chiudere i materiali inquinanti all'interno di un volume confinato e di trattarli sul posto, evitando escavazione e trasporto degli stessi. Il meccanismo dell'isolamento e del marginamento con tecniche sempre più raffinate, che oggi presentano un ragionevole rapporto costi/benefici, consente di attivare e scommettere sulle tecnologie di bonifica in situ.
In tal modo si evita il pericolo della fuoriuscita dell'inquinante grazie all'isolamento - chi se ne occupa sa quali regole rispettare - ed è anche possibile costruire nuovamente sui siti interessati, sia pure con una serie di cautele.
Alla luce delle condivisibili considerazioni del dottor Mascazzini e con riferimento alle aree ex Pertusola ed ex Fosfotec - che versano in stato di inquinamento permanente ormai da molti anni - si può quindi affermare che meglio sarebbe stato isolarle e iniziare il trattamento in loco sin dall'epoca in cui la bonifica era affidata al Commissario delegato per l'emergenza (2002-2008) e anche prima, provvedendo a inertizzare il materiale inquinato, piuttosto che affidarsi a una costruenda nuova discarica in cui trasferire il suddetto materiale.
Tale discarica, peraltro, è stata oggetto di forti manifestazioni pubbliche di contestazione da parte della stessa popolazione crotonese che, all'evidenza, vedeva nella stessa non la soluzione del problema

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dell'inquinamento, bensì il suo aggravamento (cfr. relazione del Prefetto di Crotone del 16/06/2010, pag. 12 in doc. 481/1).
Infine, per quanto riguarda l'inquinamento marino, essendo impossibile la rimozione dell'inquinante, si sarebbe potuto realizzare, secondo il dottor Mascazzini, una cassa di colmata nella quale far refluire i sedimenti contaminati.
Alla luce di queste poche considerazioni appare evidente che è stato perso inutilmente un gran tempo senza che le problematiche connesse alla bonifica del SIN di Crotone siano state - ancora ad oggi - in alcun modo neanche affrontate.

D) Caratterizzazione dell'arenile a valle delle discariche a mare e ripristino ambientale e morfologico del medesimo

La conferenza di servizi decisoria dell'8 gennaio 2009 ha deliberato di approvare il progetto degli «Interventi di rimozione delle discariche Ex Pertusola ed ex Fosfotec», che prevede anche il completamento delle opere di difesa dal mare e la ricomposizione morfologica delle aree, a condizione che siano rispettate le prescrizioni sopra riportate formulate dalla conferenza di servizi istruttoria del 19 dicembre 2008.
La medesima conferenza di servizi decisoria ha deliberato, inoltre, di richiedere alla Syndial la caratterizzazione dell'arenile a valle delle discariche a mare e il ripristino ambientale e morfologico del medesimo utilizzando «per il ripristino dell'arenile solo sabbie provenienti da aree preventivamente individuate come idonee; l'idoneità e la collocazione dovranno comunque essere subordinate alla verifica di compatibilità in termini di qualità chimica, di granulometria, di colorimetria e di specifiche caratteristiche microbiologiche, condotta congiuntamente da Ispra (ex Icram), Arpac e Asl e successiva autorizzazione da parte dell'ente competente ai sensi della vigente normativa».
Alla luce di quanto sopra richiamato la direzione per la tutela del territorio e delle risorse idriche ha richiesto alla Syndial, nel corso della conferenza di servizi del 26 luglio 2010, lo stato di avanzamento delle indagini di caratterizzazione dell'arenile a valle delle discariche a mare e del ripristino ambientale e morfologico del medesimo, ma la Syndial ha dichiarato, nel corso della conferenza dei servizi del 26 luglio 2010, che la procura non ha concesso il permesso di proseguire le attività e l'ingegner Polito, nel corso della sua audizione del 23 settembre 2010, ha omesso di riferire sullo stato di attuazione degli interventi sull'arenile e sui relativi tempi di attuazione.
Con riferimento agli interventi di cui ai precedenti punti C) e D), nella nota trasmessa a questa Commissione d'inchiesta in data 28 febbraio 2011, a firma dell'ingegner Polito, Syndial subordina l'esecuzione delle attività di messa in sicurezza permanente della ex discarica Farina-Trappeto all'emanazione del provvedimento di VIA da parte della Regione. Pur rilevando l'incomprensibile e grave ritardo nell'emanazione di tale provvedimento definitivo da parte della regione Calabria, va osservato che Syndial, come richiesto dal Ministero dell'ambiente, avrebbe dovuto contestualmente procedere


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al completamento della progettazione definitiva della messa in sicurezza permanente, tanto più che, in varie sedi, vi era già stata la comunicazione informale in merito al pronunciamento negativo della VIA.
Dunque, è assolutamente inaccettabile il ritardo dell'azienda nell'esecuzione degli interventi.
Quanto al sopralluogo svoltosi in data 28 febbraio 2011 su richiesta del Ministero dell'ambiente, da parte di rappresentanti Arpacal, Asl, Iss, Ispra per la verifica degli interventi di messa in sicurezza d'emergenza eseguiti sull'arenile antistante la discarica Farina-Trappeto e dello stato delle aree, sarebbe opportuno acquisire le informazioni ufficiali da parte dello stesso Ministero, pur se, dalle dichiarazioni dell'azienda («in tale occasione Syndial ha rappresentato di aver effettuato tutte le attività tecnicamente possibili sulla base delle conoscenze in possesso..»), si evince che nulla è stato fatto ad oggi.
Ancora una volta deve essere sottolineata l'inutilità di tali sopralluoghi che, di fatto, finiscono per fornire un giustificativo dei gravi ritardi dell'azienda nell'esecuzione degli interventi.
Sul punto è sufficiente considerare che l'ordinanza inerente l'esecuzione degli interventi sulla discarica Farina-Trappeto è stata emanata dal Ministero dell'ambiente il 7 luglio 2008 e che le attività di rimozione sono state avviate in data 18 febbraio 2010.
Infine, in merito ai procedimenti civili promossi nei confronti della Syndial dinanzi al tribunale di Milano si segnala quanto segue.
Dalla relazione in data 11 giugno 2010 del Presidente della regione Calabria (doc. 483/1) risulta che la regione Calabria ha citato in giudizio davanti al Tribunale di Milano, nell'anno 2004, la «Syndial SpA» (Reg. G. n. 6672/2004), al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti dall'ambiente e dalla collettività per circa 900 milioni di euro per il disastro ambientale provocato dall'attività industriale di produzione di zinco nel periodo temporale compreso tra gli anni '20 e il 1996.
Tale procedimento, nel mese di gennaio 2008, è stato riunito, per identità della causa petendi, ad altro giudizio promosso dalla Presidenza del Consiglio dei ministri - Ministero dell'Ambiente - Commissario straordinario per l'Emergenza Ambientale in Calabria.
In data 4 novembre 2009, è stata depositata la relazione del collegio dei consulenti tecnici d'ufficio nominati dal Tribunale, le cui conclusioni non sono state condivise dalla regione, che ha contestato l'insufficienza dell'importo del danno ritenuto dai consulenti e l'inadeguatezza delle valutazioni peritali. La causa è ancora lontana dalla decisione, avendo il Tribunale disposto il rinvio della stessa al 17 novembre 2010 per provvedere sulle richieste delle parti.
Nella nota del 28 febbraio 2011, già richiamata in precedenza, l'ingegner Sergio Polito ha dichiarato che, in merito al procedimento promosso dalla Presidenza del consiglio dei ministri - Ministero dell'Ambiente - Commissario straordinario per l'Emergenza Ambientale in Calabria, il giudice ha rinviato la causa all'udienza del 16 novembre 2011, per la precisazione delle conclusioni.
Con riferimento ad altra causa di risarcimento del danno ambientale, promossa davanti al tribunale di Milano nel 2003 dalla

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Regione Calabria e dal commissario delegato nei confronti della Syndial, va rilevato che gli attori sono stati già soccombenti in primo grado per ragioni di carattere processuale, avendo il tribunale accolto l'eccezione di nullità della procura a margine dell'atto di citazione, sollevata dalla Syndial. Nella suddetta nota dell'amministratore delegato si riferisce che la Corte d'appello di Milano, con sentenza del gennaio 2011, ha rigettato l'appello proposto dalle regione Calabria e dal commissario delegato avverso la sentenza del tribunale, condannando gli appellanti a rifondere alla Syndial le spese di causa.
Infine, in merito al procedimento ancora in essere, la Syndial ha chiesto l'applicazione dell'articolo 5 bis del decreto legge n. 135 del 2009, convertito con modificazioni nella legge 20 novembre 2009, n. 166, anche ai procedimenti ex articolo 18 della legge n. 349 del 1986.
Sulla base del citato articolo 5 bis, l'effettivo ripristino dell'area inquinata esclude la possibilità di avanzare richieste risarcitorie riferite al danno ambientale. Tuttavia appare evidente - sulla base di quanto finora accertato da questa Commissione d'inchiesta - che si è fuori dalla fattispecie anzidetta, posto che la Syndial non ha ancora avviato le attività di ripristino dell'area inquinata.
In presenza di tali controversie giudiziali e del comportamento posto in essere dalla Syndial, si deve concludere con l'amara espressione usata da Marcello Savoia, responsabile della Sezione di polizia giudiziaria - NISA di Crotone, nel corso della sua audizione del 16 giugno 2010: la Syndial «fa il gioco delle tre carte: prepara un progetto, la procura lo verifica e spesso nega l'autorizzazione al prosieguo perché in molti casi sembra più un allungamento dei tempi in attesa di occasioni migliori per chiudere questa storia, che non la reale volontà di procedere alla messa in sicurezza».
Probabilmente, se non si vuole procedere a nuove gare di appalto, la soluzione per la messa in sicurezza e la bonifica delle aree inquinate deve essere trovata dal Ministero dell'Ambiente nell'ambito di una «transazione globale» con la stessa Syndial prevista dall'articolo 2 del decreto legge 30 dicembre 2008 n. 208 convertito con modifiche con la legge del 27 febbraio 2009 n. 13.
Com'è noto, in forza della legge anzidetta, il «contratto di transazione globale» interviene tra il Ministero dell'Ambiente e uno o più imprese interessate pubbliche o private, viene concluso all'esito di una conferenza decisoria che vede la partecipazione di tutti gli enti territoriali interessati - regione, province e comuni - e ha per oggetto la bonifica e il ripristino di uno o più siti di interesse nazionale, con rinunzia da parte del Ministero e degli enti territoriali a ogni azione per il rimborso delle spese di bonifica e per il risarcimento del danno ambientale.
Il dottor Marco Lupo, direttore generale della direzione tutela del territorio e delle risorse idriche del Ministero dell'ambiente, ha confermato, in sede di audizione del 23 settembre 2010 l'intenzione del Ministero di proseguire nella definizione di un atto transattivo con Syndial. Nel corso della stessa audizione ha inoltre segnalato l'intenzione del Ministero di sottoscrivere un accordo di programma, con lo stanziamento di 10 milioni di euro, per la bonifica delle aree di competenza pubblica presenti all'interno del SIN. In particolare, nel

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corso della riunione convocata dal Ministero a Crotone il 28 settembre 2010, alla quale hanno partecipato gli enti territoriali, sono state proposte alcune priorità di intervento tra le quali la rimozione del CIC, la bonifica dell'area archeologica, la messa in sicurezza della discarica Tufolo-Farina.
Ad oggi il Ministero dell'Ambiente, a seguito della conferenza di servizi decisoria tenutasi in data 20 dicembre 2010, ha predisposto i decreti di approvazione dei progetti di bonifica relativi all'area ex Pertusola e all'area Archeologica.

XI.9 - I siti inquinati della città di Crotone, non ricompresi nel SIN

Come si è già accennato, quanto sinora esposto investe solo i siti di interesse nazionale compresi nella zona industriale di Crotone, non anche gli altri 17 siti inquinati, tutti oggetto di sequestro dell'autorità giudiziaria e la cui bonifica spetta al comune di Crotone, ivi compresi i siti sui quali insistono l'istituto comprensivo statale «Alcmeone San Francesco», l'istituto tecnico commerciale «Lucifero», gli uffici della questura, ecc..
Peppino Vallone, sindaco di Crotone, e Agazio Loiero, già presidente della regione Calabria - entrambi sentiti da questa commissione d'inchiesta in data 10 marzo 2010 - hanno stipulato, nel mese di febbraio 2010, una convenzione - che ha avuto ampio risalto sulla stampa locale - in forza della quale la regione metterà a disposizione del comune di Crotone, quale soggetto attuatore, fondi regionali per l'esecuzione di un piano di caratterizzazione, predisposto dai tecnici dello stesso comune di Crotone.
Il piano anzidetto prevede, previa autorizzazione dell'autorità giudiziaria, l'esecuzione di 270 carotaggi con prelievo di campioni e la realizzazione di 81 piezometri, per la verifica dell'acqua di falda, con termine di un anno per le analisi da parte dell'Arpacal.
Tutto ciò, come se a Crotone, il problema dell'inquinamento dovuto alle scorie «cubilot» fosse appena sorto, mentre sono già decorsi dieci anni da quando sussiste il problema dell'utilizzo indiscriminato sul territorio delle suddette scorie nocive; come se non vi fossero le relazioni tecniche eseguite dai consulenti del pubblico ministero che hanno eseguito carotaggi e campionato il suolo, il sottosuolo e le acque di falda; come se non sussistesse l'urgenza di procedere alla bonifica dei siti, indicendo a tale scopo pubbliche gare di appalto.
La direttrice provinciale di Crotone dell'ARPACAL, Teresa Oranges, nel corso della sua audizione del 10 marzo 2010, ha peraltro mostrato di conoscere bene la situazione dei vari siti di Crotone, riferendo testualmente che: «Essendo l'inquinamento del suolo e del sottosuolo distribuito a macchia di leopardo e trovandosi gli inquinanti, a seconda della zona, a profondità diverse, per ogni zona è stata individuata una tecnica diversa. Si prevede l'electrochemical remediation technologies (ECRT) nella zona dove è più profondo l'inquinamento e si arriva anche a 7-10 metri a trovare metalli pesanti in altissime concentrazioni - anche dieci, cento o mille volte superiori ai limiti consentiti dalla legge; in altre zone, per esempio, invece, è


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previsto uno scotico superficiale, perché l'inquinamento non è molto profondo».
In conclusione, sul punto, l'Arpacal conosce perfettamente lo stato dei siti, che attendono solo urgenti interventi di bonifica e non ulteriori accertamenti sullo stato dei luoghi.
Tuttavia, nel corso dell'ultima audizione del 17 giugno 2010, il sindaco di Crotone, Peppino Vallone, ha riferito che - secondo l'opinione dei tecnici del comune - i carotaggi effettuati dai consulenti della procura della Repubblica «non sono utilizzabili ai fini di una caratterizzazione completa, per valutare poi se bonificare o mettere in sicurezza».

XI.10 - I siti inquinati di Cassano allo Ionio e di Cerchiara di Calabria

Strettamente connessa a quella di Crotone - a causa dell'avvenuto interramento dei prodotti nocivi provenienti dalla «Pertusola Sud» di Crotone - è la situazione di Cassano allo Ionio - contrada Chidichimo e contrada Tre Ponti/Prainetta - e di Cerchiara di Calabria - contrada Capraro - comuni compresi nel circondario del tribunale di Castrovillari, quale è stata rappresentata da Franco Giacomantonio, procuratore della Repubblica di Castrovillari, nel corso dell'audizione del 3 dicembre 2009.
I fatti sono quelli di cui alla sentenza del tribunale di Castrovillari emessa nel mese di marzo del 2008, per l'ipotesi di disastro ambientale relativo proprio all'illecito interramento di «ferrite di zinco» proveniente dalla «ex Pertusola Sud».
Tale sentenza, passata in giudicato e divenuta irrevocabile, dopo avere escluso l'aggravante del secondo comma dell'articolo 434 c.p., ritenendo che non si fosse effettivamente verificato un disastro ambientale, ma soltanto il relativo pericolo, ha mandato assolti un paio di imputati, dichiarando l'intervenuta prescrizione per tutti gli altri, una quindicina in tutto.
Tuttavia - secondo il procuratore della Repubblica - i dati emersi sono estremamente allarmanti sotto il profilo dell'inquinamento ambientale, posto che in tre località dei comuni di Cassano allo Ionio e di Cerchiara di Calabria, anch'esse incluse come siti di interesse nazionale - per la necessità di interventi di bonifica da parte del Ministero dell'ambiente - era stata interrata una quantità notevolissima di ferrite di zinco proveniente dalla «Pertusola Sud» di Crotone.
Il trasporto di tale materiale da Crotone a Cassano allo Ionio e a Cerchiara di Calabria è avvenuto in modo illecito ed è stato accertato a seguito dei controlli eseguiti su alcuni camion e autocarri, che sembravano trasportare soltanto terra, mentre, invece trasportavano «ferrite di zinco».
Vi era un vero e proprio traffico di tale materiale nocivo sicché, mediante l'utilizzo di società di intermediazione e di false bolle di accompagnamento, i camion scaricavano la «ferrite di zinco» presso un cantiere, che avrebbe dovuto renderle inerti; il che invece non è avvenuto.
Con tale stratagemma, le sostanze sono entrate nel suddetto cantiere come rifiuti pericolosi, ne sono uscite senza alcuna bolla di


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accompagnamento e, soprattutto, senza alcuna forma di inertizzazione; quindi, sono state vendute ad alcune imprese agricole del territorio.
Attualmente, enormi quantità di ferrite di zinco pari a 30mila tonnellate - come ha riferito il procuratore della Repubblica, nel corso della sua audizione dinanzi alla Commissione d'inchiesta - sono depositate in tre siti dei comuni anzidetti. I fatti risalgono al 1995.
Dopo la suddetta sentenza, il procuratore della Repubblica ha aperto una nuova inchiesta, sotto il profilo della mancata bonifica di tali siti.
A partire dal 2003, la Syndial, società del gruppo EniChem, nonché proprietaria dell'area «ex Pertusola», aveva manifestato l'intenzione di procedere alla bonifica dei siti, ma era intervenuta una quantità incredibile di ostacoli e problematiche burocratici che ne hanno impedito la realizzazione.
Ha riferito il procuratore della Repubblica che si era verificato un cambio continuo di competenze: dapprima, era intervenuto il commissario straordinario per l'emergenza rifiuti, poi la regione, infine un'associazione di comuni, guidati dal comune di Cassano allo Ionio i quali, in forza di un finanziamento statale di 24 milioni di euro, intendevano procedere alla bonifica, affidando alla Syndial i relativi lavori.
Il Ministero dell'ambiente si è opposto a tale iniziativa. A tale proposito, il procuratore della Repubblica ha fatto riferimento a una recente lettera dello stesso Ministero dell'ambiente, pervenuta in data 18 novembre 2009, in risposta a una nota dei sindaci di Cassano e di Cerchiara, i quali contestavano al Ministero di frapporre ostacoli alla bonifica.
Il Ministero dell'ambiente, nella nota di risposta ai sindaci afferma, sostanzialmente, che è vero che erano stati stanziati dei fondi destinati alla bonifica dei siti ma spettava alla Syndial occuparsene, poiché la società stessa, soggetto privato, nonché proprietaria dello stabilimento «ex Pertusola» da dove proveniva la ferrite di zinco, si era impegnata a espletare tale bonifica con fondi privati.
In conclusione, il Ministero sostiene che i fondi pubblici sono destinati alla bonifica di materiali diversi dalla ferrite di zinco, nonostante che l'inquinamento sia rappresentato proprio dai depositi di ferrite di zinco, proveniente dallo stabilimento dell'ex Pertusola, e non da altri rifiuti pericolosi.
Per tutta risposta, la Syndial ha impugnato davanti al tribunale amministrativo regionale le delibere della conferenza di servizi, tra cui quella dell'8 gennaio 2009.
La situazione di stallo in ordine a chi debba occuparsi della bonifica dei siti inquinati dei due comuni anzidetti sembra superata, alla luce di quanto riferito a questa Commissione da Antonio Carlomagno, sindaco di Cerchiara Calabra, e da Gianluca Gallo, sindaco di Cassano allo Ionio, nel corso delle rispettive audizioni del 16 e del 17 giugno 2010.
In particolare, quest'ultimo ha riferito che, sulla base di un accordo di programma-quadro del 2006 tra regione e Ministero dell'ambiente, con uno stanziamento di 4,5 milioni di euro destinati alla bonifica dei siti inquinati dei due comuni, era stata indetta una

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gara con l'approvazione dei progetti da parte della regione. La gara, che prevedeva la caratterizzazione dei siti, la loro bonifica e il successivo smaltimento dei rifiuti pericolosi, era stata vinta dalla società Eco.Ge di Genova, con un ribasso del 12 per cento, nonostante fosse l'unica partecipante, ma il contratto è stato sospeso, a seguito dell'intervento del Ministero dell'ambiente e, poi, della procura di Castrovillari.
A questo punto, occorre sottolineare che la società Eco.Ge, operante prevalentemente in Liguria, era stata oggetto già nel 2006 di numerosi procedimenti giudiziari su segnalazione del NOE per alcuni sequestri di cave adibite a discarica nella zona di Genova.
Riferisce il sindaco di Cerchiara Calabra che l'attività di caratterizzazione, svolta dalla società Eco.Ge di Genova, i cui risultati sono stati comunicati in data 8 giugno 2010, ha posto in evidenza «una situazione davvero critica, con il riscontro anche di metalli pesanti all'interno della flora perimetrale del sito, delle colture di graminacee e dell'ovicoltura». Stesso discorso ha fatto il sindaco di Cassano allo Ionio il quale ha riferito che l'attività di caratterizzazione ha rivelato una presenza di ferriti anche al di fuori dei siti indicati e, soprattutto ha posto in evidenza che «in almeno un sito nel territorio del comune di Cassano c'è inquinamento delle falde che arrivano due metri sotto il piano di campagna, dove i vegetali esaminati presentano nella struttura metalli pesanti».
All'esito di una conferenza decisoria, tenuta in data 8 gennaio 2009 presso il Ministero dell'ambiente, alla presenza dei rappresentanti degli enti locali e della regione, è stato deciso di affidare gli interventi di bonifica alla Syndial.
In data 19 aprile 2010 - ha riferito il sindaco di Cassano allo Ionio - «ci è pervenuta un'ordinanza del Ministero dell'ambiente che ha approvato un progetto di bonifica dei nostri siti da parte della Syndial, bloccando il proseguimento delle nostre operazioni (quelle affidate alla società Eco.Ge di Genova) e comunicandoci sostanzialmente che noi dobbiamo limitarci alla sola caratterizzazione. Pertanto d'ora in avanti proseguirà Syndial nella bonifica dei siti con un progetto di circa 16 milioni di euro, per il quale è prevista la fidejussione di 8 milioni di euro».
Allo stato, comunque, la soluzione dei gravi problemi dell'inquinamento ambientale dei comuni anzidetti è lungi dall'essere risolta e, mentre le indagini giudiziarie sono in corso, a partire dai primi sequestri dei siti avvenuti nel 1998, e a distanza di quindici anni dai fatti, i siti inquinati continuano ad ospitare ben 30 mila tonnellate di ferrite di zinco, contenenti arsenico, nichel, mercurio, piombo e via elencando.
Tali siti, nel periodo compreso tra il 2001 e il 2003, sono stati - per così dire - messi «in sicurezza» con teloni, i quali cominciano a deteriorarsi e a dare segni di distruzione.
Non è noto se le polveri prodotte dalla «ferrite di zinco» si sono poi disperse, per motivi atmosferici, nelle zone coltivate circostanti.
La conclusione su tale drammatica situazione è che, finora, non è stato fatto nulla per la bonifica dei siti inquinati.
Vi è solo da sperare che gli interventi di bonifica delle discariche di Cassano e Cerchiara possano finalmente essere avviati nei prossimi

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mesi, dal momento che il decreto definitivo di approvazione dei progetti di bonifica è stato recentemente predisposto dal Ministero dell'ambiente, a seguito di quanto deliberato dalla conferenza di servizi decisoria del 20 dicembre 2010.

XII - La provincia di Vibo Valentia

La provincia di Vibo Valentia, di nuova costituzione, è del tutto priva di discariche controllate e di impianti di trattamento dei rifiuti e - essendo molto piccola, con 167 mila abitanti e una produzione annua di circa 65 mila tonnellate di rifiuti - conferisce i rifiuti all'impianto di trattamento di Lamezia Terme (concessionaria la «Daneco Impianti Srl») - il cdr prodotto viene conferito presso il termovalorizzatore di Gioia Tauro (concessionaria la «TEC SpA») - ed è inserita nel sistema integrato «Calabria Centro».
Nella provincia vi sono solo due isole ecologiche (doc. 164/2) e, così, in Ricadi, località San Nicolò, è presente una piattaforma ecologica riconducibile alla «Ecoshark Igiene ambientale Srl», gestita dalla stessa e a Vibo Valentia, nella zona industriale località aeroporto, insiste un'altra isola ecologica, gestita dalla «Eurocoop Scarl», società attualmente affidataria del servizio integrato di raccolta «porta a porta», per lo stesso comune (v. relazione del prefetto di Vibo Valentia in data 18 novembre 2009 - doc. 150/1).
Quanto alla costruzione di nuove discariche o di impianti di trattamento, Francesco De Nisi, presidente della provincia di Vibo Valentia, nella sua audizione in data 11 marzo riferito che il suo ufficio ha predisposto un progetto per la costruzione nel comune di Vezzano di un impianto di tritovagliatura per la preparazione del cdr e che, all'inizio del 2009, era stato individuato nel comune di San Calogero, che ne aveva accettato il relativo progetto, un altro sito per la costruzione di un impianto.
Su quest'ultimo punto, è intervenuta il prefetto di Vibo Valentia, dottoressa Luisa Latella, la quale ha precisato nella sua relazione (doc. 150/1) che, per far fronte alla situazione di assoluta criticità, di recente, è stato siglato - ai sensi del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 3731 del 2009, che conferisce le competenze al commissario delegato per le iniziative idonee al superamento dell'emergenza - un protocollo di intesa tra regione, provincia di Vibo Valentia e comune di San Calogero (VV), finalizzato a realizzare un impianto di trattamento rsu e linee di valorizzazione della raccolta differenziata, per 70 mila tonnellate all'anno, con annessa discarica di servizio, in agro del comune di San Calogero, sita in una zona limitrofa a quella dove la polizia giudiziaria ha sequestrato una discarica abusiva di 100 mila metri quadrati.
Il progetto definitivo, redatto dai tecnici della provincia di Vibo Valentia, è stato trasmesso per l'esame, in data 11 settembre 2009, al competente ufficio VIA regionale, che stava provvedendo alla valutazione per il rilascio del prescritto parere di compatibilità ambientale.
Anche il commissario delegato, in una relazione dell'11 dicembre 2009 (doc. 584/1), riferisce che il progetto è in attesa del VIA regionale


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e che «si è in attesa di formalizzare i relativi atti e iniziare la progettazione».
Non v'è dubbio - alla luce di quanto sopra esposto - che in una provincia in cui non vi sono né discariche comunali controllate, né impianti di trattamento dei rifiuti, l'impegno dell'ufficio del commissario e della provincia risulta inadeguato alle esigenze del territorio e dell'ambiente.
Altra nota dolente è quella della raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani.
Come si è detto, il territorio della provincia di Vibo Valentia rientra nell'ATO n. 4, che tuttavia non è stato costituito, come del resto tutti gli altri ATO della regione.
Viceversa, con atto pubblico del 28 settembre 2000, su input del commissario delegato per l'emergenza rifiuti, è stata costituita la «Proserpina SpA», società mista a prevalente capitale pubblico, destinata alla gestione della raccolta differenziata.
Nel corso della sua vita operativa, la «Proserpina SpA» ha gestito la raccolta differenziata in favore di tutti i comuni della provincia di Vibo Valentia e, per alcuni di essi (Vibo Valentia e Pizzo), anche la gestione degli rsu - frazione indifferenziata.
Fatta eccezione per alcuni enti, che hanno affidato anche il servizio di raccolta e trasporto rsu-frazione indifferenziata alla società mista, i restanti comuni della provincia hanno autonomamente gestito tale servizio.
Dopo alterne vicende la «Proserpina SpA», con verbale dell'assemblea straordinaria del 24 giugno 2008, è stata posta in liquidazione, in considerazione del fatto che le perdite avevano superato un terzo del capitale sociale e che l'assemblea dei soci di non intendeva procedere alla loro copertura.
Dalla relazione, in data 17 novembre 2009, della Guardia di finanza - comando provinciale di Vibo Valentia (doc. 164/2) risulta che la società ha proposto domanda di concordato e che versa in stato di insolvenza.
A proposito della «Proserpina SpA» vanno sottolineate alcune circostanze rilevanti sotto il profilo della opacità gestionale della società, quali emergono dalla relazione del comando provinciale della Guardia di finanza e, in particolare: 1) che, nel corso del 2008, nell'ambito dell'attività del Nucleo di polizia tributaria è stata esperita una verifica fiscale a carattere generale, che si è conclusa con la constatazione di violazioni amministrative e penali in materia di imposte dirette, Irap e Iva, e con la denuncia a piede libero di cinque soggetti ritenuti a vario titolo responsabili delle fattispecie di reato previste e punite dal decreto legislativo n. 74 del 2000; 2) che, nel periodo 2008-2009, sono state esperite indagini delegate di polizia giudiziaria che si sono concluse con la segnalazione alla competente autorità giudiziaria di 2 soggetti ritenuti responsabili della fattispecie di reato di cui all'articolo 323 c.p., per violazione della normativa sugli appalti pubblici; 3) che, nel corso del 2008, è stata esperita un'attività delegata dalla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti, a seguito della quale sono state segnalati alla magistratura contabile fatti suscettibili di valutazione sotto il profilo amministrativo; 4) che attualmente sono in corso, da parte del Nucleo di polizia tributaria

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di Vibo Valentia, indagini di polizia giudiziaria delegate dalla procura della Repubblica concernenti l'affidamento e la gestione dei contratti di appalto a un consorzio di imprese, che operavano sul territorio della provincia di Vibo Valentia. In ordine a tali indagini i militari non hanno riportato elementi di dettaglio, atteso lo stadio del procedimento.
In conclusione sul punto, anche a Vibo Valentia l'esperienza della società mista pubblico-privata si è rivelata fallimentare, sia sotto il profilo del servizio reso, che sotto il profilo gestionale, mentre la raccolta differenziata, come si è già rilevato nella premessa generale, risulta essere la più bassa di tutta la Calabria, essendo attestata all'8,8 per cento, come risulta dal «rapporto Ispra» del 2009.

La situazione attuale della raccolta dei rifiuti urbani nella provincia.

Allorquando la società mista è stata posta in liquidazione e ha cessato ogni attività, in attesa della costituzione delle autorità d'ambito, la raccolta e il trasporto dei rifiuti, differenziati e indifferenziati, sono stati gestiti dai singoli comuni, ognuno per la parte di propria competenza, sicché, a tutt'oggi, i comuni della provincia di Vibo Valentia gestiscono autonomamente il ciclo dei rifiuti.
I diversi comuni, dal 2007 in poi, si sono muniti di operai in proprio, ovvero si sono rivolti a piccole ditte locali, anche esterne alla provincia, ma comunque nessuna a partecipazione pubblica. Si tratta di società a responsabilità limitata, nessuna della quali rientra nelle attività specifiche di indagine portate avanti dall'arma dei carabinieri, come ha riferito Giovanni Roccia, comandante provinciale dei carabinieri di Vibo Valentia, nel corso dell'audizione del 10 marzo 2010.
Per quanto riguarda il comune di Vibo Valentia, il servizio di raccolta e trasporto rsu-indifferenziato è stato appaltato, a seguito di procedura di gara a evidenza pubblica, al «Consorzio Nazionale servizi» (CNS), che lo gestisce a attraverso le sue consociate «Eurocoop Scarl» e «Cosp Tecno Service Scarl», per conto delle quali ha partecipato alla gara in questione.
Negli altri comuni della provincia operano prevalentemente imprese locali (ditta individuale «Cricelli Natalina», «Ecoshark Igiene ambientale Srl», ecc..), che hanno ricevuto specifici affidamenti da parte dei singoli comuni.
Certamente - riferisce il prefetto di Vibo Valentia - l'assenza sul territorio di impianti tecnologici e di discariche di servizio, nonché la mancata costituzione sia di Consorzi sia di società miste, dopo l'avvenuta cessazione della «Proserpina SpA», ha prodotto un sistema di articolazione dei servizi attinenti la raccolta e lo smaltimento di rsu, basato fondamentalmente su una gestione parcellizzata delle attività, con un livello di ambito territoriale comunale di scarsa rilevanza su scala economica, seppure con evidenti oneri gestionali legati al trasporto di circa 65 mila tonnellate di rsu indifferenziato presso l'impianto di trattamento di Lamezia Terme.
In tale contesto i costi per lo smaltimento dei rifiuti sono aumentati, pur se, a specifica domanda sul punto della senatrice Daniela Mazzucconi, il sindaco di Vibo Valentia, Francesco Sammarco,


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non è stato in grado di indicare il costo medio del servizio per abitanti o per tonnellata, suddiviso in trasporto e smaltimento.
In ogni caso, la mancanza di un adeguato e funzionale sistema di raccolta e di smaltimento dei rifiuti urbani, ha prodotto la recrudescenza del fenomeno delle discariche abusive posto che, sulla base della normativa vigente e delle ordinanze commissariali, nessuna discarica risulta attualmente autorizzata dall'ufficio del commissario nella provincia di Vibo Valentia.
La relazione del prefetto ha classificato abusive le discariche individuate sul territorio provinciale, secondo le tipologie di seguito riportate:
|b4 sei discariche dismesse rientrano nell'elenco dei siti definiti ad «alto rischio» della regione Calabria, in quanto prive di impermeabilizzazione del fondo, di vasca di raccolta del percolato e di copertura del corpo rifiuti. Una di esse, precisamente, quella sita in località «Papaleo» del comune di San Calogero, ha la peculiarità di trovarsi a pochi metri dalla falda acquifera, mentre un'altra area, denominata «Badia Falcone» nel comune di Cessaniti, raggiunge la ragguardevole superficie di ben 26 mila 200 metri quadrati;
|b4 quattro aree sono caratterizzate per essere siti circoscritti, oggetto di sversamento accidentale di idrocarburi e aree di distribuzione carburanti;
|b4 sei aree di micro e macro discariche abusive sono state poste sotto sequestro dalle forze dell'ordine e per le stesse è stato richiesto l'intervento dei tecnici ARPACAL per le attività di caratterizzazione dei rifiuti depositati.

Oltre alle discariche abusive di rifiuti urbani, vi è il fenomeno di discariche di rifiuti pericolosi.
In località San Calogero, nei pressi di Vibo, i militari della Guardia di finanza hanno sequestrato una discarica abusiva con una superficie di 100 mila metri quadrati, che presentava materiale estremamente pericoloso.
Inoltre, nella relazione citata, i militari della Guardia di finanza hanno riferito, tra le altre, di una importante operazione di servizio, posto che nel corso del mese di ottobre 2008 è stata individuata, in agro del comune di Soriano (VV), una vasta area pari a circa 200 mila metri quadrati, all'interno della quale insisteva la sede operativa di una ditta esercente l'attività estrattiva, trasporto inerti e movimento terra. Nel corso del servizio sono stati rinvenuti, stoccati senza alcuna autorizzazione, ingenti quantitativi di rifiuti pericolosi, ricompresi nella tabella «D» del decreto legislativo n. 152 del 2006.
In tale contesto, è stata rilevata la massiccia attività estrattiva effettuata, che ha causato la parziale ostruzione dell'alveo del fiume «Caridi», posto a valle del sito d'indagine.
Il servizio si è concluso con il sequestro ex articolo 354 c.p.p. dell'intera area, di 43 tonnellate di rifiuti tossici e pericolosi e la denunzia di due soggetti per violazione delle norme in materia ambientale.


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Nel periodo novembre 2008-gennaio 2009, nel comune di Limbadi è stata riscontrata la presenza di rifiuti speciali e pericolosi, artatamente interrati nelle immediate adiacenze di un torrente e di una vasta coltivazione di uliveti.
Il servizio si è concluso con il sequestro dell'intera area e dei rifiuti rinvenuti e la denuncia a piede libero di 15 soggetti che a vario titolo hanno concorso alla perpetrazione delle avanzate ipotesi di reato.
Infine, nel mese di maggio 2009, in agro del comune di Mileto, è stata individuata una vasta area agricola, ove abusivamente erano depositati ingenti quantità di rifiuti tossici e pericolosi, come eternit e rottami metallici.
Il servizio si è concluso con il sequestro dell'intera area pari a 20.700 metri quadrati, di 9 arnie e relativi alveari, di 2 chilometri di strada comunale, di 4 mila chilogrammi di eternit e di 15 mila chilogrammi di altri rifiuti speciali e con la denuncia a piede libero di un soggetto per violazioni delle norme ambientali di cui al decreto legislativo n. 152 del 2006.
Per dare l'idea dell'estensione del fenomeno vale la pena di riportare quanto dichiarato da Giovanni Roccia, comandante provinciale dei carabinieri di Vibo Valentia, il quale ha riferito dell'avvenuto sequestro nel biennio 2008-2009, di circa 50 discariche abusive sparse sul territorio e del deferimento all'autorità giudiziaria di 84 persone a piede libero e di 37 in stato di arresto, per quanto attiene sia alle discariche abusive, sia al trasporto di rifiuti speciali (vedi doc. 150/1, allegato 1).
In ordine alla situazione ambientale, il dottor Mario Spagnuolo, procuratore della Repubblica di Vibo Valentia, nella sua audizione del 3 dicembre 2009, ha dichiarato che Vibo Valentia si caratterizza per la presenza di due poli industriali e di alcuni villaggi turistici, che determinano le problematiche in materia di sistemi di depurazione di cui ha parlato anche il procuratore della Repubblica di Lamezia Terme, con un ulteriore passaggio emerso nel corso delle numerose indagini e cioè che, accanto ai depuratori che non funzionano, perché tecnicamente inadeguati, nel vibonese è invalsa la pratica di mancato allaccio ai depuratori, che restano «cattedrali nel deserto» e non vengono utilizzati, come ha confermato lo stesso prefetto di Vibo Valentia.
Di conseguenza - ha riferito testualmente il dottor Spagnuolo - tutto il litorale del golfo di Sant'Eufemia è inquinato e solo l'intervento giudiziario, paradossalmente, finisce per innescare un circuito virtuoso, nel senso che, a seguito delle indagini, gli imprenditori ritengono necessario allacciarsi ai depuratori.
In tale contesto di degrado ambientale, ribadito anche nella relazione del prefetto di Vibo Valentia (doc. 150/1), si inseriscono anche due vicende relative all'inquinamento del territorio. Una, relativa al porto di Vibo, il porto turistico più importante della Calabria, che è anche porto commerciale, nell'ambito del quale era stato sequestrato un grosso cementificio, alimentato da pet-coke.
Il fatto estremamente grave è che il pet-coke veniva trasportato al porto di Vibo senza alcun tipo di precauzione, con problematiche

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estremamente complesse, che si intrecciano con la presenza di depositi dismessi di carburanti appartenenti all'ENI e alla famiglia Sensi, con presenza di sostanze tossiche.
Una seconda vicenda riguarda il sequestro operato, proprio in questo periodo, dell'enorme discarica abusiva, sita in località San Calogero, di cui si è detto.
Altra tipologia è quella delle aree interessate da fenomeni di abbandono incontrollato dei rifiuti, che sono molte numerose sul territorio, inquadrabili - a seconda della loro estensione - quali micro e macro discariche abusive e che costituiscono una criticità rilevante del territorio vibonese, poiché sono spesso ubicate in vicinanza di corsi di acqua con potenziale contaminazione delle acque superficiali e sotterranee, nonché del suolo.
L'abbandono incontrollato dei rifiuti riguarda, in particolare, le seguenti tipologie: 1) rifiuti speciali derivanti da attività di demolizione e costruzione; 2) pneumatici fuori uso in quantità abnormi; 3) manufatti in eternit; 4) elettrodomestici e materiali ingombranti.
La provincia di Vibo Valentia si caratterizza, quindi, per la presenza di un vasto fenomeno di micro e macro discariche abusive, accompagnato dall'assenza o dal cattivo funzionamento degli impianti di depurazione, accompagnato dalla carenza e sottodimensionamento delle reti fognarie.
A tale disordine ambientale - a volte - non sono estranee le stesse istituzioni, considerato che il capitano Aldo Iacobelli, nel corso della sua audizione, ha riferito che a Serra San Bruno, centro montano in provincia di Vibo Valentia, è in corso un'indagine preliminare su un sito in cui addirittura lo stesso comune non solo ha realizzato una discarica non a norma, ma non l'ha neanche censita.
Concludendo sulla grave crisi ambientale in cui versa la provincia di Vibo Valentia, merita di essere menzionata anche la relazione in atti del comando carabinieri per la tutela dell'ambiente (doc. 163/1), da cui risulta che la provincia di Vibo Valentia e, in particolare, il capoluogo, sono afflitti dall'inquinamento ambientale determinato da eternit.
Com'è noto, in Italia, è in vigore una particolare normativa di settore, che prevede tra l'altro, l'attuazione di «piani di Protezione dell'ambiente, di decontaminazione, di smaltimento e di bonifica, ai fini della difesa dai pericoli derivanti dall'amianto», da eseguirsi a cura delle regioni, le quali si avvalgono delle aziende sanitarie provinciali per il censimento dei siti e per altre incombenze normative.
Per tale ragione, presso queste ultime, è detenuto un registro ove è indicata la localizzazione dell'amianto floccato o in matrice friabile.
Dalle indagini che hanno riguardato la presenza di coperture in eternit nella provincia di Vibo Valentia, specie nella città capoluogo, è stato accertato un uso diffuso di tetti per abitazioni e/o uffici, realizzati con «onduline» contenenti amianto.
Tale problematica risale agli anni Settanta, quando ancora non si conoscevano i rischi derivanti da materiali contenenti tale sostanza nociva che, unita all'economicità di tali materiali e alle loro proprietà termo-isolanti, ha comportato un largo uso di coperture in eternit.

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Gli accertamenti hanno messo in evidenza un grave disinteresse dell'azienda sanitaria provinciale di Vibo Valentia, sia nella redazione del censimento, che nella tenuta dei registri, che non esistono.
In particolare, l'ASP avrebbe dovuto eseguire - con l'aiuto di tecnici della locale ARPA Calabria - sopralluoghi congiunti, segnalando gli esiti alla regione - che non sono mai pervenuti - ai fini dell'attuazione dei previsti piani di protezione dell'ambiente, e trascrivendoli presso i propri registri.
Inoltre, se dagli accertamenti tecnici e dalle analisi di laboratorio fossero emerse situazioni di pericolosità, 1'ASP avrebbe dovuto segnalarla al sindaco, per l'emissione dell'ordinanza di rimozione, cosa che ha omesso di fare.
Tale situazione - osserva il NOE - sta creando un diffuso allarme sociale tra la popolazione vibonese, sicché il sindaco e l'assessore all'ambiente del capoluogo calabrese, al fine di quantificare l'entità del problema e provvedere all'eventuale bonifica, intendevano avviare un programma di rilevazione.
In tale contesto trovano spazio per prosperare le famiglie della criminalità organizzata e, così, la discarica di 100 mila metri quadrati rinvenuta nel comune di San Calogero, che conteneva eternit, materiale ferroso, oli saturi e via dicendo, provenienti dall'esterno del territorio vibonese, e che aveva creato una collina di cinquanta metri, è sita in una zona che gravita sotto il controllo della famiglia Mancuso che - come hanno dichiarato il prefetto e il questore di Vibo Valentia - controlla quasi tutta la provincia.
In particolare, Giovanni Roccia, comandante provinciale dei carabinieri di Vibo Valentia, nel corso della sua audizione, ha riferito che, per quanto riguarda le organizzazioni criminali nella provincia di Vibo Valentia, vi è la presenza di una grossa famiglia mafiosa, quella dei Mancuso, stanziata stabilmente su Limbadi e Nicotera, nella parte sud della provincia di Vibo Valentia, a ridosso del reggino, quasi al confine con la provincia di Reggio Calabria.
Si tratta una famiglia che la fa da padrona su quasi tutto il vibonese, posto che nelle diverse zone operano famiglie che fanno sempre capo ai Mancuso: i La Rosa a Tropea, gli Accorinti a Briatico, i Lo Bianco a Vibo Valentia, gli Anello a Filadelfia, nella zona Nord, al confine con il lametino.
In ogni zona - ha concluso il comandante Roccia - vi sono referenti che lavorano sia in proprio, sia sotto la supervisione della famiglia, molto importante, dei Mancuso.
Un'altra grossa discarica abusiva di circa 200 mila metri quadrati, già adibita a cava estrattiva di inerti, sita in Soriano, si trova in un territorio controllato dalla famiglia Delle Serre.
Un'osservazione conclusiva va fatta a questo punto e, cioè, che solo la presenza di famiglie mafiose sul territorio è in grado di spiegare la ragione dell'atteggiamento omertoso dei cittadini e delle stesse istituzioni locali di fronte a fenomeni di deturpamento ambientale, quali le enormi discariche, che per la loro realizzazione richiedono un lungo e continuato via vai di camion per lo scarico dei rifiuti e che, a motivo delle loro grandi dimensioni, in larghezza e in altezza, sono ben visibili. Si tratta, cioè, di fenomeni che per la loro importanza sono percettibili da chiunque, ma che vengono subiti passivamente da tutti.

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XIII - La provincia di Catanzaro

La realtà della provincia di Catanzaro nella raccolta e nella gestione dei rifiuti è nettamente migliore rispetto a tutte le altre province calabresi, posto che sono stati realizzati nel corso della gestione commissariale due impianti di trattamento rsu e raccolta differenziata.
Un impianto è stato realizzato a Lamezia Terme, il cui concessionario per la gestione è la società «Daneco Impianti Srl», con discarica di servizio, per scarti di trattamento meccanico-biologico e fos, posta in un altro sito dello stesso comune di Lamezia, peraltro in via di esaurimento, distante 16 chilometri e gestito dall'azienda municipalizzata «Lamezia Multiservizi SpA», mentre il cdr prodotto viene avviato presso l'inceneritore di Gioia Tauro per essere termovalorizzato.
Un secondo impianto è stato realizzato a Catanzaro - Alli con annessa discarica di servizio e viene gestito dalla «Enerambiente SpA».
Tuttavia, l'impianto non riesce a produrre né fos di qualità, né cdr di pezzatura idonea ad essere utilizzata nel termovalorizzatore di Gioia Tauro, sicché finisce tutto in discarica.
Sugli impianti di Catanzaro e Lamezia Terme vengono convogliati i rifiuti di Reggio Calabria, Crotone, Vibo Valentia e Cosenza, in quanto purtroppo sono gli unici con un apparato sufficiente. I rifiuti di Lamezia, una volta lavorati, vanno a Gioia Tauro (17). Viceversa, la nota dolente è costituita dalla raccolta dei rifiuti solidi urbani.
Il sindaco di Catanzaro, Rosario Olivo, nel corso dell'audizione del 17 giugno 2010, ha riferito che anche a Catanzaro coesistono due società per la raccolta dei rifiuti urbani, una per l'indifferenziata, che aveva appena vinto la gara d'appalto, la società «Aimeri ambiente» del gruppo Biancamano di Milano, che aveva sostituito la società «Schillacium SpA» la quale, pur operando su molti comuni della provincia, era carente nel servizio.
Il costo mensile per tale servizio, comprensivo anche della vigilanza sul territorio, è di circa - 520 mila, con un risparmio di - 30 mila rispetto alla precedente gestione.
Un'altra società, la «Ambiente & servizi SpA» di Crotone, gestisce la raccolta differenziata, con un costo mensile variabile, di circa 130 mila euro, in quanto pagata a peso. La suddetta società, ha riferito il sindaco, era nata nel 2002 per volontà del commissariato di Governo ed era costituita, per la parte pubblica, dal comune di Catanzaro e da una serie di comuni dell'hinterland, che avevano la maggioranza e, per la parte privata, dal gruppo Vrenna di Crotone.
Le società operanti nella provincia di Catanzaro per la raccolta dei rifiuti differenziati sono la «Ambiente & servizi SpA», la «Multiservizi SpA» e la «Schillacium SpA».


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Anche a Catanzaro, come in tutte le altre province della Calabria, si assiste dunque al fenomeno, già più volte posto in evidenza, di due società operanti nel medesimo territorio e aventi lo stesso oggetto, quello della raccolta dei rifiuti, pur se - va rilevato - questa è stata l'unica circostanza in cui sono stati forniti a questa Commissione i costi dei servizi.
In tale contesto sussistono vari problemi, rappresentati dal presidente della provincia di Catanzaro, Wanda Ferro, la quale ha riferito che erano stati stanziati alcuni fondi per la raccolta differenziata, ma senza particolari successi, posto che l'operazione di raccolta differenziata, effettuata casa per casa, si era rivelata inefficiente e quasi nulla.
Era accaduto che, sulla base di fondi comunitari, erano stati erogati finanziamenti ad alcuni comuni affinché, casa per casa, venissero distribuiti dei kit, ma vi era stato chi li aveva ricevuti e chi, invece, non li aveva ricevuti.
Ancora, dopo il totale fallimento dell'ATO depurazione, la provincia aveva restituito ai legittimi proprietari tutti gli impianti poiché, in assenza di una legge che consentisse all'amministrazione di poter introitare la parte che il comune riscuote sulla depurazione - ciò vale per il discorso dei rifiuti - sarebbe stato un ennesimo fallimento in termini di risorse.
La provincia aveva lavorato molto con l'ARPACAL, un partner importante nei sopralluoghi per le competenze tecniche, e in passato aveva lavorato con l'università Magna Grecia, nonché con altri enti per quanto riguarda il monitoraggio e le autorizzazioni.
Detto ciò, come ha sottolineato il presidente della provincia, «vige un modo selvaggio di lasciare i rifiuti su tutte le possibili strade e, quindi, anche da questo punto di vista, per quanto si possa svolgere un'operazione prettamente culturale di rivoluzione, si rinvengono abbandonati materiali utilizzati per l'edilizia o ingombranti in percentuali piuttosto elevate».
Il prefetto di Catanzaro, Giuseppina Di Rosa, nell'audizione del 10 marzo 2010, ha parlato degli incendi dolosi, nonché degli sversamenti illeciti, segnalati dal Corpo forestale dello Stato, che non sarebbero da ricollegare a un fatto criminoso di organizzazione, bensì a singoli comportamenti illeciti, in particolare ai proprietari degli oleifici, che versano nei fiumi i residui della lavorazione delle olive, nell'assenza di depuratori che trattino tali residui.
Il questore di Catanzaro, Arturo De Felice, ha riferito che il Corpo forestale, procedendo come forza di polizia, ha rilevato otto discariche, sebbene non tutte di vaste dimensioni e, nel comune di Zagarese, è addirittura stato lo stesso sindaco a denunciare al comando dei carabinieri la situazione. Era intervenuta, inoltre, la denuncia del sindaco e dell'ufficio tecnico del comune di Soveria Simeri per un'area formalmente destinata a deposito di rifiuti ingombranti che, viceversa, era stata adibita a discarica abusiva.
Il dottor Antonio Vincenzo Lombardo, procuratore distrettuale antimafia di Catanzaro, nel corso dell'audizione del 3 dicembre 2009, ha riferito che, in linea di massima, per quel che riguarda Catanzaro, la programmazione aveva funzionato ed erano stati realizzati i due impianti previsti: uno, in località Alli di Catanzaro, gestito da

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«Enerambiente»; l'altro, a Lamezia Terme, gestito dalla «Daneco», in ordine ai quali vi era un procedimento pendente, tanto che è stata chiesta una misura coercitiva reale, allo stato, disattesa dal gip per acquisire elementi integrativi di giudizio.
Nella procura di Catanzaro risultavano iscritti 127 procedimenti, di cui 111 riferiti al periodo di vigenza del decreto legislativo n. 152 del 2006 e 17 al periodo successivo. Nell'ambito di questi procedimenti, in 33 casi era stata richiesta l'adozione di misure cautelari reali, con riferimento a 39 procedimenti.
I procedimenti di interesse riguardavano il conferimento di rifiuti in discariche che, precedentemente a questi impianti, erano prevalentemente abusive, talvolta realizzate con le vecchie autorizzazioni del sindaco, ma spesso anche senza.
Tuttavia - ha osservato il procuratore Lombardo - anche quando si è in presenza di discariche autorizzate, la loro realizzazione non è quasi mai adeguata alla natura dei rifiuti che vi confluiscono, in quanto l'impermeabilizzazione del relativo terreno risulta del tutto inidonea, come dimostrato dal fatto che, spesso, non essendo tali discariche distanti da torrenti o fiumi, accade che il percolato e tutte le altre sostanze si infiltrino nelle acque.
Per quel che attiene il circondario di Catanzaro, i problemi verificatisi riguardano soprattutto le discariche gestite abusivamente. Ve ne erano due, di cui una a Gimigliano, rispetto alla quale vi era una indagine in corso.
Il procuratore della Repubblica in Catanzaro ha fatto riferimento a collaboratori che hanno parlato dell'inserimento della criminalità organizzata nella gestione e nello smaltimento illecito dei rifiuti.
Uno di questi collaboratori è di Crotone, si chiama Luigi Bonaventura, un pentito di calibro, in quanto esponente di rilievo della grossa cosca Vrenna-Corigliano-Bonaventura. Costui ha fornito contributi molto validi per smantellare soprattutto il proprio gruppo criminale, ma anche altri gruppi con i quali era in rapporti.
Erano state svolte indagini da parte della procura della Repubblica in Crotone e della DDA di Catanzaro (c.d. indagine Puma) nei confronti di un noto imprenditore nel settore dei rifiuti, Raffaele Vrenna, proprietario, tra le altre, della società «Sovreco» e titolare della discarica più grande della Calabria, quella di Columbra, località vicina a Crotone.
A sua volta, Salvatore Vitello, procuratore della Repubblica di Lamezia Terme, nel corso dell'audizione del 3 dicembre 2009, ha riferito di una importante indagine, che aveva portato al sequestro di una grossa discarica abusiva nel lametino, nella quale alcuni comuni conferivano materiale e rottami ferrosi e che avevano continuato a farlo anche in presenza del sequestro.
Tutto ciò nonostante che sul territorio vi siano, in località Lenza Viscardi, impianti di gestione, deposito, messa in riserva e cernita di rifiuti speciali e pericolosi, regolarmente autorizzati, gestiti dalla società «Ecosistem» e vi sia, in località Frasso Brago di Lamezia Terme, un altro impianto di termodistruzione per incenerimento a terra di rifiuti speciali non pericolosi e pericolosi di tipo sanitario.
Quindi, il dottor Vitello si è soffermato sull'inquinamento del mare, che riguarda soprattutto tutta la lunga costa del lametino, grave,

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a tal punto, da rendere impossibile nell'estate del 2009 la balneazione, perché l'acqua era evidentemente sporca.
La procura della Repubblica aveva aperto un fascicolo di atti relativi a modello 45 e aveva incaricato il NOE e la compagnia dei carabinieri di andare a verificare le fonti di inquinamento che venivano individuate nei fiumi e nei torrenti nei quali scaricavano i loro liquami i diversi comuni della zona, i cui depuratori esistono, ma non funzionano, in quanto mancano i necessari investimenti pubblici.
Addirittura, nel comune di Pianopoli, erano stati sequestrati due depuratori piccoli, che avevano iniziato a funzionare solo quando erano sopraggiunti i carabinieri e in maniera manuale, essendo stati accesi solo al loro arrivo, mentre avrebbero dovuto funzionare in automatico.
A questo punto, la procura stava svolgendo un'attività di controllo e monitoraggio esteso a tutti i comuni che ricadono nella competenza del circondario di Lamezia, nonché un'attività in comune con Catanzaro, per stabilire le modalità di intervento sul depuratore di Lamezia Terme, dove confluivano diversi comuni.
Accanto al fenomeno delle discariche abusive vi era quello dell'abbandono incontrollato dei rifiuti, contrassegnato dall'esistenza di 150 procedimenti penali che, tuttavia, riguardavano piccole discariche di materiali inerti, un fenomeno diffusissimo nella popolazione, che non ne percepisce il disvalore.
Purtroppo - ha concluso il procuratore della Repubblica - il problema della legalità, nello specifico settore non riguarda una, due o tre persone, ma tutta la popolazione, che non lo avverte come un fatto negativo.
Da ultimo, come si è già detto (pagina 95), la discarica privata di Pianopoli, località Gallù-Carratello, amministrata dalla «Eco Inerti Srl», con decreto urgente in data 18 novembre 2010, è stata posta sotto sequestro dalla procura di Lamezia Terme, per violazione degli artt. 137, comma 1, del decreto legislativo n. 152 del 2006 e 674 c.p. essendo stata accertata, all'esito delle prime indagini effettuate dai carabinieri della stazione di Pianopoli, l'esistenza, all'interno della stessa discarica, di una tubazione non autorizzata che, nei primi giorni del mese di novembre 2010, aveva iniziato a scaricare percolato da rifiuti, oltre a rifiuti di ogni genere come plastica e carta, destinati a finire nel torrente Drema e da questo nel fiume Amato, dopo aver attraversato i terreni contigui alla discarica, di proprietà di tal Nanci Elisabetta, che aveva sporto denunzia (doc. 633/2).
In tale contesto, nella provincia di Catanzaro, nonostante le incentivazioni attraverso i POR, le cosiddette «oasi ecologiche», cioè i siti che i comuni concedono in comodato d'uso alle società miste per la raccolta di rifiuti differenziati urbani, si sono rivelate delle vere e proprie discariche, dal momento che vi sono stati depositati anche rifiuti speciali, pericolosi e non. (18)
Quanto alle infiltrazioni delle organizzazioni criminali, la dottoressa Di Rosa, pur ponendo in evidenza che il comune di Lamezia

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Terme era stato sciolto ben due volte per infiltrazioni mafiose, ha riferito, nel corso della sua audizione, che non sono emerse infiltrazioni mafiose nel settore specifico dei rifiuti.
Il prefetto di Catanzaro ha, tuttavia, sottolineato che sono ben venticinque le «famiglie» che operano nella provincia di Catanzaro, dedite a estorsioni, usura e droga.
Dal canto suo, Claudio D'Angelo, comandante provinciale dei carabinieri di Catanzaro, nel corso dell'audizione del 10 marzo 2010, pur confermando di non avere registrato attività connesse alla gestione dei rifiuti, ha riferito che, partendo dal lametino, la famiglia principale è quella degli Iannazzo, poi ci sono i Torcasio.
I primi si occupano prevalentemente di attività medio-alta, quindi appalti e attività pubbliche, più che altro sono collegati a interventi concernenti movimenti terra, in particolare, quelli della strada statale 182, la Trasversale delle Serre; viceversa, i Torcasio si occupano di estorsione, attività che vedeva il territorio lametino suddiviso con i Giampà.
Nella zona del soveratese vi sono i Sia, che si appoggiano anche ai Procopio di Davoli e sono contrapposti ai Gallace-Novella della zona di Guardavalle i quali, a loro volta, risultano appoggiarsi ai Ruga di Monasterace.
Per quanto riguarda la zona della Presila, che era una dependance del crotonese nella provincia di Catanzaro, le famiglie del posto sono tutte riconducibili agli Arena.
Infine, il comandante provinciale dei carabinieri ha riportato solo due episodi nella zona, gli unici della provincia, di due veicoli attrezzati per la raccolta dei rifiuti ai quali era stato appiccato il fuoco. Uno risaliva al dicembre del 2008, l'altro al giugno del 2009. Entrambi i veicoli appartenevano alla ditta Schillacium, che ha sede a Soverato, ma operava nella zona di Squillace e nei comuni limitrofi.
I due episodi - secondo il comandante dei carabinieri - sembravano legati più a una richiesta di estorsione che non a un tentativo di gestione dei rifiuti, tanto è vero che la ditta aveva continuato ad avere l'appalto nella zona e non risultavano mutati gli assetti societari.

Considerazioni finali

In conclusione - a distanza di oltre tredici anni (ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri n. 2696 del 21 ottobre 1997) (19) dall'istituzione dell'ufficio del commissario delegato per l'emergenza rifiuti in Calabria nel settore dello smaltimento di rsu, poi ampliato al settore delle acque e delle bonifiche per gli anni compresi dal 2002 al 2008 - non è stato realizzato nessuno degli obiettivi previsti dai piani regionali per i rifiuti, predisposti dal commissario.
Come si è rilevato, nel corso di questa relazione, uno dei principali motivi di tale fallimento deve essere individuato nelle numerose interferenze, spesso sfociate in veri e propri conflitti, tra i compiti attribuiti all'ufficio del commissario e quelli demandati agli


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enti locali, che hanno paralizzato tutte le iniziative dei vari commissari delegati succedutisi nel tempo, oltre che nella incapacità di questi ultimi.
Tale dato è singolare e, al contempo, allarmante, alla luce del fatto che nella fase iniziale dell'esperienza commissariale e nella ragionevole prospettiva di una valida e seria collaborazione istituzionale, sono stati via, via nominati commissari delegati gli stessi presidenti della regione Calabria (Giuseppe Nisticò, Giovambattista Caligiuri, Luigi Meduri e Giuseppe Chiaravalloti).
Soltanto, a partire dal mese di settembre 2004, il Consiglio dei ministri - probabilmente - allo scopo di evitare eventuali condizionamenti alla struttura commissariale, determinati dal cumulo dell'incarico istituzionale di commissario delegato del Governo con la carica elettiva di presidente della regione, come tale legata al consenso popolare, ha nominato commissari delegati vari prefetti, succedutisi nel tempo (dottor Domenico Bagnato, dottor Carlo Alfiero, dottor Antonio Ruggiero, dottor Salvatore Montanaro, dottor Goffredo Sottile).
Dopo la breve parentesi rappresentata dalla nomina, in data 9 luglio 2010, del presidente della regione, Giuseppe Scopelliti, è stato, infine, nominato nuovo commissario delegato, in data 23 febbraio 2011, il generale della Guardia di Finanza Graziano Melandri.
Lo scopo del regime di commissariamento era quello di realizzare, in sintonia con volontà espressa dal legislatore nel codice ambientale, il «superamento della frammentazione delle gestioni attraverso un servizio di gestione integrata dei rifiuti» (articolo 200, comma 1, del decreto legislativo n. 152 del 2006), oltre che quello di realizzare nel più breve tempo possibile una configurazione di gestione e smaltimento dei rifiuti urbani a norma.
Un obiettivo non impossibile da realizzare, alla luce dei dati quantitativi che danno conto del fatto che la regione Calabria produce annualmente poco più di 915 mila tonnellate di rifiuti solidi urbani, a fronte di una popolazione di circa due milioni di abitanti, sia pure distribuita in modo disomogeneo e su un territorio orograficamente complesso, nonché delle ingenti risorse gestite dall'ufficio del commissario delegato al superamento dell'emergenza.
A tale proposito, nella relazione in atti del comando dei carabinieri per la tutela dell'ambiente-gruppo Napoli del 6 novembre 2009 trasmessa a questa Commissione (doc. 163/1) si riferisce che, nel periodo 1998-2006, l'ufficio del commissario delegato ha gestito circa 700 milioni di euro, risorse che, ad oggi, sono lievitate a ben oltre il miliardo di euro, a fronte degli insufficienti risultati ottenuti.
Del resto, la sezione regionale della Corte dei conti di Catanzaro, con la quale i nuclei calabresi dei carabinieri hanno collaborato in diverse occasioni ed esperienze investigative, non ha risparmiato critiche alla struttura e alla gestione commissariale in Calabria, parlando di «fallimento dell'esperienza commissariale», che invece di produrre scelte rapide e definitive, introduce conflitti istituzionali devastanti e incomprensibili, tanto più che «si è riscontrata la totale assenza di pubblicità, correttezza e trasparenza nell'attribuzione degli incarichi esterni».

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Del tutto negative sono anche le conclusioni sulla gestione commissariale, contenute nella sopra richiamata relazione del comando dei carabinieri per la tutela dell'ambiente-gruppo Napoli, conclusioni che si ritiene opportuno riportare per intero, come di seguito:
«Lo stato emergenziale nella regione Calabria, come peraltro accertato anche in altre regioni del Sud, invece di rappresentare una concreta risorsa per la collettività - ingenti risorse, poteri straordinari celerità nelle procedure amministrative e tutti gli altri strumenti di cui dispone la struttura commissariale - ha rappresentato un sistema di potere, da tutelare e prorogare ad ogni costo e per più tempo possibile, basato sugli appalti, sulle consulenze esterne e su tutti quei meccanismi di potere che caratterizzano un istituto emergenziale che, in alcuni casi, ha creato più danni di quelli rinvenuti all'atto dell'insediamento o del subentro in luogo di alcune amministrazioni locali. Il problema dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani in Calabria è stato fin qui caratterizzato anzitutto dall'intervento diretto dello Stato, attraverso l'istituto straordinario del commissariamento, determinato dalla dichiarata incapacità a livello regionale di risolvere autonomamente il problema; commissariamento che aveva il mandato, entro limiti di tempo ragionevoli, di fronteggiare la fase dell'emergenza per riconsegnare poi la gestione ordinaria agli enti locali. L'ufficio del commissario avrebbe perciò dovuto, e potuto, contribuire in maniera decisiva, con le facilitazioni amministrative previste dalla normativa, con l'esistenza di una struttura dedicata e una disponibilità di risorse economiche assai rilevante, alla soluzione del problema dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani (così come a quello della depurazione delle acque e della bonifica dei siti inquinati, filoni di intervento pure di sua competenza e ugualmente in sofferenza). Sfortunatamente il lunghissimo periodo di commissariamento si è rivelato un handicap ulteriore... Tutto ciò si verifica in una regione le cui caratteristiche avrebbero preteso, più che permesso, un'impostazione tecnica nello smaltimento dei rifiuti totalmente differente. C'è più di un motivo per ritenere, come anche la cronaca giudiziaria di questi anni dimostra chiaramente, che gli interessi politico-malavitosi non siano stati estranei a scelte che garantivano, evidentemente, la massimizzazione dei profitti.»

In origine, il commissario delegato ha affrontato il problema dei rifiuti in Calabria mediante l'adozione di diversi piani regionali di gestione, che hanno avuto come obiettivo principale elevati livelli di raccolta differenziata, che all'inizio della gestione commissariale erano del tutto inesistenti.
In funzione di tale obiettivo il territorio regionale è stato suddiviso in tre macroaree («Calabria Nord», «Calabria Centro», «Calabria Sud»), ma in modo assolutamente non corrispondente al dato geografico, posto che la «Calabria Sud» comprende non solo tutta la provincia di Reggio Calabria ma anche la zona di Rossano (CS) e la provincia di Crotone che, viceversa, per la loro posizione, avrebbero dovuto essere collocate nel sistema «Calabria Nord».
In particolare, non si comprende la ragione per cui ben cinque impianti di trattamento dei rifiuti siano stati tutti ricompresi nel


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sistema «Calabria Sud» - località Sambatello (RC), Siderno (RC), Rossano (CS), Gioia Tauro (RC) e Crotone - e sia stato lasciato privo di impianti il sistema «Calabria Nord».
Tale anomala suddivisione non risponde in alcun modo alle esigenze del territorio e a quelle di un virtuoso ciclo integrato dei rifiuti nella regione.
Le ricadute di tale suddivisione non sono da poco, se si considera che i rifiuti «viaggiano» da un capo all'altro della regione, prima e dopo il loro trattamento, dal momento che le discariche di servizio non sono localizzate nelle vicinanze degli impianti di trattamento, ma a centinaia di chilometri dagli stessi, per di più in un territorio montuoso e privo di adeguata viabilità, come quello calabrese.
Altro problema ampiamente approfondito nel corso della relazione è quello delle quattordici società miste pubblico-private - una per ciascun sottoambito territoriale - costituite dal commissario delegato per realizzare la raccolta differenziata.
Nel mese di agosto del 2000, sono state espletate tutte le gare di appalto per l'aggiudicazione del 49 per cento del capitale delle società miste (pari alla quota privata di ciascuna società mista) alle ditte risultate vincitrici e sono stati trasferiti ai comuni le quote pubbliche del 51 per cento delle stesse società, consistenti in 80 miliardi di lire di forniture in attrezzature e mezzi di trasporto, peraltro, già concessi in comodato d'uso alle ditte private per l'avvio del servizio di raccolta.
Sullo svolgimento delle gare per la scelta dei soci privati - avvenuto con la collaborazione di notai, che hanno proceduto al sorteggio delle ditte dall'elenco appositamente predisposto dalla struttura commissariale e dalle prefetture - si sono appuntate le critiche dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, con la segnalazione del 16 luglio 2008, riportata nella relazione della Corte dei conti (doc. 352/2 pagina 53), a motivo del fatto che la gara è stata svolta «a metà», e cioè solo per selezionare imprese private locali, mentre la scelta più importante, quella cioè del socio «industriale», è stata effettuata dallo stesso commissario delegato, senza gara alcuna, in deroga alla normativa vigente a livello comunitario e nazionale.
L'esito delle iniziative commissariali è stato rovinoso, posto che la raccolta differenziata non è decollata, anzi è rimasta ferma al punto di partenza, come emerge dalle conclusioni concordi contenute: A) nella relazione della Corte dei conti-sezione regionale di controllo della Calabria sulla gestione dei rifiuti da parte di un consistente numero di comuni calabresi, relazione approvata nell'adunanza del 21 dicembre 2009 (vedi doc. 350/2), nella quale viene sottolineata la «pressoché inesistenza di raccolta differenziata sul 90 per cento del territorio regionale»; B) nella relazione del consulente tecnico d'ufficio, nominato dal collegio arbitrale nella controversia tra TEC spa-Termo Energia Calabria e Presidenza del Consiglio dei Ministri-ufficio del commissario delegato, nella quale - con riferimento al sistema «Calabria Sud» - viene indicata nella misura del 4,2 per cento la percentuale della raccolta differenziata per gli anni 2005, 2006, 2007 e 2008.
In molti comuni calabresi la situazione è ulteriormente aggravata dal fenomeno della «duplicazione» delle società deputate alla raccolta dei rifiuti, dal momento che a Reggio Calabria, Crotone, Catanzaro e

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in altre grosse realtà della regione, accanto alle società miste - deputate alla raccolta differenziata - continuano ad operare le vecchie società aventi ad oggetto la raccolta dell'indifferenziato, società che avrebbero dovuto essere poste in liquidazione.
L'unica evidente finalità di tale gestione sembra essere quella di garantire posti di lavoro, piuttosto che un servizio ai cittadini e di dare cittadinanza anche nel settore della gestione dei rifiuti a gruppi con evidenti connotazioni mafiose, così come è accaduto - ed ampiamente documentato nella Relazione - per la società «Leonia» di Reggio Calabria, preposta alla raccolta differenziata, per la «Appennino Paolano» operante nel Medio Tirreno Cosentino e, con differenti livelli di intensità criminosa, per l'altra società mista «Alto Tirreno Cosentino».
A distanza di pochi anni dalla loro costituzione, tutte le società miste sono state dichiarate fallite o, comunque, versano in stato di insolvenza sia per assunzione di personale in esubero, sia per il mancato versamento delle quote consortili da parte dei comuni interessati, che - a loro volta - non riscuotono i relativi tributi dagli utenti.
È precisa sul punto la denunzia contenuta, ancora una volta, nella relazione della sezione regionale di controllo della Corte dei conti, che nelle conclusioni (doc. 350/2, p. 654 e segg.) così amaramente si esprime: «Ciò che invece permane e, forse, si è addirittura aggravato è l'aspetto di sostanziale inadeguatezza di alcune delle società che gestiscono i sottoambiti; questo aspetto ha indubbiamente condotto al fallimento della società "Il Pollino" ed alla messa in liquidazione delle società "Proserpina", "Appennino Paolano", "Valle Crati" e "Sibaritide", non prima però che una grossa mole di risorse pubbliche transitasse dalle casse dei comuni a quelle di alcuni soci privati che vendevano alle società miste quei medesimi servizi che la società doveva prestare ai comuni».
Tutto ciò nell'ambito di un'allegra finanza da parte dei comuni interessati, pure stigmatizzata dalla Corte dei conti con i seguenti rilievi: 1) «rimane ingiustificata la mancata opposizione da parte dei comuni alle richieste di pagamento dei servizi di trasporto e conferimento dei rifiuti presso discariche molto distanti dai territori ovvero il mancato rispetto, da parte delle SpA miste, delle tariffe per lo smaltimento ovvero, ancora, la mancata verifica dei contenuti delle fatture emesse a carico dei comuni da parte dei gestori del servizio»; 2) «tali mancate opposizioni sono state seguite da pagamenti da parte delle amministrazioni per servizi "sovrastimati", cioè, venduti, e fatturati, per importi sensibilmente superiori ai costi di produzione o a quelli concordati con il commissario o con le stesse amministrazioni nei contratti di servizio»; 3) «tutto quanto sopra è avvenuto per lo più, senza particolari opposizioni da parte di tutti gli amministratori locali che, talvolta, non hanno fatto valere le proprie prerogative in seno all'assemblea dei soci, pur in presenza di disservizi»; 4) «laddove sono state mosse contestazioni per iscritto alle società o si è proceduto alla contestazione delle fatture e, quindi, al mancato riconoscimento dei propri debiti, gli amministratori locali - in modo del tutto contraddittorio - non hanno in genere mancato di votare favorevolmente i bilanci, sicché, in termini di efficienza ed efficacia delle scelte

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pubbliche, non può esprimersi neppure una valutazione di sola sufficienza».
Il fallimento della raccolta differenziata ha contribuito in maniera rilevante alla crisi dell'intero sistema.
In Calabria non sono state realizzate nel corso di tutto il commissariamento nuove discariche pubbliche, sicché tutto il sistema delle discariche è rimasto affidato ai privati.
Ad oggi, sono operative le discariche di Pianopoli (CZ) e di Catanzaro-Alli, entrambe di proprietà del privato «Enerambiente SpA», nonché la discarica di Crotone, località Columbra, la più grossa della Calabria, gestita dalla «Sovreco srl», facente parte del discusso gruppo Vrenna, mentre tutte le altre discariche, pubbliche e private, sono praticamente esaurite.
Da ultimo, l'ufficio del commissario si è rivolto alla «Enerambiente SpA», in qualità di gestore della discarica di Pianopoli, per il conferimento di rifiuti solidi urbani e di sottoprodotti di lavorazione provenienti dal sistema pubblico di gestione di rsu della Calabria.
Tuttavia, la situazione è precipitata dopo che, in data 18 novembre 2010, è intervenuto un decreto di sequestro preventivo urgente di questa discarica, emesso dalla procura di Lamezia Terme e convalidato dal GIP, in data 22 novembre 2010, per violazione degli artt. 137, comma 1, del decreto legislativo n. 152 del 2006 e 674 c.p. (doc. 633/2).
Il sequestro della discarica di Pianopoli ha mandato in crisi l'intero sistema dello smaltimento dei rifiuti in Calabria, tanto che l'ufficio del commissario si è visto costretto a richiedere, con urgenza, in data 22 novembre 2010, alla procura della Repubblica «il dissequestro, anche, parziale della discarica in oggetto per consentire il regolare funzionamento del sistema pubblico che [...] non ha, allo stato, altre possibilità di smaltimento e subirebbe un blocco pressoché totale, con la conseguente impossibilità di garantire la regolare raccolta del rifiuto urbano».
La gestione integrata dei rifiuti comprende gli impianti di trattamento - che in Calabria fanno capo per la gran parte a una società privata, la TEC-Veolia - nonché il termovalorizzatore di Gioia Tauro, anch'esso gestito dalla stessa società.
Con riguardo a quest'ultimo impianto, dal Rapporto rifiuti 2008 ISPRA-ONR e dal successivo rapporto del 2009 risulta: 1) che, negli anni 2007 e 2008, l'inceneritore di Gioia Tauro ha trattato un quantitativo di rifiuti, rispettivamente, di 114 mila tonnellate e di 97 mila tonnellate di cdr, a fronte di una potenzialità complessiva di 120 mila tonnellate; 2) che ha usato come combustibile cdr proveniente anche da altre regioni e, segnatamente, dal Veneto, dalla Toscana e dalla Lombardia. (20)
Alla luce dei dati sopra esposti, appare evidente la superfluità del raddoppio dell'impianto di incenerimento di Gioia Tauro, il cui completamento è previsto per il 2012 e al quale, tuttavia, non è possibile sottrarsi per non dover pagare forti penali, in forza del concluso contratto di appalto.

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Tuttavia, tale raddoppio non è destinato a rimanere privo di conseguenze per il territorio calabrese, in quanto - nel breve/medio periodo e in attesa che anche in Calabria si produca cdr di adeguata qualità ed in quantità sufficiente a saturare la capacità di trattamento dell'impianto di Gioia Tauro raddoppiato - è destinato a produrre l'aumento, in modo esponenziale, dell'importazione da altre regioni italiane del cdr che, in quanto rifiuto speciale, non è sottoposto a vincoli territoriali, come i rifiuti solidi urbani.

In un contesto di acclarata inefficienza e di disservizio pubblico devono, inoltre, essere sottolineati, in negativo, i costi della struttura commissariale, indicati nella relazione della Corte dei conti-sezione regionale di controllo per la Calabria, che - con riferimento al periodo compreso tra il mese di gennaio 2006 e il mese di agosto 2009 - sono stati complessivamente pari a 13.838.659,64 euro.
Tra le voci di bilancio relative alle suddette annualità meritano di essere sottolineate le seguenti: 1) i «compensi al personale amministrativo» che, nell'anno 2007, hanno raggiunto la rilevante somma di 3,44 milioni di euro, a fronte di una media negli altri anni di circa euro 1,5 milioni; 2) i «compensi per collaborazioni» - non meglio specificate - che, nell'anno 2007, hanno raggiunto il picco di 979 mila euro e, nell'anno 2008, sono stati di ben 717 mila euro.
In via generale, si tratta di costi molto elevati, che non trovano alcun riscontro nel servizio reso; in particolare, la voce «compensi per collaborazioni» appare del tutto ingiustificata.
Rilevanti sono, poi, le spese «per la gestione di discariche, impianti e stazioni» che, nel decennio, sono state complessivamente pari a euro 249.144.297,53, con un crescendo costante.
Se si volessero fare dei rapidi confronti per ogni cittadino calabrese sono stati spesi ben 123,89 euro solo per la gestione delle discariche e delle stazioni di trasferenza da parte del commissario, cui vanno ad aggiungersi le somme pagate a titolo di tariffa dai comuni: il tutto per un servizio non reso, ovvero reso male.
Naturalmente, i costi sopra indicati prescindono dalle condanne, contenute in ben tre lodi arbitrali, del complessivo importo di oltre 100 milioni di euro - importo che, paradossalmente, è pari al costo di un inceneritore da 120 mila tonnellate all'anno - subite dall'ufficio del commissario delegato, a causa: A) della mancata realizzazione del termovalorizzatore di Bisignano (doc. 615/5); B) dei ritardi e degli inadempimenti relativi alla costruzione degli impianti di trattamento e delle discariche di servizio, nonché al raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro (lodo n. 121/10); C) dei crediti vantati dalla TEC-Veolia per maggiori costi di gestione degli impianti (lodo 101/10).
Tutto ciò a fronte di un'attività di recupero crediti svolta dall'ufficio del commissario nei confronti dei comuni per le tariffe rsu non versate, che è del tutto insoddisfacente, posto che nell'anno 2009 vi è stato un incremento dei crediti non riscossi della struttura commissariale verso i comuni, che sono passati dalla somma di 143 milioni 874 mila euro, alla data del 31 dicembre 2008, a quella di 149 milioni di euro, alla data del 31 dicembre 2009.
In tale contesto e alla luce della mancata realizzazione degli obiettivi previsti nei vari «piani rifiuti» non si comprendono le ragioni


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delle scelte fatte nel 2000 dal commissario delegato dell'epoca, dottor Giuseppe Chiaravalloti, scelte che, da un certo punto di vista, si possono definire «evolute», ma che appaiono del tutto inidonee in una situazione di emergenza che ne richiedeva di rapide, sicure e agibili, come competono al commissario straordinario.
In definitiva - e non è cosa da poco in una terra che vede l'infiltrazione di gruppi criminali in tutte le attività economiche - l'emergenza in Calabria sarebbe completamente superata e si sarebbero potuti creare i presupposti per una situazione di normalità, se il complesso della lunga attività commissariale avesse lasciato in dote alla regione due-tre impianti pubblici di smaltimento finale - distribuiti nelle tre macro-aree individuate da nord a sud nei diversi cosiddetti «Piani» - in grado di smaltire direttamente qualche centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti all'anno, come - ad esempio - sono in grado di fare impianti di incenerimento dei rifiuti urbani tal quali o discariche controllate, realizzate secondo le norme e le migliori tecniche, oltre che correttamente localizzate nel territorio.
Quindi, in un periodo successivo, eventualmente di gestione ordinaria dal punto di vista amministrativo, si sarebbe potuto realizzare il «ciclo integrato dei rifiuti», previsto dalle norme e già realizzato in altre aree del Paese, così evitando di innestare su una situazione di drammatica emergenza operativa, oltre che di legalità, un sistema come quello legato ai trattamenti intermedi dei rifiuti, che comporta, come era prevedibile, problematiche molto complesse da trattare, partendo da una situazione di emergenza.
Fermo rimanendo il fatto che, comunque, l'incenerimento del tal quale andava accompagnato alla creazione progressiva di un sistema di raccolta differenziata, alla stregua di quanto accade in tutto il Nord Italia, dove la raccolta differenziata raggiunge e supera il 50 per cento dei rifiuti urbani.
Viceversa, la struttura commissariale calabrese, pur nell'assenza totale della raccolta differenziata, ha cercato - ma invano - di creare ex novo un sistema che ancora oggi, a distanza di ben oltre un decennio, stenta a decollare.
Più in generale va detto - alla stregua dei rilievi svolti, nel lontano anno 2005, dalla sezione centrale di controllo della Corte dei conti sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato, nella deliberazione n. 1/2005/G - che il commissariamento non ha avuto come finalità principale quella di affidare la gestione dell'emergenza rifiuti a organi tecnici più attrezzati, allo scopo di dare piena attuazione alla disciplina vigente sui rifiuti, né ha portato alla velocizzazione dei procedimenti amministrativi necessari all'uscita dall'emergenza, ma il più delle volte ha avuto il solo scopo di attribuire poteri straordinari all'organo investito di una certa funzione.
Peraltro, va stigmatizzato il fatto che nella gestione commissariale in Calabria, per un verso, nessuno dei contratti stipulati dai commissari delegati risulta sottoposto al controllo preventivo della Corte dei conti e, per altro verso, vi è stata una produzione alluvionale di ordinanze commissariali, spesso contraddittorie e confuse.
Con conseguenze non da poco, dal momento che le inefficienze del sistema pubblicistico hanno finito con il favorire l'inserimento nel

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ciclo dei rifiuti della criminalità organizzata, che è particolarmente presente nella provincia di Reggio Calabria, laddove, a fronte di un giro d'affari di complessivi 150 milioni di euro all'anno, pari al 2 per cento del PIL del territorio, solo 12 imprese delle 161 che si occupano di rifiuti hanno ottenuto la certificazione antimafia negativa, mentre 115 imprese risultano addirittura sconosciute al sistema.
Dal che si desume agevolmente che - in una terra che vede la «presenza asfissiante» della 'ndrangheta, con le regole descritte in modo particolareggiato dal dottor Gratteri - le suddette imprese prosperano in modo anonimo con i subappalti o con la prestazione di manodopera.
Sul punto, sono significative le dichiarazioni rese, nel corso della sua audizione dal dottor Giuseppe Pignatone, il quale ha riferito dell'esistenza di connivenze, infiltrazioni e condizionamenti, talvolta a livello di amministratori dei comuni, a volte, molto più semplicemente, della struttura amministrativa, che spesso si intreccia con la prima, tanto che nell'ultimo periodo, nella sola provincia di Reggio, sono state sciolte le amministrazioni comunali di cinque o sei comuni, sulla base delle risultanze di indagini della direzione distrettuale antimafia, poi utilizzate in sede amministrativa.
A tale proposito, il procuratore della Repubblica ha citato emblematicamente il caso del sindaco di Gioia Tauro, Giorgio Dal Torrione - poi, rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa o partecipazione - il quale era anche segretario generale di un comune vicino a quello di Gioia Tauro, nonché dei collegamenti tra ambienti politici - il già sindaco di Reggio Calabria, Italo Falcomatà - e ad ambienti malavitosi - cosca Libri, De Stefano, Condello, Piromalli e, nell'ambito dell'indagine «Armonia», diverse cosche ioniche reggine - quali erano emersi in un procedimento penale, significativamente, denominato «Rifiuti SpA».
La Commissione si è soffermata, inoltre, con apposito capitolo, sul ruolo egemone che il gruppo Vrenna esercita sul territorio calabrese e sui rapporti particolari anche con gli ambienti istituzionali, come emerge dal fatto che un ex procuratore della Repubblica abbia accettato di ricoprire il ruolo di trustee delle partecipazioni azionarie di Raffaele Vrenna, già raggiunto da misura interdittiva.
In tale contesto ambientale non deve destare perplessità il fatto che la Calabria sia terra di smaltimento di rifiuti speciali, anche pericolosi, posto che l'Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale (ISPRA) ha calcolato una capacità di smaltimento di rifiuti speciali calabrese molto alta, di quasi 43 mila tonnellate per anno, pari a circa il 7 per cento dei rifiuti nazionali, quantitativo che non corrisponde assolutamente alla produzione di rifiuti speciali nella regione.
Sul punto il dottor Vincenzo Luberto, sostituto procuratore distrettuale antimafia di Catanzaro, nel corso dell'audizione del 3 dicembre 2009, ha riferito che i dati processuali, come gli altri elementi di indagine, non consentivano, tuttavia, di imbastire un procedimento volto alla dimostrazione di una importazione di rifiuti speciali dal territorio non calabrese e, quindi, di censire giudiziariamente un fenomeno di questo tipo.

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Gli inadempimenti del commissario delegato hanno investito anche il sito di interesse nazionale (SIN) di Crotone, Cerchiara e Cassano, tutti comuni afflitti da un grave inquinamento ambientale, determinato: A) dalla «ferrite di zinco» dello stabilimento «ex Pertusola» di Crotone; B) dalla «fibretta di amianto in polvere», usata fino agli anni Novanta negli stabilimenti «ex Montedison» di Crotone; C) dalla «fosforite» derivante dalla produzione di fertilizzanti in questi ultimi stabilimenti.
Nel periodo di competenza - che va dal mese di novembre 2002 al mese giugno 2008, anno in cui l'esecuzione degli interventi di bonifica è stata demandata a «Syndial SpA», quale soggetto responsabile della contaminazione - l'ufficio del commissario per l'emergenza rifiuti non ha provveduto a porre in essere alcuna iniziativa per la messa in sicurezza e/o la bonifica dei siti inquinati, lasciando cadere nel vuoto le decisioni assunte nelle varie conferenze di servizi tenute presso il Ministero dell'ambiente e le conseguenti prescrizioni.
Le varie conferenze di servizi, istruttorie o decisorie, e le riunioni operative effettuate nella realtà hanno avuto solo carattere di mera interlocutorietà, senza alcun segnale di concretezza nell'affrontare e risolvere l'annosa questione dell'inquinamento dei terreni, delle falde acquifere e dei fondali marini, determinato dalle pregresse attività industriali all'interno del sito in questione.
Né la situazione è concretamente migliorata nel corso di questi ultimi tre anni di gestione del SIN da parte del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, posto che la Syndial è in forte ritardo nell'attività di bonifica dei siti inquinati e che il Ministero stenta a esercitare i poteri sostitutivi di azione in danno, che la legge gli conferisce per l'adempimento delle obbligazioni assunte dalla società proprietaria dei siti inquinati.
A loro volta, le numerose riunioni tecniche e i sopralluoghi degli enti di controllo nazionali e locali, effettuati su richiesta del Ministero, sembrano non avere altro effetto che quello di fornire alla Syndial un giustificativo per dilazionare i tempi di intervento, probabilmente in previsione della stipula di un atto di «transazione globale» tra l'Eni e il Ministero, che ricondurrebbe a quest'ultimo l'esecuzione di tutti gli interventi.
Sulla congruità degli importi di tale transazione rispetto alle necessità di intervento sulle aree di proprietà Eni-Syndial presenti nei siti di interesse nazionale in generale e a Crotone in particolare, si dovrà attentamente vigilare.
E, tuttavia, a questo punto, questa Commissione di inchiesta - anche alla luce delle puntuali osservazioni del dottor Gianfranco Mascazzini, ex direttore generale della direzione generale qualità della vita del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, nel corso della sua audizione del 12 aprile 2011- non può non esprimere tutte le sue perplessità sulla scelta operata dalla Syndial e approvata dal Ministero dell'ambiente, circa il trasferimento dei rifiuti nocivi dalle aree inquinate dell'ex Pertusola e dell'ex Fosfotec alla costruenda discarica di Giammiglione, località sita a ridosso della città di Crotone in una zona collinare, al confine del Comune di Scandale, comune interno a 350 s.l.m., inserito nella comunità montana «Alto Marchesato Crotonese».

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In pratica, nel caso di specie, il piano prevedeva il trasferimento dell'inquinamento dalla zona costiera a quella collinare dello stesso comune di Crotone, con centinaia di migliaia di viaggi di camion che avrebbero dovuto attraversare l'intera costa crotonese, carichi di molti milioni di metri cubi di materiali contenenti scoria cubilot, fosfogessi e fibretta d'amianto, da trasferire nella discarica di Giammiglione.
Viceversa - come ritenuto anche dallo stesso dottor Mascazzini nel corso della sua audizione - appare preferibile la bonifica in situ e, cioè, l'opportunità di chiudere all'interno di un volume confinato i materiali inquinanti e di trattarli sul posto, evitando escavazione e trasporto degli stessi.
Tanto più che il meccanismo dell'isolamento e del marginamento con tecniche sempre più raffinate - che oggi presentano un ragionevole rapporto costi/benefici - consente di attivare e scommettere sulle tecnologie di bonifica in situ.
In tal modo si evita il pericolo della fuoriuscita dell'inquinante grazie all'isolamento - chi se ne occupa sa quali regole rispettare - ed è anche possibile costruire nuovamente sui siti interessati, sia pure con una serie di cautele.
In conclusione sul punto, nelle more del lungo iter per l'autorizzazione all'apertura della discarica di Giammiglione - che risale addirittura al lontano 1998 e che è stata oggetto di forti manifestazioni pubbliche di contestazione da parte della stessa popolazione crotonese - meglio sarebbe stato isolare le suddette aree inquinate e iniziare il loro trattamento in loco, provvedendo a inertizzare il materiale inquinato, piuttosto che affidarsi a una costruenda nuova discarica in cui trasferire i prodotti inquinati, con il concreto rischio della dispersione del materiale inquinato nel corso del suo trasferimento da un sito all'altro.
Infine, per quanto riguarda l'inquinamento marino, essendo impossibile la rimozione dell'inquinante, si sarebbe potuto realizzare una cassa di colmata nella quale refluire i sedimenti contaminati.
Alla luce di queste poche considerazioni, appare evidente che è stato perso inutilmente un gran tempo, senza che le problematiche connesse alla bonifica del SIN di Crotone siano state - ancora ad oggi - in alcun modo neanche affrontate.
La Commissione d'inchiesta si è soffermata anche sulle problematiche connesse alle discariche abusive e alla loro bonifica, nonché su quelle relative all'inquinamento delle acque.
La mancanza di regolari discariche autorizzate favorisce fenomeni estesi e diffusi di comportamenti illegali non solo da parte dei cittadini, che abbandonano i rifiuti in modo incontrollato, ma anche da parte degli stessi amministratori comunali, i quali fanno ricorso a discariche che - sebbene autorizzate - non sono, comunque, a norma, vale a dire non sono adeguatamente impermeabilizzate e dotate dei presidi tecnologici adeguati per raccogliere e trattare percolati e biogas, evitando che si disperdano rispettivamente nelle falde ed in atmosfera.
Accanto a queste discariche «autorizzate» dai comuni, ma non a norma, vi sono le discariche tout court abusive che, come tali, sono naturalmente del tutto prive di impermeabilizzazione e impianti, ma

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che spesso si caratterizzano per le dimensioni e i volumi dell'abbandono incontrollato dei rifiuti tutt'altro che irrilevanti.
Nel territorio calabrese il numero delle discariche esistenti, autorizzate e abusive, è di circa un migliaio, tuttavia, è del tutto carente l'attività di bonifica, dal momento che, a fronte di fondi comunitari europei destinati alla bonifica dei siti inquinati e gestiti dal Piano operativo regionale, dell'importo di 70 milioni di euro, a valere per il periodo 2000-2006, sono stati dirottati alla «viabilità» fondi per l'importo di 50 milioni di euro, per evitare di perderli, in quanto non sono intervenuti, entro la data del 31 dicembre 2006, impegni di spesa da parte dell'Ufficio del commissario delegato, che all'epoca era competente per le bonifiche.
Inoltre, del tutto inspiegabilmente, la gara di appalto dell'importo di circa 6,5 milioni di euro, pure indetta dal commissario delegato per la bonifica di alcuni siti, non comprendeva proprio quei siti che lo stesso ufficio del commissario aveva definito «ad alto rischio» - dopo che con ordinanza n. 6294 del 30 ottobre 2007 aveva aggiornato i siti potenzialmente inquinati del territorio regionale e, mediante l'applicazione di indicatori del rischio ambientale, li aveva suddivisi in siti ad alto, medio, basso e marginale rischio.
Altra tematica affrontata dalla Commissione d'inchiesta è quella dell'inquinamento delle acque, fenomeno molto diffuso, determinato dalla mancanza e/o dal cattivo funzionamento dei depuratori, come ha riferito l'ex assessore regionale all'ambiente Silvestro Greco il quale, nel corso della sua audizione del 1o dicembre 2009, tra l'altro ha detto testualmente: «in questa regione sono stati installati 770 depuratori, la metà dei quali neanche collegati alla rete elettrica, solo al fine di "fare", perché "fare" significava aggiudicare appalti, creare clienti, eccetera. Oggi abbiamo un problema di depurazione - tra l'altro è in corso un'inchiesta della magistratura - perché non si è mai pensato a predisporre un piano di depurazione, ma a installare i depuratori.....»; «in questa regione la legge Galli non viene applicata; nessuno chiede soldi per occuparsi di fogne e di depurazione o, se qualcuno li chiede, poi li utilizza per fare le sagre. Bisogna essere realisti, dunque, ma se non si inizia non si va da nessuna parte».
Su tale fronte si è mossa l'Unione europea.
La Commissione europea ha, infatti, deciso di deferire l'Italia alla Corte di Giustizia dell'Unione europea per violazione degli artt. 3 e 4 della direttiva 91/271 sul trattamento delle acque reflue urbane di almeno 31 agglomerati calabresi.
Alla fine del mese di settembre 2010, il dipartimento regionale politiche dell'ambiente della Calabria, dopo aver consultato i comuni e le autorità d'ambito presenti nel territorio regionale, ha definito un primo programma straordinario di opere fognarie e depurative per arrestare il corso della procedura d'infrazione e ottimizzare il sistema depurativo e fognario regionale.
Il programma prevede interventi, compatibilmente con le risorse finanziarie disponibili, su tutti i 31 agglomerati passibili di infrazione, che a loro volta comprendono circa 90 comuni calabresi, tra i quali spiccano capoluoghi di provincia, come Reggio Calabria, Cosenza e Crotone e grossi centri urbani, come Gioia Tauro, Lamezia Terme, Siderno, Locri, Castrovillari, Rossano, ecc..

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Naturalmente, come accade quasi sempre in Calabria, non si parla mai di «opere realizzate», ma solo di «opere programmate».
Non a caso l'ingegnere Bruno Gualtieri, nel corso della sua audizione del 23 settembre 2010, ha riferito testualmente che «la criticità sui depuratori significa 31 siti, che sono in infrazione comunitaria e sono alla Corte di giustizia europea. La diffida per la Calabria è che se non superiamo questa criticità nel breve tempo, bloccheranno i fondi comunitari 2007-2013. Questa è la spada che ci portiamo sulla testa».
In un contesto così degradato spicca la posizione della «IAM», società mista pubblico-privata, che ha in gestione un depuratore a Gioia Tauro, al quale viene inspiegabilmente destinato il percolato proveniente dalla Sicilia, nonostante che tale depuratore spesso sia in difficoltà per la depurazione dei liquami del territorio calabrese.
In particolare, è emerso che le difficoltà dell'impianto di depurazione si manifestano in occasione della campagna olearia, durante la quale l'eccesso di polifenoli ne impedisce il funzionamento, con conseguente contaminazione della falda.
La Commissione d'inchiesta, infine, ha esaminato tutte le problematiche connesse al ciclo dei rifiuti in ciascuna provincia calabrese, soffermandosi sia sulla gestione dei rifiuti da parte delle autorità locali, sia sul fenomeno delle infiltrazioni criminali nello specifico settore, infiltrazioni determinate anche dal fallimento del sistema pubblico e dalla scarsità dei controlli sul territorio, che producono immense discariche abusive in un contesto socio-ambientale caratterizzato da una omertà abbastanza diffusa.

Elenco delle missioni eseguite e delle audizioni svolte in Calabria e a Roma dalla Commissione di Inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti.

Missione in Calabria dal 1o al 3 dicembre 2009

Audizioni svolte il 1o dicembre 2009:

- MUSOLINO Francesco: prefetto di Reggio Calabria;
- CASABONA Carmelo: questore di Reggio Calabria;
- GRECO Silvio: assessore regionale all'ambiente, Calabria;
- SOTTILE Goffredo: commissario delegato emergenza rifiuti urbani per la regione Calabria;
- SCOPELLITI Giuseppe: sindaco di Reggio Calabria;
- CONDIPODERO Maurizio: Capo di gabinetto provincia di Reggio Calabria;
- NERI Giuseppe: assessore all'ambiente provincia di Reggio Calabria;
- BARILLARO Beatrice: presidente WWF Calabria;
- PAOLILLO Giuseppe: Segretario regionale WWF Calabria;


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- BARILLÀ Nuccio: rappresentante direttivo nazionale Legambiente;
- GIOFFRÈ Alfonso: presidente Kronos;
- MARTINO Angela: presidente sezione Reggio Calabria di Italia Nostra;
- CALABRÒ Francesco: presidente amici della Terra di Reggio Calabria;
- LIOTTA Lidia: Comitato scientifico di Legambiente;
- IATI Alfredo: componente del consiglio direttivo di Confindustria Calabria;
- ANGELOSANTO Pasquale: Comandante provinciale CC Reggio Calabria;

- IACOBELLI Aldo: Comandante provinciale CC di Cosenza;
- MINUTOLI Paolo: Comandante NOE Reggio Calabria;
- REDA Alberto: Comandante provinciale della Guardia di Finanza;
- FERRUCCI Carlo: Vice comandante regionale del Corpo forestale dello Stato;
- DE LUCA Vincenzo: Direttore marittimo della Capitaneria di Porto di Reggio Calabria;
- CARDILE Angela Bruna: responsabile servizio suolo e rifiuti ARPACAL Reggio Calabria;
- DI LANDRO Salvatore: procuratore generale Corte di Appello Reggio Calabria;
- PIGNATONE Giuseppe: procuratore distrettuale antimafia Reggio Calabria;
- GRATTERI Nicola: procuratore aggiunto della repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria;

Audizioni svolte il 2 dicembre 2009:

- FALLICA Melchiorre: prefetto di Cosenza;
- SCIFO Giovanni Bartolomeo: questore di Cosenza;
- OLIVERIO Gerardo Mario: presidente della provincia di Cosenza;
- PERUGINI Salvatore: sindaco di Cosenza;
- MENDICINO Piero Franco: Direttore di Confcooperative Calabria;
- GRECO Orlandino: sindaco di Castrolibero;


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Missione in Calabria dal 10 al 11 marzo 2010

Audizioni svolte il 10 marzo 2010:

- PANICO Vincenzo: prefetto di Crotone;
- LOIERO Agazio: presidente regione Calabria;
- GRECO Silvestro: assessore regionale ambiente regione Calabria;
- GAMMINO Giuseppe: questore di Crotone;
- MAZZOTTA Raffaele: procuratore della Repubblica di Crotone;
- CARAMICO D'AURIA Daniela: sostituto procuratore della Repubblica di Crotone;
- GRECO Pino: rappresentante Fabbrikando l'Avvenire;
- TATA Antonio: rappresentante di Legambiente;
- FERRARI Umberto: rappresentante WWF;
- GIANCANE Gaetano: Comandante regionale Guardia di Finanza;
- IACONO Francesco: comandante provinciale CC Crotone;
- CATURANO Giovanni: comandante provinciale Guardia di Finanza;
- ARCHINÀ Domenico: Comandante provinciale di Crotone del Corpo forestale dello Stato;
- D'ANGELO Claudio: comandante provinciale carabinieri Catanzaro;
- ROCCIA Giovanni: comandante provinciale carabinieri Vibo Valentia;
- MELI Giuseppe: comandante Capitanerie di porto di Crotone;
- ORANGES: direttrice provinciale di Crotone dell'ARPACAL;
- ZURLO Stanislao: presidente della provincia di Crotone;
- VALLONE Peppino: sindaco di Crotone;
- SCUTERI Domenico: Direttore generale ASL provincia di Crotone;

Missione a Crotone dal 16 al 17 giugno 2010

Audizioni svolte il 16 giugno 2010:

- SPADARO TRACUZZI Saverio:Capitano dei carabinieri;
- FRANCO Eliana: sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Potenza;
- PANICO Vincenzo: prefetto di Crotone;
- MAZZOTTA Raffaele: procuratore della Repubblica di Crotone;
- SAVOIA Marcello: ufficio N.I.S.A.;


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- SCUTERI Domenico: Direttore ASP di Crotone;
- BILOTTA Rosa: responsabile settore igiene ambiente;
- MOLLACE Vincenzo: Direttore ARPACAL;
- CARLOMAGNO Antonio; sindaco di Cerchiara Calabra;
- GRECO Giovanni: Fabbrikando l'ambiente;
- VALLONE Peppino: sindaco di Crotone;
- OLIVO Rosario: sindaco di Catanzaro;
- MAURO Aldo: Direttore settore ambiente comune di Catanzaro;
- GALLO Gianluca: sindaco di Cassano allo Jonio;
- POLITO Sergio: presidente della Syndial;
- SAGGESE Gian Antonio: gestione Siti da bonificare;
- BIANCO Michele: ufficio Legale ENI;
- SOTTILE Goffredo: commissario Straordinario emergenza rifiuti in Calabria;
- GUALTIERI Bruno: Direttore dipartimento ambiente della regione Calabria;
- BORZIANI Andrea: Amministratore delegato di Veolia ambiente;
- ALFIERO Carlo: presidente di Veolia ambiente;
- MUNNO Paolo: sindaco di Francavilla Cosentina;

Audizioni svolte a Roma presso la sede della Commissione a Palazzo San Macuto

23 settembre 2009
- NERI Francesco, sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria.

7 ottobre 2009
- GRECO Silvio, assessore all'ambiente della regione Calabria.

7 luglio 2010
- FRATTINI Angelo: sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale dei minorenni di Salerno;
- SANTORO Domenico: Giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Reggio Calabria.

6 ottobre 2010
- SOTTILE Goffredo: prefetto, ex commissario delegato per il superamento della situazione di emergenza rifiuti urbani nel territorio della regione Calabria.


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17 ottobre 2010
- CHIARAVALLOTI Giuseppe: ex presidente regione Calabria ed ex commissario delegato per il superamento della situazione di emergenza rifiuti urbani nel territorio della regione Calabria.
- PAPELLO Giovan Battista: ex responsabile del procedimento per l'emergenza rifiuti nella regione Calabria.

23 novembre 2010
- BOLOGNETTI Maurizio: Esperto in materia ambientale per la situazione nella regione Basilicata;
- SCOPELLITI Giuseppe: presidente della regione Calabria;
- PUGLIANO Francesco: assessore ambiente regione Calabria;
- GUALTIERI Bruno: Direttore generale dipartimento ambiente regione Calabria;
- FRIZ Enrico: Amministratore delegato Veolia;
- ALFIERO Carlo: presidente Veolia;
- POLITO Sergio: presidente Syndial;
- LUPO Marco: Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, direttore della Direzione tutela del territorio e delle risorse idriche.

15 dicembre 2010
- FRANCO GABRIELLI: Capo dipartimento della Protezione Civile;

12 aprile 2011
- GIANFRANCO MASCAZZINI: Ex direttore generale della direzione generale qualità della vita del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare.



NOTE:
(1) Poteri del commissario delegato, fissati dalla normativa vigente.
Invero, in forza della citata legge n. 225/92, una volta dichiarato lo stato di emergenza, la figura e il ruolo del commissario delegato per l'emergenza rifiuti in Calabria dipendono direttamente dal Governo che lo ha nominato dal quale, cioè, ha ricevuto la "delega" e al quale risponde, mentre il dipartimento della protezione civile - esclusa, naturalmente, l'ipotesi in cui il "capo dipartimento" venga, a sua volta, investito dal Governo del ruolo di commissario delegato nelle varie e altre situazioni di emergenza dichiarate dal Consiglio di Ministri - esercita funzioni di consulenza e di supporto nei confronti del commissario delegato, mettendo a disposizione dello stesso i fondi necessari al suo funzionamento e alla realizzazione degli obiettivi per il superamento dello stato di emergenza. Si tratta di fondi che non sono esclusivi, ma ai quali - per quanto riguarda lo specifico settore dei rifiuti - si sono aggiunti anche i finanziamenti comunitari e regionali, nonché il corrispettivo (tariffa) versato alla struttura commissariale per i servizi resi dai comuni, e in definitiva dai cittadini.
(2) Com'è noto, il cdr costituisce il prodotto della lavorazione della parte secca dei rifiuti (soprattutto, carta, cartone e plastica), che viene triturata finemente presso un'apposita sezione di ciascun impianto di tmb, prima di essere destinata all'unico termovalorizzatore esistente nella regione, quello di Gioia Tauro.
(3) La fos è prodotta da rifiuti urbani indifferenziati, di cui costituisce la parte umida, la quale - essendo inquinata da altre sostanze (vetro, materiali ferrosi, ecc.) - si appalesa del tutto inidonea a essere utilizzata come compost di qualità, cioè, come fertilizzante in agricoltura. Dopo il processo di "stabilizzazione", la parte umida diviene fos: compost fuori specifica, destinata a discarica e utilizzata come materiale di copertura, in luogo della terra, posto che - come si è detto - non risultano possibili utilizzazioni in agricoltura, in relazione alla pessima qualità del prodotto. Come si dirà di seguito, ciò accade anche perché in Calabria non vi sono e/o non sono utilizzate adeguate linee di raffinazione del prodotto.
(4) Vedi pagina 22 della «relazione territoriale sulla Calabria», approvata nella seduta del 4 novembre 2003 dalla Commissione sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, nominata nella XIV Legislatura.
(5) Vedi capitolo I della relazione «Premessa generale».
(6) Vedi Rapporto rifiuti 2009 ISPRA-ONR.
(7) Rapporto rifiuti 2008 - ISPRA-ONR, capitolo 2, par. 3.3, pagg. 120-121.
(8) Vedi dichiarazioni rese dal dottor Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica in Reggio Calabria e da Carlo Ferrucci, Vice comandante del Corpo forestale dello Stato, nel corso della loro audizione in data 1o dicembre 2009.
(9) Vedi dichiarazioni rese sul punto, nel corso della stessa audizione, dal procuratore della Repubblica, dottor Mazzotta, il quale ha riferito che l'inchiesta de qua era nata nel 1999, a seguito di denunzia di un imprenditore, tal Iuticone il quale lamentava che «per effetto della metodologia della Pertusola, egli era praticamente fuori gioco».
(10) Vedi «perizia conclusiva», depositata in data 24 marzo 2009, del consulente tecnico nominato, Prof. Giovanni Sindona dell'università della Calabria, il quale si è avvalso dell'opera del dottor Antonio Tagarelli e del p.i. Salvatore Armentano del dipartimento di chimica dell'università della Calabria (doc. 230/5).
(11) Proc. Pen. n. 1527/2008 Mod. 44, a carico di ignoti.
(12) In particolare, risulta dalle analisi una concentrazione superficiale Bop/cm2, almeno doppia delle fondo Beta.
(13) v. nota in data 16 giugno 2010 del direttore generale del Ministero dell'ambiente, dottor Marco Lupo.
(14) V. pro-memoria del dottor Marco Lupo, direttore generale del Ministero dell'ambiente, trasmesso alla Commissione d'inchiesta in data 16 giugno 2010.
(15) V.fogli nn. 67 e 68, allegati al «Libro Bianco» dell'associazione ambientalista «Fabbrikando l'avvenire», doc 310/1.
(16) Nota Ministero Ambiente 08 ottobre 2003, dottor Mascazzini, prot. n. 9931/RIBO/D1/B.
(17) V. resoconto audizione, in data 11 marzo 2010, di Giuseppina Di Rosa, prefetto di Catanzaro.
(18) V. relazione del comando carabinieri per la tutela dell'ambiente - gruppo Napoli, doc. 163/1, pagina 10.
(19) Pubblicata nella Gazzetta ufficiale del. 25 ottobre 1997, n. 250.
(20) Rapporto rifiuti 2008 - ISPRA-ONR, capitolo 2, par. 3.3, pagg. 120-121.

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