INDAGINE CONOSCITIVA
La seduta comincia alle 16.10.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità del lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'industria chimica in Italia, l'audizione di rappresentanti di ENI Spa.
Nel ringraziare i nostri ospiti per la loro presenza, colgo l'occasione per sottolineare che questa audizione giunge alla conclusione dell'indagine conoscitiva che, lo ricordo, terminerà entro il 15 marzo. Do ora la parola al presidente di ENI Spa, professor Gros-Pietro, che è qui insieme all'amministratore delegato della stessa società, dottor Vittorio Mincato.
GIAN MARIA GROS-PIETRO, Presidente di ENI Spa. Anzitutto desidero ringraziare i membri di questa Commissione ed il suo presidente per l'invito che ci è stato rivolto. La relazione che abbiamo predisposto sarà illustrata dall'amministratore delegato, dottor Mincato; io mi limiterò ad introdurla con una breve premessa sulla storia dell'industria chimica e sul suo ruolo in Italia.
L'industria chimica è stata storicamente la prima industria basata su competenze scientifiche; a differenza di tutte le altre industrie che hanno questa caratteristica e che si sono sviluppate nel ventesimo secolo, questa è nata nel diciannovesimo secolo in Europa ed ha visto la prevalenza germanica, cioè delle industrie dell'area tedesca, svizzera e del nord Europa. Naturalmente va tenuta in considerazione anche l'industria francese e del Regno Unito.
I punti di forza di queste industrie sono stati, tradizionalmente, la competenza scientifica e l'economia di scala. L'economia di scala va intesa sotto due aspetti. Il primo è la dimensione del singolo impianto: l'economia di scala si configura proprio come un fatto geometrico, nel senso che più o meno i costi di funzionamento e di costruzione di un reattore sono proporzionali alla sua superficie - quindi al quadrato del raggio se si tratta di una sfera - e la produzione è proporzionale al suo volume (quindi al cubo del raggio). Il secondo aspetto dell'economia di scala è la completezza dell'impianto, quindi la sua capacità di utilizzare tutte le ricadute, i prodotti congiunti, i sottoprodotti, eccetera. Sotto questi due aspetti, l'industria italiana alla fine della seconda guerra mondiale si è trovata in svantaggio: ciò sia per la limitatezza del mercato interno (quindi piccole dimensioni degli impianti) sia per la tradizionale scarsa capacità dell'industria italiana di trasformare le conoscenze dei nostri scienziati, che pure non mancano, in prodotti redditizi.
La seconda metà del secolo scorso ha visto il rapido sviluppo dell'industria petrolchimica e ciò ha fatto ritenere che ci si trovasse davanti ad una ridistribuzione
delle carte e che si potesse ripartire annullando lo svantaggio storico. Di qui consegue un ingresso in forze dell'industria italiana nella petrolchimica, puntando su due aspetti: in primo luogo, i brevetti e i processi comperati essenzialmente dall'estero (principalmente da imprese americane); in secondo luogo, i capitali provenienti fondamentalmente da rimborsi che l'ENEL pagava alle imprese ex elettriche (Edison che trasferisce un enorme flusso di capitali verso la chimica, soprattutto siciliana, la Montecatini che assorbe la Adriatica elettricità e fa lo stesso). Né l'una né l'altra impresa riescono nei loro intenti; si fondono, e ad un certo punto, ad esse aderisce anche l'ex ANIC, cioè il settore pubblico. Ma (questa è storia recente) la chimica italiana non riesce mai a decollare al punto tale da diventare una grande forza internazionale che produca profitti e tutto si conclude con una grande soluzione industriale che raccoglie le esperienze della Montecatini, della Edison, dell'ANIC e anche delle iniziative di Rovelli e di Orsini.
Oggi siamo di fronte ad una nuova svolta epocale: per effetto della globalizzazione i paesi produttori di materie prime, petrolio e soprattutto gas (la nuova fonte da cui si ottengono prodotti di migliore qualità) stanno facendo il loro ingresso «a valle» del processo, quindi nelle prime produzioni che seguono immediatamente l'utilizzazione della materia prima; questo comporta un fortissimo incremento della scala degli impianti e naturalmente costi molto più bassi.
Di fronte a questo nuovo ingresso si riscontrano tre tipi di reazioni. La prima è quella dei paesi sviluppati che pensano di seguire la stessa strategia; si tratta sostanzialmente di alcune imprese petrolchimiche americane collegate al settore petrolifero che naturalmente dispongono sia di un enorme mercato interno che consente economie di scala sia di una forte produzione locale: quindi detengono la materia prima e non hanno il problema del trasporto. La seconda reazione è quella di ritirarsi su produzioni a valle, più raffinate: chimica per l'industria, prodotti intermedi, prodotti specialistici e farmaceutici (questa è la reazione tipicamente europea). Infine la terza reazione è rappresentata dalla tendenza ad allearsi con questi paesi produttori.
Quest'ultima strategia è obbligata per chi non dispone di un enorme mercato interno né di un apparato di brevetti che consenta di fortificarsi sulle produzioni «fini». In termini di strategie ognuno ha le sue opinioni e solo la storia dirà quali siano quelle giuste e quali quelle perdenti; la mia idea su questa terza ipotesi è che si sia aperta una gara a chi si assicura l'alleato migliore. L'alleanza con un paese produttore che disponga anche di una forte produzione petrolchimica di base consente a quelle imprese di poter sviluppare in un paese come ad esempio l'Italia delle produzioni competitive a valle di chimica più raffinata.
Chi arriva tardi in questa politica di alleanze presumibilmente corre il rischio di non trovare più nessun alleato disponibile perché, nell'ambito dell'ingresso dei paesi produttori nelle produzioni di primo livello, la conseguenza dell'aumento delle dimensioni di scala dei singoli impianti è un'ulteriore concentrazione; quindi, il precedente elevato numero di produttori delle prime lavorazioni nei paesi industrializzati si abbasserà notevolmente. Il risultato è che chi riuscirà a realizzare le prime alleanze si assicurerà l'accesso a questi prodotti; chi non ci riuscirà, purtroppo, subirà le conseguenze tipiche di ogni concentrazione.
VITTORIO MINCATO, Amministratore delegato di ENI Spa. La mia illustrazione si baserà principalmente su tre aspetti. Il primo è la storia della crescita della chimica dell'ENI dal 1956 al 1991; in secondo luogo, affronterò il piano di ristrutturazione che è stato portato avanti nel periodo dal 1992 al 1996; infine illustrerò cosa rappresenti l'Enichem (quindi la chimica dell'ENI) oggi. Mi avvarrò di alcune tabelle e chiedo fin d'ora alla presidenza di consentirne la pubblicazione in allegato al resoconto della seduta odierna.
PRESIDENTE. La presidenza lo consente.
VITTORIO MINCATO, Amministratore delegato di ENI Spa. Per quanto riguarda la storia della crescita della chimica dell'ENI, come risulta dalla tabella 1 (vedi allegato), si possono riassumere i vari passi attraverso i quali si è giunti alla odierna struttura della petrolchimica dell'ENI partendo dal 1958, con l'attività dell'ANIC; nel 1980 fanno il loro ingresso gli stabilimenti della Sir/Rumianca e della Liquichimica, interessati dalla cosiddetta legge Prodi (affidati all'ENI per legge).
C'è una alleanza con l'americana Occidental al fine di realizzare delle sinergie con il socio d'oltremare. L'Enoxy viene sciolta alla fine del 1982 per dar luogo all'Enichimica; l'ENI si riprende quindi tutta la chimica, che per il 50 per cento aveva dato all'Occidental e comincia a gestire il piano di ristrutturazione di tutte le aziende che aveva ricevuto in virtù della legge Prodi. Nel 1984 l'Enichimica, acquisendo alcuni impianti venduti dalla Montedison per effetto di una sua ristrutturazione, si trasforma in Enichem (ma il soggetto giuridico è sempre lo stesso), finché nel 1988-1989 parte l'avventura Enimont: cioè l'alleanza nel campo chimico tra la Montedison e l'ENI al 50 per cento ciascuna.
Alla fine del 1990 la joint venture viene sciolta: l'ENI compra il 50 per cento di proprietà della Montedison ed avvia un grandissimo piano di ristrutturazione di tutta la petrolchimica italiana, non essendo presente in quel momento nessun altro operatore in tale settore.
Come si evince dalla tabella 2 (vedi allegato), al momento della nascita (nel 1958) della chimica dell'ENI, vi sono due poli: uno a Ravenna e l'altro a Gela. Il primo, che utilizza il gas presente nell'Adriatico, è dapprima incentrato sulla produzione di fertilizzanti ed in seguito su quella di gomme; il secondo, invece, che utilizza i giacimenti di petrolio trovati in Sicilia, è una raffineria apposita per tale greggio, di tipo molto pesante. Nelle sue vicinanze viene costruito uno stabilimento petrolchimico, che utilizza le cariche petrolchimiche provenienti da tale raffineria al fine di produrre materie plastiche, come l'etilene, il propilene e il polietilene.
Successivamente, a seguito della legge per il Mezzogiorno, si sviluppano, come si può vedere dalla tabella 3 (vedi allegato), una serie di stabilimenti al Sud: a Pisticci, in Val Basento; a Manfredonia dove, essendo stato trovato del metano al largo dell'Adriatico, si apre un altro stabilimento di fertilizzanti; a Terni; a Ragusa dove viene acquisito uno stabilimento della Bombrini Parodi Delfino; a Sarroch; e infine a Ottana. Lo stabilimento di Sarroch viene costruito sulla base di una scelta autonoma dell'ENI, mentre quello di Ottana su proposta del Governo, che sollecita l'ENI e la Montedison a costruire uno stabilimento in una zona particolarmente tormentata del paese; si tratta di uno stabilimento di fibre che ha la capacità di assorbire molta manodopera.
Come si evince dalla tabella 4 (vedi allegato), nel 1980 vi sono i salvataggi della SIR e della Liquichimica, sulla base di una delibera del CIPI dell'8 agosto 1990, che affida all'ENI la gestione di questi impianti, mentre poi una legge del 1982 ne trasferisce anche la proprietà. Arrivano, dunque, gli impianti di Porto Marghera, Ferrara, Ravenna, Porto Torres, Augusta; quelli di Priolo, arrivano invece dalla Montedison.
La petrolchimica dell'ENI comincia, quindi, ad arricchirsi con tutto ciò che derivava dai fallimenti o comunque dalle procedure di amministrazione straordinaria previste dalla legge Prodi, a cui erano state sottoposte alcune di queste società.
Infine, nel 1988 con la creazione dell'Enimont si copre tutto il territorio nazionale; vi è, infatti, un accorpamento di tutta la chimica della Montecatini-Edison e di quella dell'ENI, le quali invece nel corso dei precedenti decenni avevano combattuto una vera e propria guerra della chimica, essendo in concorrenza l'una con l'altra.
Nella tabella 5 (vedi allegato), si può vedere la pianta complessiva degli stabilimenti Enimont, al momento della sua
costituzione. Sappiamo che l'Enimont dal 1988 al 1990 non riuscì assolutamente a ristrutturare tali stabilimenti, mentre tale ristrutturazione partì con il piano del 1992, dopo l'acquisto da parte dell'ENI del 50 per cento di proprietà della Montedison.
I fattori del risanamento sono stati sia interni sia esterni. Sul fronte di quelli interni, si cominciò ad effettuare una buona selezione degli investimenti; si cominciò a dismettere alcuni impianti che non erano economici; si cominciò a focalizzazione il proprio portafoglio di business su quei prodotti che fossero più vicini alla petrolchimica; si semplificò la struttura societaria, eliminando molti livelli decisionali; si ridussero i costi fissi di stabilimento; si ridussero i costi delle sedi direzionali e, infine, si eseguì un completo re-engineering dei processi.
I fattori esterni invece furono rappresentati da una forte ricapitalizzazione dell'ENI a beneficio dell'Enichem (3 mila miliardi) e, nel 1995, da una grossa ripresa del mercato che rafforzò i flussi di cassa a beneficio della società, che riuscì così a diminuire il proprio indebitamento, che alla fine del 1992 era di circa 8.500 miliardi di lire, riducendolo a 1.000 miliardi di lire.
La razionalizzazione del portafoglio comportò la vendita di molti business. Solo per citare le più rilevanti, fu venduta, ad esempio, la chimica fine, in parte a soggetti italiani, in parte a soggetti esteri; il polivinilcloruro fu quotato in borsa ad Amsterdam; vi fu il trasferimento della detergenza dello stabilimento di Augusta ai tedeschi della RWE; il PTA/PET fu venduto alla Dow Chemical; la Montefibre fu venduta in borsa e acquistata dal gruppo Orlandi; gli stabilimenti per i fertilizzanti in parte furono chiusi e in parte furono acquistati dalla norvegese Norskydro.
Ci furono dunque tutta una serie di cessioni che comportarono un flusso di cassa in entrata pari a 2 miliardi di euro, che contribuì al pagamento dei debiti elevatissimi di Enichem in quel momento.
Con riferimento ai risultati economici, se guardiamo il 1993, che rappresenta l'anno di partenza del piano di risanamento, troviamo che a fronte di un utile del gruppo ENI di 125 milioni di euro, il risultato della chimica ENI era una perdita di 1 miliardo 785 milioni di euro: una perdita, quindi, molto forte, che comprometteva l'equilibrio dell'ENI.
Nel 1994, a pieno risanamento iniziato, le perdite della chimica ENI scesero a 843 milioni di euro, a fronte di un utile del gruppo ENI di 1 miliardo 659 milioni di euro; nel 1995 poi, a fronte di un utile del gruppo ENI pari a 2 miliardi 235 milioni di euro, la chimica ENI registra un risultato positivo pari a 417 milioni di euro. Infine nel 1996 l'utile della chimica ENI si ridimensiona per la caduta dei prezzi ed è pari a 142 milioni di euro, ma il gruppo ENI nel suo complesso mantiene comunque la propria redditività a livelli molto elevati, con un utile pari a 2 miliardi 299 milioni di euro.
Con riferimento agli organici, si è passati dai 30.640 addetti nel 1993 ai 12.800 circa nel 2001. Va però precisato, per quanto riguarda le riduzioni di organico, che circa 9.760 persone lavoravano in stabilimenti ed impianti ceduti dall'ENI e che tuttora dunque svolgono attività lavorativa; pertanto, l'effettiva riduzione di personale avvenuta nel corso di questi anni è pari a circa 8.080 lavoratori.
Dico ciò perché, a volte, quando si considera la riduzione degli organici Enichem dal 1993 al 2001, si ritiene che vi sia stata una perdita di 17 mila posti di lavoro. Vorrei precisare che non è così, perché attualmente vi sono circa 10 mila persone che, pur non dipendendo più dall'ENI, lavorano comunque con altre società, a cui l'ENI ha ceduto i propri impianti.
Si pensi che le emulsioni acetoviniliche sono state vendute alla Mapei, che oggi ha realizzato importanti investimenti su questi business, incrementando l'occupazione; la Alcantara, che detenevamo insieme ai giapponesi, è stata venduta alla Torei, ancora oggi prosegue l'attività ed ha aumentato la produzione con significativi
investimenti a Terni; i difenoli, venduti alla norvegese Borregard, sono tuttora prodotti, con beneficio per l'occupazione; l'Enichem di Augusta, in Sicilia, venduta alla RWE/DEA, oggi appartiene alla sudafricana Sasol ed è ancora operante. In tutti questi casi, lo vorrei sottolineare, non c'è stata perdita di posti di lavoro ma, semplicemente, un trasferimento di dipendenti dall'ENI ad altre aziende.
La situazione dell'Enichem, oggi, presenta una congiuntura chimica molto depressa: i margini sono al minimo del 1980. Quando negli anni 1992-1993 gestivamo una situazione di grave crisi, mai avremmo pensato che quei prezzi non fossero i minimi e che si sarebbero ulteriormente ridotti all'inizio degli anni 2000. Inoltre, sappiamo che la chimica di base, come quella prodotta dall'Enichem (ENI) è legata all'andamento del PIL che, negli ultimi mesi, ha leggermente rallentato la sua crescita. Abbiamo anche dovuto fronteggiare l'alto costo del greggio e di tutte le cariche petrolifere per la chimica, senza riuscire a trasferirlo sui prezzi, proprio a causa dell'andamento riflessivo del PIL. I risultati del 2001, rispetto al 2000, di tutta l'industria petrolchimica, calcolati sulla media delle prime 20 società petrolchimiche mondiali, hanno registrato una diminuzione superiore al 70 per cento. C'è stata, cioè, una completa inversione di tendenza. L'Enichem registra un risultato operativo negativo di 332 milioni di euro nel 2001, a fronte di 4 milioni di euro di utile nel 2000. Tutto questo si confronta con un utile operativo dell'ENI di 10 miliardi di euro e con un risultato operativo della chimica ENI, compresa la Polimeri Europa, oggi interamente di proprietà dell'ENI, negativo per 425 milioni di euro. Quindi, si tratta di una grave défaillance che induce a considerare la necessità di un intervento radicale sul portafoglio della chimica.
Quanto alla nuova Polimeri Europa, all'inizio del 2002 abbiamo concentrato in questa società tutti gli impianti e gli stabilimenti che hanno una ragione di essere in funzione della loro strategia, della loro ubicazione e dei prodotti che realizzano. Come mostrato dalla tabella 7 (vedi allegato), tali stabilimenti si trovano a Porto Marghera, Mantova, Settimo Milanese, Ferrara, Ravenna, Brindisi, Priolo, Gela, Ragusa e Sarroch. Nell'impianto di Brindisi disponiamo di un cracker e di un reattore per polietilene modernissimi. Essendo ubicati, per la maggior parte, nella pianura padana e in Sicilia, operano soltanto in tre aree di business; sono, quindi, molto concentrati negli elastomeri (le gomme), nei polimeri (vale a dire, polietilene e polistirolo, in particolare) e nella chimica di base, costituita sostanzialmente dai prodotti che stanno a monte dei polimeri e degli elastomeri. Questa è la nuova Polimeri Europa, rispetto alla quale è in corso un processo di alleanze con terzi, con il progetto di rafforzarne la struttura. Invece, tutto quanto riguarda la vecchia struttura e gli impegni precedentemente assunti dall'ENI, in termini di contratti di programma, di risanamento dei siti e di bonifica, sono mantenuti da quest'ultimo, il quale li gestirà nei prossimi anni.
PRESIDENTE. Ringrazio gli intervenuti per le loro esposizioni e do la parola ai colleghi che desiderano formulare domande od osservazioni.
ANDREA LULLI. Vi ringrazio per il vostro intervento e per le informazioni che ci avete fornito. Il presidente Gros-Pietro, nella sua premessa, esprimendo una valutazione personale (se ho ben capito), si è riferito alla necessità di costruire una alleanza con i paesi detentori di materie prime, i quali hanno percorso la strada di realizzare impianti importanti di produzione a valle. Le domando se ci sia ancora la possibilità di stringere queste alleanze e, nel caso, se sia possibile farlo nell'area del Mediterraneo, alla luce di situazioni che, purtroppo, non rendono agevole attualmente, e chissà per quanto tempo, una politica di questo tipo. Le domando se, in quell'area, sia possibile attuare una politica economica italiana finalizzata a costruire un punto di eccellenza rispetto allo scenario mondiale in alleanza tra l'Europa
e i paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
La struttura industriale italiana, almeno per una gran parte e nei suoi punti di eccellenza, si basa molto sulla produzione di beni di consumo rivolti alla persona. Sicuramente non abbiamo grandi possibilità di successo nell'industria pesante, nemmeno nella sua parte più innovativa, legata all'informatica. Il mio pensiero, e vorrei sapere se è condiviso, è che disponiamo di grandi potenzialità nella ideazione e produzione di nuovi beni e di nuovi materiali. Si tratta di una frontiera molto importante, anche se non è l'unica, soprattutto per le caratteristiche delle nostre imprese e per lo sfruttamento delle nostre capacità imprenditoriali. Certamente, in questo contesto, un'industria come quella della chimica fine già offre molto ma potrebbe offrire molto di più grazie all'integrazione ed alla circolazione di nuovi saperi, di nuove conoscenze. Penso che nella struttura delle piccole imprese e dei distretti industriali vi sia più attenzione, da parte dell'imprenditoria, a sfruttare quelle conoscenze scientifiche che nel passato non sono state utilizzate.
PRESIDENTE. La ricostruzione che avete illustrato dà conto dell'operazione di ristrutturazione alquanto incisiva che si è consumata in questi anni. La nuova Polimeri Europa raccoglie dieci siti concentrati su tre aree di business che, mi sembra di capire, rispondono a criteri di efficienza importanti e che sono quelli oggetto della joint venture con la Sabic.
Se è così, che cosa resta all'ENI, dopo le operazioni di cessioni parcellizzate avvenute nel corso degli anni riguardanti la razionalizzazione del portafoglio nel periodo 1993-2001? A che punto sono le trattative per l'eventuale cessione dei dieci siti e che cosa resta di strategico all'ENI?
Do la parola ai rappresentanti dell'ENI per le risposte.
GIAN MARIA GROS-PIETRO, Presidente di ENI Spa. Credo di poter rispondere, parzialmente, alle due domande. I paesi produttori che vogliono essere inclusi nell'Organizzazione mondiale del commercio devono considerare che la loro industria chimica non potrà godere di sussidi. Il loro enorme vantaggio è che il trasporto dei prodotti chimici, soprattutto se ottenuti dal gas (prodotti puri ad alto valore), costa molto meno del trasporto del gas e, senza bisogno di sussidiare, minimamente, la loro industria, sono in grado di fornire intermedi enormemente più competitivi. A prescindere da ogni altra considerazione, si tratta di una operazione industrialmente sana: il prodotto è fabbricato laddove costa meno ed il suo trasporto ha un prezzo economico ed ambientale più basso, in quanto il greggio non è più movimentato.
Sulla potenzialità di costituire alleanze vincenti nel Mediterraneo è preferibile che sia l'amministratore delegato a rispondere.
Vorrei aggiungere un'ultima considerazione sui legami tra i distretti industriali, il tessuto delle piccole e medie imprese italiane e la grande industria chimica. È evidente l'esistenza di una simbiosi tra la grande impresa con economie di scala e le piccole imprese, dove la prima ottiene da una miriade di piccoli utilizzatori la valorizzazione della propria produzione, come dimostrato anche dagli esempi fatti dall'amministratore delegato; tuttavia, la possibilità dell'imprenditore di valorizzare la sua specializzazione dipende, naturalmente, dall'alimentazione di intermedi di base competitivi per qualità e per prezzo. Questo è il senso industriale dell'operazione.
VITTORIO MINCATO, Amministratore delegato di ENI Spa. Innanzitutto, credo sia necessaria una precisazione: la chimica di cui abbiamo discusso è cosa diversa da ciò cui lei ha accennato. Stiamo esaminando, infatti, grandi masse di produzione: gli impianti di Priolo, che producono circa 730 mila tonnellate l'anno di etilene, e di Brindisi, con 400 mila tonnellate di prodotto: si tratta di grandi masse plastiche che possiamo definire «vili». Gli impianti relativi a produzioni più fini, invece, sono stati venduti ed, ancora oggi, sono in esercizio. Attualmente, il nostro esame è relativo alla
grande industria petrolchimica di produzione di grandi masse e, quindi, non suscettibile di uno sviluppo nel senso da lei indicato.
PRESIDENTE. Ringrazio il professor Gros-Pietro e il dottor Mincato. Credo che siamo in possesso di tutti gli elementi necessari per concludere entro il 15 marzo la nostra indagine conoscitiva sull'industria chimica in Italia.
La seduta termina alle 16.50.
È vero che l'oggetto della nostra trattativa di alleanze (attualmente, stiamo trattando con la Sabic) è la Polimeri Europa, in cui esistono tre business di sviluppo e di gestione profittevole con capacità di rimanere sul mercato e di essere gestiti in termini di continuità nel futuro; all'indomani di un'alleanza parziale o di una vendita totale della stessa all'ENI rimarrà il ciclo del cloro. Ricordo che, quando nel 1994 è stato abbandonato il PVC, quotando in borsa la società di produzione EVC, la chimica del cloro è rimasta in nostro possesso e non è stata immessa nella Polimeri Europa, per cui avrà uno sviluppo nei prossimi anni che potrà essere legato alla capacità di qualche operatore con cui siamo in contatto di assorbire gli impianti di lavoro più moderni. Ad Assemini esiste un impianto di cloro a membrane tra i più moderni, che include anche la produzione a tariffa agevolata di energia elettrica.
È ragionevole che in futuro altri impianti di cloro saranno chiusi, perché sono a celle di mercurio, lontani dai luoghi di utilizzazione del prodotto e perché, attualmente, ottenere i permessi di costruzione degli impianti di cloro è un'impresa veramente disperata.
Dichiaro conclusa l'audizione.