Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 765 del 19/7/2000
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(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali della mozione.
Il primo iscritto a parlare è l'onorevole Vigni, che illustrerà anche la mozione Veltroni ed altri n. 1-00469, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

FABRIZIO VIGNI. Presidente, Derek Rocco Barnabei ha 33 anni, da sei anni è nel braccio della morte di un carcere della Virginia. Il prossimo 14 settembre potrebbe essere ucciso.
Derek Rocco Barnabei è un cittadino americano, ma la sua famiglia ha origini italiane. Il nonno paterno partì tanti anni fa dalla Toscana, proprio dalla terra che per prima, nel 1786, aveva abolito la pena di morte, per emigrare negli Stati Uniti.
Barnabei è accusato di aver violentato ed ucciso nel 1993 la sua giovane fidanzata di 17 anni. È stato condannato a morte nel 1995 sulla base di un processo indiziario. Barnabei si dichiara innocente e chiede da tempo che siano autorizzati test che potrebbero scagionarlo, in particolare il test del DNA, ma questi esami non sono stati fino ad oggi autorizzati, anche perché in Virginia vige la cosiddetta regola dei 21 giorni: sono infatti solo 21 i giorni a disposizione dopo la sentenza per presentare nuove prove a discarico.
Naturalmente non sta a noi dire se Barnabei sia colpevole o innocente. Non sta a noi giudicarlo. Quello che sappiamo è che proprio grazie agli esami del DNA negli Stati Uniti è stato possibile dimostrare l'innocenza o, al contrario, confermare la colpevolezza di persone condannate a morte. Sappiamo che Alan Dershowitz, considerato il più prestigioso penalista americano, dopo aver esaminato le carte processuali del caso Barnabei ha dichiarato: «Questo è il più chiaro caso di innocenza che ho visto in tutta la mia carriera ed è anche il più vistoso caso di ingiustizia».
Io ho incontrato Rocco Barnabei nel braccio della morte ai primi di aprile di


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quest'anno (insieme a me c'era l'onorevole Mauro Vannoni). «So che quasi tutti i condannati a morte» - ci ha detto Barnabei - «dicono di essere innocenti. Io non vi chiedo di credere alle mie parole» - ha aggiunto - «vi chiedo di credere solo ai fatti. Perché non autorizzano i test del DNA? Io non ho paura» - ci ha detto - «perché so di essere innocente».
Ripeto, non sta a noi giudicare, ma quella domanda è anche la nostra: perché non autorizzare i test del DNA, che potrebbero scagionare Barnabei o, al contrario, dimostrarne la colpevolezza?
Il mese scorso la Corte federale ha respinto anche l'ultimo appello presentato dalla difesa: l'esecuzione è stata prevista per il 14 settembre. Proprio in questi giorni, la madre di Barnabei, Jane, è in Italia; è la sua terza visita nel nostro paese, il terzo viaggio della speranza.
Da due anni, in Italia e in Europa, il caso Barnabei viene seguito con crescente attenzione dall'opinione pubblica e dalle istituzioni. Vorrei solo ricordare, tra le tante iniziative, l'appello rivolto al governatore della Virginia, Gilmore, da circa 400 parlamentari italiani (tra deputati e senatori); al riguardo, intendo ringraziare in particolare l'onorevole Biondi, con il quale ho promosso quell'appello. Ricordo, poi, l'appello rivolto dal presidente della regione Toscana, le tre risoluzioni approvate dal Parlamento europeo (l'ultima nei giorni scorsi), l'appello promosso da Valter Veltroni e firmato da 165 parlamentari, le migliaia e migliaia di firme inviate da cittadini italiani, la raccolta di fondi aperta per aiutare la famiglia a sostenere le spese legali, l'impegno di associazioni che si battono contro la pena di morte.
Noi rispettiamo gli Stati Uniti e la democrazia americana, una democrazia segnata dalle battaglie per il progresso dei diritti civili, ed è proprio con tale sentimento di profondo rispetto che ci rivolgiamo agli Stati Uniti per chiedere che sia data a Barnabei la possibilità di dimostrare ciò che egli afferma, ossia di essere innocente, e di fare tutto il possibile per evitare il rischio di un tragico errore giudiziario, tanto più che proprio in questo periodo, negli Stati Uniti, si sta riaprendo la discussione sulla pena di morte a seguito di numerosi casi di errori giudiziari.
Uno studio recente condotto dalla Columbia University ha evidenziato che oltre il 50 per cento delle sentenze capitali vengono poi ribaltate in appello; segnalo come in Virginia la percentuale di assoluzioni in appello sia solo del 7 per cento, anche a causa della regola dei ventuno giorni. Nell'Illinois, a seguito dell'elevato numero di errori accertati, il governatore ha deciso una moratoria; nel frattempo, tutti gli appelli vengono riesaminati con particolare attenzione e le esecuzioni sono praticamente cessate. Anche altri Stati stanno discutendo la possibilità di una moratoria. Al Congresso degli Stati Uniti sono state presentate proposte di legge per rendere obbligatorio, in caso di condanna a morte, il test del DNA.
Dal 1973 ad oggi - cito dati tratti dal rapporto di «Nessuno tocchi Caino» sulla pena di morte nel mondo - sono 84 le persone scarcerate dai bracci della morte perché scoperte innocenti; uno studio ha valutato che dal 1900 al 1985 sono state erroneamente condannate per reati capitali almeno 350 persone, 23 delle quali giustiziate.
Ha scritto Emma Bonino: «Meglio sarebbe tenere separate la questione di fondo (la pena capitale) da altre questioni riguardanti singoli casi, come la colpevolezza o l'innocenza del condannato, la simpatia o l'avversione che egli può suscitare. Non ci hanno insegnato che il reato è separato dal reo? Non è forse per questo che riteniamo ingiusta la pena capitale, anche se inflitta al più disumano dei carnefici?».
Avverto tutta la forza dell'argomentazione dell'onorevole Bonino, perché non sono solo le emozioni ad impegnarci per abolire la pena di morte: prima ancora sono la nostra razionalità e le nostre convinzioni. È vero però, al tempo stesso, che ogni caso, come quello di Derek Rocco Barnabei, evoca al tempo stesso


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questioni di fondo, chiama in causa il dibattito sulla pena di morte in quanto tale.
Noi siamo contro la pena di morte anzitutto per ragioni etiche. C'è un limite invalicabile: la vita umana. Non si uccide perché non si uccide: questa ragione sovrasta le altre e basta da sola a dare un senso all'obiettivo di abolire la pena capitale in tutto il mondo.
«L'applicazione della pena di morte in nome della società» - è stato scritto - «rende noi tutti, membri della società, moralmente simili al criminale che vogliamo punire». Restano nella nostra memoria le parole della vedova di Martin Luther King, assassinato: «Una cattiva azione» - disse - «non può essere riscattata da un'azione cattiva: la giustizia non ha mai fatto passi in avanti strappando una vita umana». Giovanni Paolo II è intervenuto più volte contro la pena di morte e l'appello più forte che ha fatto è stato proprio durante il viaggio negli Stati Uniti, quando ha detto: «La pena di morte è crudele e inutile. La società moderna ha altri mezzi per proteggersi dai criminali, senza togliere loro definitivamente l'opportunità di cambiare».
Vi è infatti anche una seconda ragione per essere contrari alla pena di morte: oltre che inaccettabile, essa è una strategia sbagliata e inefficace; non serve a contrastare la criminalità! «Gli omicidi nella città di New York» - ha ricordato l'ex governatore Mario Cuomo - «erano diminuiti di un terzo negli anni che hanno preceduto la reintroduzione della pena capitale. Il Texas, lo Stato simbolo della pena di morte, ha uno dei più alti tassi di omicidi di tutto il paese!».
La pena di morte non è dunque un deterrente contro la criminalità.
Ma il caso Barnabei ci ricorda anche una terza ragione per essere radicalmente contrari alla pena di morte: la possibilità dell'errore giudiziario.
In una sua lettera, disperata e lucida, al Parlamento europeo Barnabei ha ricordato una frase di Thomas Jefferson: «Sarò contro la pena di morte fino a quando non sarà stata dimostrata l'infallibilità della giustizia umana». La giustizia umana può sbagliare, ovunque. Ma nel caso della pena capitale l'errore è irrimediabile. Se la giustizia sbaglia condannando una persona innocente a venti anni o all'ergastolo, se poi si accorge dell'errore può andare a bussare alla sua cella e dire «scusa, ci siamo sbagliati: puoi andare, ora sei libero». Dopo un'esecuzione, nessuno può più bussare alla porta di quella cella.
Per questo, facendosi interprete dell'opinione di una larga parte dell'opinione pubblica del nostro paese, con questa mozione vogliamo chiedere alle autorità della Virginia di non lasciare nulla di intentato per evitare il rischio, sul caso Barnabei, di un errore giudiziario che sarebbe irreparabile.
«Forse per me è troppo tardi» - ci ha detto Barnabei durante il colloquio che abbiamo avuto con lui in carcere - «ma voi, vi prego, continuate a combattere per cancellare questo orrore della pena di morte». Noi non ci rassegniamo all'idea che per Barnabei sia troppo tardi; tutto il possibile per salvare la sua vita deve essere fatto. Ma a ciò uniamo l'impegno di continuare la battaglia per abolire la pena di morte in ogni parte del mondo e, come obiettivo più immediato, per una moratoria universale delle esecuzioni.
In un mondo sempre più interdipendente, la globalizzazione non può essere solo globalizzazione dell'economia; anche i diritti umani vanno considerati sempre più come diritti globalmente condivisi.
La comunità internazionale sta discutendo attorno al diritto-dovere di ingerenza umanitaria. Ebbene, la pena capitale non può essere considerata estranea alla questione dei diritti umani. Lo ha sancito più volte la Commissione per i diritti umani dell'ONU, definendo la pena di morte una negazione dei diritti umani e lo ha confermato l'Alto commissario dell'ONU quando ha ricordato che la questione della pena di morte attiene pienamente alla sfera dei diritti umani.
Più volte - l'ultima il 26 aprile di quest'anno a Ginevra - la Commissione per i diritti umani dell'ONU ha approvato


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risoluzioni a favore della moratoria. Purtroppo, come sappiamo, nell'ultima Assemblea generale dell'ONU, alla fine del 1999, è stata persa una grande occasione, quando la risoluzione, proposta dall'Unione europea e sostenuta da 72 paesi, è stata prima presentata e poi ritirata prima della votazione.
Con questa mozione, ribadendo quanto già previsto da una risoluzione approvata nei mesi scorsi all'unanimità dalla Camera, vogliamo rilanciare con grande forza l'impegno affinché l'Unione europea, assieme ad altri paesi di tutti i continenti, presenti nuovamente all'Assemblea generale dell'ONU la proposta di moratoria. Senza irrigidimenti ideologici, con una grande capacità di dialogo con tutti i paesi e con tutte le culture, consapevoli del delicato equilibrio tra il ruolo dell'ONU e sovranità nazionali, dobbiamo arrivare quanto prima possibile a questo risultato - la moratoria - che segnerebbe un passo in avanti fondamentale sulla strada dell'affermazione dei diritti umani.
L'Italia svolge un ruolo fondamentale - direi che è in prima linea - nelle iniziative per l'abolizione della pena di morte. Questa mozione, firmata da tutti i più importanti leader politici e da capigruppo di tutte le forze politiche del nostro paese, di maggioranza e di opposizione, conferma come l'Italia sia oggi un paese unito e determinato in questa battaglia di civiltà.
C'è una spinta profonda ormai in tutti i continenti verso l'abolizione della pena capitale. Nell'ultimo anno la situazione è ulteriormente migliorata: sono ormai 120 i paesi abolizionisti a vario titolo. Nel corso del 1999 hanno rinunciato a comminare o a praticare la pena capitale anche la Russia, l'Albania, l'Ucraina, le Bermuda, il Nepal, il Turkmenistan. Ma c'è anche l'altra faccia della medaglia: 75 paesi mantengono ancora la pena di morte. Amnesty international ha registrato nel 1999 almeno 1.813 esecuzioni in 31 paesi e 3.857 condannati a morte in 63 paesi. La quasi totalità delle esecuzioni avviene in 5 paesi. Più della metà di queste in Cina e poi in Iran, in Arabia Saudita, nella Repubblica del Congo e negli Stati Uniti. Ma questi sono solo i dati ufficiali. Sappiamo che i dati reali sono sicuramente più alti; che molti paesi mantengono segrete le informazioni sulla pena di morte. Il cammino sarà ancora difficile, ma un giorno arriveremo all'abolizione della pena di morte; un passo dopo l'altro ci arriveremo, facendo intanto tutto ciò che è nelle nostre forze e nelle nostre possibilità per salvare ogni singola vita umana, come quella di Derek Rocco Barnabei, e per raggiungere l'obiettivo di una moratoria universale delle esecuzioni (Applausi). Grazie.

PRESIDENTE. Grazie a lei, onorevole Vigni.
È iscritto a parlare l'onorevole Guido Giuseppe Rossi. Ne ha facoltà.

GUIDO GIUSEPPE ROSSI. Signor Presidente, colleghi. Leggo il testo della mozione firmata da tutti i leader delle forze politiche presenti nel Parlamento. Vi sono frasi come «L'Italia svolge un ruolo fondamentale nella promozione a livello internazionale delle iniziative (...) per l'abolizione della pena di morte nel mondo», oppure «La questione della pena di morte (...) attiene pienamente alla sfera dei diritti umani» e, ancora: «Una interpretazione evolutiva della Carta delle Nazioni Unite in atto da tempo (...) hanno consentito l'assunzione dei diritti umani come valori condivisi e cogenti della comunità internazionale» ed impegna il Governo «ad intervenire presso il Governatore della Virginia» e l'Unione europea ad una iniziativa comune con paesi di altri continenti. Si tratta di posizioni assolutamente condivisibili, visto l'ampia convergenza che vi è stata sulla mozione.
La Lega con il primo firmatario Umberto Bossi «spende» il suo massimo esponente su questo tema. Sono passaggi condivisibili per un partito come la Lega, che è un partito democratico checché ne dicano esponenti vicini al Governo e alla maggioranza, che si permettono di insultare il buon nome del nostro movimento in giro per il mondo per meri motivi


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elettoralistici, e di infangare il buon nome di questo Parlamento di cui la Lega nord Padania fa parte a pieno titolo.
Dunque la mozione è condivisibile sia dal punto di vista degli aspetti precisi e puntuali, riferiti al caso umano di quest'uomo, sia dal punto di vista generale, con l'appello ad una iniziativa internazionale comune tramite l'Unione europea ed altri paesi. Proprio perché vi è questa unanime condivisione, e talvolta anche un po' scontata, di maniera, di facciata, c'è un «ma». Questo si riferisce all'approfondimento delle logiche morali, filosofiche e politiche che stanno alla base di questa discussione.
Un dibattito serio e approfondito forse questa sera non ci potrà essere per una serie di ragioni, perché la giornata è stata pesante, i colleghi sono stati oberati da impegni e da votazioni. Questa non è la serata migliore per affrontare un tale tema con la serietà e la profondità che meriterebbe.
È vero però che, a parte il caso umano, il caso personale di quest'uomo, che sicuramente non deve essere sottovalutato - perché anche il caso di un singolo uomo diventa generale e politico - dobbiamo affrontare una questione più generale. Mi riferisco alla creazione di un diritto internazionale cogente, cioè capace di applicarsi in maniera coercitiva nei confronti degli Stati membri, così come il diritto viene applicato ai membri della comunità statuale, che sono gli individui, i cittadini. È questo il punto fondamentale della discussione di questa sera e, per raggiungere tale obiettivo ci vuole credibilità.
I paesi occidentali hanno il compito, la missione, di portare il loro sistema di valori, che è un sistema di valori filosofico, morale e religioso, di impronta cristiana, in tutto il mondo; noi abbiamo la pretesa di portare l'impostazione basata sui diritti dell'uomo, delle pene che devono essere comminate e quant'altro a miliardi di persone che non hanno la nostra sensibilità né politica, né culturale, né morale.
Per fare ciò, dobbiamo essere credibili; se non lo siamo nei confronti di quei quattro quinti della popolazione mondiale che non appartengono al cosiddetto mondo occidentale, è evidente che la costruzione di questo diritto internazionale trova degli ostacoli.
Le contraddizioni emergono soprattutto quando si inizia a parlare degli Stati Uniti d'America. Non si tratta, in questo caso, di fare un antiamericanismo sessantottesco o di maniera, perché abbiamo visto che questo tipo di antiamericanismo è entrato in crisi, fortemente in crisi, durante la guerra nel Kosovo o quando, soprattutto dalla maggioranza e dai partiti di sinistra e di estrema sinistra che componevano tale maggioranza, è stato accantonato in nome della realpolitik e di una politica molto vicina, in certi casi supina, agli Stati Uniti d'America.
Dunque la contraddizione esiste dal punto di vista internazionale proprio negli Stati Uniti, esponente di punta di questo mondo occidentale che, al proprio interno, non in maniera generalizzata (in alcuni Stati non vige la pena di morte), prevede la pena di morte.
Pertanto esiste un problema di credibilità: il faro della civiltà occidentale, che promuove interventi di peeacekeeping in giro per il mondo, bombarda paesi e poi applica al proprio interno pene che comportano la soppressione fisica di un uomo.
Questa è la prima contraddizione; non si tratta di una posizione di antiamericanismo fine a se stessa, però sicuramente il Parlamento italiano e l'Unione europea, come soggetto più importante e collettivo, devono fare presente al più importante partner a livello internazionale proprio questa contraddizione.
Un'altra contraddizione esiste all'interno del Governo e della maggioranza. Come ho già sottolineato, essa è propria di una maggioranza e di una sinistra che preferisce un approccio alla questione che io definisco minimalista, concentrandosi sul singolo caso umano, sul singolo caso personale. Ripeto, non voglio sminuire l'importanza del singolo caso umano che, come ho detto, ha una rilevanza politica,


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tuttavia si tratta di un approccio minimalistico, che passa dal caso che può far commuovere l'opinione pubblica, senza affrontare il problema più generale della presenza dell'istituto della pena di morte all'interno di paesi che fanno parte del blocco occidentale, di quel blocco che si propone al resto del mondo come faro di civiltà e di esempio della tutela dei diritti umani.
Ancora una volta, ripeto, il voto dato dalla maggioranza di Governo all'intervento nel Kosovo, un voto acritico, sicuramente sottolinea e rende più profonda questa contraddizione.
Da questo punto di vista, la Lega è assolutamente coerente e democratica, come ho detto prima, perché le sue posizioni di politica internazionale rispecchiano le posizioni assunte durante la discussione di questo tipo di mozioni.
In sede di dichiarazione di voto finale esprimeremo con compiutezza il nostro voto favorevole a questa mozione, ma ribadisco che l'aspetto principale, l'aspetto politico di questo tipo di discussioni è la credibilità che possiamo avere come paesi occidentali, come paesi europei, come Stati Uniti nei confronti di quei quattro quinti del resto del mondo che hanno sensibilità culturali, religiose e morali differenti dalle nostre.
Se non siamo credibili e coerenti, quel diritto internazionale che potrebbe portare se non alla pace nel mondo, quanto meno ad una regolazione più pacifica e razionale dei rapporti tra gli Stati, non vedrà la luce (Applausi dei deputati del gruppo della Lega nord Padania).

PRESIDENTE. Grazie, onorevole Guido Rossi.
È iscritto a parlare l'onorevole Biondi. Ne ha facoltà.

ALFREDO BIONDI. Signor Presidente, ringrazio i colleghi che mi hanno consentito di intervenire in anticipo rispetto al mio turno.
Credo che in questo Parlamento si possa parlare, a testa alta e con il cuore che palpita, non di sentimenti e basta, ma di ragionevolezza, che abbiamo saputo vivere insieme, indipendentemente da ogni diversità politica, partitica e ideologica, da quello che purtroppo costituisce qualche volta il sale e il pepe della politica e qualche volta qualcosa di peggio, che ammorba la politica italiana, cioè lo schieramento uno contro uno, corpo contro corpo, gruppo contro gruppo.
Abbiamo cominciato a fare questo dall'epoca della Costituzione. La Costituzione della Repubblica ha eliminato la pena di morte come sanzione estrema e suprema, come atto di disperazione giudiziaria. La legge attuativa che ne seguì lasciò la pena di morte solo per i reati previsti dal codice penale militare di guerra.
Ho avuto l'onore, come guardasigilli della Repubblica, di presentare il disegno di legge, poi approvato dal Parlamento, che eliminava anche quest'ultimo reperto archeologico di una giustizia ingiusta. Ingiusta perché manca all'appuntamento con l'umanità. Quando la giustizia manca all'appuntamento con l'umanità, non è giustizia. Quando il diritto diventa delitto, ancor peggio premeditato e strumentato, in modo che come pena accessoria vi sia l'attesa e poi lo spegnimento di un essere umano, ciò non può essere considerato una pena accettabile.
Vigni ricordava Leopoldo, granduca di Toscana. Da noi si diceva «Leopoldaccio cane» per dire che era un re che aveva avuto le sue ombre e le sue luci, come capita a tutti coloro che hanno un potere quasi legibus solutus. Ma nelle leggi che approvò fu un anticipatore, forse, come diceva Frau, influenzato da quella corrente illuministica che già allora aveva avuto un esponente nel nostro Beccaria, che però non previde, nel suo libro Dei delitti e delle pene, l'eliminazione della pena di morte: la mise controluce come una speranza, come una spes vitae rispetto alla morte preannunziata e sancita.
Proprio per questo, in questo Parlamento possiamo essere non orgogliosi, ma a posto con la nostra coscienza civile, avendo fatto poi tutto quello che era necessario alla Camera e al Senato della Repubblica e recandoci, qualunque fosse


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il Governo in carica, a fare il nostro dovere all'estero. Io ho avuto l'onore il 6 dicembre 1994 - un giorno terribile, perché in Italia era successa l'ira di Dio per fatti che di giudiziario avevano poco eppure contavano in quel momento - di andare a pigiare il tasto del voto italiano alle Nazioni Unite. Fui accusato sui giornali di essere andato via solo perché un sostituto procuratore della Repubblica, uno dei mille che ci sono in Italia, aveva ritenuto di scegliere una carriera diversa rispetto a quella precedente, pur degna di considerazione. Allora pareva quasi una sfida e qualcuno l'ha definita addirittura una fuga. Dovetti venire qui in Parlamento per giustificarmi di avere offerto alle Nazioni Unite e alla nostra proposta di moratoria il suffragio di un ministro che sapeva forse che il Governo sarebbe caduto.
Noi però dobbiamo abituarci a ritenere che i grandi valori non hanno confine. Anche sui temi della giustizia - diversa da quella alta e terribile che stiamo discutendo oggi per il caso di Derek Rocco Barnabei - dovremo discutere in maniera diversa, con maggiore serenità. Credo che sia giunto il momento in cui dobbiamo buttare giù il ponte levatoio dell'incomprensione, anche in altri campi, e stabilire che la giustizia non è né di destra né di sinistra né di centro, è un rapporto. In latino si diceva hominis ad hominem proportio, cioè un rapporto dell'uomo verso l'uomo che, conservato, conserva la società, se corrotto, la corrompe.
Non dobbiamo avere - e qui ha ragione il collega Guido Rossi - vocazioni «magistrali», l'idea di andare a spiegare agli altri popoli come debbano regolarsi o come debbano conformarsi i sentimenti altrui. Noi siamo orgogliosi del nostro sentimento ma non possiamo nemmeno pretendere che altri possano decidere, anche nella sovranità più alta che può realizzarsi, quella della giustizia. Questo vale non solo i cittadini, ma per chiunque - è scritto nel codice - si trovi sotto la sovranità di uno Stato e delle sue leggi.
Quando tutti insieme ci rivolgiamo, attraverso questa mozione, al governatore della Virginia, non gli chiediamo di essere benevolo, gli chiediamo di non chiudere la porta dell'accertamento giudiziario, gli chiediamo che, se c'è una verifica processuale ancora possibile, non ci si barrichi dietro i ventun giorni dell'istanza che magari non è stata presentata in tempo dal difensore d'ufficio che Derek Rocco Barnabei ha avuto per il suo stato miserevole di immigrato o figlio di immigrato.
Noi parlamentari abbiamo aperto un conto corrente ed abbiamo concorso in scarsa misura (non per avarizia ma perché agli entusiasmi fanno seguito le pause, essendo l'Italia il paese dove l'amnesia che deriva dalle verifiche di fatti ancora più gravi riduce la pulsione dei sentimenti e anche la forza dei ricordi), ma abbiamo dato vita in questo Parlamento ad una raccolta di fondi per dotare Derek di avvocati che ora stanno facendo con grande impegno il loro dovere di difensori. Ci vuole qualcuno che dica a chi è troppo sicuro di stare attento perché può sbagliare.
A Venezia i supremi sindacatori avevano scritto sul banco, e non sul muro dietro le proprie spalle (come i nostri giudici alle cui spalle vi è la scritta «la legge è uguale per tutti», così non la vedono) «ricòrdate del poaro fornareto», «ricordati del povero fornaretto», ricordati che l'indizio non è una prova, ricordati che ci possono essere quelli che nel nostro codice sono definiti indizi gravi, precisi e concordati. Non aver visto quello che può discordare con il concordante può essere l'indizio (per questo si chiama indizio e cioè un indice che punta).
Al governatore della Virginia chiediamo di interrogare la propria coscienza giuridica ed anche esecutiva, in questo caso, per stabilire se prima della definitività non vi debba essere la pausa della riflessione, della valutazione e della ragione.
Credo che questa sia la forza del nostro messaggio, che non si rivolge solo agli Stati Uniti: purtroppo, «Nessuno tocchi Caino» ha distribuito la carta geografica della disgrazia della pena di morte e in tutto il mondo, in tutte le religioni, le


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fedi politiche e le razze vi sono enclave che ancora sentono la validità di questa tragica legge del contrappasso e dell'occhio per occhio. Qualcuno, se si potesse scherzare di queste cose, pur citando la massima biblica, disse che, se fosse vero che l'occhio per occhio risolve i problemi della giustizia, forse ci sarebbero più ciechi che individui giustamente condannati. Credo che questo sia il nostro problema di oggi.
Ho piacere che sia presente il sottosegretario Ranieri, che stimo molto, il quale rappresenta una sensibilità personale e politica che ritengo e spero possa portare fortuna; spero che il sottosegretario Ranieri, nella sua attuale posizione, possa utilizzare tutti i canali e le modalità per far sì che questo discorso del nostro Parlamento non sia sentito come una protesta o un'arroganza verso un altro sistema politico. Forse è la visione un po' western che l'America ha del diritto in cui, come nei film, si può assistere ad una procedura formale in cui lo sceriffo tiene a bada la folla e aspetta che arrivi il giudice, il quale - magari avvinazzato - celebra il processo sul suo «cadreghino»; dopodiché, quell'imputato viene impiccato e così giustizia è fatta. Forse è una visione in cui la procedura e la garanzia del metodo sono scisse dalla valutazione più concreta del merito e dell'effetto che si produce con lo spegnimento della vita di una persona. Al riguardo, si può anche utilizzare una definizione terribile: mi riferisco a ciò che qualcuno ha definito la solitudine della folla, ovvero la paura di essere soli in una società in cui ciascuno più è accanto agli altri, più si sente solo ed indifeso e più chiede allo Stato - che è il titolare del monopolio legittimo della forza - di diventare titolare illegittimo della prepotenza e della vendetta.
Ecco le ragioni per cui appoggio, con tutto l'animo mio e insieme all'amico Frau - il quale mi ha concesso una precedenza che non meritavo -, questa iniziativa di chi ha voluto fornire, finalmente, una prova del consenso sulle cose buone e giuste e, come si dice in chiesa, fonte di salvezza; e speriamo, dunque, che così sia, anche nei confronti di questo nostro quasi concittadino di Siena: un emigrante, figlio di emigranti, che viene accusato di aver violentato la fidanzata con la quale aveva avuto rapporti di natura - come dire - consueta e nello stesso tempo non violenta. La verifica delle sue difese non è potuta avvenire, perché ventuno giorni dopo non si poteva più chiedere quello che venti giorni prima sarebbe stato legittimo chiedere. Ma in America, come altrove - anche in Cina -, i boia non vanno in cassa integrazione. Allora, facciamo in modo che una moratoria o una riflessione ci consentano di aver fatto, anche stasera, il nostro dovere di cittadini e deputati italiani nel nome di un'umanità italiana che, pur con tutti i suoi difetti, abbiamo l'onore di porre all'attenzione degli altri paesi; ciò non per dare un esempio, ma per significare un modo diverso (e secondo me più civile) di guardare ai fatti della giustizia, dei delitti e delle pene (Applausi).

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Biondi.
È iscritto a parlare l'onorevole Pisapia. Ne ha facoltà.

GIULIANO PISAPIA. La ringrazio, signor Presidente. L'Italia, terra natale di Cesare Beccaria, è stata uno dei primi paesi del mondo ad abolire la pena di morte, che è stata cancellata - come ricordato - dai nostri codici, nel 1890, se si eccettua la parentesi fascista. Il nostro paese, dunque, può rivendicare con orgoglio il fatto di essere in prima fila a livello internazionale nella battaglia per l'abolizione della pena capitale. Si tratta di una pena, come ha ricordato l'onorevole Biondi, che è stata recentemente e definitivamente cancellata dal nostro ordinamento, anche nell'ipotesi eccezionale dei reati militari in tempo di guerra. La mozione che ci accingiamo ad approvare con l'unanime consenso - ed è questo l'aspetto veramente importante - di tutte le forze politiche è un ulteriore passo in questa lunga e difficile battaglia, che non possiamo e non dobbiamo mai abbandonare.


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Considerazioni di ordine etico, giuridico e pratico portano a ritenere inammissibile la pena capitale in uno Stato che si definisce democratico. Nessun crimine, neanche il più efferato, può giustificare il fatto che lo Stato metta a morte un essere umano, dimostrando in tal modo di parlare lo stesso linguaggio di chi ha condannato ritenendolo un criminale. «Omicidio e pena capitale», ammoniva George Bernard Shaw, «non sono opposti che si cancellano a vicenda, ma simili che hanno la stessa natura».
La pena di morte corrisponde ad una concezione della giustizia primitiva e vendicativa; la giustizia non può essere confusa con la vendetta e la pena non può avere uno scopo esclusivamente punitivo, ma deve tendere, come recita la nostra Costituzione, alla rieducazione di chi ha commesso reati, anche gravi, e deve offrire a ciascun condannato la possibilità di reinserirsi nella società. La possibilità della risocializzazione non persegue soltanto l'interesse del colpevole, ma anche quello dell'intera collettività. Che società è, infatti, quella che considera un proprio membro perduto per sempre? Una pena che escluda in linea di principio ogni possibilità di reinserimento e di recupero del reo - per quanto mi riguarda, quindi, non soltanto la pena capitale, ma anche l'ergastolo - è da considerarsi incompatibile con i principi della civiltà giuridica e dello Stato di diritto.
Un ulteriore e non certo secondario aspetto, poi, dovrebbe far riflettere chi ancora ritiene di mantenere nel proprio ordinamento una pena che, come è stato autorevolmente ricordato, altro non è che un assassinio di Stato. Si tratta di un aspetto tutt'altro che di poco conto, come dimostra proprio il caso di Rocco Barnabei. L'esecuzione di una condanna a morte è, evidentemente, irreversibile e nessun sistema giudiziario, neanche il più moderno ed evoluto, può dirsi del tutto esente da errori giudiziari. In tali circostanze, purtroppo non rare, in caso di condanna a morte non vi sarebbe, evidentemente, alcuna possibilità di rimedio e di riparazione. È appena da rilevare - e l'esperienza statunitense, purtroppo, lo dimostra ampiamente - come ad essere maggiormente esposti al rischio di errori giudiziari sono coloro che non possono permettersi un'adeguata assistenza legale: a finire sul patibolo sono stati, soprattutto, i poveri e gli emarginati.
«Dall'esame di tutte le legislazioni», scriveva due secoli or sono Cesare Beccaria, «risulta che le prove sufficienti a sentenziare un reo a morte non sono mai state tali da escludere questa possibilità in contrario, cioè che quella persona fosse innocente, giacché né le prove per testimoni né le prove per indizi, moltiplicate ed indipendenti fra loro, sono tali che eccedano i limiti della certezza morale, la quale non è che una somma probabilità e niente di più». Non sono rari i casi in cui supposti rei furono condannati a morte e, quando tale condanna era già stata eseguita, sono emerse le prove della loro innocenza.
A queste considerazioni va aggiunta la constatazione che la pena di morte, oltre che moralmente inaccettabile, si è mostrata anche inefficace dal punto di vista della lotta al crimine. Nei paesi n cui essa è in vigore e largamente applicata, la criminalità non è certo meno violenta o meno diffusa che nei paesi in cui è stata abolita.
Si tratta di riflessioni che oramai si possono considerare patrimonio comune e indiscutibile della coscienza democratica del nostro paese, come dimostra, del resto, il largo consenso che si è determinato sulla mozione che ci apprestiamo a votare. Ecco perché è doveroso, moralmente e politicamente, intensificare in tutte le sedi internazionali gli sforzi per salvare la vita dei condannati a morte, per indurre gli Stati che ancora mantengono la pena capitale ad una sospensione delle esecuzioni, per arrivare a configurare, attraverso l'interpretazione evolutiva della Carta delle Nazioni Unite, il ripudio della pena di morte quale principio di diritto internazionale generalmente riconosciuto.
Purtroppo, la marcia del progresso contro l'oscurantismo, contro il pregiudizio, contro le compressioni della libertà e


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per il rispetto della vita umana non sempre né dovunque ha ancora raggiunto tutte le mete che chi crede nella giustizia umana da sempre auspica.
La strada da percorrere è ancora lunga, se si pensa che solo lo scorso anno vi sono state nel mondo oltre 1.800 esecuzioni nei paesi che per motivi demografici, politici o economici hanno un ruolo preminente nella scena mondiale - basti pensare agli Stati Uniti, alla Cina, al Giappone e all'Arabia Saudita - e che uccidono legalmente ogni anno centinaia di propri cittadini.
Un'esecuzione, come diceva Albert Camus, non è semplicemente morte; si aggiunge alla morte una premeditazione di dominio pubblico nota alla futura vittima, una organizzazione che è, essa stessa, fonte di sofferenze morali ben più terribili della morte.
La punizione capitale è l'assassinio più premeditato che non trova confronto neanche con l'azione di un criminale, ancorché premeditata.
A voler fare un paragone, la pena di morte dovrebbe punire un criminale che ha avvertito la sua vittima della data in cui gli avrebbe inflitto una morte orribile e che, da quel momento in poi, lo ha posto alla sua mercé per mesi. Un mostro così non è dato incontrare nella vita privata.
Tuttavia, come è accaduto nei secoli passati per la schiavitù e per la tortura, quella che oggi è la battaglia di alcuni - e in questo Parlamento di tutti - domani sarà patrimonio di tutti e speriamo anche di tutte le nazioni e a tutti i paesi del mondo sarà chiaro ciò che fu chiaro due secoli e mezzo or sono a Cesare Beccaria.
Quale può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i propri simili? Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l'arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo fra tutti i beni, vale a dire la vita?
È assurdo che leggi che detestano e puniscono l'omicidio ne commettano uno esse medesime e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ne ordinino uno pubblico.
Questi e molti altri motivi che il tempo limitato non mi dà la possibilità di approfondire, spingono Rifondazione comunista a votare a favore della mozione. Si tratta di una mozione che persegue una duplice finalità: quella di impegnare non solo il Governo ad intervenire su un caso concreto, vale a dire sul caso di Derek Rocco Barnabei, ma anche e soprattutto ad adoperarsi per rilanciare con forza la moratoria dell'esecuzione di condanna alla pena capitale in tutto il mondo.

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Pisapia.
È iscritto a parlare l'onorevole Pace. Ne ha facoltà.

CARLO PACE. Signor Presidente, la firma apposta dall'onorevole Fini alla mozione concernente la pena di morte anche con riferimento al caso di Rocco Barnabei dimostra chiaramente che Alleanza nazionale condivide la convinzione che il caso del giovane richieda un supplemento di attenzione da parte nostra, ma soprattutto da parte dei giudici americani.
Siamo favorevoli ad una revisione del processo e ci auguriamo che questo possa servire a non commettere un errore giudiziario. Purtroppo, nella storia, come è stato già ricordato, non sono stati pochi i casi di condannati senza prove certe: questo suscita orrore e rafforza il nostro impegno a lottare per la messa al bando delle esecuzioni capitali. L'errore giudiziario diviene, con la pena di morte, un errore irreparabile, ma non è soltanto per questo motivo che noi condividiamo la mozione in questione.
Il fatto è che noi siamo radicalmente contro la pena di morte. Lo siamo certamente, perché lo stabilisce l'ultimo comma dell'articolo 27 della Costituzione cui tutti dobbiamo osservanza e fedeltà; ma lo siamo soprattutto in base ai valori cui ci ispiriamo.
La norma della Costituzione, infatti, corrisponde pienamente alle nostre posizioni


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a difesa del dono della vita in generale, convinti come siamo che nessuno abbia il diritto di spegnere un'esistenza, sia pure quella di chi ha commesso un delitto efferato. Riteniamo che nessuno abbia diritto di disporre della vita umana, neanche lo stesso soggetto. Lo abbiamo dimostrato in varie circostanze quando sono stati presi in esame i diversi provvedimenti che, in qualche misura, si riferivano alla vita umana e lo abbiamo affermato in molteplici casi. Siamo disposti persino a ricevere l'appellativo di bigotti, appellativo che qualcuno ha voluto indirizzare a coloro che ritengono la vita umana un bene totalmente indisponibile anche da parte di un soggetto in sofferenza.
Del resto, che la nostra posizione sia chiara contro tutte le esecuzioni capitali è palesemente dimostrato dalla mozione Selva che la Camera ha approvato il 22 marzo scorso all'unanimità. Nella mozione Selva il punto essenziale è quello del rifiuto totale della pena di morte. Certo, il problema esiste ed è bene che ci sia il sottosegretario Ranieri, perché qui ci troviamo di fronte ad una questione di carattere internazionale, di diritto internazionale anzitutto; un diritto che è certamente arretrato, che da diverso tempo non fa dei passi in avanti.
Il collega della Lega ha posto in evidenza l'esistenza di una contraddizione. È una contraddizione quella di chi ritiene che possano essere legittimi degli interventi armati a fini umanitari e poi contemporaneamente ritiene che il proprio diritto sovrano non possa essere toccato e discusso quando si tratta della difesa del diritto del singolo uomo. Questo è un assurdo, perché non c'è differenza tra delitto verso un uomo o delitto verso più uomini: sempre ci si trova di fronte a delitti verso l'umanità, l'essere umano.
Riteniamo che proprio il paese che reputa di poter fare da sentinella o da guardia nel rispetto dei diritti umanitari nel mondo non possa sottrarsi all'appello che dall'Europa, oltre che dal Parlamento italiano, proviene per una modifica delle proprie istituzioni. La mozione fa riferimento anche al comportamento di un governatore, perché il caso che si ha presente come fatto contingente riguarda un preciso Stato, lo Stato della Virginia, quindi è chiaro che il governatore è colui che può e deve intervenire per sospendere una esecuzione e per innescare un processo di revisione. Ma in realtà il problema riguarda gli organi della federazione degli Stati Uniti d'America. È un problema che riguarda quel livello.
Come da noi è principio costituzionale il diniego della pena di morte, è a livello costituzionale che andrebbe riconosciuto negli Stati Uniti simile divieto, per fare in modo che nessuno Stato che ne fa parte possa prevederla. Da questo punto di vista credo sia pienamente legittima un'azione del nostro Ministero degli esteri nei confronti certo dell'Europa per innescare un'azione comune, ma poiché in molti casi l'Europa è stata pigra e lenta nel muoversi, riteniamo sia anche necessario che il Ministero degli esteri si attivi nei confronti degli Stati Uniti per sollevare il problema, chiarendo come questa contraddizione tra affermazione di un diritto sovrano e pretesa di imporre poi una regola agli altri sia inaccettabile e sia necessario procedere ad un pieno riconoscimento dei principi dei diritti umani come base di un avanzamento nel campo fondamentale del diritto internazionale.
Se non si procede a fare questo, tutti i progressi che sono stati finora realizzati saranno di nuovo posti in discussione. Noi abbiamo condiviso interventi e posizioni anche quando - lo possiamo dire a testa alta - si è trattato di interventi umanitari armati. Perciò possiamo affermare che coerenza vuole che si sappia rinunciare a frazioni della propria sovranità, perché non vi è sovranità di uno Stato che possa essere maggiore a quella di altri Stati. Il principio di sovranità è uguale nel mondo ed è uguale sul piano del diritto internazionale. Se esso deve incontrare limiti, questi debbono essere i medesimi nei confronti di tutti i soggetti dello scenario internazionale.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Frau. Ne ha facoltà.


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AVENTINO FRAU. Signor Presidente, colleghi, questa mozione è stata firmata dai presidenti e dai massimi leader di tutte le forze politiche presenti in questo Parlamento. Credo sia una dichiarazione che denuncia una volontà comune di fronte ad una situazione che tutti insieme, in modo molto preciso, sentiamo come problema di ognuno e di tutti.
Ci troviamo, come poche volte avviene - ma qualche volta, per fortuna, succede -, a dire le stesse cose con profondo senso della condivisione e con la sensazione, come diceva prima il Presidente Biondi, di essere in una situazione che coinvolge valori di tale entità che con essi poco possono interferire le divisioni di parte e di partito.
Il problema di Derek Rocco Barnabei è drammatico e ci pone dinanzi, non solo ad un fatto individuale - anche se non si deve mai sottovalutare la vita di un uomo, perché ha un valore assoluto -, ma anche ad alcune domande che difficilmente possono avere risposta, come accennava poco fa il collega Pisapia con l'autorevolezza della sua esperienza di grande penalista.
Si pone il problema della certezza del giudizio o, meglio, della certezza dell'incertezza del giudizio; si pone la questione degli avvocati di Barnabei che chiedono cose che, nella comune valutazione, debbono essere considerate legittime, come, ad esempio, l'acquisizione delle prove e la valutazione di una possibilità di innocenza. Dobbiamo chiederci se coloro, cui spetta decidere sulla vicenda, possano obiettivamente trincerarsi dietro il codice di procedura - come diciamo noi in Italia, ma vi è anche negli Stati Uniti -, senza considerare che tutti quelli che hanno una qualche cognizione del diritto giudicano la condanna dell'innocente il più grave misfatto che una società possa compiere.
Di fronte a questa summa iniuria non vorrei fare una riflessione individuale. Mi sembra che il collega Guido Giuseppe Rossi abbia detto che qualcuno contesti il fatto di sommare i due problemi e di danneggiare, con il problema particolare, il problema generale.
Io credo che questo sia vero solo ad una prima immagine, ma che in realtà non lo sia. Noi ci troviamo di fronte ad un caso che ci pone una problematica molto più ampia e, affrontando quel singolo caso, affrontiamo tutta la problematica, perché non c'è distinzione tra le due cose, se solo noi estendiamo la nostra riflessione alle centinaia di persone che vengono ogni anno condannate a morte e le cui esecuzioni vengono effettivamente eseguite e se pensiamo a come ancora oggi - lo si ricordava prima - in larga parte del mondo permanga la pena di morte.
Certo, possiamo affrontare una tematica di questo genere in vario modo e sotto vari aspetti: dal punto di vista religioso, ideologico, culturale, civile, criminologico - la criminologia si è interessata molto del problema, soprattutto nella tradizione europea -, processuale e della organizzazione della giustizia, ma resta il punto centrale, che è quello che ci fa riflettere su quante volte anche noi, di fronte all'efferatezza di un delitto, di fronte alla pericolosità sociale di eventi particolari, di fronte al dramma delle vittime della delinquenza, abbiamo pensato che forse sarebbe meglio farla finita, cancellare il colpevole, illudendoci in tal modo di realizzare una pace sociale che, invece, non si realizza.
È un problema, questo, che divide grandi collettività e, addirittura, le componenti religiose nel mondo. Credo che attraverso queste decisioni noi vediamo lo sforzo della grande ricerca per individuare ragioni che non siano difficili da capire per l'umanità.
Mi ha molto colpito una lettera inviata dall'arcivescovo di Manila, cardinale Sin, che dice (cito solo alcuni punti): «La nazione è divisa da questa questione inquietante: sia i sostenitori della pena di morte, sia coloro che sono favorevoli alla sua abolizione credono in Dio». Questo mi ha fatto molto impressione.
Purtroppo, la questione della pena di morte - mi riferisco a quanto dicevamo prima a proposito della separazione tra il caso individuale e il caso collettivo - ha preso oggi le sembianze di un uomo, la


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faccia di Leo Echagaray. Alla Chiesa, come a coloro che sono favorevoli alla pena di morte, non piace coccolare i criminali, ma la giustizia senza pietà è barbara, la pietà senza la giustizia è debolezza.
In questa divisione, in questo trauma della divisione dell'opinione pubblica e dell'opinione cattolica in un paese, come le Filippine, di tradizione e cultura cattolica noi non possiamo non ritrovare il grande conflitto che c'è anche in altri paesi, a cominciare dagli Stati Uniti.
Nella dichiarazione dei vescovi cattolici degli Stati Uniti si dice, ad un certo punto: «Purtroppo molti americani, compresi numerosi cattolici, sono ancora a favore della pena di morte, e ciò è dovuto al comprensibile timore del crimine e all'orrore di fronte alla perdita di tante vite innocenti a causa della violenza criminale. Ci auguriamo che tutte queste persone si rendano presto conto, come è stato per noi, che la risposta non si ha in una violenza maggiore».
Credo che in queste due dichiarazioni, come in tante altre situazioni, si ritrovi il grande conflitto che ha travagliato anche le componenti religiose di un mondo che caratterizza la stessa civiltà europea ed occidentale più in generale, tant'è che la stessa Chiesa è stata piuttosto lenta nell'arrivare ad un'affermazione categorica.
«Dopo l'accettabilità della pena di morte solo in casi di estrema gravità» - cito testualmente dall'Evangelium vitae - «oggi la Chiesa è approdata alla negazione totale, dicendo che essi sono molto rari se non praticamente inesistenti». L'appello che ho citato prima della Conferenza episcopale degli Stati Uniti la dice lunga sulla situazione di abbandono ormai totale di una visione che, da un punto di vista culturale, ideologico, criminologico, proviene dall'antichità. La pena di morte parte dall'antichità del mondo, è la sua tribalità, la sua incapacità di esprimersi se non in termini di violenza; non a caso, la pena di morte cede il passo ad altre pene, certo non gradevoli (Pisapia ha citato l'ergastolo, sul quale anch'io credo si dovrà fare una riflessione). L'evoluzione culturale dei paesi, degli Stati, delle nazioni e delle collettività coincide con il sempre più forte cammino contro la pena di morte, in favore della sua abolizione.
Il collega Pisapia ha citato, in modo abbastanza significativo, la grande riflessione di Cesare Beccaria, che rappresenta, per la cultura giuridica italiana, un punto di partenza fondamentale; egli ha dato grande valore ad un rapporto diverso tra l'uomo e la società, tra il carcerato e la società (intendendosi per carcerato il condannato), portando di fatto, oltre che nel mondo della cultura giuridica, alla considerazione (da questo punto di vista, l'Italia è certamente la meno accusabile) dell'opportunità della mancanza della pena capitale nel nostro paese.
Tale cultura si è trasferita all'intera realtà europea. Certo, nella storia dell'Europa vi sono state parentesi drammatiche, ma in condizioni non di guerra detta cultura ha lasciato le sue tracce e ha fatto in modo che tutta l'Europa potesse in qualche modo riconoscersi in una visione della pena intesa quale rifiuto della pena capitale. Ciò ha consentito al Parlamento europeo di esprimere giudizi molto forti nella risoluzione che è stata approvata tempo fa, giudizi che, a mio avviso, sono significativi soprattutto nelle premesse, dove si dice: «In riferimento al continuato uso della pena capitale in molti paesi, spesso senza un vero e giusto processo; impressionato dal numero di esecuzioni che hanno avuto luogo in paesi come la Cina, l'Iran, l'Arabia Saudita e gli Stati Uniti; riguardo, poi, in particolare ad alcuni specifici casi...», che vengono poi indicati, il Parlamento europeo, quindi, «invita gli Stati ad un'immediata moratoria; invita gli Stati a respingere le richieste di estradizione per crimini che comportano la pena capitale;» - anche teoricamente, pertanto, in deroga a trattati e convenzioni - «invita la Commissione ed il Consiglio a promuovere l'abolizione della pena di morte anche attraverso i rapporti con Stati terzi, anche nell'ambito di negoziati ed accordi».
Ciò significa che la nostra forza può essere espressa non soltanto con gli appelli,


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ma anche con le pressioni concrete, perché non possiamo accettare che il principio che la morte causata venga punita con un'altra morte causata, in modo ancora più freddo ed ufficiale, possa permanere, almeno negli Stati più civili del mondo.
La legge - lo ha accennato il collega Biondi quando ha ricordato che i giudici veneti avevano scritto sul banco «Ricordati del povero fornaretto» -, ad onta di ciò che sta scritto alle spalle dei giudici, non è uguale per tutti, come sempre l'onorevole Biondi ha affermato. Che la legge sia uguale per tutti lo si scrive in modo tale da convincere qualcuno che non è convinto, ma sappiamo che non è così. Le statistiche negli Stati Uniti ci dicono ad esempio che, andando avanti nel tempo, prima i neri, poi gli asiatici e gli immigrati di varia natura, sono stati tra i cittadini più condannati a morte rispetto alla generalità della criminalità esistente in quel paese. Stiamo parlando degli Stati Uniti, dove i neri erano il 12 per cento della popolazione e dove il 35 per cento di essi veniva condannato (non entro nel merito delle singole questioni, ma il dato statistico è abbastanza significativo).
L'utilizzo degli avvocati; la procedura stessa che caratterizza alcuni Stati (in particolare il Texas); l'autorizzazione alla ricerca delle prove che, in un processo accusatorio come quello esistente negli Stati Uniti (che è un accusatorio vero e non come il nostro) deve essere data dai magistrati, e quindi risente di tutti i limiti della spesa pubblica che in questo settore non può essere spesso esagerata: ribadisco che tutto ciò si verifica negli Stati Uniti; figuratevi che cosa avviene nel resto del mondo, dalla Cina all'Arabia Saudita, passando attraverso tanti paesi nei quali non vi sono statistiche, non vi sono nemmeno i processi o questi sono delle farse ridicole che non possono essere considerati tali da una civiltà giuridica effettiva.
Credo che la certezza della pena non si possa avere, e quindi la certezza della pena legata alla pena di morte diventa un vero e proprio omicidio, nel senso che essa è basata anche su una serie di valutazioni formali che consegnano la vita di un uomo ai giudici prima e ai governatori poi, con le loro esigenze, oltretutto, magari, di tipo elettorale!
Come si può essere certi, quindi, della giustizia umana e della valutazione della colpevolezza? Vogliamo tornare ai tempi di Sparta, quando si gettavano dalla rupe i bambini nati male, un po' handicappati o un poco deboli, perché la società spartana li considerava un peso da eliminare immediatamente? Questo avveniva per i neonati, ma non è detto che non avvenga per gli adulti, quando le logiche sono le stesse e quando si ritiene che il danno sociale possa essere abolito con una pena di morte che è anche un insegnamento di violenza, e non certamente un insegnamento di civiltà!
Vorrei svolgere una riflessione su un argomento che ha fatto parte del discorso pronunciato dal collega della Lega Guido Rossi: perché noi ci rivolgiamo soprattutto agli Stati Uniti? Credo che su questo argomento sia opportuno fare qualche precisazione, perché noi siamo alleati degli Stati Uniti; abbiamo tante politiche comuni, a cominciare dalla politica estera; abbiamo vincoli di solidarietà; vi è il riconoscimento da parte nostra del ruolo che esercitano nel mondo; abbiamo la consapevolezza che gli Stati Uniti hanno rappresentato per il nostro paese un riferimento certamente positivo. Questo non significa però non provare - come si fa per gli amici più cari - dolore se sbagliano; il dolore di capire che avere meccanismi che comunque ledono la loro immagine all'esterno è un danno per quel paese. Non lo dico io, ma lo ha affermato un ambasciatore degli Stati Uniti in uno dei paesi europei (mi pare il Portogallo, ma non ne sono certo) che ha detto che «la pena di morte sta rovinando l'immagine degli Stati Uniti».
Non voglio quindi fare confronti come quelli fatti dal collega della Lega con le vicende del Kosovo, che nulla hanno a che vedere con questa situazione e con vicende di politica militare. Qui dobbiamo fermarci veramente alla politica civile, al


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senso, cioè, del diritto che dobbiamo considerare importante! Non dobbiamo essere semplicisti nella valutazione di ciò che pensa la gente: di fronte all'efferatezza dei delitti, la gente reagisce male e volendo il «dente per dente», di cui parlava anche Biondi.
Dobbiamo chiederci se l'autorevolezza della giustizia sia data dalla sua capacità di essere crudele o dalla sensazione che la gente deve avere che comunque non usa gli stessi metodi che condanna?
A questa domanda si dovrebbe rispondere per tutelare la giustizia, la difesa dei cittadini, e, attraverso l'esempio della pena, tutelare il fatto che la collettività possa essere partecipe del mondo della giustizia e non veda il giudice nelle vesti del boia, di colui che sopprime, ma di colui che condanna dando alla gente la certezza della pena e non la certezza della morte. Infatti, la pena di morte (e anche un po' l'ergastolo) toglie quel filo di speranza che credo faccia parte della possibilità di vita dell'uomo. Senza un filo di speranza è difficile vivere, forse è più facile morire, ma questo non può giustificare moralmente (mai), ma neanche giuridicamente e politicamente, il fatto che di fronte alla violenza si risponda con la violenza non da parte di un altro violento (altrimenti dovremmo sopprimere la legittima difesa, altrimenti entreremmo in una logica assurda), ma da parte dello Stato, che ha tutta la forza per imporre la sua forza, ma questa gli è data dal fatto che tutti riconoscono che questa deve essere basata sul diritto. Chiediamoci se il diritto alla vita sia un diritto a disposizione dello Stato (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Saia, che invito, come pure l'onorevole Giovanni Bianchi, a contenere il proprio intervento in pochi minuti.
L'onorevole Saia ha facoltà di parlare.

ANTONIO SAIA. Grazie, signor Presidente, utilizzerò i pochi minuti che ho a disposizione per riflettere sui due contenuti, collegati tra loro, di questa mozione che domani voteremo. Il primo è un contenuto del tutto particolare e riguarda un caso particolare, ma non per questo meno importante, perché la vita di un uomo comunque è un fatto di grandissimo rilievo degno di essere comunque affrontato con la massima tensione morale. Si tratta di un uomo che tra l'altro ha le nostre stesse origini, ma questo non importa, che è condannato a morte, ancora una volta negli Stati Uniti, e che si trova in una strana circostanza giuridica per il solo fatto di non aver avuto probabilmente grandi possibilità economiche per pagarsi una difesa adeguata (lo hanno detto altri colleghi che sono intervenuti e quindi non lo ripeto). La giustizia non è uguale per tutti perciò le garanzie servono soprattutto a coloro che non possono avere giustizia. Derek Rocco Barnabei, per il fatto di non essere uguale agli altri, ma di essere meno uguale degli altri, non ha potuto avere un collegio di difesa adeguato, ed è stato condannato a morte. Per uno strano caso della giustizia americana, per un fatto procedurale, non può nemmeno esibire nuove prove che potrebbero scagionarlo, come la prova del DNA. È una prima questione assurda e incomprensibile: una semplice questione procedurale può bloccare l'accertamento della verità al punto di rischiare di mandare a morte un innocente. Questo non è il primo caso. Conosciamo altri casi di innocenti che sono stati condannati a morte e di sentenze che sono state eseguite. Voglio ricordare quella di Sacco e Vanzetti, anche quella negli Stati Uniti d'America, mentre si è poi accertato che non erano colpevoli.
Già questo è un elemento per cui questo caso particolare di grande rilievo e importanza assume un significato generale. Noi oggi dobbiamo levare forte la nostra voce nei confronti degli Stati Uniti d'America per chiedere che questo caso emblematico venga riaperto, che venga data la possibilità di esibire quelle prove che, per un semplice elemento procedurale


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(un ritardo del collegio di difesa nel chiedere che queste prove venissero esibite), non possono essere esaminate.
Attraverso un'eventuale prova del DNA che scagionasse questo condannato, avremmo un elemento in più per dimostrare l'ingiustizia, la fallacità della giustizia umana, la possibilità di errore che è sempre dietro la porta, come hanno detto i colleghi che mi hanno preceduto. Ecco l'importanza, oggi, di difendere questo essere umano, di chiedere la riapertura del caso per poi affermare il concetto di carattere generale: il fatto che, ancora una volta, l'Italia coglie l'occasione, attraverso questa mozione, per affermare la propria volontà, che ormai risale ad oltre cento anni fa, agli insegnamenti di Cesare Beccaria, vale a dire la volontà di abolire dal nostro sistema giudiziario l'iniquità di una pena.
Credo che nessun essere umano possa avere il diritto di condannare a morte un proprio simile; nessuna giustizia può giustificare il fatto che venga soppressa una vita umana. In tale circostanza la giustizia di per sé diventerebbe ingiusta. Riaffermiamo ancora una volta, quindi, partendo dal caso Barnabei, la volontà di dire agli Stati Uniti, nostri alleati, molto spesso indicati come faro di civiltà in questo mondo, gli Stati Uniti che hanno approvato la prima Costituzione repubblicana, di interrogarsi sul fatto che sarebbe assolutamente necessario che proprio dal loro paese partisse un segnale molto forte anche nei confronti degli altri che ancora attuano la pena di morte.
La morte di un individuo, come si diceva in apertura di un grande romanzo, è sempre un'offesa per l'umanità intera: ogni volta che viene condannato a morte un uomo è un vulnus per l'intera umanità, perché ogni uomo è partecipe dell'umanità e perché noi stessi partecipiamo dell'umanità. Quindi, non è possibile per nessun uomo decretare in alcun modo e per alcun motivo la fine di un altro uomo.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Giovanni Bianchi. Ne ha facoltà.

GIOVANNI BIANCHI. Signor Presidente, anch'io userò i pochi minuti che ho a disposizione per svolgere due riflessioni con la seguente premessa: con convinzione, con passione e anche con trepidazione esprimo la piena condivisione dei Popolari alla mozione contro la pena di morte. Perché parlo di trepidazione? Proprio poco fa il collega Fabrizio Vigni, al quale va la mia ammirazione per la militanza e la forza incessante con la quale ha seguito il caso, anzi la persona di Derek Rocco Barnabei, ha ricevuto dagli Stati Uniti la notizia che il tribunale di Norfolk in Virginia ha confermato l'esecuzione di quest'uomo per giovedì 14 settembre.
Ebbene, la prima riflessione riguarda un tema sul quale i colleghi che mi hanno preceduto, in particolare il collega Frau che ho seguito con grande interesse ed attenzione, si sono intrattenuti: il rapporto tra politica e giustizia. Si tratta di un rapporto che non esiterei a definire perverso, senza calcare la mano. Quella che arriva a Derek Rocco Barnabei è una lunga catena, da Chessman, attraverso O'Dell, battaglie condotte nel braccio della morte contro la pena di morte. Ebbene, è una riflessione su una giustizia troppo spesso abbandonata dalla politica al sondaggismo. Tempo fa Vittorio Zucconi pubblicò un articolo molto bello, in occasione dell'incontro a New Orleans tra il Santo Padre, Giovanni Paolo II, e il Presidente Clinton. Nella schematizzazione un po' bozzettistica, ma comunque giornalisticamente pedagogica, veniva contrapposto il Papa europeo, il Papa polacco, come il Papa rappresentante i valori del vecchio continente, l'Europa, al «Presidente dei sondaggi». È una schematizzazione, che però dà ragione del fatto che troppe campagne elettorali, troppe nomination si giochino intorno alla difesa della pena di morte, che troppi candidati - ha fatto giustamente eccezione Mario Cuomo in questa direzione - siano così attenti agli umori dell'opinione pubblica da schierarsi per la pena di morte.
In questo caso la pena di morte è aggravata da quella sconcertante legge


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della Virginia per cui le prove non possono più essere presentate dopo ventuno giorni - il collega Biondi mi ha preceduto in questo senso - e dal fatto che, a differenza di altri Stati degli Stati Uniti, dove pure è entrata in vigore una moratoria, vi è il rifiuto di sottoporre il condannato alla prova del DNA.
Ebbene, sulla pena di morte si giocano troppe cose e fa specie che una grande nazione, come quella americana, sia dimentica di una pagina stupenda di Tocqueville, che affermava che la magistratura rappresenta negli Stati Uniti quella aristocrazia che il vecchio continente europeo ha avuto, che là non c'è e che, proprio a partire dal diritto, si dà questi quarti di nobiltà. La seconda riflessione è che - lo ricordava giustamente il collega Pace - il valore indisponibile della vita è il servizio delle istituzioni ed è ciò che anche in questa occasione tentiamo di fare.
Siamo contro la pena di morte in quanto tale, non soltanto perché questo è l'anno giubilare, non soltanto perché l'Italia ha la fortuna di avere la presenza della più grande diplomazia al mondo, quella vaticana, non soltanto per la presenza di questo Pontefice. In questo paese abbiamo anche una società civile molto attenta e tesa su questi temi: ad esempio, l'azione di «Nessuno tocchi Caino» è tra le più encomiabili da questo punto di vista.
Ebbene, anche il nostro Parlamento si è mosso con coerenza in questa direzione. È questa una delle occasioni in cui ognuno di noi dovrebbe lasciare le bandiere avvolte nelle fodere o farle sventolare insieme. Non c'è nessuna logica bipartisan o di altro tipo: tutto il Parlamento come tale si è mosso in questa direzione. Aveva ragione il collega Biondi: la giustizia non è né di destra, né di sinistra. Vi sono occasioni in cui è bene ricordare a noi stessi che in questo caso, in questo Parlamento, siamo soltanto rappresentanti del popolo italiano, fieri di contare tra gli italiani un uomo di nome Cesare Beccaria.
Questo ci spinge a continuare, passo dopo passo, anche di fronte alle difficoltà nuove, sia pure su un terreno più avanzato, che prevede la stessa ingerenza umanitaria; ci spinge in avanti su un piano di principio, come ci ha ricordato il Segretario generale dell'ONU, Kofi Annan, ma pone tutta una serie di problemi pratici in ordine alla sua praticabilità per la difesa della persona nei confronti del suo Stato di appartenenza. Tuttavia, è un'occasione per continuare a difendere l'idea di una moratoria universale e per ricordare che il nostro piccolo passo in questa direzione deve essere senza tentennamenti. Forse non sarà l'ultimo, ma va compiuto (Applausi).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.
Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

UMBERTO RANIERI, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Signor Presidente, mi riservo di intervenire nel prosieguo del dibattito sulla mozione.

PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

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