Premessa
Con riferimento al riparto di competenze legislative fra Stato e
Regioni, si ricorda che il legislatore costituzionale ha distinto fra la
legislazione in materia di “tutela
dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, riservata alla competenza esclusiva dello Stato, e legislazione finalizzata alla
“valorizzazione dei beni culturali e
ambientali”, collocata invece al comma terzo dell’articolo 117, e quindi
attribuita alla competenza concorrente
di Stato e regioni.
Un’ulteriore disposizione costituzionale è infine collocata all’articolo
116, terzo comma, laddove per alcuni ambiti materiali viene prevista l’ipotesi
di conferimento – con legge statale – di ulteriori forme e condizioni
particolari di autonomia alle regioni a statuto ordinario. Oltre che per tutte
le materie oggetto di legislazione concorrente, tale ipotesi è, infatti, estesa
anche ad alcune delle materie attribuite dal successivo articolo 117 alla
competenza esclusiva statale, e fra queste – appunto – la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”.
La legislazione regionale in
materia ambientale precedente alla riforma del Titolo V è stata particolarmente
intensa ed ha consentito di cogliere in anticipo e di disciplinare con successo
problemi emergenti di tutela ambientale: tale circostanza ha portato i giudici
costituzionali, a seguito della riforma, ad affermare che la "tutela dell'ambiente" investe
e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze. In tale
ambito, la Corte configura l'ambiente come "valore" costituzionalmente protetto,
che, in quanto tale, delinea una sorta
di materia "trasversale", in ordine alla quale si manifestano
competenze diverse, che riguardano profili indissolubilmente connessi ed
intrecciati con la tutela dell'ambiente, che ben possono essere regionali,
spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di
disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale (sentenza n. 407 del 2002).
Nella successive sentenze (ad esempio, la n. 182 del 2006 e la n. 367 del 2007), la Corte riconosce alla legislazione regionale la facoltà di
assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale o paesaggistica,
purché siano rispettate le regole
uniformi fissate dallo Stato. Le più recenti sentenze del 2008 e del 2009 ribadiscono tali limiti regionali, riconducendo
alla materia della tutela dell’ambiente numerose questioni sollevate dalle regioni,
tra le quali si ricordano, per la loro rilevanza, la difesa del suolo, la gestione delle risorse idriche e i rifiuti.
Le sentenze della XVI legislatura
In particolare, la Corte, con la sentenza n. 214 del 2008 dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge della regione
Emilia-Romagna 1° giugno 2006, n. 5, il quale prevede che i Comuni concludano i
procedimenti di bonifica dei siti contaminati già avviati alla data di entrata
in vigore del Codice ambientale sulla base della legislazione previgente.
Secondo la Corte,
spetta infatti alla disciplina statale tener conto degli altri interessi
costituzionalmente rilevanti contrapposti alla tutela dell’ambiente: una
eventuale diversa disciplina regionale, anche più rigorosa in tema di tutela dell’ambiente,
rischierebbe di sacrificare in maniera eccessiva e sproporzionata gli altri
interessi confliggenti considerati dalla legge statale nel fissare i valori
soglia per la classificazione dei siti contaminati. (Si veda anche la sentenza n. 12 del 2009 con riferimento alla
regione Sicilia, in cui la Corte,
considerando l’istituzione di parchi nazionali esercizio della competenza
esclusiva dello Stato in materia di ambiente ed ecosistema, dichiara non
fondata la censura della regione, che lamenta una violazione di sue competenze
normative in materia).
La sentenza n. 225 del 2009 reca una ricognizione
dello stato della giurisprudenza costituzionale in materia di “tutela
dell’ambiente”, rilevando innanzitutto come sullo stesso bene (l'ambiente)
“concorrano” diverse competenze, le quali, tuttavia, restano distinte tra loro,
perseguendo autonomamente le loro specifiche finalità attraverso la previsione
di diverse discipline: da una parte, sono affidate allo Stato la tutela e la
conservazione dell'ambiente, mediante la fissazione di livelli «adeguati e non
riducibili di tutela» (sentenza n. 61
del 2009, vedi otlre) e
dall'altra compete alle regioni, nel
rispetto dei livelli di tutela fissati dalla disciplina statale, di esercitare
le proprie competenze, dirette essenzialmente a regolare la
fruizione dell'ambiente, evitando compromissioni o alterazioni
dell'ambiente stesso. In questo senso può dirsi che la competenza statale, quando è espressione della tutela
dell'ambiente, costituisce “limite”
all'esercizio delle competenze regionali.
Per quanto in
particolare riguarda l'incidenza del principio
di leale collaborazione, nel caso della tutela ambientale, lo Stato, in
quanto titolare di una competenza esclusiva, ai sensi dell'art. 118 Cost., può
conferire a sé le relative funzioni amministrative, ovvero conferirle alle
regioni o ad altri enti territoriali, ovvero ancora prevedere che la funzione
amministrativa sia esercitata mediante il coinvolgimento di organi statali ed
organi regionali o degli enti locali. Sulla base di tali considerazioni la Corte dichiara inammissibili
o non fondate le censure mosse da più regioni ad alcuni articoli del Codice
ambientale.
Quanto alle
direttive che l’Autorità per l’energia emana in relazione alle condizioni
tecniche ed economiche per l’erogazione del servizio di connessione di impianti
alimentati da fonti rinnovabili alle reti elettriche, la sentenza n. 88 del 2009 riconosce, con un giudizio di prevalenza, la competenza
statale nel perseguire la finalità prevalente di assicurare e conformare gli
interessi peculiarmente connessi alla protezione
dell’ambiente nell’ambito di un mercato concorrenziale rispetto alla materia dell’energia, di competenza concorrente. La
sentenza n. 166 del 2009 dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 della legge R. Basilicata 9/2007 in
materia di energia perché in
contrasto con la potestà legislativa esclusiva statale in materia di tutela
dell’ambiente e nello specifico con l’art. 12 d.lgs. 387/2003 con cui è stato
attribuito allo Stato il compito di adottare linee guida per il corretto
inserimento paesaggistico degli impianti alimentati da fonti rinnovabili. Analoghe considerazioni sono contenute nelle sentenze n. 166 e 282 del 2009.
Con la
sentenza n. 119 del 2010, la Corte dichiara illegittima
l’adozione, da parte delle Regioni, nelle more dell’approvazione delle linee
guida previste dall’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, di una disciplina
restrittiva in materia di localizzazione di impianti alimentati da energie rinnovabili, dal momento che
l’emanazione delle linee guida è da ritenersi espressione della competenza
statale di natura esclusiva in materia di tutela dell’ambiente. Né è possibile
per le regioni prevedere l’estensione della DIA anche per potenze elettriche nominali superiori (fino a 1 MWe)
a quelle previste alla tabella A allegata al d.lgs. n. 387 del 2003.
Analoghe
valutazioni sono recate dalla sentenza
n. 124 del 2010, con cui la
Corte ribadisce la natura di principio fondamentale - che non
può quindi essere derogato dalla normativa regionale - all’art. 12, comma 4,
del d.lgs. n. 387 del 2003 che, nel disciplinare il procedimento per la
realizzazione degli impianti alimentati
da fonti rinnovabili, fissa il termine massimo per la sua conclusione in
centottanta giorni. Tale disposizione risulta - secondo la Corte - ispirata alle regole
della semplificazione amministrativa e della celerità garantendo, in modo
uniforme sull’intero territorio nazionale, la conclusione entro un termine
definito del procedimento autorizzativo. Inoltre, il legislatore regionale non
può imporre limiti alla produzione di energia da fonti rinnovabili sul
territorio regionale in quanto in contrasto con norme internazionali
(Protocollo di Kyoto) e comunitarie (art. 3 direttiva n. 2001/77/CE) le quali,
nell’incentivare lo sviluppo delle fonti di energia, individuano soglie minime
di produzione che ogni Stato si impegna a raggiungere entro un determinato
periodo di tempo.
Con la sentenza n. 232 del 2009 la Corte chiarisce che la “difesa del suolo” così come la “tutela delle acque dall’inquinamento” e
la “gestione delle risorse idriche”
sono riconducibili alla materia “tutela dell’ambiente” e su tale base dichiara
inammissibili o non fondate le censure mosse da più regioni ad alcuni articoli
del Codice ambientale. Secondo la
Corte, i piani di bacino sono il fondamentale strumento di
pianificazione della difesa del suolo e delle acque. Nella procedura di
formazione dei predetti piani, gli interessi regionali risultano adeguatamente
tutelati dalle forme di collaborazione previste dal Codice (partecipazione
della regione agli organi dell’autorità di bacino ed espressione del parere
sugli ambiti di competenza).
Riguardo invece
al programma nazionale di intervento previsto dall’art. 57 e ad alcune
competenze del ministero dell’ambiente in tema di difesa del suolo indicate dall’art. 58 del Codice, la Corte, considerando che essi
sono suscettibili di produrre significativi effetti anche nella materia del governo del territorio, di competenza
legislativa concorrente, afferma, conformemente al principio di leale
collaborazione istituzionale, la necessità del coinvolgimento delle regioni nella forma del parere (della regione
o della Conferenza unificata).
Nella sentenza n. 233 del 2009, riguardante una serie
di disposizioni in materia di «tutela
delle acque dall’inquinamento», oggetto della parte III Codice ambientale, la Corte ricorda che nella
materia ambientale, di potestà legislativa esclusiva, lo Stato non si limita a
porre principi (come nelle materie di legislazione concorrente): il fatto che
tale competenza non escluda la concomitante possibilità per le regioni di
intervenire in tema di tutela della salute e di governo del territorio, non
comporta che lo Stato debba necessariamente limitarsi a stabilire norme di
principio, anche riguardo alle funzioni amministrative, la cui attribuzione può
essere disposta in base ai criteri generali dettati dall’art. 118, primo comma,
Cost. (sentenze n. 88 del 2009 e n. 62 del 2005), del resto compatibile con la
disciplina dell’ambiente (sentenza n. 401 del 2007).
Riguardo poi alla
divulgazione, da parte delle regioni, delle informazioni sullo stato di qualità
delle acque e alla trasmissione dei dati conoscitivi e delle informazioni
relative all’attuazione del Codice, e di quelli prescritti dalla disciplina
comunitaria, la Corte
osserva che tali obblighi vanno inquadrati nell’ambito della normativa in tema
di informazione ambientale, che
grava sulla pubblica amministrazione, ed è disciplinata dal d.lgs. 195/2005, di
attuazione della direttiva 2003/4/CE, sull’accesso del pubblico
all’informazione ambientale.
Infine, la Corte ricorda che le acque marine e costiere, a differenza
delle acque dolci interne, che hanno un preciso collegamento al bacino
territoriale di riferimento, in cui si configura la competenza regionale,
coinvolgono interessi cui sovrintendono organi statali.
In materia di valutazione di impatto ambientale (VIA),
la sentenza n. 234 del 2009
chiarisce che nonostante la direttiva 85/337/CEE preveda l'esclusione della VIA
per le sole opere relative alla difesa nazionale, non è inibito allo Stato,
nell'esercizio di una scelta libera del legislatore nazionale, prevedere in
modo non irragionevole l'esclusione della suddetta valutazione per opere di
particolare rilievo quali quelle destinate alla protezione civile o aventi
carattere temporaneo.
In tale ambito, la Corte ricorda che seppure
possono essere presenti ambiti materiali di spettanza regionale nel
procedimento di VIA, soprattutto nel campo della tutela della salute, debba
ritenersi prevalente la materia tutela dell’ambiente, di competenza statale.
Di
analogo tenore la sentenza n. 127 del
2010, con cui la Corte
dichiara incostituzionale la norma della regione Umbria che aveva sottoposto ad
autorizzazione comunale le ecopiazzole, escluso i sedimenti da gestione idrica
dal novero dei rifiuti e sottratto dalla VIA
gli impianti mobili di recupero di rifiuti non pericolosi qualora trattino meno
di 200 tonnellate al giorno, in quanto le regioni non possono modificare il
campo di applicazione delle discipline nazionali in materia ambientale.
Con la
sentenza n. 120 del 2010, la Corte interviene in materia
di valutazione di impatto ambientale,
affermando che le variazioni del percorso di un elettrodotto, quand'anche concordate con i proprietari dei fondi
interessati e le amministrazioni interessate, devono essere sottoposte alla
procedura di Via per le sue possibili ripercussioni negative sull'ambiente. La
variazione del tracciato, infatti, secondo la Corte, è destinata ad incidere sul paesaggio, come qualsiasi altra opera
lineare e, comportando una modifica progettuale, deve essere sottoposto a Via.
In
materia di paesaggio, con la sentenza n. 316 del 2009 la Corte ribadisce la
competenza esclusiva statale in materia di ZPS (zone di protezione speciale) e
ZSC (zone speciali di conservazione); in tale
ambito, il DM 17 ottobre 2007 recante i criteri minimi uniformi è vincolante
per le Regioni ordinarie.
Con la
sentenza n. 101 del 2010 la Corte dichiarata
l’illegittimità di alcune norme dettate dalla regione Friuli Venezia Giulia,
che consentivano ai comuni di continuare ad utilizzare il regime transitorio
previsto dall’art. 159 del Codice Urbani, in considerazione del fatto che la
legge regionale non può rinviare il termine di entrata a regime della nuova
autorizzazione paesaggistica. Secondo la Corte, le norme nazionali – in questa materia, di
competenza legislativa statale esclusiva – fissano «standard minimi di tutela»,
che non possono essere modificai dalle Regioni, ordinarie o a statuto speciale,
né dalle Province autonome.
Ancora, la
sentenza n. 235 del 2009, ribadisce
che la scelta di attribuire all’amministrazione statale le funzioni
amministrative trova una “non implausibile giustificazione” nell’esigenza di
assicurare che l’esercizio dei compiti di prevenzione e riparazione del danno ambientale risponda a criteri di uniformità e unitarietà,
atteso che il livello di tutela ambientale non può variare da zona a zona e
considerato anche il carattere diffusivo e transfrontaliero dei problemi
ecologici, in ragione del quale gli effetti del danno ambientale sono
difficilmente circoscrivibili entro un limitato ambito territoriale. Analoghe
considerazioni sono confermate nella sentenza n. 247 del 2009 con riferimento ai consorzi nazionali per i rifiuti e gli imballaggi.
In materia di gestione dei servizi idrici, la
sentenza n. 335 del 2008 ha
dichiarato l’illegittimità del primo periodo del comma 1 dell’art. 155 del
d.lgs. 152/2006, nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione
è dovuta dagli utenti «anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o
questi siano temporaneamente inattivi». La Corte ha altresì
precisato che detta tariffa ha natura
non tributaria, ma di «corrispettivo contrattuale», come, del resto,
espressamente statuito dal comma 1 dell’art. 154 del Codice. La sentenza n. 246 del 2009 fa quindi salva la
disciplina delle autorità d’ambito
riconoscendo che essa supera la frammentazione della gestione del servizio
idrico, nel rispetto delle preesistenti competenze degli enti territoriali (ad
eccezione della norma che prevede l’obbligo di affissione dei bilanci in quanto
disciplina di minuto dettaglio e quindi illegittima).
In particolare, la Corte afferma che attraverso
la determinazione della tariffa nell’àmbito territoriale ottimale, il legislatore
statale ha fissato livelli uniformi di
tutela dell’ambiente, perché ha inteso perseguire la finalità di garantire
la tutela e l’uso, secondo criteri di solidarietà, delle risorse idriche, salvaguardando
la vivibilità dell’ambiente e «le aspettative ed i diritti delle generazioni
future a fruire di un integro patrimonio ambientale» e le altre finalità
tipicamente ambientali individuate dagli artt. 144 (Tutela e uso delle risorse
idriche), 145 (Equilibrio del bilancio idrico) e 146 (Risparmio idrico). La
finalità della tutela dell’ambiente viene in rilievo anche in relazione alla scelta delle tipologie dei costi che la
tariffa è diretta a recuperare. Tra tali costi il legislatore ha, infatti,
incluso espressamente quelli ambientali, da recuperare «anche secondo il
principio “chi inquina paga”» (art.
154). I profili della tutela della
concorrenza vengono poi in rilievo perché alla determinazione della tariffa
provvede l’Autorità d’àmbito, al fine di ottenere un equilibrio
economico-finanziario della gestione e di assicurare all’utenza efficienza ed
affidabilità del servizio (art. 151). Tale fine è raggiunto determinando la
tariffa secondo un meccanismo di price cap
(artt. 151 e 154), diretto ad evitare che il concessionario unico abusi della
sua posizione dominante.
Con la
sentenza n. 29 del 2010 la Corte afferma che la determinazione della tariffa relativa ai
servizi idrici per i settori di impiego dell’acqua è ascrivibile alla
materia della tutela dell’ambiente e a quella della tutela della concorrenza,
ambedue di competenza esclusiva dello Stato. Analoghe considerazioni riguardano la definizione delle
componenti del costo della tariffa.
Con la
sentenza n. 39 del 2010 la Corte afferma che una volta esclusa la natura tributaria del canone per lo
scarico e la depurazione delle acque reflue (come affermato con la sentenza n.
335 del 2008), l’attribuzione alla giurisdizione tributaria delle controversie
relative a tale canone “snatura” la materia originariamente attribuita alla
cognizione del giudice tributario e, conseguentemente, víola l’art. 102,
secondo comma, Cost.
Quanto alla classificazione dei rifiuti, secondo la Corte tale competenza è
riconducibile solo all’autorità statale e non esiste una competenza regionale
in materia di tutela dell’ambiente se non complementare e più rigorosa di
quella della fonte primaria (sentenza n.
61 del 2009). Sempre in materia di rifiuti,
la sentenza n. 238 del 2009 conferma
la natura tributaria - e la conseguente attribuzione alla giurisdizione
tributaria delle relative controversie - della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dal D.Lgs. 22/97,
muovendo dalla considerazione che tale prelievo è disciplinato in modo analogo
alla TARSU, la cui natura tributaria non è posta in dubbio.
Riguardo invece alla nuova tariffa ambientale prevista dal Codice (art. 238), la Corte, con la sentenza n. 247 del 2009 non ne chiarisce la
natura, ma la attribuisce con certezza alla competenza statale precisando che,
qualora si volesse attribuire alla tariffa natura di corrispettivo del servizio
di gestione dei rifiuti solidi urbani, l’art. 238 sarebbe inquadrabile nelle
materie ordinamento civile, tutela della concorrenza e tutela dell’ambiente,
tutte rientranti nella competenza legislativa esclusiva dello Stato. Qualora si
volesse qualificare la tariffa come tributo, si dovrebbe riconoscere la
competenza esclusiva dello Stato in ragione della preclusione alle regioni
della potestà di legiferare sui tributi esistenti istituiti e regolati da leggi
statali e per converso si deve ritenere tuttora spettante al legislatore
statale la potestà di dettare norme modificative anche nel dettaglio della
disciplina dei tributi locali esistenti.
Con la sentenza n.
249 del 2009 la Corte
ribadisce che la disciplina dei rifiuti,
in quanto rientrante principalmente nella tutela dell’ambiente e, dunque, in
una materia che, per la molteplicità dei settori di intervento, assume una
struttura complessa, riveste un carattere di pervasività rispetto anche alle attribuzioni regionali. Tuttavia la Corte dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 199, comma 9, del d.lgs. n. 152 del
2006, nella parte in cui attribuisce al Ministro dell’ambiente il potere
sostitutivo nel caso in cui «le autorità competenti non realizzino gli
interventi previsti dal piano regionale» di gestione dei rifiuti «nei termini e
con le modalità stabiliti e tali omissioni possano arrecare un grave
pregiudizio all’attuazione del piano medesimo»: tali poteri sostitutivi,
secondo la Corte,
avrebbero dovuto essere riconosciuti in via preliminare alle regioni sulla base
del principio di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza; dichiara – con
le medesime motivazioni - l’illegittimità costituzionale dell’art. 204, comma
3, del d.lgs. n. 152 del 2006, nella parte in cui disciplina l’esercizio del
potere sostitutivo del Presidente della Giunta regionale in tema di gestioni
esistenti del servizio di gestione dei rifiuti; dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 205, comma 6, del d.lgs. n. 152 del 2006, nella parte
in cui assoggetta ad una previa intesa con il Ministro dell’ambiente l’adozione
delle leggi con cui le regioni possono indicare maggiori obiettivi di riciclo e
di recupero dei rifiuti. Tali norme sono infatti considerate lesive delle
competenze regionali.
Ancora,
nella sentenza n. 314 del 2009, la Corte conferma la competenza
regionale per la localizzazione degli
impianti di trattamento dei rifiuti sul territorio, nel rispetto dei
criteri tecnici fondamentali stabiliti dagli organi statali (art. 195 del
d.lgs. n. 152 del 2006), che rappresentano soglie inderogabili di protezione
ambientale, in quanto attinente al “governo del territorio”, anche in
considerazione del fatto che la normativa statale riconosce che «il piano regionale
di gestione dei rifiuti è coordinato con gli altri strumenti di pianificazione
di competenza regionale previsti dalla normativa vigente» (art. 199, d.lgs. n.
152 del 2006).
La
sentenza dichiara inoltre l’illegittimità costituzionale della norma regionale
che ha abrogato l’obbligo, da parte della regione, di inserire nel piano regionale di gestione dei rifiuti
«le misure atte a promuovere la regionalizzazione della raccolta, della cernita
e dello smaltimento dei rifiuti urbani», poiché in contrasto con quanto
disposto dall’art. 199.
Con la
sentenza n. 35 del 2010 la Corte dichiara non fondata
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 del DL 90/2008 che ha devoluto alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo tutte le controversie attinenti alla complessiva
azione di gestione dei rifiuti.
Conformemente al
principio di leale collaborazione, la citata sentenza n. 247 del 2009 prevede inoltre che il regolamento relativo agli interventi di bonifica, ripristino
ambientale e di messa in sicurezza, d'emergenza, operativa e permanente, delle aree destinate alla produzione agricola e
all'allevamento sia adottato sentita
la Conferenza
unificata. Analoga procedura deve essere seguita nell’emanazione del
decreto riguardante le forme di promozione e di incentivazione per la ricerca e
per lo sviluppo di nuove tecnologie di
bonifica presso le università e presso le imprese e i loro consorzi.
La sentenza n. 250 del 2009 dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 287, comma 1, del d.lgs. 152/2006, che
attribuisce all’ispettorato provinciale del lavoro la competenza per il
rilascio dell’abilitazione alla conduzione di impianti termici al termine dell’apposito
corso di formazione, in quanto lesivo della competenza residuale delle regioni
in materia di formazione professionale.
Con la sentenza n. 251 del 2009, la Corte ribadisce che la
funzione di individuazione delle aree maggiormente esposte al rischio di inquinamento
deve rispondere a criteri uniformi ed omogenei, dovendo, al contempo, tener
conto anche delle peculiarità territoriali sulle quali viene ad incidere. Sotto
entrambi i profili, secondo la
Corte, il Codice offre una soluzione non costituzionalmente
illegittima, posto che la funzione amministrativa statale di individuazione (da
esercitarsi previa acquisizione del parere
della Conferenza Stato-Regioni) si affianca a quella delle regioni le quali,
oltre a poter designare a propria volta «ulteriori aree sensibili» rispetto a
quelle indicate dallo Stato, possono altresì indicare i corpi idrici che,
secondo propria valutazione, non possono rientrare in detta categoria.
La sentenza n. 254 del 2009 interpreta, infine,
alcune disposizioni del Codice in materia di tutela delle acque alla luce degli obblighi derivanti dall’adempimento di direttive comunitarie,
dichiarando l’infondatezza delle questioni di legittimità sollevate da diverse
regioni.
La
sentenza n. 237 del 2009 (sui commi
da 17 a
22 dell’art. 2 della legge finanziaria per l’anno 2008 in tema di comunità montane, che aveva disposto che
le Regioni, con proprie leggi, procedessero ad un riordino della disciplina
delle comunità montane ad integrazione di quanto previsto dall’articolo 27 del
testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, in modo da ridurre,
a regime, la spesa corrente per il loro funzionamento sulla base di alcuni
criteri, che venivano definiti «principi fondamentali») ha ritenuto tali
disposizioni riconducibili alla materia del coordinamento della finanza pubblica e rispondenti ai requisiti che
la giurisprudenza costituzionale richiede alle norme statali che fissano i
relativi principi. La previsione, viceversa, di un criterio altimetrico rigido,
quale quello individuato dall’art. 76, co. 6-bis, DL 112/2008 come strumento
per attuare la riduzione dei trasferimenti erariali diretti alle comunità
montane esorbita dai limiti della competenza statale e viola l’art. 117 Cost.
La sentenza n. 27 del 2010 ha dichiarato quindi l’illegittimità costituzionale
della disposizione nella parte in cui prevede che le comunità devono
prioritariamente essere individuate tra quelle che si trovano ad una altitudine
media inferiore a settecentocinquanta metri sopra il livello del mare nonché
nella parte in cui non prevede per l’emanazione del decreto non regolamentare
di attuazione lo strumento dell’intesa.
Con la
sentenza n. 322 del 2009, la Corte riconduce all’ambito
dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, secondo comma, lettera m,
Cost.), l’art. 30, comma 1, del d.l. n.
112 del 2008, secondo il quale «per le imprese soggette a certificazione ambientale o di qualità
rilasciata da un soggetto certificatore accreditato, i controlli periodici
svolti dagli enti certificatori sostituiscono i controlli amministrativi o le
ulteriori attività amministrative di verifica.
In tema
di autorizzazioni all’esercizio di
impianti che producono emissioni in atmosfera, la Corte, con la sentenza n. 315 del 2009, dichiara
l’illegittimità costituzionale di una norma della Provincia di Bolzano,
affermando che la disciplina statale concernente il rilascio
dell’autorizzazione in esame risponde all’esigenza di «articolare unitariamente
tale attività secondo principi che assicurino l’osservanza dei criteri
stabiliti dalla normativa nazionale» (sentenza
n. 250 del 2009) e quindi vincola il legislatore regionale. Analogamente,
la provincia non può modificare la definizione di impianto termico civile
includendovi quelli in cui la produzione di calore è “prevalentemente”
destinata al riscaldamento di edifici o al riscaldamento di acqua per usi
igienici e sanitari.
È’,
quindi, illegittima la norma che attribuisce alla Giunta provinciale la
definizione dei criteri secondo i quali le terre e rocce da scavo sono
considerati come sottoprodotti (vedi
sentenza n. 62 del 2008; vedi anche
la sentenza n. 28 del 2010 per la
definizione di sottoprodotto); allo stesso modo la provincia non può modificare la disciplina dei controlli
sul trasporto dei rifiuti pericolosi né la normativa in materia di Albo nazionale dei gestori ambientali.