Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento ambiente
Titolo: Le sentenze della Corte Costituzionale in materia ambientale nella XVI Legislatura - Seconda edizione
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 84
Data: 15/04/2010
Descrittori:
AMBIENTE   GIUDIZI DI COSTITUZIONALITA'
Organi della Camera: VIII-Ambiente, territorio e lavori pubblici

15 aprile 2010

 

n. 84/0

Le sentenze della Corte Costituzionale in materia ambientale

nella XVI Legislatura

Seconda edizione

 


Premessa

Con riferimento al riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni, si ricorda che il legislatore costituzionale ha distinto fra la legislazione in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, riservata alla competenza esclusiva dello Stato, e legislazione finalizzata alla “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, collocata invece al comma terzo dell’articolo 117, e quindi attribuita alla competenza concorrente di Stato e regioni.

Un’ulteriore disposizione costituzionale è infine collocata all’articolo 116, terzo comma, laddove per alcuni ambiti materiali viene prevista l’ipotesi di conferimento – con legge statale – di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia alle regioni a statuto ordinario. Oltre che per tutte le materie oggetto di legislazione concorrente, tale ipotesi è, infatti, estesa anche ad alcune delle materie attribuite dal successivo articolo 117 alla competenza esclusiva statale, e fra queste – appunto – la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”.

La legislazione regionale in materia ambientale precedente alla riforma del Titolo V è stata particolarmente intensa ed ha consentito di cogliere in anticipo e di disciplinare con successo problemi emergenti di tutela ambientale: tale circostanza ha portato i giudici costituzionali, a seguito della riforma, ad affermare che la "tutela dell'ambiente" investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze. In tale ambito, la Corte configura l'ambiente come "valore" costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia "trasversale", in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che riguardano profili indissolubilmente connessi ed intrecciati con la tutela dell'ambiente, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale (sentenza n. 407 del 2002). Nella successive sentenze (ad esempio, la n. 182 del 2006 e la n. 367 del 2007), la Corte riconosce alla legislazione regionale la facoltà di assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale o paesaggistica, purché siano rispettate le regole uniformi fissate dallo Stato. Le più recenti sentenze del 2008 e del 2009 ribadiscono tali limiti regionali, riconducendo alla materia della tutela dell’ambiente numerose questioni sollevate dalle regioni, tra le quali si ricordano, per la loro rilevanza, la difesa del suolo, la gestione delle risorse idriche e i rifiuti.

Le sentenze della XVI legislatura

In particolare, la Corte, con la sentenza n. 214 del 2008 dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge della regione Emilia-Romagna 1° giugno 2006, n. 5, il quale prevede che i Comuni concludano i procedimenti di bonifica dei siti contaminati già avviati alla data di entrata in vigore del Codice ambientale sulla base della legislazione previgente. Secondo la Corte, spetta infatti alla disciplina statale tener conto degli altri interessi costituzionalmente rilevanti contrapposti alla tutela dell’ambiente: una eventuale diversa disciplina regionale, anche più rigorosa in tema di tutela dell’ambiente, rischierebbe di sacrificare in maniera eccessiva e sproporzionata gli altri interessi confliggenti considerati dalla legge statale nel fissare i valori soglia per la classificazione dei siti contaminati. (Si veda anche la sentenza n. 12 del 2009 con riferimento alla regione Sicilia, in cui la Corte, considerando l’istituzione di parchi nazionali esercizio della competenza esclusiva dello Stato in materia di ambiente ed ecosistema, dichiara non fondata la censura della regione, che lamenta una violazione di sue competenze normative in materia).

 

La sentenza n. 225 del 2009 reca una ricognizione dello stato della giurisprudenza costituzionale in materia di “tutela dell’ambiente”, rilevando innanzitutto come sullo stesso bene (l'ambiente) “concorrano” diverse competenze, le quali, tuttavia, restano distinte tra loro, perseguendo autonomamente le loro specifiche finalità attraverso la previsione di diverse discipline: da una parte, sono affidate allo Stato la tutela e la conservazione dell'ambiente, mediante la fissazione di livelli «adeguati e non riducibili di tutela» (sentenza n. 61 del 2009, vedi otlre) e dall'altra compete alle regioni, nel rispetto dei livelli di tutela fissati dalla disciplina statale, di esercitare le proprie competenze, dirette essenzialmente a regolare la fruizione dell'ambiente, evitando compromissioni o alterazioni dell'ambiente stesso. In questo senso può dirsi che la competenza statale, quando è espressione della tutela dell'ambiente, costituisce “limite” all'esercizio delle competenze regionali.

Per quanto in particolare riguarda l'incidenza del principio di leale collaborazione, nel caso della tutela ambientale, lo Stato, in quanto titolare di una competenza esclusiva, ai sensi dell'art. 118 Cost., può conferire a sé le relative funzioni amministrative, ovvero conferirle alle regioni o ad altri enti territoriali, ovvero ancora prevedere che la funzione amministrativa sia esercitata mediante il coinvolgimento di organi statali ed organi regionali o degli enti locali. Sulla base di tali considerazioni la Corte dichiara inammissibili o non fondate le censure mosse da più regioni ad alcuni articoli del Codice ambientale.

 

Quanto alle direttive che l’Autorità per l’energia emana in relazione alle condizioni tecniche ed economiche per l’erogazione del servizio di connessione di impianti alimentati da fonti rinnovabili alle reti elettriche, la sentenza n. 88 del 2009 riconosce, con un giudizio di prevalenza, la competenza statale nel perseguire la finalità prevalente di assicurare e conformare gli interessi peculiarmente connessi alla protezione dell’ambiente nell’ambito di un mercato concorrenziale rispetto alla materia dell’energia, di competenza concorrente. La sentenza n. 166 del 2009 dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 della legge R. Basilicata 9/2007 in materia di energia perché in contrasto con la potestà legislativa esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente e nello specifico con l’art. 12 d.lgs. 387/2003 con cui è stato attribuito allo Stato il compito di adottare linee guida per il corretto inserimento paesaggistico degli impianti alimentati da fonti rinnovabili. Analoghe considerazioni sono contenute nelle sentenze n. 166 e 282 del 2009.

Con la sentenza n. 119 del 2010, la Corte dichiara illegittima l’adozione, da parte delle Regioni, nelle more dell’approvazione delle linee guida previste dall’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, di una disciplina restrittiva in materia di localizzazione di impianti alimentati da energie rinnovabili, dal momento che l’emanazione delle linee guida è da ritenersi espressione della competenza statale di natura esclusiva in materia di tutela dell’ambiente. Né è possibile per le regioni prevedere l’estensione della DIA anche per potenze elettriche nominali superiori (fino a 1 MWe) a quelle previste alla tabella A allegata al d.lgs. n. 387 del 2003.

Analoghe valutazioni sono recate dalla sentenza n. 124 del 2010, con cui la Corte ribadisce la natura di principio fondamentale - che non può quindi essere derogato dalla normativa regionale - all’art. 12, comma 4, del d.lgs. n. 387 del 2003 che, nel disciplinare il procedimento per la realizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, fissa il termine massimo per la sua conclusione in centottanta giorni. Tale disposizione risulta - secondo la Corte - ispirata alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità garantendo, in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, la conclusione entro un termine definito del procedimento autorizzativo. Inoltre, il legislatore regionale non può imporre limiti alla produzione di energia da fonti rinnovabili sul territorio regionale in quanto in contrasto con norme internazionali (Protocollo di Kyoto) e comunitarie (art. 3 direttiva n. 2001/77/CE) le quali, nell’incentivare lo sviluppo delle fonti di energia, individuano soglie minime di produzione che ogni Stato si impegna a raggiungere entro un determinato periodo di tempo.

 

Con la sentenza n. 232 del 2009 la Corte chiarisce che la “difesa del suolo” così come la “tutela delle acque dall’inquinamento” e la “gestione delle risorse idriche” sono riconducibili alla materia “tutela dell’ambiente” e su tale base dichiara inammissibili o non fondate le censure mosse da più regioni ad alcuni articoli del Codice ambientale. Secondo la Corte, i piani di bacino sono il fondamentale strumento di pianificazione della difesa del suolo e delle acque. Nella procedura di formazione dei predetti piani, gli interessi regionali risultano adeguatamente tutelati dalle forme di collaborazione previste dal Codice (partecipazione della regione agli organi dell’autorità di bacino ed espressione del parere sugli ambiti di competenza).

Riguardo invece al programma nazionale di intervento previsto dall’art. 57 e ad alcune competenze del ministero dell’ambiente in tema di difesa del suolo indicate dall’art. 58 del Codice, la Corte, considerando che essi sono suscettibili di produrre significativi effetti anche nella materia del governo del territorio, di competenza legislativa concorrente, afferma, conformemente al principio di leale collaborazione istituzionale, la necessità del coinvolgimento delle regioni nella forma del parere (della regione o della Conferenza unificata).

 

Nella sentenza n. 233 del 2009, riguardante una serie di disposizioni in materia di «tutela delle acque dall’inquinamento», oggetto della parte III Codice ambientale, la Corte ricorda che nella materia ambientale, di potestà legislativa esclusiva, lo Stato non si limita a porre principi (come nelle materie di legislazione concorrente): il fatto che tale competenza non escluda la concomitante possibilità per le regioni di intervenire in tema di tutela della salute e di governo del territorio, non comporta che lo Stato debba necessariamente limitarsi a stabilire norme di principio, anche riguardo alle funzioni amministrative, la cui attribuzione può essere disposta in base ai criteri generali dettati dall’art. 118, primo comma, Cost. (sentenze n. 88 del 2009 e n. 62 del 2005), del resto compatibile con la disciplina dell’ambiente (sentenza n. 401 del 2007).

Riguardo poi alla divulgazione, da parte delle regioni, delle informazioni sullo stato di qualità delle acque e alla trasmissione dei dati conoscitivi e delle informazioni relative all’attuazione del Codice, e di quelli prescritti dalla disciplina comunitaria, la Corte osserva che tali obblighi vanno inquadrati nell’ambito della normativa in tema di informazione ambientale, che grava sulla pubblica amministrazione, ed è disciplinata dal d.lgs. 195/2005, di attuazione della direttiva 2003/4/CE, sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale.

Infine, la Corte ricorda che le acque marine e costiere, a differenza delle acque dolci interne, che hanno un preciso collegamento al bacino territoriale di riferimento, in cui si configura la competenza regionale, coinvolgono interessi cui sovrintendono organi statali.

 

In materia di valutazione di impatto ambientale (VIA), la sentenza n. 234 del 2009 chiarisce che nonostante la direttiva 85/337/CEE preveda l'esclusione della VIA per le sole opere relative alla difesa nazionale, non è inibito allo Stato, nell'esercizio di una scelta libera del legislatore nazionale, prevedere in modo non irragionevole l'esclusione della suddetta valutazione per opere di particolare rilievo quali quelle destinate alla protezione civile o aventi carattere temporaneo.

In tale ambito, la Corte ricorda che seppure possono essere presenti ambiti materiali di spettanza regionale nel procedimento di VIA, soprattutto nel campo della tutela della salute, debba ritenersi prevalente la materia tutela dell’ambiente, di competenza statale.

Di analogo tenore la sentenza n. 127 del 2010, con cui la Corte dichiara incostituzionale la norma della regione Umbria che aveva sottoposto ad autorizzazione comunale le ecopiazzole, escluso i sedimenti da gestione idrica dal novero dei rifiuti e sottratto dalla VIA gli impianti mobili di recupero di rifiuti non pericolosi qualora trattino meno di 200 tonnellate al giorno, in quanto le regioni non possono modificare il campo di applicazione delle discipline nazionali in materia ambientale.

Con la sentenza n. 120 del 2010, la Corte interviene in materia di valutazione di impatto ambientale, affermando che le variazioni del percorso di un elettrodotto, quand'anche concordate con i proprietari dei fondi interessati e le amministrazioni interessate, devono essere sottoposte alla procedura di Via per le sue possibili ripercussioni negative sull'ambiente. La variazione del tracciato, infatti, secondo la Corte, è destinata ad incidere sul paesaggio, come qualsiasi altra opera lineare e, comportando una modifica progettuale, deve essere sottoposto a Via.

 

In materia di paesaggio, con la sentenza n. 316 del 2009 la Corte ribadisce la competenza esclusiva statale in materia di ZPS (zone di protezione speciale) e ZSC (zone speciali di conservazione); in tale ambito, il DM 17 ottobre 2007 recante i criteri minimi uniformi è vincolante per le Regioni ordinarie.

Con la sentenza n. 101 del 2010 la Corte dichiarata l’illegittimità di alcune norme dettate dalla regione Friuli Venezia Giulia, che consentivano ai comuni di continuare ad utilizzare il regime transitorio previsto dall’art. 159 del Codice Urbani, in considerazione del fatto che la legge regionale non può rinviare il termine di entrata a regime della nuova autorizzazione paesaggistica. Secondo la Corte, le norme nazionali – in questa materia, di competenza legislativa statale esclusiva – fissano «standard minimi di tutela», che non possono essere modificai dalle Regioni, ordinarie o a statuto speciale, né dalle Province autonome.

 

Ancora, la sentenza n. 235 del 2009, ribadisce che la scelta di attribuire all’amministrazione statale le funzioni amministrative trova una “non implausibile giustificazione” nell’esigenza di assicurare che l’esercizio dei compiti di prevenzione e riparazione del danno ambientale risponda a criteri di uniformità e unitarietà, atteso che il livello di tutela ambientale non può variare da zona a zona e considerato anche il carattere diffusivo e transfrontaliero dei problemi ecologici, in ragione del quale gli effetti del danno ambientale sono difficilmente circoscrivibili entro un limitato ambito territoriale. Analoghe considerazioni sono confermate nella sentenza n. 247 del 2009 con riferimento ai consorzi nazionali per i rifiuti e gli imballaggi.

 

In materia di gestione dei servizi idrici, la sentenza n. 335 del 2008 ha dichiarato l’illegittimità del primo periodo del comma 1 dell’art. 155 del d.lgs. 152/2006, nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti «anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi». La Corte ha altresì  precisato che detta tariffa ha natura non tributaria, ma di «corrispettivo contrattuale», come, del resto, espressamente statuito dal comma 1 dell’art. 154 del Codice. La sentenza n. 246 del 2009 fa quindi salva la disciplina delle autorità d’ambito riconoscendo che essa supera la frammentazione della gestione del servizio idrico, nel rispetto delle preesistenti competenze degli enti territoriali (ad eccezione della norma che prevede l’obbligo di affissione dei bilanci in quanto disciplina di minuto dettaglio e quindi illegittima).

In particolare, la Corte afferma che attraverso la determinazione della tariffa nell’àmbito territoriale ottimale, il legislatore statale ha fissato livelli uniformi di tutela dell’ambiente, perché ha inteso perseguire la finalità di garantire la tutela e l’uso, secondo criteri di solidarietà, delle risorse idriche, salvaguardando la vivibilità dell’ambiente e «le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale» e le altre finalità tipicamente ambientali individuate dagli artt. 144 (Tutela e uso delle risorse idriche), 145 (Equilibrio del bilancio idrico) e 146 (Risparmio idrico). La finalità della tutela dell’ambiente viene in rilievo anche in relazione alla scelta delle tipologie dei costi che la tariffa è diretta a recuperare. Tra tali costi il legislatore ha, infatti, incluso espressamente quelli ambientali, da recuperare «anche secondo il principio “chi inquina paga”» (art. 154). I profili della tutela della concorrenza vengono poi in rilievo perché alla determinazione della tariffa provvede l’Autorità d’àmbito, al fine di ottenere un equilibrio economico-finanziario della gestione e di assicurare all’utenza efficienza ed affidabilità del servizio (art. 151). Tale fine è raggiunto determinando la tariffa secondo un meccanismo di price cap (artt. 151 e 154), diretto ad evitare che il concessionario unico abusi della sua posizione dominante.

Con la sentenza n. 29 del 2010 la Corte afferma che la determinazione della tariffa relativa ai servizi idrici per i settori di impiego dell’acqua è ascrivibile alla materia della tutela dell’ambiente e a quella della tutela della concorrenza, ambedue di competenza esclusiva dello Stato. Analoghe considerazioni riguardano la definizione delle componenti del costo della tariffa.

Con la sentenza n. 39 del 2010 la Corte afferma che una volta esclusa la natura tributaria del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue (come affermato con la sentenza n. 335 del 2008), l’attribuzione alla giurisdizione tributaria delle controversie relative a tale canone “snatura” la materia originariamente attribuita alla cognizione del giudice tributario e, conseguentemente, víola l’art. 102, secondo comma, Cost.

 

Quanto alla classificazione dei rifiuti, secondo la Corte tale competenza è riconducibile solo all’autorità statale e non esiste una competenza regionale in materia di tutela dell’ambiente se non complementare e più rigorosa di quella della fonte primaria (sentenza n. 61 del 2009). Sempre in materia di rifiuti, la sentenza n. 238 del 2009 conferma la natura tributaria - e la conseguente attribuzione alla giurisdizione tributaria delle relative controversie - della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dal D.Lgs. 22/97, muovendo dalla considerazione che tale prelievo è disciplinato in modo analogo alla TARSU, la cui natura tributaria non è posta in dubbio.

Riguardo invece alla nuova tariffa ambientale prevista dal Codice (art. 238), la Corte, con la sentenza n. 247 del 2009 non ne chiarisce la natura, ma la attribuisce con certezza alla competenza statale precisando che, qualora si volesse attribuire alla tariffa natura di corrispettivo del servizio di gestione dei rifiuti solidi urbani, l’art. 238 sarebbe inquadrabile nelle materie ordinamento civile, tutela della concorrenza e tutela dell’ambiente, tutte rientranti nella competenza legislativa esclusiva dello Stato. Qualora si volesse qualificare la tariffa come tributo, si dovrebbe riconoscere la competenza esclusiva dello Stato in ragione della preclusione alle regioni della potestà di legiferare sui tributi esistenti istituiti e regolati da leggi statali e per converso si deve ritenere tuttora spettante al legislatore statale la potestà di dettare norme modificative anche nel dettaglio della disciplina dei tributi locali esistenti.

 

Con la sentenza n. 249 del 2009 la Corte ribadisce che la disciplina dei rifiuti, in quanto rientrante principalmente nella tutela dell’ambiente e, dunque, in una materia che, per la molteplicità dei settori di intervento, assume una struttura complessa, riveste un carattere di pervasività rispetto anche alle attribuzioni regionali. Tuttavia la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 199, comma 9, del d.lgs. n. 152 del 2006, nella parte in cui attribuisce al Ministro dell’ambiente il potere sostitutivo nel caso in cui «le autorità competenti non realizzino gli interventi previsti dal piano regionale» di gestione dei rifiuti «nei termini e con le modalità stabiliti e tali omissioni possano arrecare un grave pregiudizio all’attuazione del piano medesimo»: tali poteri sostitutivi, secondo la Corte, avrebbero dovuto essere riconosciuti in via preliminare alle regioni sulla base del principio di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza; dichiara – con le medesime motivazioni - l’illegittimità costituzionale dell’art. 204, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006, nella parte in cui disciplina l’esercizio del potere sostitutivo del Presidente della Giunta regionale in tema di gestioni esistenti del servizio di gestione dei rifiuti; dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 205, comma 6, del d.lgs. n. 152 del 2006, nella parte in cui assoggetta ad una previa intesa con il Ministro dell’ambiente l’adozione delle leggi con cui le regioni possono indicare maggiori obiettivi di riciclo e di recupero dei rifiuti. Tali norme sono infatti considerate lesive delle competenze regionali.

 

Ancora, nella sentenza n. 314 del 2009, la Corte conferma la competenza regionale per la localizzazione degli impianti di trattamento dei rifiuti sul territorio, nel rispetto dei criteri tecnici fondamentali stabiliti dagli organi statali (art. 195 del d.lgs. n. 152 del 2006), che rappresentano soglie inderogabili di protezione ambientale, in quanto attinente al “governo del territorio”, anche in considerazione del fatto che la normativa statale riconosce che «il piano regionale di gestione dei rifiuti è coordinato con gli altri strumenti di pianificazione di competenza regionale previsti dalla normativa vigente» (art. 199, d.lgs. n. 152 del 2006).

La sentenza dichiara inoltre l’illegittimità costituzionale della norma regionale che ha abrogato l’obbligo, da parte della regione, di inserire nel piano regionale di gestione dei rifiuti «le misure atte a promuovere la regionalizzazione della raccolta, della cernita e dello smaltimento dei rifiuti urbani», poiché in contrasto con quanto disposto dall’art. 199.

Con la sentenza n. 35 del 2010 la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 del DL 90/2008 che ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie attinenti alla complessiva azione di gestione dei rifiuti.

 

Conformemente al principio di leale collaborazione, la citata sentenza n. 247 del 2009 prevede inoltre che il regolamento relativo agli interventi di bonifica, ripristino ambientale e di messa in sicurezza, d'emergenza, operativa e permanente, delle aree destinate alla produzione agricola e all'allevamento sia adottato sentita la Conferenza unificata. Analoga procedura deve essere seguita nell’emanazione del decreto riguardante le forme di promozione e di incentivazione per la ricerca e per lo sviluppo di nuove tecnologie di bonifica presso le università e presso le imprese e i loro consorzi.

 

La sentenza n. 250 del 2009 dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 287, comma 1, del d.lgs. 152/2006, che attribuisce all’ispettorato provinciale del lavoro la competenza per il rilascio dell’abilitazione alla conduzione di impianti termici al termine dell’apposito corso di formazione, in quanto lesivo della competenza residuale delle regioni in materia di formazione professionale.

 

Con la sentenza n. 251 del 2009, la Corte ribadisce che la funzione di individuazione delle aree maggiormente esposte al rischio di inquinamento deve rispondere a criteri uniformi ed omogenei, dovendo, al contempo, tener conto anche delle peculiarità territoriali sulle quali viene ad incidere. Sotto entrambi i profili, secondo la Corte, il Codice offre una soluzione non costituzionalmente illegittima, posto che la funzione amministrativa statale di individuazione (da esercitarsi previa acquisizione del parere della Conferenza Stato-Regioni) si affianca a quella delle regioni le quali, oltre a poter designare a propria volta «ulteriori aree sensibili» rispetto a quelle indicate dallo Stato, possono altresì indicare i corpi idrici che, secondo propria valutazione, non possono rientrare in detta categoria.

La sentenza n. 254 del 2009 interpreta, infine, alcune disposizioni del Codice in materia di tutela delle acque alla luce degli obblighi derivanti dall’adempimento di direttive comunitarie, dichiarando l’infondatezza delle questioni di legittimità sollevate da diverse regioni.

 

La sentenza n. 237 del 2009 (sui commi da 17 a 22 dell’art. 2 della legge finanziaria per l’anno 2008 in tema di comunità montane, che aveva disposto che le Regioni, con proprie leggi, procedessero ad un riordino della disciplina delle comunità montane ad integrazione di quanto previsto dall’articolo 27 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, in modo da ridurre, a regime, la spesa corrente per il loro funzionamento sulla base di alcuni criteri, che venivano definiti «principi fondamentali») ha ritenuto tali disposizioni riconducibili alla materia del coordinamento della finanza pubblica e rispondenti ai requisiti che la giurisprudenza costituzionale richiede alle norme statali che fissano i relativi principi. La previsione, viceversa, di un criterio altimetrico rigido, quale quello individuato dall’art. 76, co. 6-bis, DL 112/2008 come strumento per attuare la riduzione dei trasferimenti erariali diretti alle comunità montane esorbita dai limiti della competenza statale e viola l’art. 117 Cost. La sentenza n. 27 del 2010 ha dichiarato quindi l’illegittimità costituzionale della disposizione nella parte in cui prevede che le comunità devono prioritariamente essere individuate tra quelle che si trovano ad una altitudine media inferiore a settecentocinquanta metri sopra il livello del mare nonché nella parte in cui non prevede per l’emanazione del decreto non regolamentare di attuazione lo strumento dell’intesa.

 

Con la sentenza n. 322 del 2009, la Corte riconduce all’ambito dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.), l’art. 30, comma 1, del d.l. n. 112 del 2008, secondo il quale «per le imprese soggette a certificazione ambientale o di qualità rilasciata da un soggetto certificatore accreditato, i controlli periodici svolti dagli enti certificatori sostituiscono i controlli amministrativi o le ulteriori attività amministrative di verifica.

In tema di autorizzazioni all’esercizio di impianti che producono emissioni in atmosfera, la Corte, con la sentenza n. 315 del 2009, dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma della Provincia di Bolzano, affermando che la disciplina statale concernente il rilascio dell’autorizzazione in esame risponde all’esigenza di «articolare unitariamente tale attività secondo principi che assicurino l’osservanza dei criteri stabiliti dalla normativa nazionale» (sentenza n. 250 del 2009) e quindi vincola il legislatore regionale. Analogamente, la provincia non può modificare la definizione di impianto termico civile includendovi quelli in cui la produzione di calore è “prevalentemente” destinata al riscaldamento di edifici o al riscaldamento di acqua per usi igienici e sanitari.

È’, quindi, illegittima la norma che attribuisce alla Giunta provinciale la definizione dei criteri secondo i quali le terre e rocce da scavo sono considerati come sottoprodotti (vedi sentenza n. 62 del 2008; vedi anche la sentenza n. 28 del 2010 per la definizione di sottoprodotto); allo stesso modo la provincia non può modificare la disciplina dei controlli sul trasporto dei rifiuti pericolosi né la normativa in materia di Albo nazionale dei gestori ambientali.

 


 

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