COMMISSIONE X
ATTIVITÀ PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 30 settembre 2003


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
BRUNO TABACCI

La seduta comincia alle 9,10.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti di Confindustria.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di rappresentanti di Confindustria, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul sistema industriale italiano. È presente a questa audizione il presidente di Confindustria D'Amato, accompagnato dal direttore generale, dottor Stefano Parisi, dal direttore dell'area strategica territorio e impresa, dottoressa Enrica Giorgetti, dal direttore dell'area comunicazione, dottor Alfonso Dell'Erario, dal direttore dell'ufficio stampa, dottoressa Vincenza Alessio, dal direttore del centro studi finanza pubblica, dottor Giulio De Caprariis, dal direttore lobby e attività di legislazione, dottoressa Patrizia La Monica e dal responsabile rapporti parlamentari, dottor Zeno Tentella.
Ringrazio il dottor D'Amato per aver accolto il nostro invito. Siamo nel mezzo di un'indagine conoscitiva - che dovremmo concludere entro il mese di ottobre - con la quale abbiamo voluto «fotografare» il sistema industriale del nostro paese, di fronte a segnali preoccupanti, giunti da più settori e da diverse direzioni. Nei prossimi giorni ascolteremo le organizzazioni sindacali, i ministri interessati ed anche - spero - il commissario Monti.
Il quadro che emerge dall'indagine è assai complesso e difficile. Il paese, in particolar modo, denota una serie di problemi sul terreno della competitività. Vi sono questioni che riguardano il sistema Italia in quanto tale.
Credo che sia l'occasione non solo per fare il punto della situazione, ma anche per tentare di riconnettere gli strumenti della politica industriale, che oggi assumono una veste diversa rispetto al passato, soprattutto a seguito dell'intenso lavoro di privatizzazione compiuto nel corso degli anni novanta.
Anche se non vi sono strumenti di natura diretta, ossia di gestione, è pur sempre vero che a livello centrale, coordinando le istituzioni periferiche, è possibile dare segnali significativi ed importanti per rilanciare il sistema industriale, che è il perno dello sviluppo economico del paese. Quindi, la sua audizione, dottor D'Amato, è particolarmente rilevante e indicativa. La Commissione vi attribuisce il peso che essa merita.
Lei illustrerà la posizione della Confidustria. La ringrazio in anticipo per la documentazione che ci ha fatto avere e per quella che ci fornirà; il centro studi di Confindustria è sempre ben documentato. Approfittando della presenza del dottor Parisi, chiedo se sarà possibile, nel corso dei prossimi giorni, acquisire documentazione,


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che potrà essere utilizzata in sede di stesura del documento conclusivo. Le do pertanto la parola.

ANTONIO D'AMATO, Presidente di Confindustria. Credo che il tema di quest'indagine conoscitiva sia particolarmente importante; non vi è dubbio che la vocazione manifatturiera del nostro paese resta una delle componenti fondamentali della creazione di ricchezza del sistema Italia, così come - d'altra parte - non vi è dubbio, a nostro modo di vedere, che nel corso degli ultimi decenni abbiamo continuato ad accumulare un crescente divario, in termini di competitività, con gli altri paesi concorrenti a livello internazionale, che ha fortemente rallentato e mortificato la capacità di crescita e di sviluppo del sistema industriale italiano.
Credo che nel corso degli ultimi anni, d'altra parte, si sia anche manifestata in maniera molto chiara una fondamentale differenza in termini di capacità di crescita e di sviluppo del nostro paese non solo rispetto ai grandi concorrenti del mondo, ma anche dell'area europea (nella quale siamo oggi fortemente integrati e dalla quale non possiamo prescindere con riferimento alle dinamiche dell'economia internazionale).
Resta un dato di fatto: la considerazione che nel corso degli ultimi due decenni l'Europa non è stata in grado di crescere, se non spinta da un motore esterno - quello dell'economia americana - così come è anche un dato di fatto la considerazione - che nel corso delle ultime settimane appare ormai evidente - che sia negli Stati Uniti, sia in alcune aree del Far East (Giappone ed il grande mercato cinese), sia in alcune aree dell'Est europeo - i dati relativi alla Russia sono molto significativi -, vi sono segni molto forti di un'inversione di tendenza e di un recupero di capacità di crescita. Credo che il Giappone registri da sei trimestri consecutivi una crescita del prodotto interno lordo e che sia ormai avviato ad uscire dal lunghissimo tunnel di recessione che lo aveva caratterizzato per oltre dieci anni.
Lo stesso discorso vale per gli Stati Uniti - dai quali siamo tornati in queste ore -, che manifestano segnali di inversione di tendenza molto forti, caratterizzati da un grande recupero della produttività. Infatti, la grande domanda che gli Stati Uniti si stanno formulando è: fino a quando possiamo continuare a diventare un'economia che si terziarizza e da quando in poi abbiamo, invece, bisogno di recuperare quell'autentica capacità manifatturiera americana che rappresenta, comunque, il motore fondamentale di qualsiasi tipo di sviluppo? Questa è la domanda fondamentale che gli economisti, gli uomini dell'amministrazione ed anche dell'opposizione si stanno ponendo. Sappiamo tutti come stanno reagendo ad essa: con un fortissimo intervento di supply side, con grandi investimenti pubblici a sostegno della ricerca, che rimettono in moto una fortissima accelerazione sul piano dell'innovazione di prodotto e con un intervento fiscale molto impegnativo per tagliare quello che già oggi è uno dei prelievi fiscali sui redditi d'impresa tra i più bassi, a livello internazionale.
Ciò viene fatto anche accompagnando tale manovra con una deliberata politica di dollaro basso, per recuperare quote di mercato a livello internazionale, finanziando in tal modo la nuova creazione di deficit che essi stanno realizzando.
In questo quadro, ci troviamo di fronte a fenomeni assolutamente rilevanti: la ripresa internazionale, quando verrà - e tutti ci auguriamo che venga presto -, corre il rischio di passare sulla testa dell'Europa e di abbracciare direttamente gli Stati Uniti, assieme alle aree emergenti dell'Europa dell'Est e, soprattutto, al Far East, ma non sarà certamente in grado di produrre gli effetti di trascinamento immediato che aveva, invece, spiegato nel corso degli ultimi due decenni.
Questo lo constatiamo già da un'analisi comparata. Disponiamo di un documento in cui sono presenti informazioni; in particolare sappiamo quali sono le quote di mercato, come si stanno muovendo a livello internazionale e come, complessivamente, l'Europa le stia perdendo, gli Stati


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Uniti stiano iniziando a recuperarle e, soprattutto, i paesi emergenti le stiano conquistando in modo significativo.
Ciò ci induce a affermare che la ripresa - se e quando ci sarà - non sarà sufficiente, da sola, a risolvere tutti i problemi dei bilanci pubblici dei paesi europei, soprattutto del nostro.
La nostra organizzazione ha sempre ritenuto che il vero rischio che abbiamo di fronte è illuderci che dall'esterno le riprese internazionali possano risolvere, da sole, i problemi di finanza pubblica e di competitività italiani.
Dall'altro lato, la trappola strategica, di fronte alla quale oggi ci troviamo come paese e come realtà europea, consiste nel non avere più la possibilità di utilizzare i tradizionali strumenti che vengono messi in moto, nei casi di recessione e di crisi della domanda internazionale.
Lo strumento monetario e del cambio non è, infatti, più nella disponibilità dei paesi europei, essendo affidato alla Banca Centrale - che ha solo la responsabilità di guardare all'inflazione e non invece di curarsi del tasso di crescita -, così come non vi è più la possibilità di intervenire sulla spesa pubblica, perché i parametri di Maastricht lo impediscono.
Ci è così preclusa una risposta di carattere più neokeynesiano, come quella degli Stati Uniti, e ci troviamo di fronte ad una crescente difficoltà nel reagire ad un'economia come quella statunitense, che spinge sempre più verso la creazione di valore, di intelligenza e di innovazione, con un cambio competitivo che sarà sempre più basso nel corso dei prossimi anni.
Siamo, poi, attaccati dal basso da paesi che hanno prodotti di qualità e di tecnologia crescenti con costi bassi, avendo una connotazione sia sociale sia dal punto di vista del dumping ambientale molto più competitiva e più spinta della nostra in Europa.
Ci troviamo, quindi, nel mezzo, a dover reagire con pochi strumenti a questa difficile sfida competitiva. Credo che il futuro stesso della coesione europea, sul piano della moneta, dipenda dalla capacità dell'Europa di reagire in maniera molto determinata e chiara a questa fondamentale sfida strategica.
Un'Europa che non cresce e che resta a rimorchio dell'economia americana, o che si illude di poter rimanere a rimorchio dell'economia americana, è un'Europa che non potrà neanche aspirare ad avere, accompagnandosi agli Stati Uniti, quel ruolo sul piano della politica internazionale necessario a garantire al mondo più pace e stabilità.
Si tratta di una sfida molto importante che mette in discussione il livello di sviluppo ed il benessere fino a oggi conquistato che tutti quanti vogliamo difendere e consolidare e, soprattutto, che mette in dubbio la capacità dell'Europa di avere un ruolo di primo piano sulla scena economica e della politica internazionale.
È una trappola difficile dalla quale, sul piano europeo, non si stanno trovando vie d'uscita adeguate. L'unificazione della moneta è stata realizzata per ragioni di politica internazionale, ma senza risolvere alcuni problemi fondamentali, come, ad esempio, la scelta di chi sia deputato a individuare le politiche economiche a livello europeo o l'indicazione degli strumenti con i quali i paesi europei possano garantire ai propri sistemi economici competitività e riforme adeguate. Peraltro, i lavori della convenzione sono da questo punto di vista ancora parziali ed insoddisfacenti.
In un quadro del genere, occorre reagire in maniera molto forte e determinata e credo che, mentre il processo europeo di integrazione politica ed istituzionale si accelera e si rafforza, se non si garantiscono tassi di crescita e di sviluppo adeguati, si corre il rischio di portare l'Europa in una situazione di grandissima difficoltà. Vorrei fosse chiaro che sono convinto che essa è il nostro punto di riferimento fondamentale, così come sono certo che sia indispensabile darle contenuto, sostanza e coesione al fine di renderla molto più forte. Da questo punto di vista, paesi come il nostro, avendo una grande responsabilità e vocazione nell'ambito del processo di integrazione europea ed anche un


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ruolo importante nella creazione del prodotto interno lordo europeo, hanno la necessità di accelerare e rafforzare il proprio processo di rafforzamento competitivo, per tirarsi fuori dai propri guai e per contribuire a tirar fuori anche l'Europa dai suoi. L'Italia, che nel corso degli ultimi decenni ha accumulato un crescente gap competitivo, ha veramente bisogno di un salto di qualità nel modo di progettare il suo sviluppo economico ed il rafforzamento della sua struttura industriale.
In questo quadro di fortissima complessità e competizione a livello internazionale, il made in Italy rappresenta un elemento che, nonostante tutte le difficoltà, continua ad avere in questo momento una fortissima possibilità di successo. Si tratta di un complesso di prodotti che si basano su tre gamme fondamentali: la grande gamma del food e di tutti i prodotti della filiera alimentare, quella della fashion e di tutta la filiera del sistema moda, dal design al tessile, ed infine quella della tecnologia, che si sottovaluta spesso e che, invece, rappresenta una grandissima parte non solo del prodotto interno lordo italiano, ma anche della quota di esportazione del sistema italiano e che, peraltro, rende molto forte sia il food sia la fashion. Siamo significativamente competitivi rispetto ai nostri grandi concorrenti a livello internazionale sull'uno e sull'altro aspetto, perché non solo siamo forti in questi prodotti ma anche in tutta la filiera, in tutto il supply chain che rappresenta, a monte e a valle, il punto di forza del nostro sistema. L'Italia non è solo il paese che crea moda nel mondo, ma anche quello che produce le tecnologie tessili che vengono poi vendute all'estero anche a paesi che a loro volta ci fanno concorrenza (la Cina, ad esempio, sul mercato delle ceramiche, sta diventando particolarmente forte nella produzione utilizzando tecnologie italiane). Le tecnologie nel campo del food processing o del food packaging automatisation, come in alcune aree dei sistemi di automazione a livello internazionale, rappresentano tecnologie di cui l'Italia è leader nel mondo (si pensi ai pacchetti di sigarette nel mondo confezionati da tecnologie italiane, così come ai detersivi, o al sistema delle poste americane movimentato da tecnologie italiane).
Le tre gamme, su cui l'Italia ha basato il successo del cosiddetto made in Italy, sono naturalmente anche tecnologie, aree e filiere nelle quali il nostro paese ha, fino ad oggi, espresso una grande capacità di creazione di qualità e di innovazione prevalentemente applicativa. L'Italia, però, stenta nella capacità di creare prodotti che abbiano un contenuto di innovazione forte, di break through tecnologico, soffrendo, a monte, di un deficit fondamentale nella creazione di nuove tecnologie e di ricerca di base, che rappresentano il grande propellente nella creazione di svantaggi competitivi sostenibili nel medio e lungo periodo.
Questo livello di innovazione è raggiunto sicuramente dagli americani, che godono dell'enorme massa critica garantita da grandi investimenti compiuti sul piano pubblico a sostegno della difesa e naturalmente di tutte le filiere connesse a valle. Quando si vanno a confrontare i dati sull'innovazione, e sui relativi investimenti, molto spesso vengono fatti confronti che, da un punto di vista strettamente numerico, mettono in evidenza una bassa capacità di investimento del sistema produttivo italiano autorizzando più approfonditamente tali dati, però, si rileva che gli Stati Uniti sono prepotentemente in testa ed altri paesi sono molto più avanti di noi per il semplice fatto che hanno una struttura fiscale che incentiva e favorisce le imprese a capitalizzare gli investimenti in ricerca. Nel nostro sistema, vi è una capacità di investimento più modesta: ciò è quanto emerge dalle statistiche; queste, però, non riflettono la verità dei fatti, in quanto molti dei nostri investimenti in ricerca e innovazione vengono «spesati» e non capitalizzati e questo rappresenta un modo più conveniente dal punto di vista fiscale per ridurre il costo degli investimenti.
Al di là di quanto speso dalle imprese e dai singoli stati, occorre una massa critica completamente diversa, per compiere


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un salto di qualità sul piano dell'innovazione tecnologica di prodotto ed avvicinarsi ad una capacità competitiva più forte, come quella degli Stati Uniti. Questi ultimi investono - i dati sono del 2001- quasi il doppio di quello che investe l'Europa dei quindici: 310 miliardi di dollari contro i 180 miliardi di dollari dell'Europa; producono inoltre 300 brevetti per milione di abitanti, mentre gli europei solamente 80.
C'è una grande differenza in termini di massa critica immessa sul campo dell'innovazione e sulla qualità dell'output determinato dal flusso di investimenti, in quanto i paesi europei li compiono in maniera molto spesso contraddittoria ed in sovrapposizione gli uni con gli altri, laddove gli Stati Uniti li effettuano in maniera molto più concentrata, mirata e con una regia molto più forte.
Questi sono alcuni dei problemi fondamentali con i quali oggi le imprese italiane ed europee si stanno confrontando. Credo che abbiamo bisogno, quindi, di recuperare terreno competitivo. Il recupero sul piano della ricerca e dell'innovazione è di medio-lungo periodo: non può essere certamente capovolto il ritardo in termini di capacità di innovazione di base nel giro di pochi mesi o pochi anni. È necessario segnare un'inversione di tendenza molto forte, iniziare a portare avanti la riforma dell'università e del modo in cui si opera la ricerca ed iniziare ad investire di più sul piano della stessa ricerca e della creazione di innovazione nel nostro paese.
Credo sia necessario coadiuvare maggiormente la capacità di innovazione applicativa delle imprese italiane con un sostegno ed una struttura più forti, che siano in grado di produrre innovazione più radicale, avendo anche riguardo ai throughput di mercato che si possono realizzare.
Mi rendo conto che, disponendo di poche risorse, abbiamo bisogno di allinearle tutte verso la creazione di vantaggi competitivi del sistema-paese.
Su tale terreno, la necessità di ridefinire un quadro di politica industriale più forte e più consapevole è una grande emergenza. L'Italia ha smesso di fare politica industriale da moltissimo tempo. La politica industriale è stata concepita a lungo in modo, a nostro parere, sbagliato, pensando che fosse necessaria una programmazione centrale, l'intervento dello Stato nell'economia. È finita con gli anni difficili, i cui debiti ed i cui costi stiamo, ancora oggi, pagando. Poi, vi è stata una politica per fattori, più annunciata che realizzata. Le ultime scelte di politica industriale sono state fatte affidando al referendum le scelte sull'energia nel nostro paese. Da allora in poi, politica industriale non se ne è fatta più. Si avvertono la difficoltà ed il peso di ciò, nel senso che oggi si stanno pagando gli errori di non-scelte fatte molto tempo fa sul piano energetico. Recentemente si è assistito agli incomprensibili blackout energetici, che non solo hanno prodotto un grandissimo costo per il paese, ma, soprattutto, ci impediscono di guardare con una certa serenità al futuro prossimo. Fino ad oggi, abbiamo - credo - sottovalutato, sul piano della crisi energetica, la portata e la rilevanza dell'elemento energia: noi lo consideriamo davvero un elemento di emergenza nazionale, sul quale occorre intervenire, con grande determinazione e con grande forza.
Su tale punto - ripeto - non solo paghiamo oggi il prezzo delle scelte passate, ma anche alcuni errori più recenti. Ci sarebbe da discutere e da ragionare sui modelli di liberalizzazione e privatizzazione che abbiamo, fino ad oggi, perseguito. C'è, sicuramente, molto da discutere sul modo stesso in cui viene gestita la rete e sul modo in cui sono affrontate questioni come il blackout dell'altroieri che francamente ci sembrano, non solo dal punto di vista della struttura, ma anche da quello della gestione, fortemente critici e discutibili.
L'emergenza energia deve essere affrontata come emergenza nazionale, con grandissima determinazione dal Governo, in tempi molto rapidi. Non possiamo assistere al continuo palleggiamento di responsabilità sulla costruzione di nuove centrali. Riscontriamo oggi un deficit


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energetico molto forte. Produciamo l'energia in maniera costosa e sbagliata. Dipendiamo strategicamente da paesi ai quali non si può guardare, sotto vari aspetti, con grande tranquillità. Abbiamo un costo dell'energia alto e forti problemi nella qualità della produzione della stessa e nella qualità degli investimenti sulla rete. Vi è un soggetto che è stato, nel passato, il monopolista nella produzione dell'energia, al quale abbiamo, negli anni più recenti, non solo chiesto di non investire più in centrali, ma altresì di fare mestieri diversi dalla costruzione di impianti e dall'erogazione di energia, spendendo, in tal modo, delle risorse che andavano, invece, concentrate nel rafforzamento delle capacità competitive. Vi è soprattutto, un sistema che, avendo privilegiato l'acquisto di centrali vecchie, a costo alto, piuttosto che gli investimenti in centrali nuove, a costo basso, e ad impatto ambientale più sostenibile, ha finito col creare una struttura distorta della produzione e dell'erogazione dell'energia.
Quindi, ci troviamo davvero in una situazione molto difficile, dalla quale occorre uscire con uno scatto di reni molto forte. Abbiamo affrontato problemi più banali, con determinazione maggiore; credo che un problema così fondamentale, non solo per l'industria italiana, ma per la vita stessa di ciascun italiano, debba essere affrontato con grande determinazione ed in tempi molto brevi.
Passando ad altri punti sui quali è nota la posizione di Confindustria, vi è la necessità di investimenti forti sul piano dell'adeguamento delle infrastrutture, anche materiali, del nostro paese. Abbiamo un'occasione importante - i fondi strutturali per il Mezzogiorno: si tratta di risorse molto significative - credo sia necessario rafforzare - è un appello che abbiamo, in più occasioni, rivolto al Governo - la capacità di coordinamento da parte dello Stato sulla qualità, oltre che sulla quantità delle risorse che sono oggi investite in termini di infrastrutturazione del territorio dalle regioni meridionali.
È altresì necessario attivare gli interventi di coordinamento interregionali; nella Conferenza Stato-regioni tenutasi per definire anticipatamente l'agenda 2000-2006, assegnavo allo Stato il trenta per cento degli investimenti interregionali, dei quali, ancora oggi, non vi è sufficiente evidenza. Le risorse degli investimenti infrastrutturali del Mezzogiorno sono preziose e fondamentali; devono essere utilizzate in maniera utile, intelligente e di qualità. Secondo noi, vi sono ancora troppi interventi-sponda, investimenti a pioggia; non vi è sufficiente qualità nel modo in cui è governata la scelta di infrastrutturazione del Mezzogiorno.
Il tema delle infrastrutture, poi, al di là del Mezzogiorno, coinvolge la capacità di connessione del nostro sistema-paese col resto delle realtà europee. È il tema dell'infrastrutturazione dell'Europa che si allarga e dei collegamenti con l'Italia che, con il recuperare una posizione strategica sul piano della geografia economica internazionale e risolvendo i nodi relativi ai colli di bottiglia logistici, si propone all'Europa stessa come un grande hub che collega la medesima Europa al Far East. Il Mediterraneo, nel corso degli ultimi anni, ma, soprattutto, di quelli a venire, è un'area che recupera centralità nei grandi traffici internazionali (lo abbiamo potuto costatare con il successo dei porti italiani, che nel corso degli ultimi cinque anni sono cresciuti a due cifre digitali, in termini di market share, rispetto ai porti del Nord-Atlantico). Tutto il traffico da e per il Far East transita attraverso Suez ed il Mediterraneo; noi siamo al centro di tale mare; se operiamo un giusto posizionamento dal punto di vista logistico ed infrastrutturale possiamo divenire nuovamente un paese centrale nell'attrazione di investimenti a livello mondiale e nella geografia economica dell'Europa. Mentre nell'Europa dei quindici eravamo marginali e delocalizzati, nell'Europa allargata, con un Far East che diviene un grande cliente e fornitore, l'Italia è al centro del flusso di traffico. Perciò - ripeto - operando le scelte giuste dal punto di vista delle infrastrutture, possiamo diventare un paese forte, competitivo ed in grado di attrarre investimenti.


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Sull'attrazione di investimenti occorre fare di più e meglio, in quanto su di essa l'Italia ha molte carte da spendere. Il made in Italy oggi è invidiato, ammirato ed imitato nel mondo. Tale possibilità ci offre un grande potenziale di sviluppo e di crescita, che abbiamo, però, bisogno di sostenere con un'agenzia di promozione che faccia bene il suo mestiere, con una mission molto chiara e delimitata e, soprattutto, con la capacità di organizzazione delle amministrazioni territoriali e regionali sul piano della promozione e dell'attrazione degli investimenti, diversa da quella messa in campo sino ad oggi.
Cito solo altri due aspetti: per quanto riguarda il rilancio competitivo del nostro paese occorre affrontare seriamente il problema delle liberalizzazioni dei servizi pubblici locali. Si tratta di un tema rimasto al palo, nel corso degli ultimi sette-otto anni e sul quale, di fatto, non si è riusciti a portare avanti alcunché.
Uno dei grandi elementi di non competitività del sistema paese nasce proprio dalla vischiosità che si riscontra nella realizzazione di tariffe più trasparenti e competitive, di servizi più efficienti, che sono nell'interesse non solo delle imprese, ma anche dei cittadini.
Vi è - da ultimo - un'altra grande questione, che proprio in queste ore rappresenta oggetto del dibattito pubblico più forte: la riforma delle pensioni, che noi riteniamo fondamentale, dal punto di vista della struttura e della competitività del nostro paese, non solo per ragioni di finanza pubblica e di sostenibilità dal punto di vista economico e finanziario del sistema previdenziale italiano, ma anche da quello dell'equità generazionale e della capacità di fare un passo in avanti nella definizione di un sistema di Stato sociale che, dopo la riforma Biagi, articolando anche un sistema di previdenza diversa, consenta, poi, di approcciare la costruzione di un workfare che sia più in grado di rendere competitivo e dinamico il sistema, anche nella creazione di politiche attive sul lavoro, più forti di quelle fino ad oggi realizzate.
Questi mi sembrano i capitoli fondamentali sui quali rilanciare una politica industriale che rimetta il nostro paese in grado di sostenere, con adeguata competitività di sistema, quell'energia che le imprese italiane hanno fino ad ora profuso e che, nonostante le debolezze e le difficoltà della competitività del nostro paese, fanno dell'Italia fra il quinto ed il sesto paese più industrializzato al mondo.
Vorrei non si dimenticasse mai che un paese senza materie prime, come il nostro, logisticamente marginale, per i problemi fondamentali che conosciamo a livello internazionale, continua, comunque, ad essere un paese importante e grande dal punto di vista industriale a livello internazionale.

PRESIDENTE. Nel ringraziare il presidente D'Amato per la sua ampia illustrazione, prima di dare la parola ai colleghi, vorrei sottoporre alla sua attenzione alcune riflessioni, innanzitutto sul tema relativo alla tutela dei prodotti nazionali. La nostra Commissione, occupandosi del made in Italy, ha avuto sentore che il Governo sta intervenendo sul punto (si tratterà probabilmente di incardinare i finanziamenti all'interno del lavoro che abbiamo elaborato, anche ascoltando le diverse posizioni dei protagonisti di questo comparto).
Nel passato lontano, dal mondo industriale sono venute voci di tutela del mercato nazionale con strumenti impropri (oggi è emersa la vicenda dei dazi che reputo assolutamente priva di fondamento) ed i settori in cui si è adottata una politica protezionistica hanno finito per andare in gravissima crisi (pensiamo al settore dell'auto: invece di aprirlo alla concorrenza, i governi del tempo furono indotti a cedere l'Alfa Romeo alla FIAT) e successivamente si sono dovuti difendere dai prodotti giapponesi, con strumenti di blocco delle importazioni. Questo ha determinato una evidente perdita di concorrenza che - oltre ad un certo disimpegno da parte degli azionisti, che, per fortuna,


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sembra superato - ha determinato la caduta di uno dei perni del sistema industriale italiano.
Vorrei conoscere la sua posizione sulla questione, anche rispetto a quanto emerso dalla nostra indagine a proposito del tema della contraffazione. Nonostante una difesa anche arcigna del prodotto nazionale rispetto alla contraffazione, la quantità di nero prodotta in Italia è tale per cui si lancia un'ombra di sospetto sulla possibilità di esserne i protagonisti. Questo è un elemento sul quale conviene riflettere essendo di una notevole pericolosità, se non sociale, certamente economica.
Il secondo aspetto su cui vorrei conoscere le sue considerazioni riguarda l'evoluzione del rapporto tra le famiglie del capitalismo italiano e il sistema bancario. Continuiamo a considerare pericoloso il fatto che ci siano molti industriali che hanno acquistato quote di banche non ai fini di investimento ma perché ciò appariva come una sorta di prenotazione in termini di potere. Sollevando il tema della governance, ci è stato spiegato che l'interessato esce quando nei consigli di amministrazione delle banche si decide per taluni finanziamenti e credo che questo sia molto negativo e deleterio.
Ritenendo indispensabile, nell'ambito della competizione internazionale, che il nostro paese, ed in particolare la classe dirigente, cominci a dare qualche segnale, credo, presidente D'Amato, essendo al vertice della più grande organizzazione nazionale degli imprenditori, che su tali elementi un concorso da parte vostra possa essere decisivo.
Do ora la parola ai colleghi in modo da consentire al presidente di Confindustria di replicare alle questioni sollevate.

STEFANO SAGLIA. Intendo dapprima ringraziare il presidente D'Amato per il tempo che ha voluto dedicare alla nostra indagine. Ci sono due questioni, in parte già toccate dal presidente, che mi stanno a cuore.
La prima riguarda il tema del made in Italy, sul quale abbiamo condotto un approfondito lavoro. C'è, però, un aspetto della sua relazione che mi incuriosisce. Se escludiamo l'agroalimentare e la moda, che tutti riconoscono come made in Italy, la preoccupazione ovviamente riguarda il sistema industriale e in particolare alcuni prodotti che subiscono pesantemente la concorrenza dei paesi dell'est, in particolare della Cina. Se, come accaduto in passato, continuiamo ad esportare macchinari, probabilmente non riusciremo più, dal punto di vista manifatturiero, a competere con questi paesi. Le chiedo quindi se ci sia stata una riflessione a livello imprenditoriale sul fatto che per anni abbiamo esportato tecnologia e questo ha poi messo i paesi meno sviluppati in condizione di crescere nell'utilizzo di queste tecnologie e di realizzare prodotti molto simili ai nostri.
La seconda questione riguarda la liberalizzazione dei servizi pubblici locali, su cui vi è una contraddizione - non riguarda il comportamento di Confindustria, che è stata sempre molto lineare - rispetto al fatto che la sollecitazione della liberalizzazione è sempre stata molto forte. C'è un aspetto che va considerato: noi, politica ed istituzioni in generale, subiamo la pressione e la volontà da parte soprattutto degli enti locali e delle aziende municipalizzate, che, consolidatesi il patrimonio, sono entrate per alcuni aspetti nella stessa compagine di Confindustria.
Se, anche sui servizi pubblici locali, ci preoccupiamo di privatizzare prima che di liberalizzare, probabilmente troveremo gli stessi limiti che già abbiamo incontrato nel mercato dell'etere e del gas.
Riguardo infine al sistema del credito, avendo ieri la Corte costituzionale espresso considerazioni in ordine alla riforma delle fondazioni, mi interessa conoscere quale ruolo credete che esse possano avere in questo sistema, soprattutto per quanto attiene al tema della ricerca.

ERMINIO ANGELO QUARTIANI. Mi riferirò, in particolare, a quella parte della relazione del presidente D'Amato che riguarda i processi di modernizzazione, che legano insieme i processi di terziarizzazione con la possibilità di ripresa del tasso di sviluppo del settore manifatturiero.


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Essendo la terziarizzazione un fattore fondamentale, ai fini del rilancio dello sviluppo della manifattura di alta qualità, vorrei chiedere quanto crede sia possibile ancora resistere nella produzione, che non è poca, di beni che hanno un tasso basso di innovazione e che è parte ancora importante della produzione italiana, escluso il made in Italy. Oltre ad esso, vi sono anche «settori di coda» che tendono ad essere meno competitivi e rispetto ai quali vi è certamente un problema che riguarda la ricerca e la capacità di determinare sviluppo.
Tuttavia è chiaro che grandi investimenti sul terreno della ricerca richiedono risorse ingenti che devono fare i conti, ancora oggi, con una finanza pubblica che deve rimediare alle condizioni del debito pubblico.
Le chiedo: qual è il livello auspicabile di abbattimento della fiscalità che grava sulle aziende e che, quindi, è uno dei fattori che rende difficile la competitività del paese? Qual è il punto di equilibrio che lei ritiene perseguibile, nel breve-medio periodo, tra abbattimento di tale tasso di fiscalità che grava sulle aziende e possibilità di reperire le risorse necessarie e ingenti per rilanciare fortemente il processo di ricerca?
Un'altra questione: oltre ai costi bancari e finanziari per le aziende, il fattore energia è un problema fondamentale, indipendentemente dall'emergenza oggi richiamata dai blackout e che, chiaramente, è di grande rilievo?
Questa Commissione si è sempre occupata del tema, anzi è stata all'origine, con la sua indagine conoscitiva, della sollecitazione al Governo perché si arrivasse ad un disegno di riordino che correggesse storture e debolezze dei processi di liberalizzazione e di privatizzazione innescati dai Governi e dalle maggioranze precedenti. Tale iniziativa non metteva in discussione la bontà dei processi di liberalizzazione avanzati.
Devo precisare - non è motivo di polemica ma di chiarezza tra attori sociali ed economici, Parlamento e Governo - che il disegno di legge Marzano è arrivato con sei mesi di ritardo rispetto ai tempi richiesti dal Parlamento e che è rimasto nelle aule della Camera ed in questa Commissione gravato da una serie di emendamenti, prodotti dalla maggioranza e dal Governo, pari alla metà del totale degli emendamenti che gravavano sul provvedimento stesso: circa 300. Ciò a seguito di una difficile composizione di uno scontro tra esigenze del Tesoro e di cassa e del sistema produttivo.
Si è preferito, in alcuni campi, dare priorità alle questioni di carattere finanziario di assestamento del bilancio dello Stato rispetto alle politiche industriali (la questione energetica va, appunto, affrontata dal punto di vista delle politiche industriali).
Vi è una responsabilità del Governo, dei Governi italiani, ma vi è altresì una responsabilità, credo, signor presidente, anche dell'industria italiana, perché le scelte del passato sono state spesso spinte da settori importanti dell'industria italiana, che hanno privilegiato, ad esempio, il petrolio, l'olio, ed i derivati del petrolio e dell'olio per produrre elettricità ed energia.
È importante non solo l'autocritica di tali settori, ma che si predispongano settori che abbiano la responsabilità di produrre energia, in un ambito di liberalizzazione, che ormai vede i privati nel 50 per cento della generazione di energia stessa; che si definisca, una volta per tutte, l'uscita dal settore tariffato, che si anticipino, ad esempio, le tappe della liberalizzazione europea e che non ci sia più il 30 per cento del mercato degli idonei e che, dunque, da questo punto di vista, ci sia la competizione.
La borsa elettrica - uno degli elementi fondamentali - perché, da due anni, non riesce a partire? Ci sono o no resistenze, anche da parte di alcuni settori dell'industria italiana, rispetto a tale avvio? La borsa elettrica, come detto, è un punto nodale della liberalizzazione. Senza di essa avremo, ancora di più, la possibilità che si realizzino blackout.


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MASSIMO CIALENTE. Anch'io ringrazio il presidente D'Amato per la sua partecipazione e per quanto ha avuto modo di esporci. Sono rimasto colpito dal fatto che gran parte dell'intervento del presidente abbia identificato nel problema della ricerca e dell'innovazione uno degli aspetti centrali della competitività del sistema-paese e, quindi, della nostra industria. Proprio in quest'ottica, negli ultimi anni, da parte dei Governi che si sono succeduti si sono tentate una serie di iniziative, anche legislative, che hanno predisposto alcuni strumenti tesi a favorire il più possibile tutti i processi ed i progetti atti a produrre innovazione, come il FAR ed il FIT (non so quanto abbiano potuto interessare la grande industria del nostro paese e quanto, invece, la media e la piccola impresa). Alcuni di questi strumenti - lo abbiamo constatato - sono stati soppressi, sono stati messi momentaneamente da parte, penso ad esempio al FAR.
Mi interesserebbe conoscere un giudizio di Confindustria rispetto a tali vicende ed anche quale sarebbe un tipo di intervento appropriato per favorire ricerca ed innovazione.
Vi è, poi, un discorso - cui lei accennava - che mi ha colpito molto: il brevetto ed il rapporto con l'università. Per quanto riguarda il problema dei brevetti, sicuramente anche lei riconoscerà che, allorché questo ramo del Parlamento si è trovato a dover affrontare alcune questioni, come quella relativa alla direttiva sulle biotecnologie, c'è stata da parte di questo stesso ramo del Parlamento la massima volontà di contribuire a risolvere alcuni problemi che si traducevano in un'esigenza di competitività per il nostro sistema.
Lei, presidente, parlava di una necessità di riforma dell'università. Vorrei chiederle: uno dei primi atti di questo Governo, in particolare del ministro dell'economia, fu un intervento relativo al rapporto tra università ed industria, per quanto riguarda il famoso slogan «le invenzioni agli inventori». Credo che ciò abbia determinato dei problemi, forse anche seri, alle organizzazioni imprenditoriali, alla stessa università ed anche ai ricercatori. Mi è parso di sentire, in numerose occasioni, anche alcuni dei più autorevoli esponenti della sua Confederazione sollevare il problema. Mi sembra, però, che lo abbiano fatto in modo appena accennato. Vorrei un giudizio da parte sua, in quanto ritengo che possa essere stato un grosso freno a ciò che vogliamo ottenere: un rinforzo del rapporto università e impresa.
Credo che si stia cercando di superare tale ostacolo in vario modo, con interventi da parte di uffici legali, eccetera. Mi chiedo se lei disponga di qualche dato su possibili ricadute, in particolare su quanto abbia inciso non tanto per le grandi aziende italiane, quanto per quella fascia di aziende di minori dimensioni che non so come possano investire in progetti con l'università, nel momento in cui, a livello brevettuale, può mancare qualsiasi ricaduta.

ANDREA LULLI. Il made in Italy è sicuramente uno dei punti di forza del nostro apparato industriale e presenta, però, svariati problemi, quali innanzitutto l'eccessivo nanismo delle imprese. Ciò rischia di far saltare la capacità che c'è stata fino ad oggi di coniugare la creatività con l'uso della tecnologia e richiederebbe non solo un impegno generico all'innovazione e agli interventi di ricerca, ma anche l'adozione di misure particolari per invogliare le aziende a consorziarsi e a lavorare sul piano della ricerca applicata con l'università e con i centri di ricerca pubblici e privati.
Ritengo vi sia l'opportunità di far crescere il made in Italy, se si rendono intelligenti i suoi prodotti. I risultati attesi deluderanno se non si porterà il maggior numero di imprese verso questa frontiera, vincolando gli incentivi legati alla ricerca ad obiettivi precisi.
Al di là di una politica volta al rafforzamento del marchio, risulta necessario far circolare il più possibile le nuove conoscenze. Questo è un punto decisivo (ad esempio, non so se è più matura quell'auto FIAT che sul mercato non va o


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quella maglietta che viene prodotta in qualche azienda tessile italiana che, con le fibre di carbonio, permette di tenere sotto controllo i battiti cardiaci ventiquattro ore su ventiquattro).
Occorre mettere in atto non certo una politica dei dazi, ma una politica fondata sulla tracciabilità dei prodotti e che sia di supporto e di reciprocità, soprattutto nelle economie più forti. La realtà delle piccole imprese è che spesso ci si trova davanti a barriere burocratiche e ad economie forti che hanno dazi maggiori nei confronti delle nostre merci e non tutti sono in grado di fare triangolazioni con i vari stati nel Pacifico per fare entrare in modo facilitato i loro prodotti magari sul mercato americano.
Credo che il declino in atto della nostra economia e dei nostri apparati industriali si possa risolvere tenendo conto del fatto che una politica di liberalizzazione e di innovazione profonda non possa che avvenire in un contesto di coesione sociale. Senza dare adito a polemiche, ritengo che uno degli errori compiuti sia stato quello di pensare di risolvere le problematiche rompendo la coesione sociale. Certo, quest'ultima non deve significare immobilismo e la frontiera deve essere quella di una valorizzazione di tutti fattori.
Siamo in una situazione difficile sul piano della concorrenza e del carico fiscale, senza dimenticare che i salari decisamente bassi rispetto all'Europa non premiano la crescita professionale della risorsa umana, che reputo sia uno dei principali fattori di sviluppo nell'economia della conoscenza.

VALTER ZANETTA. Non vorrei che il made in Italy fosse uno slogan che, in qualche misura, ci tranquillizza portandoci a ritenere che non vi siano difficoltà. Proprio in questa direzione, infatti, ho ricevuto segnalazioni da diversi settori, quali la produzione di accessori per la casa.
A tale riguardo, vorrei conoscere la posizione di Confindustria ed in particolare quale tipo di provvedimento ritenga utile sulla questione.

PRESIDENTE. Do ora la parola al presidente D'Amato, che ringrazio nuovamente per la sua partecipazione.

ANTONIO D'AMATO, Presidente di Confindustria. Signor presidente, innanzitutto, vorrei far presente che Confindustria ha apprezzato le indagini che la Commissione svolge affrontando, con molto anticipo rispetto a gran parte del sistema politico-istituzionale italiano, problematiche importanti - come, ad esempio, quella dell'energia, del rapporto tra banca e impresa, o del sistema industriale italiano -, contribuendo così a rilanciare in Parlamento una maggiore sensibilità ai temi della politica industriale, che, secondo me, da troppo tempo sono sottovalutati.
Quindi, nel tentativo di rispondere, anche puntualmente, alle domande che mi sono state rivolte, lo farò con l'approccio di chi rivolge particolare attenzione ai problemi di struttura industriale e competitiva, proprio perché parlo ad una Commissione che, da questo punto di vista, ha dimostrato grande sensibilità.
Lo vorrei fare con alcuni chiarimenti di fondo. Non esistono prodotti-nicchia in eterno, perché ogni nicchia di oggi diventa commodity di domani.
La concorrenza è una spinosa realtà per le imprese, ma anche un gran beneficio per la qualità della vita, dei prodotti, costi più competitivi e trasparenti per tutti i consumatori, e per rendere le imprese migliori. Le imprese che vivono in un mercato di concorrenza sono quelle che sapranno fortificarsi, attraverso la selezione naturale che il mercato impone, e che sapranno anche garantire miglioramenti continui dal punto di vista degli investimenti sulle risorse umane, sulle tecnologie, sulla sostenibilità ambientale, mettendo in moto, cioè, quel circuito virtuoso che produce valore sostenibile nel lungo periodo. È importante, però, che la concorrenza sia fair, cioè sia fatta secondo regole che siano - in maniera trasparente - implementate e, soprattutto, governate.


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È necessario, poi, che di trasparenza - reale, non fittizia - sia più permeato il nostro sistema.
Da ultimo, vorrei dire che uno degli elementi fondamentali di tale meccanismo viene esemplificato da un caso di scuola. Lo cito in quanto spesso lo ricordo a me stesso, come una buona lezione di impresa. L'industria dell'elettronica di consumo americana dominava il mondo negli anni cinquanta e all'inizio degli anni sessanta. Erano gli anni delle valvole; gli americani, che erano leader nel mondo nella produzione di elettrodomestici e nell'industria dell'elettronica di consumo con valvole, inventarono anche i transistor, ma per evitare di cannibalizzare i loro prodotti, non li introdussero sul mercato, bensì cercarono di massimizzare i loro investimenti sull'industria delle valvole. I giapponesi scoprirono i transistor e, da allora in poi, non esistono più elettrodomestici al mondo che non siano giapponesi. Hanno utilizzato l'anticipazione di quella tecnologia non da loro inventata, ma da loro imitata per acquisire una posizione di leadership che, dopo tre decenni, rende ancora l'industria giapponese leader nel mondo. Ciò cosa vuol dire? La cannibalizzazione dei prodotti e delle tecnologie è inevitabile ed ineluttabile e chi cerca di ostacolarla finisce egli stesso per esserne cannibalizzato. Dal mio punto di vista, come imprenditore, ho utilizzato sempre tale lezione; a mia volta, ho sempre cercato di cannibalizzare i miei prodotti e le mie tecnologie, facendo passi in avanti e rischiando anche gli stessi investimenti fatti, acquisendo così una leadership sostenibile, di lungo periodo, sui mercati a livello internazionale.
Credo che questo sia il modo in cui - non solo a livello micro, ma anche a livello macro - dobbiamo affrontare il problema del posizionamento strategico del made in Italy, rendendoci conto che ci sono sempre nuove realtà, nuovi percorsi sociali o ambientali, a farci concorrenza. Siamo costretti continuamente a muoverci, ad andare verso posizioni di maggiore contenuto di innovazione, di conoscenza, di tecnologia ed anche di competitività.
Non so perché qualcuno si sia meravigliato che noi abbiamo a lungo sottolineato le questioni dell'innovazione.
Sul tema delle riforme del mercato del lavoro, si è poi detto che, in ultima analisi, in Italia non bisogna curarsi tanto dei costi, ma della qualità e dell'innovazione. Questo è un modo di banalizzare il problema della riforma del mercato del lavoro, che, per fortuna, ha avuto invece una direttrice ed uno svolgimento diverso, in quanto finalmente abbiamo fatto una grande riforma del mercato del lavoro che darà dei vantaggi strutturali di riposizionamento strategico del sistema industriale italiano. Il problema ha finito per creare molta confusione sulle reali questioni sulle quali l'industria italiana ed il paese tutto devono confrontarsi.
Oggi si ha il seguente tipo di problema: da un lato abbiamo bisogno di diventare un paese che produce sempre più prodotti di qualità e tecnologia crescente, dall'altro lato abbiamo bisogno di avere un prezzo che sia relativamente competitivo. Infatti, non esistono una qualità ed una tecnologia che possano essere vendute a qualunque costo ed a qualunque prezzo sui mercati internazionali. Avere un rapporto bilanciato fra prezzo e qualità rappresenta ciò che si chiama, in termini di marketing, il valore del prodotto. Il valore relativo del prodotto è ciò che oggi viene misurato. Se, perciò, si vuole essere un'impresa ed un paese di successo bisogna essere in grado di realizzare prodotti di qualità, con innovazione crescente a prezzi più bassi, continuamente più bassi.
Qualunque prodotto deve rispondere alle logiche di mercato: ricordiamo l'esempio del DVD, lanciato a migliaia di euro qualche anno fa, che oggi costa decine di euro. Questa è la frontiera dell'innovazione continua. La tecnologia del DVD, che, qualche anno fa, rappresentava il modello di riferimento che aveva completamente surclassato la tecnologia del videoregistratore e che, come detto, costava migliaia di euro, oggi costa decine o centinaia di euro. Lo stesso discorso può farsi rispetto agli schermi al plasma, eccetera. Quindi, qualsiasi prodotto, anche quelli


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che sembrano i più sofisticati, se non hanno un incrocio fra qualità, valore e prezzo, non incontrano successo di mercato.
Porsi problemi di costo e di competitività relativa è fondamentale. Credo non sia solo questo il tema del mercato del lavoro, ma anche un tema fondamentale di priorità strategiche. Molti di voi hanno fatto riferimento al «nanismo» dell'impresa. Chi vi parla ha sempre condotto una grande battaglia contro la semplificazione del «piccolo è bello», che ha rappresentato per molti anni una sorta di mito, anche culturale, del nostro paese. Abbiamo, di fatto, cercato di convincerci, con la logica dell'«economia del cespuglio» e con lo slogan del «piccolo è bello», che la via di salvezza di un sistema rigido, poco competitivo, sclerotizzato da un modo osceno di fare violenza alla competitività del paese, per via dei compromessi politici realizzati in decenni difficili del nostro paese, fosse, da un lato, lo sviluppo dell'economia sommersa e, dall'altro lato, il nanismo delle imprese. Si tratta di due elementi che hanno innescato un avvelenamento progressivo del nostro sistema-paese. È assolutamente insostenibile un paese che ha il 30 per cento di economia sommersa (se, infatti, i dati ISTAT parlano di un 16-17 per cento, quasi tutti i centri studi riconoscono una misura che è quasi doppia).
Una quantità di sommerso è probabilmente inevitabile all'interno di un paese, ma un paese che faccia dello stesso sommerso la sua strada per competere o, peggio ancora, per realizzare ammortizzatori sociali è come un paese che, mutatis mutandis, faceva della corruzione il suo modo fisiologico, anziché patologico, di organizzare i rapporti tra politica ed economia.
È assolutamente inaccettabile. Per anni abbiamo continuato a sostenere «meglio sommersi che disoccupati» e, nello stesso tempo, «come possiamo combattere l'economia sommersa? Mettiamo in tal modo sul lastrico intere famiglie ed intere imprese italiane». Quando Confindustria lanciò, sotto la mia presidenza, la grande battaglia contro l'economia sommersa, di cui continuiamo ad essere grandi - ed ancora abbastanza solitari - sostenitori, ci siamo trovati contro una fortissima aggressione da parte della stampa e del mondo politico - tra cui, devo dire, gran parte della sinistra, oltre che, naturalmente, alcuni tradizionali portatori di interessi specifici - che ci rimproveravano di voler indebolire ed avvelenare un elemento positivo del paese. «Lo sceriffo D'Amato» fu un titolo che La Repubblica lanciò per prima, sostenendo che volevo mettere in ginocchio l'unico modo grazie al quale le imprese italiane potevano essere competitive. Ma proprio in questo modo si crea un deficit di legalità, di civiltà e di competitività del nostro paese. Vi sono intere parti del sistema-paese che vivendo nel sommerso di fatto negano ai lavoratori i diritti più elementari, i diritti fondamentali dei cittadini. Si tratta, infatti, di lavoratori che non avranno soltanto il problema di riscuotere delle pensioni, non avendone diritto, ma quello fondamentale del vedersi negati i diritti di tutti i giorni. Vi è altresì un enorme problema di concorrenza sleale fra le imprese, di ribaltamento di costi sulla parte emersa di sistema che paga anche per chi è sommerso, ma, soprattutto, l'intreccio fra malavita e malaeconomia che avvelena interi territori del paese.
L'aspetto dell'economia sommersa fa pendant con l'aspetto del nanismo. Abbiamo creato (e continuiamo ancora oggi) una serie di barriere di convenienza per cui alle imprese, molto spesso, è più conveniente restare piccole piuttosto che crescere. Alcune di tali convenienze sono nella stessa struttura del mercato del lavoro. La riforma Biagi, recentemente introdotta, a nostro modo di vedere, è importante, anche perché rendendo più flessibile il mercato del lavoro nel nostro paese, lo stabilizza e facilita anche l'occupazione stabile. Nel corso degli ultimi anni stiamo assistendo ad una crescita forte delle assunzioni a tempo indeterminato, dopo aver finalmente introdotto que


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gli strumenti di flessibilità che rendevano meno «drammatica» l'assunzione a tempo indeterminato del lavoratore.
La riforma del mercato del lavoro è importante anche perché, dal punto di vista strategico, ridefinisce le priorità di investimento delle imprese.
Ritengo giusta una delle accuse che, nel corso degli ultimi trenta anni, i sindacati italiani hanno rivolto alle imprese italiane, che cioè si investiva più in processi che in prodotti. L'Italia è diventata un paese che ha avuto una crescita del capitale fisso investito superiore a qualsiasi altro paese con cui compete (i dati del centro studi riferiti all'ultimo trentennio 1972- 2002 mostrano che gli italiani sono ad oltre 235-240, i francesi e i tedeschi a 215-220, gli inglesi attorno a 200, mentre gli americani a circa 160-170).
Questo accade perché abbiamo forte rigidità del mercato del lavoro ed un costo del lavoro relativamente alto. È vero, infatti, che i salari sono bassi, ma vi è anche la più alta quota di oneri sociali e contributivi che grava, facendo del costo del lavoro italiano l'aspetto più iniquo del nostro sistema lavoro. Avendo salari relativamente bassi e costi molto alti, le imprese hanno investito più nell'innovazione di processi che nell'automazione di prodotti. Questa distorsione strategica ci ha portato, e ci porta tuttora, ad avere prodotti sempre più maturi realizzati con procedure sempre più efficienti e conduce ad una difficoltà crescente a disinvestire da quelli più vecchi.
Il modello americano, che ha avuto una crescita fortissima di produttività, è invece riuscito ad immettere una fortissima capacità di innovazione sui prodotti, essendovi grande flessibilità del mercato del lavoro. Meno si automatizzano i processi, tanto più si può saltare da un prodotto ad un altro (ad esempio, l'industria automobilistica giapponese ha abbandonato il mito della fabbrica completamente robotizzata; il modello Toyota è infatti un modello di fabbrica molto meno spinto sul piano dell'innovazione di processo, ma molto più flessibile sul piano dell'innovazione di prodotto).
Questa progressiva rigidità ha fatto sì che le imprese italiane investissero più in processi che non in prodotti e ha dato luogo a due effetti. Innanzitutto ha fatto sì che diventassimo leader nel mondo dell'automazione di processi. Nelle tecnologie per le industrie delle ceramiche, del tessile, della robotica, dei processi alimentari, siamo davvero i migliori e ciò nasce proprio dal fatto che abbiamo investito a lungo e prevalentemente in processi. In secondo luogo, si consideri che per chi fa innovazione di processo quello è un prodotto nuovo, ma è una parte piccola rispetto al resto del sistema produttivo italiano, che ha bisogno di poter realizzare più prodotti nuovi.
La riforma del mercato del lavoro ha un effetto molto benefico sul piano della ridefinizione delle priorità strategiche di investimento delle imprese, perché rende meno cogente l'investimento in futuro su innovazione di processo e rende, invece, possibile investire risorse maggiori in innovazione di prodotto.
Come si fa, però, ad avere un'innovazione di prodotto che funzioni meglio, avendo alle spalle poca capacità di innovazione autentica break through? Gli scienziati e gli esperti di economia dell'innovazione giustamente distinguono l'innovazione che apre a nuove frontiere e a nuove tecnologie, che pochissimi fanno nel mondo, dall'innovazione applicativa. Su quest'ultima, l'Italia è molto forte e rimarrà tale se sostenuta a monte da un processo di ricerca più valido e più costituito, che veda nelle strutture di ricerca pubbliche un punto di forza maggiore rispetto a quello che ora abbiamo.
Abbiamo bisogno oggi di fare un salto di qualità sul modo in cui questa innovazione viene realizzata, soprattutto tenendo conto della capacità di investimento delle imprese su di essa. Ora, il prelievo fiscale che le imprese italiane subiscono, insieme al livello di capitale fisso che abbiamo accumulato e che è più alto rispetto quello di tutti gli altri concorrenti, fanno sì che il ritorno del capitale investito in Italia sia tra i più bassi tra i grandi paesi a livello internazionale. Non è vero che le imprese


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italiane investono poco, anzi, hanno investito troppo rispetto alle altre e più in processi che in prodotti. Occorre quindi, per evitare l'effetto spiazzamento, aiutarle ad investire più in prodotti che non in processi.
Come abbiamo già detto con chiarezza, a tale problema non si risponde con i dazi, ma con la capacità di creare nuovo valore, più convenienza ad emergere, un'area di riduzione maggiore dell'economia sommersa, in modo che i flussi di reddito anche fiscale e contributivo possano essere investiti per abbassare il costo fiscale e contributivo delle imprese emerse.
Va inoltre messa in atto una politica seria di lotta alla contraffazione, di protezione della proprietà intellettuale ed anche dei brevetti. Siamo infatti ancora nel guado per quanto riguarda il brevetto europeo. Ora, una qualunque impresa, che investe molto in innovazione, sa benissimo che investire in brevetti e nella loro difesa, con il regime vigente, costa una quantità di soldi e di energia enormi con risultati anche molto precari. Vi è una grandissima carenza legislativa di tutela della proprietà intellettuale, su cui l'Europa dimostra tutta la sua debolezza, discutendo ancora oggi su quale debba essere la lingua di brevettazione.
Riguardo al made in Italy, vi ricordo che vi è un problema fondamentale: la bandiera italiana la usano tutti, in quanto viene apposta su qualsiasi mozzarella o mortadella prodotta in qualsiasi parte del mondo. Questo non va certamente bene: mentre i francesi non lo consentono da decenni a nessuno, noi abbiamo fatto crescere in maniera straordinaria la contraffazione del marchio italiano dei nostri prodotti, a detrimento anche della qualità del prodotto italiano.
Riferendomi alle domande poste dal presidente Tabacci, credo sia una stortura molto forte il fatto che il nostro sistema è davvero poco competitivo sul piano dell'accesso alle strutture del credito e sarebbe necessario avere a disposizione strutture del credito efficaci, efficienti e trasparenti, che abbiano anche una proiezione e una dimensione internazionale, di cui non disponiamo in quanto abbiamo dovuto affrontare anni difficili di ristrutturazione del sistema del credito con problematiche molto forti nel ridefinire le stesse strutture delle imprese bancarie nel corso degli ultimi anni.
Il tema cui faceva riferimento il presidente Tabacci è molto importante. Sono convinto che la stessa visione della banca universale debba essere ridefinita, non ritenendo che il modello alla tedesca sia quello a cui dobbiamo guardare come punto di riferimento, tant'è che sta entrando in difficoltà, e che la specializzazione del credito, piuttosto che la banca universale, debba essere il punto di riferimento cui tendere.
Condivido quanto affermato dal presidente Tabacci riguardo al fatto che vi è sicuramente un problema di trasparenza di corporate governance negli intrecci fra imprese e banche.
Ritengo poi, soprattutto nel mondo della competizione, che ognuno debba concentrarsi nel fare bene il proprio mestiere. Le imprese di successo che eccellono nel mondo sono quelle che fanno bene un unico mestiere e non più cose insieme.
Quelli della trasparenza e della governance sono aspetti fondamentali sui quali occorre intervenire. Abbiamo riscontrato, anche recentemente - su ciò Confindustria si è spesa molto - situazioni di scarsa trasparenza, ad esempio, sul piano del rapporto tra credito e risparmiatori. Si tratta di storture che creano un effetto deleterio nel medio e lungo periodo, molto peggiori di tanti altri aspetti sui quali ci siamo oggi soffermati.
Vi è sicuramente, oggi, un elemento di fondamentale difficoltà che si è creato per le imprese di qualità che vogliono accedere al mercato dei bonds e che, pur essendo imprese di primo livello e di grandissima serietà, si trovano di fronte alla giusta diffidenza dei risparmiatori che hanno avuto il portafoglio bruciato più volte da una gestione molto poco trasparente e rigorosa di una realtà sensibilissima (il rapporto con il risparmiatore si deve basare


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sulla fiducia, sul rigore e sulla trasparenza). Dunque, vi è molto lavoro da svolgere in tale direzione.
Passiamo al quesito dell'onorevole Saglia, che in sostanza chiede: se esportiamo tecnologia, che facciamo con i nostri prodotti realizzati con quelle tecnologie? Una parte importante del made in Italy costruisce tecnologia, un'altra parte importante fa i prodotti. L'esempio classico è quello delle ceramiche: è ovvio che i cinesi sono oggi rapidamente in crescita nella produzione di metri quadrati di ceramiche prodotte: stanno passando dalle case di paglia e di fango alle costruzioni di cemento armato. Si tratta di un mercato di un miliardo e 450 milioni di persone, che avrà una crescita formidabile, così come la Russia, i mercati dell'Est, eccetera. Fino ad ora lo stanno facendo con tecnologie italiane, ma la brutta notizia è che stanno anche imitando, contraffacendo le tecnologie italiane ed usano molto spesso anche nomi italiani cercando di rivendere le loro tecnologie.
Si potrebbe intervenire con la protezione della proprietà intellettuale, la difesa dei marchi, eccetera. Vi è su tali punti, un moving target: è chiaro che dobbiamo riposizionarci sempre di più sulla creazione di tecnologie migliori, da un lato (per evitare che chi le imita possa inseguirci) e, dall'altro lato, su prodotti anche migliori. Non potremo costruire le piastrelle per tutto il mondo, ma puntiamo ai prodotti di maggiore creatività: abbiamo la fortuna di avere un nome, un marchio, un paese ed una reputazione alle spalle, che ci aiutano a posizionarci nella fascia alta.
Ricordiamo come i tedeschi o gli svizzeri, nel corso degli anni passati, abbiano goduto del cosiddetto made in Germany o made in Switzerland per i prodotti di alta tecnologia, cosicché prodotti, spesso, di contenuto inferiore rispetto ai nostri, erano venduti a prezzo più alto in quanto disponevano di una immagine-paese migliore. Oggi, su alcuni prodotti, soprattutto dove il made in Italy fa leva e premio su tutto il patrimonio di cultura, di qualità della vita, di tradizione ed anche di presenza che oggi ha l'Italia nel mondo, il nostro paese si può riposizionare su fasce di valore alto. Ciò, però, richiede anche la capacità di valorizzare e di tutelare sul piano legislativo e legale i nostri prodotti.
Vi è ancora un altro aspetto: che succede con i mercati che fanno unfair trade?
Credo si debbano considerare due aspetti fondamentali: contraffazione marchi, brevetti e proprietà intellettuale ed il fatto che oggi vi è un paese come la Cina, al quale tutti guardano con grande spavento, che sta facendo le stesse cose che l'Italia ha fatto negli anni cinquanta, il Giappone negli anni sessanta e la Corea negli anni settanta. Usa bassi costi sociali ed ambientali per competere nel mondo. La differenza è che il nostro era un paese di sessanta milioni di persone, il Giappone di centoventi milioni, la Corea di sessanta., mentre la Cina ne ha un miliardo e 400 milioni. La dimensione critica che immettono sul mercato è davvero spaventosa. Abbiamo pertanto bisogno di affrontare - è un tema sul quale l'Italia deve giocare un ruolo forte in Europa, lo deve fare fino in fondo, e con forza - il tema del WTO e del modo in cui viene operata la definizione del trade a livello internazionale. Si tratta di un tema difficilissimo; come constatiamo, più sessioni del WTO stanno andando in fumo, una dopo l'altra.
Un tema molto importante è quello del cosiddetto dumping ambientale. Da un lato, il dumping sociale è un problema che è nei fatti. Il round di Doha è fallito mentre gli americani hanno cercato di imporre il tema fondamentale del rispetto degli standard minimi dell'ILO all'interno del negoziato. È una proposta nobile, importante...

PRESIDENTE. Il rapporto nord-sud è un problema estremo, perché imporre il dumping in rispetto di certe caratteristiche, quando tre quarti della popolazione mondiale è ai limiti della sopravvivenza, è evidentemente difficile, in quanto determinerà una fortissima reazione.
Se c'è un miliardo di persone che hanno un reddito annuale inferiore all'incentivazione di una mucca in Europa, è chiaro che si tratta di un tema di dimensioni


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ciclopiche. Dobbiamo preoccuparci del resto del mondo, altrimenti il nostro occidente non farà molta strada.

ANTONIO D'AMATO, Presidente di Confindustria. Sono d'accordo con lei, signor presidente. Stavo dicendo che se sul dumping sociale vi sono sicuramente grandi difficoltà da affrontare, per le connotazioni del problema che lei testé ha menzionato, vi è l'altro grande problema del dumping ambientale sul quale abbiamo bisogno di intervenire in modo molto forte. Mentre, infatti, nel resto del mondo si consente di inquinare liberamente, in Europa si sta sovraregolamentando e nessuno affronta tale problema in maniera adeguata. Si creano, anzi, ulteriori sovraregolamentazioni a costi di miliardi di euro per l'industria europea e producendo un effetto di delocalizzazione molto forte.
Pertanto, lo diciamo da subito, nessuno si lamenti, poi, del declino che l'industria europea subirà da qui a qualche anno. Moltissime imprese, infatti, saranno costrette a spostarsi al di fuori dell'Europa e, quindi, anche dell'Italia, se il tema del rapporto fra la sovraregolamentazione ambientale europea e la libertà di inquinare al di fuori dell'Europa non è ridefinito in maniera diversa. La Commissione europea è molto impegnata ad aumentare il livello dei costi di sovraregolamentazione e del tutto disimpegnata a promuovere un maggiore equilibrio fra la libertà di inquinare fuori dall'Europa e l'impossibilità di produrre in maniera sostenibile in Europa.
È in tale dimensione che va affrontato il problema del divario tra noi e gli altri, non creando dazi, ma regole minime fondamentali sulle quali il governo del trade a livello internazionale deve fondarsi.
Per quanto riguarda la liberalizzazione dei servizi pubblici locali, sicuramente occorre liberalizzare, prima ancora di privatizzare. Uno degli errori fondamentali compiuti negli anni passati è stato privatizzare prima ancora di liberalizzare e, perciò, abbiamo avuto le distorsioni che vediamo, come i monopoli privati che si sono sostituiti a quelli pubblici ed i problemi nel ramo dell'energia.
Le fondazioni certamente possono svolgere un ruolo maggiore nell'ambito della ricerca. Si tratta di un tema molto ampio, in quanto ci porta ad esplorare tutta la problematica che riguarda il rapporto tra produzione, sistema del credito, autonomie locali, eccetera. Credo, in ogni caso, che ciò che esse possano fare sia assumere impegni sul tema della ricerca.
I servizi pubblici locali sono un tema molto importante. Riteniamo che la liberalizzazione del commercio e dei servizi pubblici locali siano due delle priorità da affrontare al più presto, sia per lottare contro la crescita dell'inflazione ed i soprusi operati sul piano dei prezzi al commercio, sia anche per evitare che, poi, vi siano tariffe troppo costose per gli utenti locali e municipalizzate che fanno concorrenza ai privati utilizzando in maniera distorta le rendite di posizione che hanno in situazioni di monopolio.
L'onorevole Quartiani chiede quale sia la fiscalità da raggiungere tenendo conto dei costi che abbiamo oggi come sistema. Credo che incontriamo qui un punto fondamentale: siamo nell'impossibilità di fare debito pubblico, dovendo rispettare i parametri di Maastricht; è necessario, però, fare investimenti in infrastrutture intelligenti ed infrastrutture materiali. Abbiamo raggiunto i parametri di Maastricht, fermando tutte le spese in investimenti, in alcuni casi anche quelle per manutenzione ordinaria, per cercare di equilibrare i parametri. Ne soffriamo perché abbiamo impoverito dal punto di vista competitivo la struttura del paese. Siamo sostenitori convinti della golden rule, della necessità di recuperare, a livello degli accordi europei, la possibilità che i paesi coniughino grande rigore nel contenimento delle spese correnti - riduzione strutturale del proprio debito pubblico - con una capacità di fare investimenti in infrastrutture ed innovazione e ricerca.
Naturalmente, quanto più rigore si ha nel fare la prima operazione tanto più si può validamente sostenere la seconda.


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Non può trattarsi di una scusa per alzare nuovamente il livello del debito pubblico, ad ogni costo ed in ogni caso.
Il rigore nell'operare la riduzione della spesa corrente vuole dire rigore anche nel perseguire le riforma strutturali. La riforma delle pensioni è una di tali riforme.
Prendiamo atto, in maniera positiva, del fatto che ieri il Presidente del Consiglio sia intervenuto, in maniera così forte ed ufficiale, affermando che la riforma delle pensioni si farà. È ora aperto il tavolo, il dibattito, il ragionamento su alcuni degli aspetti della riforma delle pensioni.
Credo sia molto importante rendersi conto che, se vogliamo divenire un paese più competitivo, che crea occupazione sostenibile di migliore qualità nel lungo periodo, dobbiamo smetterla di difendere alcune rendite di posizione ed alcune logiche corporative che impediscono le riforme che liberano risorse da investire in tale progetto di riposizionamento.
Le riforme vanno fatte e fino in fondo. Mentre noi vi stiamo ragionando sopra, l'Italia continua a pagare quasi il 45 - 50 per cento del reddito che va in prelievo fiscale. Gli americani, che sono al 30 per cento, stanno lavorando per ridurre ulteriormente tale tasso. Non voglio citare l'Irlanda che, essendo una piccola regione, ha una posizione molto differenziata, ma i grandi paesi con cui competiamo hanno un prelievo fiscale attorno al 30 - 35 per cento. Noi siamo quasi al 50 per cento.
Quindi, è vero che stiamo progressivamente riducendo, ma molto poco o molto meno di quanto fanno gli altri e la capacità di autofinanziamento e di free cash flow, a parità di reddito lordo che si genera, è molto inferiore. Quindi la forbice nella capacità di fare investimenti in prodotti, in mercati, in innovazione, in strutture e in uomini, diventa molto diversa. Non bisogna lamentarsi poi se le imprese italiane saranno più affannate delle altre, non essendo messe in condizione di avere la stessa capacità di finanziamento che hanno le altre.
Ha poi parlato del disegno di legge Marzano, bloccato dalla stessa maggioranza, di fare cassa o fare mercato, della responsabilità dell'industria italiana, di petrolio, di olio: probabilmente sarà colpa nostra, forse non le mandiamo i documenti del centro studi di Confindustria, però mi preoccuperò di accertare che lei sia inserito nella nostra mailing list. Credo, però, che, ad eccezione di questa Commissione, nessuno più di Confindustria si sia attivato sul tema del quadro energetico, del disegno di legge Marzano, sulla borsa elettrica; il fatto che vi possa essere poi qualche impresa che abbia interessi specifici è paragonabile al fatto che vi possono essere cittadini italiani che la pensano in maniera diversa ad esempio da un partito, ma la politica di un partito è quella, mentre la politica di Confindustria è chiarissima. Non vi sono proprio dubbi su questa: siamo per un mercato che vede un aggiustamento strutturale sul piano della produzione di energia elettrica, attraverso l'apertura di nuove centrali e la definizione di un quadro strategico diverso di creazione di fondi di nuovo periodo e siamo anche favorevoli alla borsa energetica; abbiamo peraltro operato una forte pressione sul disegno di legge Marzano, non siamo affatto d'accordo sulla lentezza con la quale questo tema è stato svolto.
In una nota stampa, emessa domenica, abbiamo sottolineato che questo è un discorso di emergenza nazionale e mi stupisce che questo le sfugga. Però, mi consenta, c'è un altro aspetto che va sottolineato: abbiamo sul tema dell'energia una sostanziale distrazione da parte di tutto il quadro politico italiano. È vero che qui c'è distrazione ed estrema lentezza da parte della maggioranza a portare avanti un processo di questo tipo, ma siamo di fronte ad una questione di emergenza nazionale così forte che, francamente, non ritengo di poter considerare indifferente alcuna componente del sistema politico italiano, perché è talmente palese ed evidente il disastro energetico che abbiamo davanti che mi sembra pazzesco che siamo ancora qui a discuterne senza che si sia intervenuti in maniera adeguata su questo tema. Le note che sono state fatte, fino ad oggi, rappresentano più la posizione di singoli o di singole organizzazioni piuttosto


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che non l'impegno di tutto quanto il nostro Parlamento. Questo è un tema fondamentale sul quale occorre lavorare in maniera molto più seria, perché, in Italia si discute di tutto tranne che di alcune cose fondamentali che sono vitali per il presente oltre che per il domani del nostro sistema.
Ritengo che, al fine di favorire la ricerca e l'innovazione, la riforma dell'università sia un punto fondamentale (tra l'altro, domani è la giornata della ricerca, organizzata da Confindustria - alla quale naturalmente siete tutti invitati - cui parteciperanno le maggiori autorità del campo, anche a livello europeo). Esse sono state danneggiate dalle gestioni dei decenni passati, che, con una distribuzione a pioggia delle risorse, non hanno certo favorito la loro concentrazione su grandi realtà deputate a fare innovazione e ricerca. Siamo inoltre sempre stati contrari al discorso relativo alle invenzioni che riteniamo abbia prodotto effetti devastanti.
Le università non faranno alcun passo in avanti fino a quando verrà garantita l'inamovibilità, qualunque sia il rendimento, il risultato e l'impegno dei professori. A tale proposito, ricordo una testimonianza del professor Cavalli Sforza, uno dei più grandi ricercatori italiani, che vive degli Stati Uniti da decenni, il quale ha affermato chiaramente che, fino a quando nelle Università i professori rimarranno per quarant'anni liberi di non fare nulla o di continuare a mantenere la cattedra in maniera assolutamente indifferente, non c'è alcuna motivazione valida perché invece chi ha voglia di fare ricerca e intelligenza debba rimanere nella stessa università. Continueremo a perdere cervelli se non rendiamo l'università italiana capace di premiare di più il merito e mettere in moto davvero strutture che attraggono le eccellenze.
Rispetto a quanto detto dall'onorevole Lulli, volevo precisare che le imprese non si consorzieranno mai, ciò fa parte di un certo tipo di sociologia dell'impresa che non esiste. Fa parte della logica di mercato - ed è giusto che sia così - il fatto che l'imprenditore veda il suo collega come il peggior nemico da battere. Le imprese non si metteranno mai insieme per fare innovazione, perché ognuna cercherà di rinnovarsi per conquistare in proprio vantaggi competitivi. Molti dei distretti sono nati perché era un modo per organizzare il lavoro in un mercato rigido, attraverso l'organizzazione di piccole imprese che facevano filiera; una insieme all'altra, in un determinato territorio, creavano una supply chain competitiva ed efficiente, perché ciascuna di esse poteva ottimizzare un pezzo di processo produttivo.
Questo modello di flessibilità, che ha reso forte fino ad oggi il made in Italy, corre il rischio di scontrarsi in futuro con la difficoltà di fare innovazione di prodotto, perché la dimensione piccola di ciascun pezzo della filiera produttiva non consente investimenti. Ma non è certo attraverso il consorzio che le imprese faranno passi avanti, essendo competitive e tendendo quindi ad escludersi l'una con l'altra.
La strada che dobbiamo percorrere è innanzitutto quella di favorire l'accesso delle imprese all'università, il rapporto dell'università con le imprese, e, soprattutto, la crescita delle imprese, affinché alcune di esse, da terziste di un processo produttivo, possano divenire titolari in proprio di una quota di mercato che cresce (cosa che, peraltro, sta già accadendo in moltissimi distretti, come in quello della moda del napoletano).
Si tratta di un processo evolutivo che si basa, non certo sul consorzio delle imprese, ma sul rafforzamento della capacità di rapporto fra le piccole imprese e le Università.
Sul tema dei salari bassi, in questo momento siamo molto impegnati con i sindacati a ragionare sulle dinamiche dell'inflazione. Noi pensiamo che, nel corso degli ultimi anni - dal 1993 ad oggi -, se consideriamo come ha funzionato la politica dei redditi, la crescita dei salari - di fatto - del sistema industriale italiano è stata superiore a quella dell'inflazione, in misura abbastanza cospicua. La politica dei redditi ha funzionato, ma è certamente vero che nel corso degli ultimi mesi, dall'introduzione


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dell'euro ad oggi, abbiamo assistito ad una crescita formidabile dei prezzi di alcuni prodotti di consumo, molto superiore a quella registrata all'interno delle rilevazioni ISTAT.
Si è avuto un effetto cambio mille lire-un euro, per moltissimi prodotti che rappresentano un elemento fondamentale della spesa dei nostri cittadini e, quindi, anche dei nostri dipendenti. A tale elemento, però, non si risponde attraverso una riapertura della rincorsa fra salari e prezzi: ciò ci porterebbe ad un regime di inflazione ingovernabile.
Non dobbiamo pertanto ripetere l'errore di uscir fuori da una politica dei redditi consapevole e tenere le dinamiche dei salari sotto controllo, per garantire un'inflazione bassa. Bisogna intervenire attraverso due strumenti fondamentali, che cambiano il profilo della vita delle nostre famiglie: il primo, quello strutturale, è la creazione di più redditi per famiglia, perché è in tal modo che si cambia la qualità di vita degli italiani. Creare più redditi in un paese in cui lavora solo il 55 per cento di persone in età attiva vuole dire cambiare la capacità di consumo delle famiglie.
Il secondo strumento è mettere subito sotto controllo le dinamiche dei prezzi di alcuni prodotti che sono stati oggetto di una grandissima speculazione da parte di alcuni pezzi della filiera, soprattutto quell'«ultimo miglio» che va dalla fabbrica al consumatore. Ciò lo si può ottenere implementando fino in fondo la riforma del commercio, rimasta incompiuta. Ancora oggi abbiamo, rispetto a tutti gli altri paesi europei, un fortissimo livello di arretramento nel modo in cui il commercio moderno è organizzato.
Ciò rappresenta un elemento di vischiosità e di poca trasparenza, che ha fatto sì che, ad esempio, lo scorso anno, allo 0,3 per cento di crescita dei prezzi dei prodotti industriali corrispondesse il 2,5 per cento di crescita dell'inflazione e, quest'anno, all'1,3 per cento tendenziale di crescita dei prezzi della produzione industriale corrisponda il 2,7 per cento di aumento dei prezzi al consumo. Tale forbice mette chiaramente in luce che vi è un tratto di forte inefficienza nel commercio, che va, finalmente, ridefinito.

PRESIDENTE. Ringrazio, anche a nome della Commissione, il presidente D'Amato per l'ampiezza del contributo fornito alla Commissione.
Riteniamo di poter concludere l'indagine con un documento importante nel giro di qualche settimana. Credo di dover ribadire il concetto che se l'ufficio studi di Confindustria completerà la relazione del presidente con una documentazione, che metteremo agli atti, ciò ci sarà di ulteriore utilità per redigere il documento conclusivo.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 10,50.