Premessa
Con riferimento al
riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni, si ricorda che il
legislatore costituzionale ha distinto fra la legislazione in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei
beni culturali”, riservata alla competenza
esclusiva dello Stato, e
legislazione finalizzata alla “valorizzazione
dei beni culturali e ambientali”, collocata invece al comma terzo
dell’articolo 117, e quindi attribuita alla competenza concorrente di Stato e regioni.
Un’ulteriore
disposizione costituzionale è infine collocata all’articolo 116, terzo comma,
laddove per alcuni ambiti materiali viene prevista l’ipotesi di conferimento –
con legge statale – di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia
alle regioni a statuto ordinario. Oltre che per tutte le materie oggetto di
legislazione concorrente, tale ipotesi è, infatti, estesa anche ad alcune delle
materie attribuite dal successivo articolo 117 alla competenza esclusiva
statale, e fra queste – appunto – la “tutela
dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”.
La legislazione regionale in materia
ambientale precedente alla riforma del Titolo V è stata particolarmente intensa
ed ha consentito di cogliere in anticipo e di disciplinare con successo
problemi emergenti di tutela ambientale: tale circostanza ha portato i giudici
costituzionali, a seguito della riforma, ad affermare che la "tutela dell'ambiente" investe
e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze. In tale
ambito, la Corte configura l'ambiente come "valore" costituzionalmente protetto,
che, in quanto tale, delinea una sorta
di materia "trasversale", in ordine alla quale si manifestano
competenze diverse, che riguardano profili indissolubilmente connessi ed
intrecciati con la tutela dell'ambiente, che ben possono essere regionali, spettando
allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di
disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale (sentenza n. 407 del 2002).
Nella successive sentenze (ad esempio, la n. 182 del 2006 e la n. 367 del 2007), la Corte riconosce alla legislazione regionale la facoltà di
assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale o paesaggistica,
purché siano rispettate le regole
uniformi fissate dallo Stato. Le più recenti sentenze del 2008 e del 2009 ribadiscono tali limiti regionali, riconducendo
alla materia della tutela dell’ambiente numerose questioni sollevate dalle regioni,
tra le quali si ricordano, per la loro rilevanza, la difesa del suolo, la gestione delle risorse idriche e i rifiuti.
Le sentenze della XVI legislatura
In
particolare, la Corte,
con la sentenza n. 214 del 2008
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge della regione
Emilia-Romagna 1° giugno 2006, n. 5, il quale prevede che i Comuni concludano i
procedimenti di bonifica dei siti contaminati già avviati alla data di entrata
in vigore del Codice ambientale sulla base della legislazione previgente.
Secondo la Corte,
spetta infatti alla disciplina statale tener conto degli altri interessi
costituzionalmente rilevanti contrapposti alla tutela dell’ambiente: una
eventuale diversa disciplina regionale, anche più rigorosa in tema di tutela
dell’ambiente, rischierebbe di sacrificare in maniera eccessiva e
sproporzionata gli altri interessi confliggenti considerati dalla legge statale
nel fissare i valori soglia per la classificazione dei siti contaminati. (Si
veda anche la sentenza n. 12 del 2009
con riferimento alla regione Sicilia, in cui la Corte, considerando l’istituzione
di parchi nazionali esercizio della competenza esclusiva dello Stato in materia
di ambiente ed ecosistema, dichiara non fondata la censura della regione, che
lamenta una violazione di sue competenze normative in materia).
Quanto
alle direttive che l’Autorità per l’energia emana in relazione alle condizioni
tecniche ed economiche per l’erogazione del servizio di connessione di impianti
alimentati da fonti rinnovabili alle reti elettriche, la sentenza n. 88 del 2009 riconosce, con un giudizio di prevalenza, la competenza
statale nel perseguire la finalità prevalente di assicurare e conformare gli
interessi peculiarmente connessi alla protezione
dell’ambiente nell’ambito di un mercato concorrenziale rispetto alla materia dell’energia, di competenza concorrente. La
sentenza n. 166 del 2009 dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 della legge R. Basilicata 9/2007 in
materia di energia perché in
contrasto con la potestà legislativa esclusiva statale in materia di tutela
dell’ambiente e nello specifico con l’art. 12 d.lgs. 387/2003 con cui è stato
attribuito allo Stato il compito di adottare linee guida per il corretto
inserimento paesaggistico degli impianti alimentati da fonti rinnovabili.
La
sentenza n. 225 del 2009 reca una
ricognizione dello stato della giurisprudenza costituzionale in materia di
“tutela dell’ambiente”, rilevando innanzitutto come sullo stesso bene
(l'ambiente) “concorrano” diverse competenze, le quali, tuttavia, restano
distinte tra loro, perseguendo autonomamente le loro specifiche finalità
attraverso la previsione di diverse discipline: da una parte, sono affidate
allo Stato la tutela e la conservazione dell'ambiente, mediante la fissazione
di livelli «adeguati e non riducibili di tutela» (sentenza n. 61 del 2009, vedi otlre)
e dall'altra compete alle regioni,
nel rispetto dei livelli di tutela fissati dalla disciplina statale, di
esercitare le proprie competenze, dirette essenzialmente a regolare la
fruizione dell'ambiente, evitando compromissioni o alterazioni
dell'ambiente stesso. In questo senso può dirsi che la competenza statale, quando è espressione della tutela
dell'ambiente, costituisce “limite”
all'esercizio delle competenze regionali.
Per
quanto in particolare riguarda l'incidenza del principio di leale collaborazione, nel caso della tutela
ambientale, lo Stato, in quanto titolare di una competenza esclusiva, ai sensi
dell'art. 118 Cost., può conferire a sé le relative funzioni amministrative, ovvero
conferirle alle regioni o ad altri enti territoriali, ovvero ancora prevedere
che la funzione amministrativa sia esercitata mediante il coinvolgimento di
organi statali ed organi regionali o degli enti locali. Sulla base di tali
considerazioni la Corte
dichiara inammissibili o non fondate le censure mosse da più regioni ad alcuni
articoli del Codice ambientale.
Con
la sentenza n. 232 del 2009 la Corte chiarisce che la “difesa del suolo” così come la “tutela
delle acque dall’inquinamento” e la “gestione delle risorse idriche” sono
riconducibili alla materia “tutela dell’ambiente” e su tale base dichiara
inammissibili o non fondate le censure mosse da più regioni ad alcuni articoli
del Codice ambientale. Secondo la
Corte, i piani di bacino sono il fondamentale strumento di
pianificazione della difesa del suolo e delle acque. Nella procedura di
formazione dei predetti piani prevista
dal Codice, gli interessi regionali risultano adeguatamente tutelati dalle
forme di collaborazione previste dal Codice stesso (partecipazione della
regione agli organi dell’autorità di bacino ed espressione del parere sugli
ambiti di competenza).
Riguardo
invece al programma nazionale di intervento previsto dall’art. 57 e ad alcune
competenze del ministero dell’ambiente in tema di difesa del suolo indicate
dall’art. 58 del Codice, la
Corte, considerando che essi sono suscettibili di produrre
significativi effetti anche nella materia del governo del territorio, di competenza legislativa concorrente,
afferma, conformemente al principio di leale collaborazione istituzionale, la
necessità del coinvolgimento delle regioni
nella forma del parere (della regione ovvero della Conferenza unificata).
Nella
sentenza n. 233 del 2009, riguardante
una serie di disposizioni in materia di «tutela
delle acque dall’inquinamento», oggetto della sezione II della parte III
Codice ambientale, la Corte
ricorda che nella materia ambientale, di potestà legislativa esclusiva, lo
Stato non si limita a porre principi (come nelle materie di legislazione
concorrente): il fatto che tale competenza statale non escluda la concomitante
possibilità per le regioni di intervenire, nell’esercizio delle loro competenze
in tema di tutela della salute e di governo del territorio, non comporta che lo
Stato debba necessariamente limitarsi, allorquando individui l’esigenza di
interventi di questa natura, a stabilire solo norme di principio, anche
riguardo alle funzioni amministrative, la cui attribuzione può essere disposta
in base ai criteri generali dettati dall’art. 118, primo comma, Cost. (sentenze
n. 88 del 2009 e n. 62 del 2005), del resto compatibile con la disciplina
dell’ambiente (sentenza n. 401 del 2007).
Riguardo
poi alla divulgazione, da parte delle regioni, delle informazioni sullo stato
di qualità delle acque e alla trasmissione al Dipartimento tutela delle acque
interne e marine dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi
tecnici (APAT, ora ISPRA) dei dati conoscitivi e delle informazioni relative
all’attuazione del Codice, e di quelli prescritti dalla disciplina comunitaria,
la Corte
osserva che tali obblighi vanno inquadrati nell’ambito della normativa in tema
di informazione ambientale, che
grava sulla pubblica amministrazione, ed è disciplinata dal decreto legislativo
19 agosto 2005, n. 195, di attuazione della direttiva 2003/4/CE, sull’accesso
del pubblico all’informazione ambientale.
Infine,
la Corte
ricorda che le acque marine e costiere,
a differenza delle acque dolci interne, che hanno un preciso collegamento al
bacino territoriale di riferimento, in cui si configura la competenza
regionale, coinvolgono interessi cui sovrintendono organi statali.
In
materia di valutazione di impatto
ambientale (VIA), la sentenza n. 234
del 2009 chiarisce che nonostante la direttiva 85/337/CEE preveda
l'esclusione della VIA per le sole opere relative alla difesa nazionale, non è
inibito allo Stato, nell'esercizio di una scelta libera del legislatore
nazionale, prevedere in modo non irragionevole l'esclusione della suddetta
valutazione di impatto ambientale per opere di particolare rilievo quali quelle
destinate alla protezione civile o aventi carattere meramente temporaneo.
In
tale ambito, la Corte
ricorda che seppure possono essere presenti ambiti materiali di spettanza
regionale nel procedimento di VIA, soprattutto nel campo della tutela della
salute, debba ritenersi prevalente, in ragione della precipua funzione cui
assolve il procedimento in esame disciplinato dalle censurate disposizioni
nazionali, la materia tutela dell’ambiente, di competenza statale.
Ancora,
la sentenza n. 235 del 2009,
ribadisce che la scelta di attribuire all’amministrazione statale le funzioni
amministrative trova una “non implausibile giustificazione” nell’esigenza di
assicurare che l’esercizio dei compiti di prevenzione e riparazione del danno ambientale risponda a criteri di uniformità e unitarietà,
atteso che il livello di tutela ambientale non può variare da zona a zona e
considerato anche il carattere diffusivo e transfrontaliero dei problemi
ecologici, in ragione del quale gli effetti del danno ambientale sono
difficilmente circoscrivibili entro un preciso e limitato ambito territoriale.
Analoghe considerazioni sono confermate nella sentenza n. 247 del 2009 con riferimento ai consorzi nazionali per i rifiuti e gli imballaggi.
In
materia di gestione dei servizi idrici,
la sentenza n. 335 del 2008 ha
dichiarato l’illegittimità del primo periodo del comma 1 dell’art. 155 del
d.lgs. 152/2006, nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione
è dovuta dagli utenti «anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o
questi siano temporaneamente inattivi». La Corte ha altresì precisato che detta tariffa ha natura non tributaria, ma di
«corrispettivo contrattuale», come, del resto, espressamente statuito dal comma
1 dell’art. 154 del Codice. La sentenza n.
246 del 2009 fa quindi salva la disciplina delle autorità d’ambito riconoscendo che essa supera la frammentazione
della gestione del servizio idrico, nel rispetto delle preesistenti competenze
degli enti territoriali (ad eccezione della norma che prevede l’obbligo di
affissione dei bilanci in quanto disciplina di minuto dettaglio e quindi
illegittima).
In
particolare, la Corte
afferma che attraverso la determinazione della tariffa nell’àmbito territoriale
ottimale, il legislatore statale ha fissato, infatti, livelli uniformi di tutela dell’ambiente, perché ha inteso
perseguire la finalità di garantire la tutela e l’uso, secondo criteri di
solidarietà, delle risorse idriche, salvaguardando la vivibilità dell’ambiente
e «le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di un integro
patrimonio ambientale» e le altre finalità tipicamente ambientali individuate
dagli artt. 144 (Tutela e uso delle risorse idriche), 145 (Equilibrio del
bilancio idrico) e 146 (Risparmio idrico). La finalità della tutela
dell’ambiente viene in rilievo anche in relazione alla scelta delle tipologie dei costi che la tariffa è diretta a recuperare.
Tra tali costi il legislatore ha, infatti, incluso espressamente quelli
ambientali, da recuperare «anche secondo il principio “chi inquina paga”» (art. 154, comma 2). I profili della tutela della concorrenza vengono poi in
rilievo perché alla determinazione della tariffa provvede l’Autorità d’àmbito,
al fine di ottenere un equilibrio economico-finanziario della gestione e di
assicurare all’utenza efficienza ed affidabilità del servizio (art. 151, comma
2, lettere c, d, e). Tale fine è raggiunto determinando la tariffa secondo un
meccanismo di price cap (artt. 151 e
154, comma 1), diretto ad evitare che il concessionario unico abusi della sua
posizione dominante.
Quanto
alla classificazione dei rifiuti,
secondo la Corte
tale competenza è riconducibile solo all’autorità statale e non esiste una
competenza regionale in materia di tutela dell’ambiente se non complementare e
più rigorosa di quella della fonte primaria (sentenza n. 61 del 2009). Sempre in materia di rifiuti, la sentenza n. 238
del 2009 conferma la natura tributaria - e la conseguente attribuzione alla
giurisdizione tributaria delle relative controversie - della tariffa di igiene ambientale (TIA)
prevista dal D.Lgs. 22/97, muovendo dalla considerazione che tale prelievo è
disciplinato in modo analogo alla TARSU, la cui natura tributaria non è mai stata
posta in dubbio.
Riguardo invece alla nuova tariffa ambientale prevista dal
Codice (art. 238), la Corte,
con la sentenza n. 247 del 2009 non
ne chiarisce la natura, ma la attribuisce con certezza alla competenza statale
precisando che, qualora si volesse attribuire alla tariffa natura di
corrispettivo del servizio di gestione dei rifiuti solidi urbani, l’art. 238
sarebbe inquadrabile nelle materie ordinamento civile, tutela della concorrenza
e tutela dell’ambiente, tutte rientranti nella competenza legislativa esclusiva
dello Stato. Qualora si volesse qualificare la tariffa come tributo, si
dovrebbe riconoscere la competenza esclusiva dello Stato in ragione della
preclusione alle regioni della potestà di legiferare sui tributi esistenti
istituiti e regolati da leggi statali e per converso si deve ritenere tuttora
spettante al legislatore statale la potestà di dettare norme modificative anche
nel dettaglio della disciplina dei tributi locali esistenti.
Con la sentenza n. 249 del 2009 la Corte ribadisce che la disciplina
dei rifiuti, in quanto rientrante
principalmente nella tutela dell’ambiente e, dunque, in una materia che, per la
molteplicità dei settori di intervento, assume una struttura complessa, riveste
un carattere di pervasività rispetto
anche alle attribuzioni regionali. Tuttavia la Corte dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 199, comma 9, del d.lgs. n. 152 del
2006, nella parte in cui attribuisce al Ministro dell’ambiente il potere
sostitutivo nel caso in cui «le autorità competenti - comuni, province e autorità d’ambito - non
realizzino gli interventi previsti dal piano regionale» di gestione dei rifiuti
«nei termini e con le modalità stabiliti e tali omissioni possano arrecare un
grave pregiudizio all’attuazione del piano medesimo»: tali poteri sostitutivi,
secondo la Corte,
avrebbero dovuto essere riconosciuti in via preliminare, alle regioni sulla
base del principio di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza; dichiara –
con le medesime motivazioni - l’illegittimità costituzionale dell’art. 204,
comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006, nella parte in cui disciplina l’esercizio
del potere sostitutivo del Presidente della Giunta regionale in tema di
gestioni esistenti del servizio di gestione dei rifiuti; dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 205, comma 6, del d.lgs. n. 152 del
2006, nella parte in cui assoggetta ad una previa intesa con il Ministro
dell’ambiente l’adozione delle leggi con cui le regioni possono indicare
maggiori obiettivi di riciclo e di recupero dei rifiuti. Tali norme sono
infatti considerate lesive delle competenze regionali.
Conformemente
al principio di leale collaborazione tra Stato e regioni, la citata sentenza n. 247 del 2009 prevede inoltre che il
regolamento relativo agli interventi di
bonifica, ripristino ambientale e di messa in sicurezza, d'emergenza,
operativa e permanente, delle aree
destinate alla produzione agricola e all'allevamento sia adottato sentita la Conferenza unificata.
Analoga procedura deve essere seguita nell’emanazione del decreto riguardante
le forme di promozione e di incentivazione per la ricerca e per lo sviluppo di nuove tecnologie di bonifica presso le
università e presso le imprese e i loro consorzi.
La
sentenza n. 250 del 2009 dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 287, comma 1, del decreto legislativo
3 aprile 2006, n. 152, con riferimento all’attribuzione all’ispettorato
provinciale del lavoro della competenza per il rilascio dell’abilitazione alla
conduzione di impianti termici al termine dell’apposito corso di formazione, in
quanto lesivo della competenza residuale delle regioni in materia di formazione professionale.
Con la successiva
sentenza n. 251 del 2009, la Corte ribadisce che la
funzione di individuazione delle aree maggiormente esposte al rischio di inquinamento
deve rispondere a criteri uniformi ed omogenei, dovendo, al contempo, tener
conto anche delle peculiarità territoriali sulle quali viene ad incidere. Sotto
entrambi i profili, secondo la
Corte, il Codice offre una soluzione non costituzionalmente
illegittima, posto che la funzione amministrativa statale di individuazione (da
esercitarsi previa acquisizione del parere
della Conferenza Stato-Regioni) si affianca a quella delle regioni le quali,
oltre a poter designare a propria volta «ulteriori aree sensibili» rispetto a
quelle indicate dallo Stato, possono altresì indicare i corpi idrici che,
secondo propria valutazione, non possono rientrare in detta categoria.
La
sentenza n. 254 del 2009 interpreta,
infine, alcune disposizioni del Codice in materia di tutela delle acque alla luce degli obblighi derivanti dall’adempimento di direttive comunitarie,
dichiarando l’infondatezza delle questioni di legittimità sollevate da diverse
regioni.