VII COMMISSIONE
CULTURA, SCIENZA E ISTRUZIONE

AUDIZIONE


Seduta di mercoledì 18 luglio 2001


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La seduta comincia alle 14.40.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, Letizia Moratti, sulle linee programmatiche del suo dicastero.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, l'audizione del ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, Letizia Moratti, sulle linee programmatiche del suo dicastero.
A nome di tutta la Commissione saluto il ministro e le auguro un ottimo lavoro in un ministero delicato e chiave per l'intera vita nazionale, così come rivolgo un saluto anche al viceministro Possa, al sottosegretario Aprea e al sottosegretario Siliquini.

GIUSEPPE GAMBALE. Chiedo di parlare sull'ordine dei lavori.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE GAMBALE. Vorrei sapere come la Commissione intende organizzare i propri lavori: si prevede, dopo l'esposizione del ministro, una breve sospensione dei lavori per poi riprendere la discussione, oppure vi sarà un rinvio del seguito dell'audizione ad altra seduta? Ad esempio, il ministro Urbani ha tenuto un'esposizione in due tempi, effettuando la replica dopo aver ascoltato le dichiarazioni dei gruppi.

PRESIDENTE. Preciso che il ministro Urbani non ha tenuto un'esposizione in due tempi, bensì ha svolto la relazione e replicato agli interventi. Pertanto, oggi seguiremo lo stesso criterio, ponendoci un limite di tempo. Al momento non sono in grado di valutare a priori quanti interventi si svolgeranno ed i tempi che occorreranno, però ritengo che la seduta odierna potrebbe avere termine al massimo entro le 19.30. Nel prosieguo dei nostri lavori ci renderemo conto se l'audizione potrà concludersi oggi o se invece occorrerà rinviarne il seguito ad altra seduta.

GIOVANNA GRIGNAFFINI. Vorrei proporre di rinviare il seguito dell'audizione ad altra seduta, in modo da disporre del minimo di tempo necessario, dopo la relazione del ministro, che immagino sarà ricca, articolata e documentata, per consentire a tutti, al di là di alcune notazioni politiche immediate, di intervenire in modo puntuale in questa importante discussione.

PRESIDENTE. È anche la mia opinione. Qualora ciascun deputato intervenga - con stile anglosassone - per quattro minuti, l'audizione terminerebbe entro le ore 19, ma considero questa ipotesi poco prevedibile. Credo sia più opportuno e ragionevole rinviare il seguito della presente audizione ad una altra seduta.


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Rinnovandogli nuovamente gli auguri per un lavoro delicato, difficile e importante, do ora la parola al ministro Moratti.

LETIZIA MORATTI, Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Vorrei in questa prima esposizione tracciare una sintesi di tutte le problematiche esistenti attorno al complesso e delicato mondo della scuola.
Vorrei, in primo luogo, osservare che l'istruzione è elemento fondamentale del processo di crescita e di sviluppo delle società civili evolute. Proprio per questo rappresenta un punto centrale delle politiche del Governo, affinchè possa ispirare un disegno di sviluppo e di innovazione del paese, all'interno del quale la scuola e tutta l'istruzione in generale, quindi anche l'università e il settore della ricerca, possano svolgere un ruolo fondamentale.
Ci troviamo all'inizio di una nuova fase nella quale è necessario porre in primo piano la necessità di accrescere e valorizzare il capitale umano del nostro paese, le competenze scientifiche, tecnologiche e tutto quel grande patrimonio culturale di cui il paese dispone. Per raggiungere questo obiettivo, occorre ridare qualità e innovazione al sistema dell'istruzione al fine di poterci allineare agli standard europei, dai quali il nostro paese si è pericolosamente allontanato.
Il nostro impegno intende focalizzarsi sulle esigenze dei veri protagonisti del mondo della scuola: gli studenti, le famiglie, gli insegnanti, al fine di riportarli al centro della scuola, basandoci su due principi che intendiamo porre a fondamento dell'azione di Governo: il principio della solidarietà e quello dell'eccellenza.
Siamo consapevoli di avvicinarci ad un mondo complesso, e disporre di margini di tempo sempre più ristretti per scongiurare il pericolo di un progressivo decadimento del nostro sistema educativo e formativo. Il primo segnale di questo decadimento è dato dalla distanza crescente tra gli sforzi che vengono compiuti all'interno del mondo della scuola e i risultati che ne derivano. In particolare, ritengo ci siano volumi ingenti di spesa, in larghissima parte destinati a coprire le spese fisse, a fronte di bassi volumi di investimenti destinati alla professionalizzazione dei docenti, all'innovazione didattica e all'approntamento di percorsi formativi di elevata qualità. Siamo, dunque, in una situazione nella quale vanno ripensate le allocazioni di spesa, al fine di aumentare il livello qualitativo del sistema dell'istruzione nel suo complesso.
Disponiamo di dati, probabilmente già a voi tutti noti, frutto di recenti indagini condotte dall'OCSE, che vorrei sinteticamente ricordare. Nel nostro paese, pur essendovi il numero di insegnanti per alunni più elevato tra i paesi europei (un'insegnante ogni 10 alunni contro la media europea che è di un insegnante ogni 15 alunni), in realtà il 65 per cento della popolazione adulta non supera il secondo livello alfabetico. Questa è una situazione che non può non destare preoccupazione. Inoltre, nonostante il nostro paese registri un costo per studente più elevato del 15 per cento, rispetto alla media europea, solo il 40 per cento della popolazione adulta ha un diploma di scuola media secondaria.
Con riferimento al sistema universitario abbiamo un tasso di dispersione universitaria estremamente preoccupante. Negli ultimi 40 anni, su dieci milioni di studenti che si sono avvicinati al mondo universitario, i laureati sono stati circa tre milioni: vi è, quindi, una distanza molto forte tra chi accede all'università e coloro che ne escono con una laurea. Pertanto, nel complesso, possiamo dire che il nostro sistema istruttivo registra delle dispersioni e delle inefficienze, le quali allontanano sicuramente il mondo dell'istruzione da quello del lavoro. Un altro dato su cui riflettere, sicuramente a conoscenza di tutti, è che la maggioranza dei lavoratori, in Italia, ha unicamente il titolo di studio della scuola dell'obbligo. Anche sotto questo profilo, ci discostiamo fortemente dagli altri paesi europei. Infatti, a fronte di un 9 per cento circa di laureati tra i lavoratori italiani, vi sono paesi come la Francia e la Germania nei quali tale media è


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rispettivamente del 21 per cento e del 19 per cento. Questi sono elementi fortemente preoccupanti.
Oggi, a fronte di facoltà universitarie che producono tassi di disoccupazione crescenti, l'Italia vede aumentare progressivamente la carenza di profili professionali legati ai settori delle nuove tecnologie informatiche e della comunicazione, settori che in altri paesi, come ad esempio negli Stati Uniti, producono, ormai, un quarto della ricchezza nazionale. Questo è solo un esempio di quanto incida, sul mondo del lavoro, la mancanza di raccordo tra il sistema dell'istruzione e il sistema professionale.
Vi sono, poi, forti disparità, tra l'Italia e gli altri paesi industriali, anche nei percorsi formativi successivi al diploma: soltanto cinque giovani su cento scelgono percorsi formativi dopo il diploma. Anche la formazione professionale presenta standard qualitativi che variano ampiamente a seconda delle zone del paese. Ciò non può che creare ricadute negative sulla capacità complessiva di sviluppo economico e di innovazione tecnologica e scientifica. Vi è, peraltro, una recente indagine svolta dalla Commissione europea, la quale indica che ogni mille lavoratori vi sono in Italia soltanto tre ricercatori, rispetto alla media europea di cinque, a quella americana di 8 e a quella giapponese di 9. Inoltre, l'Italia è all'ultimo posto in Europa anche per quanto riguarda i dottorati tecnologici.
Questo quadro, che sicuramente voi tutti conoscete, non può non destare preoccupazione rispetto all'universo complessivo dell'istruzione: dalla scuola all'università.
La gravità della situazione è quindi nota, ma ritengo che le implicazioni diventino sempre più pesanti. In tutto il mondo, infatti, vi è un aumento del livello di scolarizzazione ed è crescente l'ingresso nel mondo dell'istruzione da parte di nuovi soggetti (mi riferisco sicuramente ai paesi in via di sviluppo, ma anche all'ingresso delle donne e dei più giovani), con la conseguenza di un rafforzamento diffuso della capacità di produrre reddito e di partecipare alla crescita del benessere. Pertanto, in tale contesto, tendono a rafforzarsi anche i valori meritocratici tipici di un modello di società competitiva. Assistiamo, pertanto, in questo momento ad un fenomeno che presenta delle forti polarizzazioni sull'intero pianeta: aree di «poli di eccellenza» ed aree a rischio di esclusione e di marginalizzazione. L'Italia deve considerare la sua complessiva situazione, in quanto il suo più debole sistema educativo, formativo e di ricerca può crearle un rischio di marginalizzazione rispetto a quelle società che sono invece, in questo senso, più evolute.
Credo che siamo molto lontani dall'avere i mezzi, i programmi e le strutture per consentire al sistema scolastico italiano di competere con i sistemi di istruzione degli altri paesi. Ci troviamo di fronte ad una nuova sfida, posta dalla società della conoscenza, nella quale appunto la competizione tra i paesi avviene proprio sulle conoscenze e sui talenti.
Pertanto, ritengo che la qualità dell'istruzione rappresenti un tema centrale nelle politiche per l'istruzione stessa. A mio avviso, è necessario elevare i livelli medi di scolarizzazione del paese e, nel contempo, tendere all'eccellenza delle strutture didattiche scolastiche ed universitarie, creando così le condizioni per attrarre investimenti, per far nascere nuove imprese e per favorire nuovi progetti di ricerca; in altri termini occorre intervenire sulla realtà che deve complessivamente rinnovarsi.
Il nostro progetto parte dalla convinzione che l'Italia necessita di interventi rapidi e precisi, rispetto all'evoluzione del sistema dell'istruzione in tutto il mondo.
Nel documento di programmazione economico-finanziaria abbiamo previsto investimenti per la qualificazione degli insegnanti, per l'aumento del livello di scolarizzazione, per il sostegno alla ricerca, per l'utilizzo delle tecnologie, in particolare quelle multimediali, e per la valorizzazione e la formazione degli insegnanti.
È nostra intenzione creare un circolo virtuoso che consenta ai giovani «di sapere, di saper fare e di saper essere». Ci


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rendiamo conto che ciò non è facile, perché attorno alla scuola si sono consumate dispute ideologiche. Proprio per questo, vorremmo riuscire a ricomporre intorno al mondo dell'istruzione un campo d'opinione concorde, basato su alcuni principi fondamentali, al fine di ridare ai giovani, alle famiglie e ai docenti motivazioni, sicurezze e serenità. Sentiamo fortemente la responsabilità di rappresentare opinioni diverse e di cercare di costruire una scuola nella quale tutti possano riconoscersi.
Per questo motivo abbiamo avuto alcuni incontri con le rappresentanze di famiglie, di studenti, di docenti, con le associazioni e i sindacati di categoria, con l'amministrazione centrale e quella regionale: abbiamo cercato di fare un pur breve viaggio nel tempo, per un primo approfondimento rispetto a tutti i problemi che la scuola si trova ad affrontare. Anche per tale motivo avevo chiesto al presidente di potermi presentare in Commissione dopo essermi avvicinata al pianeta scuola (e vi ringrazio per l'opportunità che mi avete dato).
Nel mondo della scuola abbiamo trovato da un lato un senso di mortificazione rispetto al ruolo della scuola stessa, dall'altro fortissime aspettative volte a superare la criticità del momento e, quindi, del sistema. Vorrei spendere alcune parole sulla sospensione dei cicli (tornerò in seguito sull'argomento). Tale sospensione è stato voluta, al di là dell'aspetto tecnico che ovviamente conoscete, per riavviare un processo di riforma che tenga conto delle posizioni di tutti i protagonisti della scuola: del mondo degli insegnanti, degli studenti e delle famiglie. Credo che la crisi del sistema scuola sia dovuta ad una insufficiente qualità ed anche ad una mancanza di libertà di scelta per le famiglie. Crediamo che lo Stato non possa essere l'unico promotore del valore del capitale umano, né il custode esclusivo delle competenze tecniche e scientifiche. Il nostro progetto si baserà su parametri e principi che cercheranno di coniugare libertà e solidarietà.
Vorrei ricordare il pensiero di Vivian Reding, che voi tutti conoscete, laddove riafferma che i sistemi educativi non devono adattarsi solo alle economie ma allo sviluppo, e per noi lo sviluppo è quello della persona umana nel contesto sociale: questo è il modo con il quale vogliamo interpretare il ruolo della scuola e dell'istruzione. Immaginiamo un sistema moderno, sicuramente competitivo, innovativo, democratico, aperto e trasparente. Riteniamo che questa sia la scuola che possa garantire l'innalzamento della qualità complessiva del livello di istruzione nel nostro paese. Abbiamo una visione che tende a coniugare alcuni elementi che normalmente vengono contrapposti: l'equità e la competizione, i valori di giustizia sociale e il merito, la partecipazione e la responsabilità.
Vorremmo dare unitarietà e coerenza a tali principi, che riteniamo non debbano essere contrapposti, ma che possono essere coniugati nelle due parole che ho già più volte citato: solidarietà ed eccellenza. Pensiamo che gli studenti abbiano diritto allo studio e all'eccellenza. Dobbiamo garantire pari opportunità di accesso allo studio e pari opportunità di successo nello studio. Dobbiamo pensare ad un sistema che integri la molteplicità dei poteri, delle funzioni e dei soggetti. Riteniamo che alle famiglie debbano essere garantite pari condizioni rispetto alle scelte (ciò che peraltro esiste già in tutti gli Stati europei), in un sistema integrato fra componenti statali e non statali, per una reale scuola della società civile.
È importante ridefinire il ruolo dello Stato centrale e pensiamo a tre differenti livelli: il ruolo dello Stato centrale, che indirizzi, governi e non gestisca; il livello regionale; quello dei singoli istituti secondo la loro autonomia. Pensiamo a un centro che abbia dei curricula nazionali, che sono importanti perché riteniamo che la nostra storia, le nostre tradizioni, le nostre radici debbano essere mantenute, valorizzate, facendo parte del nostro patrimonio e della nostra identità nazionale. Pensiamo, però, che a tali programmi nazionali debbano aggiungersene altri, che


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garantiscano ai ragazzi la ricchezza delle realtà regionali e locali. Siamo il paese delle cento città e, quindi, tale ricchezza va valorizzata anche nei programmi scolastici. Pensiamo - come ho già detto - a un centro che indirizzi, governi, non gestisca e che valuti il funzionamento complessivo della scuola ed i livelli di apprendimento. Ciò attraverso un servizio nazionale di valutazione, autonomo e indipendente, per la definizione degli standard di qualità e dei livelli di preparazione degli studenti. A tal fine abbiamo istituito un gruppo di lavoro, presieduto dal professor Elias, che - lo voglio ricordare - è uno dei massimi esperti a livello mondiale e che ha diretto l'ISO (il centro che raggruppa i sistemi di certificazione di 138 paesi nel mondo). Tale gruppo di lavoro, che è composto da rappresentanti del mondo della scuola e delle famiglie, ci proporrà, anche con riscontri europei, modelli (che esamineremo e valuteremo) finalizzati a questo obiettivo: la valutazione della scuola nel suo complesso e la valutazione del livello di apprendimento dei ragazzi.
Un altro punto che a me sembra importante è il problema del peso burocratico del sistema scolastico. Il governo della scuola funziona con una miriade di circolari e con un numero infinito di decreti. Vi è una proliferazione degli uffici dirigenziali (siamo arrivati a 118) con una pericolosissima frammentazione delle competenze ed una altrettanto pericolosa mancanza di responsabilità in ogni centro dirigenziale. È un sistema che va superato, ma non è la sola criticità del sistema dal punto di vista organizzativo. Ne cito altre: le direzioni regionali stentano a decollare poichè hanno problemi di raccordo con il centro; il rischio della creazione di corpi intermedi, mi riferisco ai Csa ed ai Cis, che possono rappresentare momenti di appesantimento burocratico al di fuori della scuola. Dobbiamo evitare tali rischi e credo che i mezzi e le strutture debbano essere forniti, sempre più direttamente, agli istituti e non posti, quindi, al di fuori della scuola, pur in un disegno complessivo che integri il centro, le regioni e gli istituti scolastici. Per tale motivo abbiamo pensato di costituire un tavolo della semplificazione, finalizzato a sburocratizzare il mondo della scuola e a superare l'autoreferenzialità che ancora esiste in tale mondo. Anche il decreto-legge sull'avvio dell'anno scolastico ha, ed ha avuto, questo obiettivo: porre l'organizzazione scolastica al servizio degli studenti e delle famiglie. Allo stesso modo intendiamo il tavolo di semplificazione: un'organizzazione che abbia l'obiettivo di essere al servizio degli studenti e delle famiglie.
Un altro tema importante è quello dell'autonomia: riteniamo che vi siano alcune problematiche da affrontare. In particolare, gli organi di governo degli istituti, a nostro avviso, devono essere più snelli, mentre agli istituti va data la facoltà e la libertà di organizzare sistemi di partecipazione e di rappresentanza in modo più libero e, quindi, con decisioni autonome. Pensiamo a pochi ed essenziali organi di governo e ad una maggiore libertà per gli istituti di organizzarsi secondo le loro esigenze. Stiamo pensando ad una revisione degli organi collegiali territoriali, poiché riteniamo che oggi ci sia un insieme di rappresentanze, in tali organi collegiali e territoriali, che assiste alle scelte della scuola, ma non ha un peso nella determinazione delle scelte stesse. Tale revisione deve dare maggior peso alle rappresentanze.
Parlerò ora della riforma dei cicli, che è stata posta forse come tema centrale. Rispetto a ciò intendiamo riavviare il processo di riforma, e non bloccarlo, con la partecipazione dei docenti, delle famiglie e degli studenti. Abbiamo visto che uno dei nodi centrali della riforma avviata era, probabilmente, il mancato coinvolgimento complessivo di tutte le istanze rispetto al cambiamento. Intendiamo, quindi, procedere per consentire ai veri protagonisti di essere parte attiva nel processo di riforma. Vi sono sicuramente nodi da sciogliere, che ci sono stati segnalati negli incontri che abbiamo avuto. Un tema da affrontare è quello della scuola dell'infanzia; occorrerà verificare se, mantenendola unitaria, la partecipazione ai tre anni della scuola


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dell'infanzia possa costituire un credito equivalente ad un anno del percorso obbligatorio scolastico.
Un altro tema è quello della ricerca della migliore valorizzazione dell'età evolutiva, dell'età dell'infanzia, della preadolescenza e dell'adolescenza e, quindi, di quale sia il modo migliore per rispettare l'evoluzione dei bambini e dei ragazzi.
Una questione che ci è stata segnalata è quella dei curricula della scuola secondaria che devono tendere a una maggiore qualità, anche con la previsione delle specializzazioni. Altro tema importante è quello di un percorso professionale che sia parallelo a quello scolastico, dai 14 ai 21 anni. Sempre nel rispetto dell'autonomia e dell'obbligo formativo a diciotto anni, occorre capire quali siano i vincoli da rimuovere per verificare i risultati dell'apprendimento in tale percorso. Da ultimo vi è il tema delle risorse per la formazione degli insegnanti per rendere operativa la riforma. Rispetto ai problemi che ci sono stati rappresentati abbiamo pensato di creare un gruppo ristretto di lavoro formato dai professori Bertagna, Chiosso, Tagliagambe, Colasanto, Bottani e Montuschi. Tale gruppo di lavoro ha avuto da parte nostra l'incarico di riesaminare i problemi citati attraverso audizioni mirate, esami sul campo, gruppi focus, e, quindi, con una metodologia che ci consenta di arrivare, in tempi molto brevi, ad avere una sintesi rispetto alle problematiche e ai nodi da sciogliere. Abbiamo pensato di organizzare quelli che potremmo definire gli stati generali dell'istruzione, finalizzati allo svolgimento di un ampio dibattito rispetto alle proposte che emergeranno da tale rapporto di sintesi. Tutto ciò in tempi molto ristretti e tali da consentirci di poter avviare un percorso parlamentare per eventuali modifiche alla legge n. 30 del 2000, in tempo utile per avviare il prossimo anno scolastico 2002-2003.
Il problema della riforma dei cicli è sicuramente legato anche al ruolo degli insegnanti. Lo stato della docenza da molto tempo non è modificato e riteniamo che debbano essere definite delle funzioni coerenti per valorizzare il ruolo degli insegnanti, con il riconoscimento delle diverse professionalità. Pensiamo che, talvolta, si sia consolidato nella docenza un modello quasi impiegatizio: gli insegnanti sono troppo distratti da pratiche burocratiche e possono dedicare meno tempo alla funzione principale che è l'insegnamento. Vorremmo superare tale modello di lavoro, che non ci sembra coerente con la funzione e con ruolo dei docenti. Un altro aspetto riguarda la tolleranza rispetto a comportamenti, per fortuna estremamente limitati, che non sono coerenti e consoni alla funzione educativa (come peraltro ha affermato la Corte dei conti). Pensiamo di investire risorse sulla docenza, concentrando i riconoscimenti economici e collegandoli agli impegni di tempo e all'arricchimento del profilo professionale. Occorre un ruolo nuovo dei docenti che sia coerente con l'autonomia e pensiamo di realizzare dei codici deontologici che possano tutelare la dignità della funzione insegnante.
Abbiamo anche riscontrato, sempre nei primi incontri che abbiamo avuto, esigenze che provengono naturalmente non solo dal corpo docente. Esiste un problema relativo al contratto collettivo dei dirigenti che, nonostante essi svolgano di fatto funzioni dirigenziali, risulta in una situazione di stallo. Intendiamo concludere tale vicenda contrattuale nel più breve tempo possibile, per consentire ai dirigenti di ottenere il riconoscimento rispetto alla funzione che già svolgono. Pensiamo di bandire un concorso per dirigenti in quanto ciò non avviene da dodici anni e, perciò, ci sembra indispensabile avviare al più presto un nuovo concorso.
Vogliamo naturalmente valorizzare il personale ATA, che svolge attività tecnico-amministrative, e che sicuramente sta dando un grande contributo per l'avvio dell'anno scolastico e delle autonomie.
Per ciò che concerne il mondo della scuola, credo che queste siano le prime esigenze e le prime problematiche emerse. Non penso che esse siano esaustive: sicuramente riceveremo altre segnalazioni. Considero l'incontro con la Commissione


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un momento importante perché sono certa che mi giungeranno indicazioni e suggerimenti, dei quali terrò conto, convinta che la scuola, l'università e, in generale, l'istruzione siano un patrimonio per il paese e, quindi, come tale vadano considerati.
Per quanto riguarda l'università, quando mi sono avvicinata, da un'ottica differente, al mondo dell'università ho trovato obiettivi che erano stati enunciati da tempo. Vorrei semplicemente riaffermare che questi sono i nostri stessi obiettivi. Essi sono semplici, ma vanno interpretati con coerenza. Il primo è aumentare il numero dei laureati, il secondo è ridurre i tempi di conseguimento della laurea, il terzo è garantire sbocchi professionali attraverso una qualità dell'insegnamento universitario che consenta ai ragazzi di trovare lavoro. Credo che l'autonomia didattica debba porsi il problema di raggiungere tali obiettivi. Va recuperata quella dispersione universitaria - che ho citato prima leggendo i dati dell'OCSE - e credo che in ciò debba esserci una azione coordinata tra Governo e mondo universitario.
Il Governo deve rendere più effettiva l'autonomia e credo che le università debbano sempre più associare il concetto di responsabilità a quello di autonomia. Le risorse devono essere indirizzate coerentemente agli obiettivi. Penso che gli studenti, con i loro bisogni, con le loro aspettative ed i loro sogni, anche per quanto riguarda l'università, vadano posti al centro dell'attenzione. Ritengo che da questo punto di vista il passaggio dalla scuola superiore all'università sia molto delicato, troppe volte in tale fase i ragazzi si sentono soli; credo perciò che sia nostro compito essergli vicino al momento della scelta dell'università, che può condizionare la loro vita futura. In tal senso sono convinta che sia necessario introdurre sistemi di accreditamento del prodotto formativo e dei sistemi di certificazione di qualità dei servizi che possano aiutare gli studenti e le famiglie a compiere scelte basate su un'informazione chiara e completa. Ritengo che a volte gli studenti si trovino soli anche all'interno dell'università durante il loro percorso universitario; sarebbe quindi opportuno affiancarli e sostenerli in modo continuativo lungo tutto l'arco della loro carriera universitaria fino al passaggio dall'università al mondo del lavoro.
Questi sono aspetti fondamentali del diritto allo studio, che devono trovare una concreta attuazione. Una vera politica del diritto allo studio deve preoccuparsi non solo di sostenere economicamente gli studenti privi di mezzi, ma anche di valorizzare i talenti migliori. Le nostre università devono inoltre sapere attrarre i migliori studenti stranieri. A questo fine sono essenziali le politiche di mobilità degli studenti sia tra le università italiane, sia tra le nostre e quelle europee, come avviene già nei maggiori paesi dell'Unione, con punte anche del 50 per cento di studenti che frequentano corsi universitari all'estero come nel caso dell'Olanda. Bisogna porre le condizioni per un'internazionalizzazione complessiva delle nostre università, favorendo in tal senso gli scambi e i periodi all'estero, oltre che degli studenti, anche i professori e i ricercatori.
Negli ultimi mesi si è acceso intorno alla riforma avviata dal decreto ministeriale n. 509 del 3 novembre 1999 un vivace dibattito culturale, con richieste di rinvio della sua applicazione. Ho raccolto alcune preoccupazioni rispetto alla formula del «3 più 2». Alcuni temono che la formula del triennio si traduca in una dequalificazione della formazione universitaria, altri in un impianto troppo specialistico e squilibrato verso il «saper fare», a scapito del «sapere» e del «saper essere». Di queste preoccupazioni occorre tenere conto, ponendo attenzione a che l'attuazione della riforma non si traduca in una standardizzazione dell'offerta didattica e in una sua omologazione verso il basso. Riteniamo però che la riforma sia una prima positiva risposta, dopo decenni di immobilismo, ai gravi problemi di efficacia e di efficienza che affliggono le università. Il nuovo quadro normativo innesca un percorso di autoriforma continua dell'offerta formativa degli atenei, il cui successo dipenderà dal modo in cui le


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competenti strutture accademiche interpreteranno tale quadro in sede di concreta regolamentazione dei progetti formativi. In quest'ottica desta preoccupazione il fatto che i corsi di laurea siano stati definiti da molti atenei senza che sia avvenuta quella consultazione costante e puntuale da parte delle università con tutte le forze del mondo produttivo come la legge richiedeva, mantenendo in tal modo anche nel nuovo sistema quel distacco dalle esigenze del mondo del lavoro che l'università italiana dovrebbe invece colmare.
Il Governo intende, pertanto, sostenere le università che vogliono attuare subito la riforma, ed, al contempo, dare la facoltà di differire l'inizio dei corsi di studio a quelle università che sentono l'esigenza di ripensare l'attuazione della riforma. Questo sostanzialmente per tre motivi: in primo luogo, perché alcuni atenei non sono ancora pronti, intendiamo quindi dare loro la possibilità di progettare i corsi con maggiore tempo a disposizione; in secondo luogo, perché altri ritengono - in particolare le facoltà umanistiche - che l'articolazione del «3 più 2» non sia la più idonea per alcune facoltà, e vogliamo che questo argomento sia oggetto di un ulteriore approfondimento; in terzo luogo, il rinvio consentirà di monitorare il processo di riforma al fine di definire standard minimi per l'attivazione di corsi e facoltà.
Una delle criticità maggiori del sistema universitario è quella delle risorse, in particolare per quanto riguarda il diritto allo studio, l'edilizia universitaria e i fondi per la ricerca. Il nostro sistema è finanziato per l'equivalente di 14.267 miliardi di lire, come risulta dai dati OCSE relativi all'anno 1998, spesa media di molto inferiore a quella della Germania (21.502 miliardi) e dell'Inghilterra (21.997 miliardi). Inoltre, il processo di completamento dell'autonomia universitaria, attuata attraverso la riforma della complessiva offerta formativa, in linea con gli orientamenti europei, rende improcrastinabile un incremento del fondo di finanziamento ordinario. Occorre potenziare la ricerca universitaria, anche con adeguati investimenti e in questa ottica va incrementato il numero dei dottorati di ricerca e ne vanno attentamente monitorate le ricadute professionali e la qualità, evitando una mancanza di collegamento tra il mondo produttivo e la ricerca. È inoltre necessario avviare azioni preordinate all'adeguamento delle strutture edilizie e delle attrezzature didattiche e scientifiche, attraverso un rilancio della politica degli investimenti del settore dell'edilizia universitaria. Al fine di assicurare il concreto raggiungimento degli obiettivi prima indicati, andrà costantemente monitorata l'efficienza e l'efficacia dell'organizzazione della didattica; in tal senso è centrale l'apporto del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, che va potenziato e rafforzato. Occorre inoltre superare il sistema dei controlli preventivi di tipo burocratico, attualmente affidati alla struttura centrale del ministero ed al CUN, che creano rigidità e non ci sembrano coerenti proprio nell'aspetto più delicato e importante, quello della definizione dei percorsi formativi secondo la legge n. 127 del 1997.
Le risorse andranno complessivamente incrementate, ma in modo strettamente finalizzato al perseguimento di obiettivi essenziali e di incremento della qualità.
Anche per quanto riguarda l'università ci sembra necessaria una riflessione sui docenti, in particolare in materia di reclutamento, che va disciplinato in termini tali da consentire agli atenei di scegliere docenti di qualità. Sembra opportuno in ogni caso, in considerazione della inefficacia dei meccanismi dei concorsi recentemente riformati, segnalata dagli atenei, provvedere ad una urgente azione di rettifica normativa recuperando il sistema del vincitore unico in luogo del vigente sistema dei due candidati idonei.
Al settore della ricerca il Governo affida un ruolo di particolare importanza per il conseguimento dell'obiettivo di modernizzazione del paese. Il settore della ricerca deve contribuire in modo determinante allo sviluppo della capacità competitiva del comparto produttivo attraverso il continuo affinamento del suo livello tecnologico; occorrerà elevare la capacità formativa dei docenti universitari, chiamati


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tutti ad affiancare all'attività didattica una valida attività di ricerca e diffondere nel tessuto connettivo della nostra società la cultura scientifica e tecnologica, attualmente così poco presente.
Il Governo ritiene pertanto necessario ed urgente un profondo rinnovamento del settore della ricerca. Una sfida difficile se si tiene conto che nell'ultimo decennio la spesa della ricerca in Italia, partita da un valore nettamente inferiore a quella dei principali paesi europei, si è ulteriormente ridotta, in particolare è fortemente sottodimensionata la spesa per la ricerca di base; la parte pubblica del settore della ricerca italiana è afflitta ormai da molti anni da gravi patologie, quali dispersione a pioggia delle risorse, eccessivo invecchiamento della popolazione dei ricercatori. Nel settore della ricerca industriale italiana è in atto un drammatico ridimensionamento dell'attività dei centri di ricerca di grande società; inoltre non poche medie industrie, prima attive nel campo della ricerca, una volta acquistate da società multinazionali, stanno trasferendo i loro laboratori all'estero, dove le condizioni sono più favorevoli, mentre invece la quasi totalità delle PMI, così importante nella struttura economica italiana, non hanno rapporto alcuno con la ricerca. Il mercato del lavoro per i ricercatori, oltre ad essere sottodimensionato ed esposto al processo di invecchiamento degli addetti, offre prospettive che non lo rendono attrattivo e competitivo per i giovani; non si è prestata finora la necessaria attenzione a sviluppare presso i nostri ricercatori un'adeguata sensibilità e capacità di valorizzare a fini economici e sociali i risultati ottenuti in laboratorio. L'Italia si colloca nelle ultime posizioni della graduatoria dei paesi industrializzati per quanto riguarda la quota di valore aggiunto prodotto dai settori high-tech sul totale manifatturiero e l'incidenza dell'export high-tech sull'export manifatturiero.
Per superare l'attuale insoddisfacente situazione, il Governo intende porre in essere una molteplicità di azioni, che riguarderanno tutto l'articolato e complesso arco del settore della ricerca. Tali azioni, pur variamente posizionate nel tempo, verranno opportunamente coordinate tra loro, nella visione del settore come macrosistema integrato. Il fine è quello di promuovere la presenza italiana nei settori di alta tecnologia: aeronautica, spazio, difesa, informatica, energia, telematica, biotecnologia e nuovi materiali.
In particolare la spesa pubblica per la ricerca verrà gradualmente elevata nel quinquennio fino ad essere portata al livello degli altri grandi paesi europei, cioè all'1 per cento del PIL; tale elevazione consentirà ai nostri ricercatori di sfruttare pienamente le risorse messe a disposizione nell'ambito del sesto Programma quadro di ricerca dell'Unione europea, risorse che, come è noto, sono condizionate allo stanziamento di pari finanziamenti nazionali. In generale verrà potenziata nel comparto pubblico la funzione di committente della ricerca con una verifica durante lo svolgimento della ricerca e dell'utilizzazione dei risultati successivamente alla sua conclusione. Verranno introdotte, nelle disposizioni che regolano l'accesso ai fondi pubblici e la loro gestione, tutte le innovazioni necessarie a semplificare e velocizzare gli adempimenti burocratici, che rappresentano uno dei motivi per i quali le nostre imprese spostano i centri di ricerca all'estero. Vogliamo infatti facilitare tutte le iniziative, incentivando anche la ricerca privata attraverso la creazione di consorzi in ambiti specialistici che sappiano attirare l'attenzione di grandi società nazionali e internazionali, di società di venture capital e di grandi università, seguendo l'esempio di paesi come Israele. La funzione di questi consorzi sarebbe quella di «incubatore» di idee innovative in un campo particolare, in modo da facilitarne la valorizzazione industriale.
Un altro tipo d'iniziativa ritenuta interessante nelle situazioni territoriali caratterizzate da un lato da ricchezza di iniziative high-tech in un dato settore, dall'altro da debole coordinamento tra tali iniziative, è quella del distretto high- tech, che dovrà saper promuovere attraverso un'adeguata leadership un'aggregazione forte tra tutti gli attori interessati, finalizzata


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alla realizzazione di un numero limitato di progetti importanti. Il Governo faciliterà il più possibile l'instaurarsi tra pubblico e privato di collaborazioni, sinergie, trasferimenti di conoscenze e di ricercatori.
In sintesi ciò che si propone il Governo è di giungere nel quinquennio ad una spesa complessiva italiana in ricerca e sviluppo allineata agli standard quantitativi e qualitativi dei principali paesi europei (2 per cento del PIL), venendo così a corrispondere agli indirizzi formulati dal Parlamento europeo.
Consapevole che da questo dibattito potranno provenire suggerimenti e indicazioni che arricchiranno sicuramente le linee del nostro programma, vi ringrazio in anticipo per il vostro apporto.

PRESIDENTE. Ringrazio il ministro per lo spirito ed il tono con il quale ha presentato la sua relazione alla Commissione. Sarebbe sicuramente un serio problema se la scuola divenisse il pretesto per una contesa politico-ideologica e non il terreno per un confronto di opinioni che abbia a cuore il futuro del paese. Credo che a questo stesso spirito e a questo stesso tono si debba ispirare l'intera classe politica e parlamentare nell'affrontare il lavoro su quello che rappresenta il nervo portante per il futuro di qualsiasi società.
Passiamo ora agli interventi e alle domande che i membri della Commissione intendono rivolgere al ministro.

GIUSEPPE GAMBALE. Signor ministro, anch'io la ringrazio per il tono della sua relazione, sicuramente diverso da quello di altri suoi colleghi, sia in questa sia in altre Commissioni, fatto che rilevo con piacere. È difficile dissentire dalle sue parole dopo un intervento del genere, perché non si può non essere d'accordo su tutti punti che lei ha appena elencato. Tutto ciò da una parte suscita ottimismo, dall'altra invece preoccupa, perché non sono certo che discutendo quelli che definirei i sottocapitoli dell'indice da lei presentato saremo veramente d'accordo: il tempo ed il confronto ci aiuteranno poi a capirlo.
Non è facile entrare nel complesso mondo della scuola, lo dico per esperienza personale sia pure rivestendo minori responsabilità. Credo quindi che le occorrerà un po' più di tempo per riuscire a comprendere che tante delle cose che lei ha proposto, e che noi condividiamo, sono già realtà grazie alle riforme attuate nella scorsa legislatura.
Con riferimento ai livelli bassi di scolarizzazione nel nostro paese, cui prima accennava il ministro e di cui tutti, purtroppo, siamo a conoscenza, non dobbiamo dimenticare che esiste già un intervento che è stato posto in essere, anche se certamente ci sono spazi per incrementarlo e migliorarlo. Il centrosinistra ha dato vita, anche in via legislativa, al sistema integrato di formazione che comprende il sistema istruzione, il sistema formazione professionale e l'offerta non formale: il grande tema dell'educazione degli adulti. Anche se fosse stato un tipo di intervento insufficiente, comunque abbiamo dato una risposta; eventualmente si tratterà di potenziarla. Sicuramente i livelli con cui questa risposta è cresciuta sono stati esponenziali. In due anni i centri territoriali permanenti di educazione per gli adulti sono passati da 40 a 400 e, poi, a 700. La dottoressa Nardillo, che ha istruito e successivamente seguito tutta questa fase, ha svolto un lavoro enorme insieme a tanti altri soggetti della società civile che operano sul territorio.
Sarebbe certamente presuntuoso dire che abbiamo fornito la «risposta» al problema: si tratta di una delle possibili risposte, anche se sicuramente significativa e importante. Peraltro, queste non sono problematiche che si risolvono in breve tempo, come lei certamente saprà; si tratta bensì di riforme strutturali che necessitano di tempo adeguato, affinché si possano vedere i risultati concreti.
Lei, signor ministro, prima diceva che il mondo della scuola e quello del lavoro sono sempre più lontani. In questi anni, il centrosinistra ha cercato di avvicinarli, introducendo anche aspetti fortemente innovativi, dapprima con il Governo Prodi e successivamente con i governi D'Alema e


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Amato. L'idea di inventare un percorso integrato post diploma, l'IFTS per avviare una collaborazione in percorsi nuovi, tra scuola e università da una parte, e mondo della produzione e del lavoro dall'altra, ha rappresentato certamente una delle risposte possibili per avvicinare queste due realtà. Sappiamo tutti che spesso i ragazzi fuoriescono dal mondo scolastico e poi si scontrano con una realtà professionale completamente sconosciuta, ma credo che, sotto questo aspetto, delle risposte al problema siano state date.
Con riferimento a quanto detto dal ministro sul tema dell'organizzazione, con l'obiettivo di perseguire un disegno complessivo che integri il centro, le regioni, e le scuole autonome, vorrei dire che si dovrebbe dare efficacia ed efficienza alla riforma già approvata. In effetti, il Ministero della pubblica istruzione è uno dei pochi che è stato riformato e che si sta tutt'ora riformando. Il ministro avrà probabilmente già incontrato i direttori regionali, i quali avranno espresso le difficoltà, le incertezze e il fatto che i centri di spesa non sono ancora operativi, in quanto disporranno di risorse finanziare soltanto a partire dal primo gennaio prossimo, a meno che non decidiate di intervenire diversamente. Però, la vostra idea di capovolgere una piramide - e il Ministero della pubblica istruzione è anche fisicamente e plasticamente l'immagine della burocrazia centralizzata - è già stata nostra. Tuttora essa si presenta come una struttura ancora fortemente burocratizzata, dal momento che il percorso è solo iniziato, laddove invece la mentalità - di cui il provveditorato agli studi ne era forse il simbolo con tutta la montagna di fascicoli cartacei accumulati nelle sue stanze - la si cambia più difficilmente e più lentamente. La vostra intenzione di continuare nell'opera da noi intrapresa ci rende ben contenti e sappiate che ci troverete comunque al vostro fianco ogni qual volta si tratterà di snellire la parte burocratica per andare verso una gestione regionale dell'apparato burocratico.
La sua relazione, signor ministro, è stata una enunciazione di principi, su gran parte dei quali siamo d'accordo, in quanto rappresentano la continuazione di ciò che già noi abbiamo fatto in questi cinque anni appena trascorsi. Piuttosto, è su ciò che verrà che avremo, com'è normale che sia, probabilmente opinioni diverse e proprio su quelle dovremo approfondire il confronto politico e istituzionale in questa Commissione.
Con riguardo al tema dell'autonomia, cui prima il ministro accennava, vorrei dire che mi aspettavo qualcosa in più, anche nel documento di programmazione economico-finanziaria. Il ministro sostiene che dobbiamo mantenere i curricula nazionali e poi dare lo spazio giusto alle altre istanze perché l'Italia è una realtà molto diversificata, è il paese delle regioni e delle cento città. Ebbene, siamo pienamente d'accordo: l'idea che il piano di offerta formativa contempli al suo interno un 15-20 per cento di offerte che ogni singolo istituto può predisporre, riflette infatti una realtà già esistente. Perciò condivido lo spirito e gli obiettivi di questa proposta, così come condivido la considerazione del presidente sul fatto che la scuola sia patrimonio di tutti e che non debba essere, pertanto, oggetto di scontro politico o, perlomeno, di faziosità politica. Per questo motivo nel dibattito sulla fiducia al Governo Berlusconi sono intervenuto esprimendo apprezzamento per il suo silenzio, signor ministro, nei confronti delle esternazioni rese da alcuni suoi colleghi, i quali nei primi giorni di vita del Governo, non essendo ancora titolari di deleghe particolari, si sono occupati in maniera eccessiva della scuola dichiarando che il Governo avrebbe bocciato la riforma dei cicli e così via. In questo momento, ascoltando le sue parole, signor ministro, comprendiamo che non vi è nessuna intenzione di bloccare la riforma dei cicli scolastici, che è ormai entrata nella mentalità e nella vita quotidiana della scuola. Sarà forse opportuno inserire alcune modifiche: in tal caso saremo presenti per ragionare e per portare il nostro contributo.
Sul tema dell'autonomia, comunque, siamo convinti che la grande riforma sia stata la stessa autonomia ed è proprio


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questo aspetto che va potenziato; se infatti è sicuramente vero che la scuola italiana vive un periodo di grande sofferenza, è altrettanto vero che essa è dotata di grandi potenzialità. Ad esempio, vorrei ricordare che la scuola del Mezzogiorno, forse afflitta da maggiori difficoltà, è stata l'unica realtà capace di utilizzare tutti i fondi stanziati dall'Unione europea, laddove tanti altri settori non sono invece riusciti a farlo. E difatti, l'Unione europea ha aumentato le risorse a disposizione della scuola, proprio perché è l'unico settore che è riuscito ad investirle.
Un altro tema delicato, su cui il ministro si è soffermato nella sua relazione, è che lo Stato non può essere l'unico soggetto che si fa carico della formazione del capitale umano. Sotto tale profilo, la legge n. 62 del 2000 ha aperto la strada del sistema pubblico integrato. Il centrosinistra è favorevole al mantenimento di un sistema di istruzione pubblico che sia, allo stesso tempo, pienamente integrato. Un sistema, dunque, in cui lo Stato, in base all'attuale dettato costituzionale, svolga la sua parte e nel quale, oltre al soggetto pubblico vi sia, con pari dignità, un pluralismo di offerta formativa proveniente sia da soggetti religiosi (di qualsiasi religione) sia da soggetti laici. Da questo punto di vista, rivendichiamo con forza che dopo 40 anni siamo riusciti, con il Governo Prodi e con quelli che si sono susseguiti, ad aprire la strada a questa importantissima riforma. Se la vostra idea è quella della partecipazione, in questo sistema di istruzione pubblico, di soggetti esterni allo Stato, siamo disponibili, anche perché si tratta di un percorso già avviato dal centrosinistra. Non a caso nel decreto-legge attualmente in discussione, anche se esprimiamo forti preoccupazioni e perplessità per la soluzione trovata per l'avvio dell'anno scolastico, vi è un passaggio normativo relativo al riconoscimento dell'eguale punteggio delle scuole paritarie, che ci trova favorevoli; è giusto, infatti, che gli insegnanti che lavorano in queste scuole abbiano un uguale trattamento rispetto al riconoscimento dell'attività da loro svolta.
Esprimiamo, invece, perplessità rispetto all'agenzia esterna di valutazione, con riferimento alla quale questo pomeriggio sarà rivolta, in aula, una interrogazione a risposta immediata al Governo.
Personalmente mi spaventa sentir parlare di agenzie «autonome». Ritengo, infatti, che si siano già prodotti gravi danni, per la nostra democrazia, con l'istituzione di tutte le Authority possibili e immaginabili: in un sistema democratico le Authority non servono, perché esistono già il Parlamento e il Governo e dobbiamo cercare di trovare proprio in essi le adeguate forme di controllo. Più Authority istituiamo, più deleghiamo non so a chi, a cosa e dove, il potere di controllo rispetto a questioni anche importantissime che possono riguardare vari settori della vita del nostro paese. Vorrei in proposito far presente che già esiste un istituto per la valutazione, peraltro riformulato recentemente. Mi lascia perplesso, e vorrei comprendere meglio, quanto scritto nel DPEF dal quale risulta che vengono destinate risorse alla creazione dell'agenzia autonoma che dovrà anche valutare i risultati raggiunti e l'operato dei docenti. Su questo argomento esistono, pertanto, da parte nostra perplessità e vorremmo capire meglio quale sia il vero obiettivo della suddetta agenzia.
La scuola, infatti, è già uscita dalla sua autoreferenzialità, perché si è già messa in discussione con altri soggetti. L'introduzione di aspetti innovativi, come ad esempio i «poli per la qualità», avviati in alcune zone del paese insieme all'Unione industriali e, più in generale, al mondo della produzione, sono tutti aspetti che hanno già posto la scuola in discussione con il mondo esterno. Quindi, in tal senso le riforme sono state già avviate e devono solo essere portate avanti affinché vi sia un rapporto sempre più stretto tra il mondo della scuola e quello dell'università. Sotto questo aspetto, l'aver unificato i due ministeri, quello della pubblica istruzione e quello dell'università, rappresenta per noi un punto molto importante, perché ci deve essere una guida unica nel sistema di istruzione e di formazione sia


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dal punto di vista scolastico, sia da quello universitario: non possono esistere due settori separati.
Sul tema della formazione professionale, sul quale il ministro si è soffermato, vorrei dire che l'obbligo formativo fino a 18 anni rappresenta un risultato importante, già avviato e da potenziare attraverso la creazione di nuovi strumenti per dare attuazione a questa realtà. Però, ripeto, sono aspetti, comunque, positivamente già posti in essere.
Voglio sottolineare che siamo qui per fare opposizione e la faremo in modo anche duro quando sarà necessario, però la faremo con lo stile e con il vigore di chi si sente forza di governo.
Pertanto, l'invito che rivolgo al ministro, dal momento che è venuto in Commissione con un tono e con uno stile molto positivo che aiuta certamente la discussione ed il confronto, è il seguente: che possa diventare il più possibile continuatore di un'azione di governo. Mi rendo conto che rappresentate un altro schieramento politico e avendo vinto le elezioni, porterete avanti il vostro programma in conformità alla volontà degli elettori. Ma quando noi del centrosinistra abbiamo cominciato nel 1996 a governare il paese, pur avendo trovato un'Italia allo sfascio, non abbiamo scaricato le nostre responsabilità su altri: sul debito pubblico, su chi l'aveva creato e così via. Abbiamo detto, all'epoca, che era opportuno guardare avanti perché c'era l'Europa che ci attendeva. Pertanto, la invito, signor ministro, a capitalizzare quanto è stato già fatto e a considerarlo un patrimonio del paese: anche la scuola è patrimonio di tutti. Capitalizzi - ripeto - quanto è stato già fatto di positivo, poi avremo modo di guardare avanti; in futuro ci saranno aspetti sui quali certamente ci divideremo, discuteremo e ci confronteremo in quanto il vostro orizzonte non coinciderà con il nostro. Ma quando le mete e gli obiettivi saranno comuni, ci troverete sicuramente al vostro fianco, proprio perché la scuola è - ripeto - patrimonio di tutti.
In conclusione, le vorrei far presente, signor ministro, che ha compiuto un atto sul quale vi è la nostra ferma contrarietà: il ritiro del ricorso presentato alla Corte costituzionale nei confronti della decisione adottata dalla regione Lombardia sul buono-scuola. Riteniamo si sia trattato di un atto pesante e vorremmo che alcuni principi contenuti nel dettato costituzionale vigente, vengano mantenuti e rispettati. Poi, ripeto, ognuno potrà comportarsi come vuole introducendo nell'ordinamento tutte le innovazioni che ritiene opportune. Ricordo che su quell'atto abbiamo assunto una posizione fortemente divergente e critica che mi permetto di sottolinearle, signor ministro, in modo che nella sua replica possa fornirci l'occasione per un maggiore approfondimento.

GIORGIO GALVAGNO. Consapevole del fatto che per i nostri interventi sono previsti pochi minuti, non intendo utilizzare tutto il tempo, molto autorevolmente impiegato dal collega che mi ha preceduto.
Vorrei dire, in primo luogo, che ho apprezzato gli obiettivi e la filosofia che hanno ispirato l'intervento del ministro sui vari argomenti: sul ruolo della scuola, sull'analisi globale del rapporto con la società, con l'economia, con lo sviluppo, in una visione antropocentrica della funzione scolastica e così via.
Sui principi generali nel campo dell'educazione scolastica, dell'università e della ricerca sono d'accordo e convinto che questa sia la strada giusta da percorrere, senza lasciarsi prendere dal desiderio di mettersi necessariamente tutti d'accordo. Esiste una linea programmatica, illustrata al nostro elettorato, che le parole del ministro hanno ben indicato.
Sono consapevole che sui temi generali si rischia di essere sempre tutti d'accordo, perché sono talmente generali che è difficile non condividere la valorizzazione dell'uomo nei suoi vari aspetti; il problema sorge quando si procede alla scelta dei metodi. In proposito, in base all'intervento dell'onorevole Gambale che mi ha preceduto, possiamo già constatare che di fronte ad alcuni aspetti, che hanno leggermente modificato l'impostazione originale, vi è una posizione di contrarietà:


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pertanto non c'è da illudersi; anche perché il tema della scuola rappresenta un terreno di scontro politico, purtroppo è negativo che sia così, ma dobbiamo prenderne atto. È uno dei campi sui quali si è maggiormente scatenato il dibattito ideologico, producendo i maggiori danni; sono, pertanto, d'accordo sull'invito ad essere molto prudenti nel trattare questo tema.
Occorre anche avere il coraggio di rinunciare a qualcosa per non essere troppo ideologici nell'affrontare tali argomenti; purtroppo, vorrei far notare che è stato proprio il Governo precedente che ha dato un certo taglio di tipo ideologico alla gestione delle problematiche del mondo dell'istruzione.
Trovandomi, quindi, pienamente d'accordo con quanto detto dal ministro, vorrei ora accennare ai metodi che verranno utilizzati per raggiungere questi risultati.
Lei, signor ministro, ha proposto di ispirarsi, nel mondo della scuola, a metodi che esaltino la libertà; ricorrendo a scelte educative anche di tipo diverso e con il coinvolgimento del settore privato: non può esserci infatti il monopolio dello Stato nell'educazione. Ha parlato anche della tolleranza che deve avere la scuola pubblica, dove deve trovare spazio il pluralismo. Deve esserci libertà all'interno della scuola e, altresì, libertà di scelta fra differenti sistemi educativi. Ha parlato, inoltre, dell'esigenza di riportare la scuola ad una nuova forma di serietà. Su questo tema, essendo stato insegnante nella scuola superiore per tanti anni, posso dire di aver fatto un'esperienza completa. Devo confessare che l'abbassamento del livello qualitativo della scuola, verificatosi negli ultimi anni, non è stato veloce e repentino, bensì costante e sistematico. Oggi la scuola è molto dequalificata; un ragazzo che esce con il diploma attuale è un giovane che ha frequentato una buona scuola media inferiore.
Una volta la scuola media aveva, per certi aspetti, quasi gli stessi contenuti della scuola superiore di oggi. Qualcuno mi dirà che sono esagerato, ma provi ad andare a scuola! Non so quanti in quest'aula abbiano insegnato: bisogna stare con i ragazzi e seguirli continuamente, per rendersi conto di cosa vuol dire fare una domanda e sentirsi rispondere «vado a pescare». Gli studenti poi vengono promossi: questa è la realtà.
Sono d'accordo sull'obiettivo di elevare la cultura generale, anche se ciò comporta un abbassamento del livello medio (è successo in tutti i paesi). La scolarizzazione va favorita e vanno aiutati i ragazzi e lei, signor ministro, lo ha detto, ma vi è un momento nel quale di fronte a questo bisogno di massa (che significa aumentare il numero di giovani ammesso alla scolarizzazione superiore) occorre introdurre anche i requisiti di eccellenza e qualità, altrimenti non verrà mai perseguita. Essa non è presente per esempio all'università perché si attuano cicli di studio strani. L'attuale modello è pericoloso: se non vi è la qualità il mondo del lavoro, invece di accogliere i giovani, li rifiuta («sei stato a scuola e allora rimani a casa»). Qualità e serietà significano che lo studio è anche qualche cosa che si svolge solitariamente. Ai ragazzi bisogna far capire che lo studio non è soltanto quello con il computer, con il gruppo, con l'interazione, ma che vi è anche uno studio solitario, laborioso e faticoso - come abbiamo fatto tutti - attraverso il quale ognuno matura e apprende. Occorre, quindi, valorizzare il momento della selezione e della prova: la vita è fatta di prove.
Ora farò un'affermazione per la quale qualcuno dirà che sono out: vi rendete conto, signor ministro, signori sottosegretari, di cosa sono diventati nelle scuole i corsi di recupero che abbiamo tanto caldeggiato? Qualcuno tra voi ha svolto corsi di recupero e sa cosa sono? È qualcosa di vergognoso. Ad esempio, molte scuole attuano il corso di recupero di italiano in questo modo: si abolisce una settimana di scuola per svolgere il corso di recupero, in modo che gli studenti bravi stanno a casa e invece quelli che devono recuperare vanno a scuola. In tale modo, però, si riduce il numero di ore di italiano rispetto a quello del corso curriculare: è bene che queste cose si sappiano.


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Il bambino e il ragazzo hanno dei cicli di crescita intellettuale e culturale diversi l'uno dall'altro. Io, ad esempio, sono andato all'università e mi sono trovato molto bene, ma amavo studiare anche d'estate. Vi era chi studiava tanto e alla fine dell'anno veniva promosso, mentre io sfruttavo l'estate per fare qualcosa. L'elasticità e la flessibilità della scuola, che noi tanto invochiamo, erano forse meglio raggiunte attraverso gli esami di riparazione e il problema di prendere lezioni private e pagare un professore potrebbe essere risolto con una articolazione della scuola che consenta ad uno studente di apprendere in sei mesi, ad un altro in sette, ad un altro ancora in otto. Ciò vale anche per i cicli scolastici: chi ha detto che per ottenere un diploma occorre impiegare quattro anni? È una forzatura, è una violenza che si compie nei confronti di menti un po' più rigide o con uno sviluppo leggermente più problematico. Occorre attuare la flessibilità con serietà: vi è chi ci mette un po' più tempo, chi un po' meno. Concludo osservando che ho voluto banalizzare alcuni argomenti: vi sono persone che espongo benissimo i loro argomenti, con una organicità ed una compiutezza terminologica che lascia incantati, ma che nella pratica producono nella scuola i disastri dei quali pagheremo, e stiamo pagando, le conseguenze.

ANTONIO RUSCONI. Mi associo ai ringraziamenti espressi dal mio capogruppo, onorevole Gambale. Ritengo che l'inizio dell'attività sia estremamente positivo. Voglio, però, svolgere alcune considerazioni che non intendono essere critiche, perché sarebbe superficiale e fuori luogo. Sono molto coinvolto emotivamente perché, per la prima volta dopo tanti anni, a settembre non tornerò a scuola ad insegnare. Mi scuso anticipatamente, ma alle 17 dovrò assentarmi anch'io per partecipare ai lavori dell'Assemblea. Per la prima volta cerco di capire cosa possiamo fare per coloro che sono rimasti nella scuola, per i miei colleghi che venerdì incontrerò di nuovo, cercando veramente di evitare ogni polemica sul prima e sul dopo: lo faranno i nostri leader politici e, poiché non appartengo a questa sfera, l'argomento non mi appassiona.
Voglio cominciare da un interrogativo: la scuola può diventare per lo Stato una priorità? Questo è il primo problema, poiché quando parliamo delle risorse tutti riteniamo che debbano essere prelevate da qualche altra parte. Se davvero la scuola diventa per noi un investimento e una speranza, penso che nessuno possa essere in disaccordo riguardo al fornire più risorse alla scuola, poi possiamo discutere come farlo.
Non mi soffermo sul tema della ricerca in quanto sono completamente d'accordo con la relazione del ministro. Mi ha fatto piacere quanto ha detto il ministro a proposito dell'università. Ho avuto recentemente un'esperienza estremamente positiva: tutti i rettori delle università lombarde, attraverso Assolombarda, il presidente Benedini, il presidente Perini, hanno incontrato lunedì 9 luglio i parlamentari lombardi (eravamo 17 ma dovevamo essere di più, almeno per una questione di scaramanzia). È stato chiesto un tavolo comune tra rappresentanti delle istituzioni e parlamentari della regione Lombardia e, benché conoscessi per vicende legate al mio territorio soltanto i professori De Maio e Secchi, ho trovato estremamente utile portare avanti tale strumento. Si è preso atto di come gran parte degli istituti cosiddetti tecnici (Bocconi, Politecnico) si fossero di fatto già adeguati alla riforma. Illustrerò dunque alcune questioni emerse durante l'incontro. Mi sembra che nell'immaginario collettivo vi sia un dato sbagliato: si ritiene che la laurea in 3 anni (che a mio avviso è estremamente positiva perché cerca di eliminare un disagio tipicamente italiano, e cioè la dicotomia tra quanti si iscrivono e quanti concludono il corso universitario) sia una sorta di laurea di serie B. Ciò è sbagliato e ed è anche l'obiettivo, dal punto di vista della comunicazione, sul quale lavorare per far capire che non si tratta della laurea dei poveri, ma di un obiettivo importante.
Il secondo dato riguarda il reclutamento dei docenti: come mai tanti bravi


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laureati, tanti «cervelli» (in questo caso lombardi) vanno ad insegnare ed a fare carriera presso università estere? Ciò non è vietato, ma esprime comunque un disagio.
Per quanto riguarda il terzo argomento, so di toccare un punto molto delicato: il valore legale dei titoli che è correlato a quello degli albi professionali. Lei, signor ministro, non ne ha accennato ed io non ho la soluzione (quindi, da questo punto di vista la rassicuro) del problema che, indubbiamente, è legato - ripeto - a quello ancor più delicato degli albi professionali, in quanto tutti siamo favorevoli all'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, a responsabilizzarli, a creare nuove possibilità, però mi sembra che oggi i due dati non corrispondano.
Per quanto concerne la scuola superiore, premetto che sull'attuazione della legge n. 62 del 2000 sono completamente d'accordo con il mio capogruppo, onorevole Gambale. Le risorse, però, sono state previste soltanto per le scuole materne e elementari, mentre rispetto alle altre, che peraltro sono le più costose, occorre sapere se si prevedono risorse aggiuntive. D'altra parte, vorrei evidenziare perché, pur essendo in principio favorevole al buono-scuola, sono contrario alla riforma della regione Lombardia? Perché essa rischia di premiare i diplomifici rispetto alle scuole serie e paritarie. Sono insegnante di ruolo da 16 anni, dal 1986, presso un istituto statale, ma ho avuto l'onore di insegnare anche per due anni in un collegio arcivescovile: l'istituto dove ho lavorato in tutti questi anni è una scuola molto seria, anche se ai ragazzi dicevo scherzando: «Guardate che dovete impegnarvi per farvi bocciare da noi». Ricordo che ogni anno accadeva che alunni del terzo anno con parecchie insufficienze a febbraio cambiassero istituto, andassero cioè in uno di quei diplomifici che sarebbero premiati dalla riforma Formigoni; in quattro mesi recuperavano due anni e non riuscendo a darmi una risposta seria dal punto di vista didattico immaginavo gite scolastiche a Lourdes. Dico ciò pur credendo pienamente nella parità scolastica e nella libertà educativa.
Vi è poi un secondo motivo per il quale siamo critici verso la riforma Formigoni. Ho dovuto frequentare sempre scuole statali in quanto le condizioni della mia famiglia erano tali che, pur preferendo scelte di libertà educativa che andavano in altra direzione, non ammettevano altre possibilità. Ora, destinare il 20 per cento a tutti, soprattutto a chi spende di più, posto che le risorse sono limitate, significa dare lo stesso contributo in modo indistinto. Il principio è giusto poiché dovremo arrivare al punto che tutti gli insegnanti e tutte le scuole sia statali, sia paritarie siano pagati dallo Stato. Essendo le risorse limitate, attribuire lo stesso contributo a chi ha un reddito familiare di 60 milioni e a chi ne ha uno di 200 milioni, trattare cioè ugualmente realtà diverse, contribuisce ad aumentare le diversità. Ritengo peraltro che tutte queste scuole siano pubbliche, perché svolgono una funzione pubblica, come affermato molto chiaramente dalla legge n. 62 del 2000. Condividiamo pienamente tale legge, ma ciò non significa - come qualcuno ha detto - assegnare un ruolo residuale alla scuola statale. Chi, come me, ha insegnato, fino a pochi mesi fa, nella scuola superiore statale è pieno di incertezze alle quali non è possibile aggiungere ulteriori incertezze.
Rispondo al collega che mi ha preceduto precisando che ho grande stima degli insegnanti e che la scuola italiana talvolta ha funzionato bene nonostante le leggi dello Stato. Vi è stata una demonizzazione del personale insegnante ed un'umiliazione del tutto immeritata, mentre occorre rivalutare il ruolo del docente anche dal punto di vista remunerativo: dopo 16 anni di ruolo il mio ultimo stipendio è stato 2.220.000 lire, e lei, signor ministro, capisce che il mio status di parlamentare ha notevolmente migliorato questa condizione. Insegno presso un istituto tecnico per ragionieri nel quale il docente di diritto è laureato in legge, quello di economia aziendale è laureato in economia e commercio. Quali motivazioni possiamo


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dare ad un giovane laureato con i migliori voti per convincerlo ad impegnarsi nella scuola, visto che dovrebbero essere i migliori ad insegnare? Nell'immaginario collettivo non è così, e tale dato ci deve preoccupare fortemente. Quando sono entrato in ruolo, peraltro, vi erano i cosiddetti benefit che, considerati ingiusti, sono stati eliminati, ma la considerazione e lo stipendio sono rimasti uguali. Voglio citare il caso di una mia collega che insegna economia aziendale: nel 1992 per scelta familiare ha lasciato l'Unione industriali, dove aveva un ruolo di responsabilità, per insegnare economia aziendale (non aggiungo altre considerazioni al riguardo, che lascio immaginare).
Un aspetto che lei ha toccato marginalmente è quello del cosiddetto doppio binario della formazione professionale. Tra forze di centrosinistra e forze di centrodestra abbiamo forse valutazione diverse. L'argomento mi interessa almeno in termini di confronto, ma pongo un problema: come si fa a credere nel doppio binario - e io lo posso anche fare - di fronte a due situazioni di fatto, che ora illustrerò? Dall'Italia centrale in giù la formazione professionale è stata praticamente abbandonata dalle regioni e nella stessa Lombardia vi sono stati «tagli» di risorse del 15 per cento negli ultimi due o tre anni, obbligando i centri ad inseguire, con difficoltà enormi, i fondi sociali europei. Sono convinto che uno degli aspetti che non funzionano della riforma varata dal mio Governo è il fatto che i ragazzi sono inutilmente parcheggiati per un anno nella scuola superiore, senza peraltro nessuna alternativa. Vi sono le convenzioni con i centri di formazione professionale e ritengo che ciò sia un argomento da approfondire; dobbiamo evitare la scontro tra due scuole di pensiero, senza argomenti validi, altrimenti rischiamo di condurre una battaglia ideologica senza un confronto costruttivo.
Per quanto riguarda la riforma dei cicli, sulla quale do una valutazione in gran parte positiva, faccio un appello bipartisan: perchè non avviamo la riforma almeno per gli elementi del biennio iniziale che rappresentano un dato di innovazione e di modernizzazione, come l'inglese e l'informatica? Vi sono, cioè, alcuni aspetti della riforma dei cicli sui quali siamo tutti d'accordo. Perché non investire nell'innovazione? Mi sembra che nella scuola vi sia una preoccupazione forse eccessivamente tecnologica, mentre non dimenticherei l'aspetto educativo. Chi, come me, ha insegnato ed ha la preoccupazione di non sostituirsi al ruolo della famiglia, nota la carenza, nella scuola superiore, di figure come, ad esempio, quella dello psicologo. Riguardo a tali carenze noi insegnanti abbiamo una preparazione inadeguata: possiamo frequentare tutti i corsi di aggiornamento, ma rimarremo inadeguati.
Voglio illustrare ancora due punti prima di concludere, chiedendo scusa per la lunghezza del mio intervento. Spero che anche il ministro sia contrario ad alcune proposte di scuole regionali. Vengo da Lecco e sono fiero che il Manzoni venga insegnato in tutte le scuole d'Italia, che I promessi sposi sia un testo ancora obbligatorio nel biennio della scuola pubblica, come sono altrettanto fiero di spiegare, al quinto anno della scuola superiore, Pirandello. Dico ciò perché, parafrasando Croce, vorrei che tutti affermassimo «perché non possiamo non dirci italiani»: in questo momento, sarebbe già molto.
Per quanto riguarda il federalismo, possiamo trovare la risposta più vera nella volontà che abbiamo di fornire una reale autonomia, anche gestionale, a tutte le scuole.

ALBA SASSO. Nel ringraziare il ministro per la sua relazione, vorrei fare subito due premesse, riprendendo alcuni temi sollevati dal ministro Moratti, per poi formulare osservazioni sul programma da lei esposto.
Il ministro propone una riflessione sul ruolo e sulla finalità dei sistemi di istruzione e di formazione nelle società della conoscenza. Viviamo in un mondo caratterizzato dall'innovazione delle tecnologie della comunicazione, il quale non diventerà automaticamente una società della


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conoscenza, dove il bene dell'istruzione sia garantito a tutti, se non si compiranno scelte politiche. Mi convince molto l'idea ripetuta in più interventi secondo cui il sistema della formazione debba oggi servire ad elevare complessivamente il livello di istruzione dell'intera popolazione italiana. Come l'onorevole Gambale, vorrei ricordare che sul terreno della diffusione dei livelli culturali e dell'intervento riguardo alla popolazione adulta, il Governo precedente (ma anche prima dei cinque anni trascorsi) si è molto impegnato: non si tratta di interventi formativi previsti solo nei momenti di passaggio tra una fase e l'altra della vita lavorativa, ma di qualcosa di più profondo. L'educazione degli adulti risponde ad un bisogno profondo di apprendimento, che è anche un bisogno di vita della nostra popolazione: non è un caso (l'onorevole Gambale ha citato i dati) che la domanda di educazione degli adulti sia esplosa in questi anni. Negli ultimi cinque anni di Governo, sono state compiute una serie di scelte, per esempio, nel campo della formazione specializzata, come i corsi di formazione superiore integrata - che non mi sembra di aver sentito nominare dal ministro - che hanno affrontato il livello della formazione superiore tra diploma ed università.
Tra i dati citati dal ministro, ne esiste uno più preoccupante di altri, quello dell'analfabetismo di ritorno, che in Italia è alto, ma è molto più alto in paesi come gli Stati Uniti d'America, anche dopo 10 o 12 anni di scolarità. L'idea della formazione permanente e ricorrente è vincente, perché il periodo della formazione non è limitato solo alla prima fase della vita, dai 3 ai 18 anni, ma si estende per accompagnare i cittadini nell'intero arco della propria esistenza: in tal modo si può impedire l'analfabetismo di ritorno che, purtroppo, è una condizione reale, come dimostra la recente inchiesta sul servizio di leva, da cui è emerso che la maggioranza di quei ragazzi non riesce a formulare o comprendere un breve messaggio scritto. Credo che queste premesse siano alla base della politica del centrosinistra sulla riforma dell'istruzione e della formazione. Non possiamo pensare che il sistema complesso della scuola - qualche anno fa il CENSIS descriveva la scuola come una petroliera lenta a far manovra - si possa governare solo dall'alto, a colpi di decreti o con soluzioni lampo di problemi che in cinquant'anni nessuno è riuscito a risolvere. La scuola, infatti, è un corpo lento perché rispetta i tempi della vita e dell'apprendimento (che sono tempi naturali), ma anche attento e vigile.
Il centrosinistra, ponendo queste premesse, ha impostato una campagna di riforme di sistema. Da trent'anni assistiamo a riforme parziali, generose, utili (come la riforma della scuola media, delle elementari, le sperimentazioni della scuola secondaria superiore) che non hanno risolto il problema vero del nostro sistema scolastico: don Milani trent'anni fa diceva che esso è rappresentato dai ragazzi che perde, dalla dispersione e dallo spreco di intelligenze. La dimensione dell'eccellenza non sarà mai raggiunta se essa non si coniugherà con l'allargamento della platea degli aventi diritto: i migliori non possono essere selezionati se non si amplia la platea.
Il problema che si è posto il centrosinistra è stato quello della riforma di sistema: riformare contemporaneamente la scuola dai 3 ai 18 anni, la formazione professionale, creando «passerelle» tra questi due sistemi; la formazione superiore integrata e al tempo stesso l'università, nell'ottica dell'educazione permanente e ricorrente. Non è possibile pensare ad una riforma dell'istruzione se non come ad una riforma di sistema, una riforma che, come il ministro ha detto, vuole mettere al centro la persona che apprende: questo è il tema essenziale che ci troviamo oggi di fronte. La persona che apprende, con le sue diversità, i suoi tempi, la sua storia, la sua cultura, perché oggi - mi riferisco all'onorevole collega che mi ha preceduto - nelle nostre classi non troviamo un pubblico selezionato che viene da una stessa cultura, storia e tradizione, ma la sfida della multiculturalità, alla quale un paese moderno deve saper rispondere, valorizzando attitudini, scelte,


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comportamenti che nascono da storie e culture diverse. La riforma della scuola come sistema e la scelta dell'autonomia rispettano queste esigenze: l'autonomia non è solo uno strumento di organizzazione del lavoro (è anche questo), come non è solo un modo per riequilibrare alcune situazioni.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE GUGLIELMO ROSITANI

ALBA SASSO. Essa è la libertà delle scuole di poter attuare percorsi differenziati per raggiungere obiettivi comuni: credo che questo sia il tema che abbiamo di fronte oggi.
Il ministro ha parlato di una scuola lontana dal mondo del lavoro: è vero, ma anche il mondo del lavoro è lontano dalla scuola perché esso spesso chiede - mi riferisco alla ricerca Eurispes di qualche anno fa - basse qualificazioni. Credo che il nostro paese sia in testa a quelli dove, purtroppo, esiste il cosiddetto fenomeno della fuga dei cervelli. Dobbiamo ragionare rispetto ad un sistema dell'istruzione. Non mi convince l'affermazione del ministro, sulla riforma dei cicli, a favore di una formazione professionale dai 14 ai 21 anni, come canale parallelo rispetto al percorso dell'istruzione. I colleghi che mi hanno preceduto hanno sottolineato il fatto che la formazione professionale non funziona: è la verità, ma credo che Ministero del lavoro e Ministero della pubblica istruzione debbano congiuntamente impegnarsi affinché essa funzioni e non costituisca una branca subalterna del sistema o il canale di raccolta di coloro i quali non ce la fanno, come è stato per tutti questi anni. Non mi convince una canalizzazione precoce, che differenzia i percorsi dopo i 14 anni. Altri paesi ci hanno provato, come per esempio la Germania, che poi ha abbandonato questa scelta perché i lavoratori che a 14 anni avevano interrotto il percorso formativo non avevano le competenze di base necessarie per continuare ad apprendere e una volta espulsi dal mercato del lavoro non riuscivano più ad apprendere i nuovi saperi e le nuove tecnologie. Credo che non saremo d'accordo sulle proposte che avanzerete su tale questione anche se ne dovremo discutere e ragionare in modo approfondito.
Un altro tema che vorrei sollevare riguarda l'affermazione del ministro sul fatto che lo Stato non possa essere l'unico promotore del valore del capitale umano nel campo dell'istruzione. Il ministro mi convince quando afferma che lo Stato dovrà continuare a garantire il principio di eguaglianza e di equità sociale, rafforzando il proprio ruolo di controllo e di indirizzo: i poteri di controllo e di indirizzo attribuiti allo Stato sono stati definiti dalla legge sull'autonomia.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FERDINANDO ADORNATO

ALBA SASSO. Ritengo che i tre livelli di cui ha parlato il ministro - lo Stato centrale che indirizza e controlla, le regioni e le singole scuole - siano già previsti dalla legge sull'autonomia. Non sono d'accordo quando il ministro dice che lo Stato non può essere l'unico promotore: secondo la Costituzione, infatti, la Repubblica ha la responsabilità nei confronti delle future generazioni di garantire a tutti il diritto all'istruzione. Mi pare inoltre - ribadisco il mio disaccordo con il ministro - che lo Stato non sia gestore del sistema di istruzione, ma definisca i principi e controlli la loro applicazione.
Credo che questo tema abbia un legame con quello - che il ministro ha posto - della necessità di curricula nazionali; sono convinta di tale necessità, perché la legge sull'autonomia ha affidato alle scuole - che sono enti autonomi, gerarchicamente non inferiori a nessuno, chiamati ad interagire con il territorio nel quale sono collocati - la potestà sui curricula. Il ministro infatti fornisce indicazioni curriculari, secondo l'articolo 8 del regolamento sull'autonomia organizzativa e didattica, avvalendosi degli strumenti che ritiene opportuni, ma le scuole compiono le scelte. Gli unici vincoli prescrittivi sono


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rappresentati dagli obiettivi di apprendimento, che devono essere uguali per tutti: le scuole poi sceglieranno i propri percorsi nel rispetto dell'identità nazionale del sistema dell'istruzione (ad esempio lo studio di Manzoni e Pirandello). Esse possono articolare il proprio curricolo: l'articolo 8 del regolamento applicativo della legge sull'autonomia organizzativa e didattica prevede espressamente ciò che, obbligatoriamente, è riservato al livello nazionale e ciò che sempre obbligatoriamente, è riservato alle scuole (impropriamente detta quota locale). Quest'ultimo caso non riguarda la costituzione della società camuna o della società rupestre, ma può riguardare l'approfondimento dello studio per eliminare la vergogna dei corsi di recupero e per colmare le carenze, che molti ragazzi continuano ad avere, riguardo alle abilità fondamentali come l'uso della lingua o di capacità logico-matematiche.
Compito della Repubblica è l'assunzione di responsabilità nei confronti della scuola, stabilendo insieme quale debba essere il patrimonio di cultura e conoscenza che ogni generazione vuole affidare a quelle successive. Qual è l'identità culturale di questo paese? Ogni regione sceglie la propria? Non credo. Vedo un ruolo forte del Governo, del ministro, e delle commissioni che il ministro vorrà attivare. Rispetto a ciò credo che sia stato ingeneroso ritirare il regolamento attuativo della legge sul riordino dei cicli, dove erano previsti i temi che il ministro ha indicato. La legge n. 30 del 2000 e l'elaborazione prodotta dalla commissione De Mauro, non sono venute alla luce in due mesi. Quella legge, quelle indicazioni curricolari, quel regolamento attuativo, interpretano un processo di riforma che da anni, nei fatti, la nostra scuola sta portando avanti, che si è concretizzato in buone pratiche, esperienze di sperimentazione, in un dibattito approfondito e serrato. La legge n. 30 del 2000 prevedeva un meccanismo di autoregolazione e di modifica triennale. Credo che non sia stato giusto ritirare quel regolamento, anche perché il mondo della scuola aveva già iniziato ad elaborare, ipotizzare, programmare, così come è stato sbagliato ritirare il regolamento sulla scuola dell'infanzia, il provvedimento per la l'estensione della scuola dell'infanzia (previsto dalla legge n. 30).
Vorrei porre inoltre la questione che riguarda i docenti: come l'onorevole Gambale, non riesco a capire perché, a normativa vigente, si voglia mettere da parte il Centro europeo dell'educazione, recentemente riformato, che aveva avuto il compito di istituire (ma aveva già avviato il suo lavoro), il servizio nazionale per la valutazione, per costituire un altro organismo. È una scelta che è necessario motivare: ministro, ci dica che il Cede non funziona, o che non ha svolto bene il suo compito, ma spieghi il motivo della sua scelta!
Sia nel testo del documento di programmazione economico-finanziaria, sia nella sua relazione, ricorre l'affermazione che è necessario investire maggiormente sugli insegnanti: chiediamo in quale modo, con quale risorse, dove e perché. Molte volte abbiamo ascoltato promesse di questo tipo: paghiamo di più gli insegnanti, valorizziamo il loro percorso lavorativo, investiamo nella formazione, il ministero spende troppo solo per gli stipendi degli insegnanti, ma non investe sulla qualità. D'accordo, concretizziamo tali affermazioni, ma, signor ministro, ci dica come e con quali finanziamenti, che non ritroviamo nel documento di programmazione economico-finanziaria. Sono d'accordo con un investimento maggiore riguardo la formazione in servizio: vorrei però ricordare che nel regolamento attuativo della riforma sull'autonomia scolastica è contenuto un articolo molto importante, l'articolo 6, che assegna alle scuole l'autonomia di ricerca e sviluppo. Credo che gli insegnanti non sopportino più corsi di formazione e di aggiornamento condotti in modo estemporaneo, ma chiedono di diventare protagonisti della propria formazione e del proprio aggiornamento, imparando a lavorare in maniera diversa, riflettendo sulle proprie scelte, comprendendo cosa fare e cosa serva maggiormente per operare meglio. Investire nella formazione dell'insegnante


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significa investire di più nell'autonomia delle scuole, perché questo credo sia il terreno più importante della formazione.
Signor ministro, lei ha detto che l'insegnante si sente un impiegato: fino a quando sarà prevalente la cultura dell'adempimento e non quella del risultato, l'insegnante sarà sempre un impiegato. Non dimentichiamo però che, in questi anni, la figura ed il profilo professionale degli insegnanti è molto cambiato, anche se non di tutti: esistono situazioni patologiche, così come ne esistono in tanti altri comparti del mondo del lavoro. La scuola però è un grande apparato frequentato da circa 9 milioni di studenti e nel quale lavorano milioni di docenti, del quale si conoscono solo le patologie che i giornali descrivono. Molti docenti sono già cambiati perché hanno dovuto compiere scelte diverse, perché hanno di fronte emergenze rispetto alle quali non potevano continuare ad essere semplicemente degli impiegati. Gli insegnanti oggi, categoria socialmente disconosciuta, si fanno carico delle emergenze, degli handicap, dei rischi, dell'eccellenza, di ogni aspetto, senza che venga loro riconosciuto il grande valore di una professione, che rappresenta un artigianato alto, composto di cultura e di relazioni, di creatività e di attività riflessive. Stiamo attenti a non credere di trovare soluzioni estemporanee o di «vivisezionare» il lavoro degli insegnanti, scegliendo chi vale di più. Esiste già una diversificazione: gli insegnanti che lavorano nelle scuole a rischio guadagnano di più (signor ministro, legga l'ultimo contratto), questione sulla quale nessuno ha sollevato problemi perché lavorano in maniera diversa, a contatto con situazioni di emergenza, molto complesse e delicate. Alcuni insegnanti svolgono compiti che, con un brutto nome, si indicano come funzioni obiettivo, e guadagnano di più rispetto agli altri. Cominciamo a diversificare la professione, ma senza stabilire chi vale di più e chi meno perché non è facile vedere i risultati nel nostro lavoro di insegnanti, molto spesso essi si comprendono dopo anni: non cerchiamo dunque subito di valutare o di «vivisezionare» un lavoro complesso, che non può essere suddiviso in assurde valutazioni, esterne o interne alla scuola. Gli insegnanti debbono, in primo luogo, imparare a valutare autonomamente il proprio lavoro; in seguito potrà essere valutato dall'esterno: una differenziazione delle funzioni già esiste. Ministro, avanzo la richiesta, contenuta anche in altri interventi, di non buttare via ciò che è stato prodotto, perché credo che il mondo della scuola, nel suo complesso, non lo accetterebbe. Esso ha già compiuto scelte difficili e dolorose e ha la consapevolezza di dover cambiare non perché lo domanda un Governo ma perché lo chiede il paese.

GIOVANNA GRIGNAFFINI. Le puntuali osservazioni ed argomentazioni della collega Sasso e l'intervento dell'onorevole Gambale mi consentono di concentrarmi su alcune valutazioni di carattere politico. Infatti credo che dal tono e dalle forme dei vari interventi emerga una questione non più eludibile. Innanzitutto, vorrei ringraziare il ministro Moratti che, diversamente dal suo collega Tremonti, non è andata davanti agli italiani a dichiarare che c'erano 62 mila miliardi di «buco» nel bilancio dello Stato, ma ha presentato alla Commissione una relazione in cui sono contenute alcune affermazioni concrete.
Riguardo alle politiche per il sistema universitario, se escludiamo la forte indicazione di un aumento di risorse per la ricerca e il diritto allo studio, dalla relazione del ministro Moratti si desume una valutazione positiva del sistema di riforme proposto dal Governo dell'Ulivo nel corso dei cinque anni precedenti. L'unica accentuazione che ho ascoltato riguarda la questione del concorso a vincitore unico anziché la terna, che è un rifacimento di minimalia organizzativa della vita dell'università
Anche sulla questione del riordino dei cicli scolastici e del ruolo dell'autonomia, non ho ascoltato elementi di rottura o di forte discontinuità: lo apprezzo e mi piacerebbe che ad una valutazione positiva, per determinate politiche seguisse poi una


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esplicitazione altrettanto forte dal punto di vista politico. L'elemento più importante riguarda il capitolo dell'istruzione; il ministro ha utilizzato alcune parole generali nella sua relazione: incentivare il capitale umano, sviluppo e innovazione, standard europei, solidarietà, eccellenza (queste ultime due sono parole che condividiamo perché è necessario incentivare la qualità), i sistemi educativi come sviluppo della persona umana nell'ambiente sociale e così via. Sono parole che rappresentano elementi di carattere progettuale e culturale, che definiscono il ruolo, la funzione sociale ed individuale del sistema formativo su cui non possiamo non essere d'accordo. Ci troviamo di fronte ad un preambolo politico, programmatico e culturale che noi, come forze del centro sinistra, in qualche modo (al di là di alcune accentuazioni delle quali parlerò in seguito), non possiamo non condividere: si tratta dello stesso preambolo politico, culturale e concettuale che ha messo in movimento il sistema di riforme del centrosinistra nei precedenti cinque anni. Esse possono essere considerare riforme di sistema, come ha sottolineato la collega Sasso, articolate in una struttura a mosaico molto complessa (solo il tema degli organi collegiali non è riuscito ad entrare all'interno di un processo che ha toccato tutti gli aspetti della vita della scuola). La domanda che sorge spontanea è la seguente: dove sono le differenze? Che giudizio viene dato sulle riforme messe in atto dai governi di centrosinistra? È un giudizio relativo all'efficacia? È un giudizio relativo alla non piena attuazione e al dispiegamento nel tempo degli effetti di questo sistema di riforme, che molto spesso sono riscontrabili solo a distanza di anni? Ho assistito ad una vera e propria campagna di stampa sulla cancellazione del riordino dei cicli che è stato uno degli impegni della Casa delle libertà durante la competizione elettorale.
Ci troviamo di fronte ad un cambiamento di prospettiva di qualche rilievo, perché si parla di sospensione o meglio, di una partenza a scaglioni, differenziata, con forme di sperimentazione, che ancora non costituiscono l'avvio del sistema nella sua interezza e nella sua capacità di essere attivato da ciascun territorio, interventi peraltro già previsti dai decreti attuativi del riordino dei cicli.
In realtà ci troviamo di fronte alla sottolineatura di un aspetto già previsto, dalle modalità e dalle procedure che definivano l'avvio del sistema di riforma. Pongo una domanda (ci saranno anche altre indicazioni, mi rendo conto che è un primo incontro ed alcune questioni sono state soltanto accennate): ma l'elemento differenziale rispetto al processo di riarticolazione dei cicli individuato dai ministri riguarda l'ipotesi di attribuire alla scuola dell'infanzia la definizione di primo anno di base dell'intero ciclo. Anche in questo caso si tratta di una modificazione infrastrutturale, che definirei micro perché non incide sul disegno generale del sistema e si limita ad un innalzamento, ma non definisce un diverso equilibrio. Allora voglio rivolgere al ministro una richiesta: occorre esplicitare il giudizio sul sistema di riforme attivato dai governi precedenti, per capire meglio dove conveniamo e dove ci discostiamo, dove vi sono punti di convergenza e dove invece vi è un'impostazione profondamente diversa.
Vi sono in particolare due elementi problematici su cui non mi trovo del tutto d'accordo, il primo dei quali consiste nella definizione dei punti di crisi. Un elemento di analisi che ho apprezzato è rappresentato dalla volontà di individuare i punti di criticità del sistema, avendo identificato i quali si potrà mettere in atto un sistema di riforme per la loro soluzione. Quello che non condivido è il fatto che uno degli elementi che caratterizza la crisi del sistema scolastico oggi è la mancata libertà delle famiglie. Io lo considero un punto importante, ma non lo definirei come un punto di criticità del sistema; non è quello il meccanismo a partire dal quale si possono attivare tutti gli elementi che consentono un sistema di libertà e solidarietà, di eccellenza, di promozione dei talenti e di efficacia del diritto all'istruzione.
Il secondo aspetto su cui avanzo dei dubbi riguarda la definizione - che desidererei


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venisse più esplicitata - di sistema integrato per una scuola della società civile. Non ripeto cose già sostenute, ma il fatto che ci troviamo di fronte a un sistema integrato in cui pubblico e privato concorrono alla definizione di una funzione pubblica è materia condivisa e che, non a caso, è stata promossa dal centrosinistra ed è già diventata legge dello Stato. Quindi se il punto è quello di richiamarsi a questa capacità di costituire un sistema integrato, siamo d'accordo, ma a partire da questa capacità di costruire sistemi integrati nascono domande collegate più concretamente con la politica e con le opzioni politico-culturali più generali.
Oltre a ciò vi è un punto toccato che riguarda il rapporto fra programmi nazionali e programmi locali. È già stato ricordato che nella scuola delle autonomie vi è già un punto forte nella definizione dei singoli curricula, e quindi la domanda che rivolgo al ministro Moratti è la seguente: il rapporto tra programmi nazionali e programmi locali significa la devoluzione del sistema di formazione alle regioni come propone la Lega? Oppure significa una integrazione tra i due programmi, come è già garantito dalla attivazione dei curricula, nell'ambito di una dimensione che può essere ancora accentuata? Qual è l'opzione politica?
Nella definizione degli elementi di diritto allo studio e degli elementi che amplificano il ruolo del privato e della società civile, la linea di tendenza è quella definita dalla «legge di parità» o è quella del bonus della regione Lombardia? Dico ciò partendo sia dal punto di vista del carattere iniquo sul piano del merito, sia della sua incapacità - è un mio giudizio ovviamente - di produrre dinamica sociale. Quando sento parlare di eccellenza e solidarietà intendo che la funzione pubblica resti sempre legata a questo duplice obiettivo: liberazione e promozione dei talenti individuali, ma anche capacità di mettere in opera quegli elementi di dinamismo sociale che sono, sul piano formativo, l'equivalente di politiche redistributive sul piano economico, anzi non redistributive, ma di politiche di promozione.
Allora rivolgo al ministro Moratti, e concludo, due domande politiche: esplicitare la sua valutazione, a partire da questi presupposti e linee programmatiche, sulle politiche attivate nel campo della formazione e dell'università dal centrosinistra. È un fatto di libertà e di responsabilità individuale fare il punto della situazione; lei lo ha fatto con questa relazione, ma secondo me sarebbe importante farlo ancora di più, precisando il contesto in cui ci troviamo, dove vi è stato fallimento e dove vi è stata l'individuazione di una prospettiva possibile non ancora realizzata. È necessario chiarire quali sono le questioni sulle quali, sotto alcune formule, vi è condivisione - come abbiamo sentito tutti - su alcuni principi generali, perché in realtà, se andiamo a vedere la loro traduzione in strumenti ed opzioni, scopriamo che essi possono diventare il simbolo di opzioni politiche, culturali, questa volta sì, anche radicalmente contrapposte.

ROBERTO DAMIANI. Dall'esame del documento di programmazione economico-finanziaria e dalle parole del signor ministro, prendo atto della lodevole intenzione, espressa dal Governo, di aumentare la spesa per la ricerca scientifica, elevandola al livello della media europea, cioè al 2 per cento. Ciò del resto mi pare fosse un obiettivo esplicito anche nella legge finanziaria del Governo precedente; su tale punto vi potrà essere, quindi, una larghissima convergenza.
Mi permetto tuttavia di svolgere, per buona memoria, alcune brevissime considerazioni. La più importante di esse credo possa attenere alla tempistica. I rapidi progressi della ricerca scientifica nei paesi dotati di maggiori risorse umane e finanziarie, rischiano, se non ci poniamo da subito nelle condizioni di competere, di alimentare un gap poi impossibile da colmare. In questo campo (parlo anche per esperienza diretta) la progressione è algebrica e non matematica: cinque anni sono troppi; se dobbiamo fare sacrifici, questi non possono mettere a repentaglio la competitività tecnologica del sistema paese.


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Al problema relativo all'urgenza di un impegno finanziario adeguato e coerente va aggiunto quello delle risorse umane; lei, signor ministro, ha toccato, con la sua relazione, aspetti collegati alle risorse umane; aggiungerei però quello di una preoccupante carenza di laureati in ambiti disciplinari fondamentali per lo sviluppo della ricerca scientifica che, a sua volta, è premessa indispensabile di innovazione tecnologica. La carenza di laureati, tra l'altro, non viene determinata soltanto da una dispersione nel corso degli studi, ma anche, e le statistiche lo dimostrano, da una crescente flessione, in termini percentuali, di iscritti alle facoltà scientifiche cui corrisponde un incremento delle iscrizioni nelle facoltà umanistiche o, comunque, in quelle non strettamente scientifiche.
Credo dunque necessaria una forte azione volta a incentivare nei giovani la scelta di facoltà scientifiche, anche promuovendo la diffusione della cultura scientifica a livello di base; ritengo sia un problema strettamente connesso con quello della formazione degli insegnanti della scuola primaria. È una formazione, questa, di tipo strettamente umanistico o, per non essere troppo cattivi, para o pseudoumanistico, nonché di individuazione di altri percorsi di sensibilizzazione dei giovanissimi; penso a spazi interattivi atti a stimolare l'interesse di questi ultimi, spazi che possono essere creati senza dover per forza spendere grandi cifre (non è il caso di prendere ad esempio soltanto il museo scientifico di Boston collegato al MIT). Ciò sarà possibile se si registrerà una maggior capacità di dialogo tra due mondi, non adusi ad una frequentazione positiva: il mondo universitario e quello della scuola primaria e secondaria.
Sempre in tema di risorse umane, non vorrei sottacere il dramma della fuga di molti giovani cervelli. In numerosi paesi i ricercatori giovani e capaci ottengono soddisfazioni economiche superiori, tanto a livello personale quanto a livello di disponibilità di fondi per la ricerca. Dobbiamo dire chiaramente che un bravo giovane laureato nei nostri atenei - se non ha alle spalle una famiglia che lo possa sostenere - non può essere incentivato da ipotesi di dottorandi di ricerca che portano a casa qualche cosa come 800 dollari al mese, salvo poi trovare sbocco naturale in una carriera che, iniziando dal gradino più basso che è quello di ricercatore universitario, porta a poco più di mille dollari al mese (dopo un iter ed una selezione piuttosto complessi).
A questo va aggiunta una opportuna considerazione; vi è una competizione nella quale il pubblico, necessariamente, soccombe - per le leggi dell'economia - rispetto al privato: i migliori, infatti, se li prendono le aziende private!
Una raccomandazione viene, infine, suggerita dalla lettura della pagina 47 del documento di programmazione economico-finanziaria. Se è vero (e a mio modesto parere lo è) che, in linea di principio, la proprietà intellettuale dei risultati della ricerca scientifica deve essere riconosciuta ai singoli ricercatori o ai gruppi di ricerca, è altrettanto vero che, se la ricerca viene effettuata in strutture pubbliche - non soltanto l'università -, devono essere poste in essere misure che riconoscano anche i diritti di chi, nella ricerca, investe proprie risorse finanziarie. Penso al caso della Germania - e lo segnalo al signor ministro - un paese nel quale la normativa privilegia, in modo pressoché esclusivo, il diritto dei ricercatori senza tutelare adeguatamente il diritto al ritorno economico dei finanziatori. Qual è il risultato? È in atto una fortissima contrazione degli investimenti privati ai fini di ricerca nelle strutture accademiche. Questo è un errore che non vorremmo vedere riproposto qui, anche se la formulazione del documento che ho letto stamane mi sembra preludere ad un errore del genere; forse un controllo non sarebbe del tutto sbagliato.
Voglio ora formulare l'auspicio che le future maggiori risorse finanziarie trovino concretezza molto prima del fatidico quinquennio e che non inducano all'errore di una frammentazione degli investimenti su base di logiche distributive sul territorio, cioè alla molteplicità di azioni non deve corrispondere una molteplicità di iniziative separate o concorrenti. L'interesse


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superiore del paese è che si ridiventi competitivi proprio come paese, e ciò può realizzarsi allo stato attuale ed anche in prospettiva - le soluzioni possono essere suggerire anche da finalità che includano ragioni squisitamente politiche - prioritariamente attraverso l'adeguamento delle realtà esistenti agli standard internazionali. Mi riferisco in particolare ai parchi scientifici (conoscendo l'argomento) e nella fattispecie al parco scientifico di Trieste. È certamente il primo ad essere stato istituito in Italia; è costituito da un'area di ricerca scientifica e tecnologica di cui sono punta di diamante istituzioni quali il centro internazionale di ingegneria genetica e biotecnologia e, come sa molto bene il ministro, la macchina di luce al sincrotrone realizzata grazie anche al premio Nobel Carlo Rubbia. Mi riferisco anche al polo scientifico (sito in altra parte della città ma idealmente è un tutt'uno) costituito dalla scuola internazionale superiore di studi avanzati, che rilasciava il PhD molto prima che nel resto del paese (se si aveva addirittura nozione del concetto di PhD) dall'accademia delle scienze del terzo mondo e soprattutto dall'ICTP (International Centre for Theoretical Physics) fondato dal defunto premio Nobel Abdus Salam, dove ogni anno approdano, per stage formativi di varia durata - si va da alcune settimane fino ad alcuni anni - circa quattromila scienziati provenienti per lo più da paesi emergenti. È stato anche uno strumento fondamentale di politica estera, sia nei confronti dei paesi cosiddetti emergenti, sia, soprattutto, per l'apertura ad est che, anche in chiave di Unione europea, sta producendo frutti egregi.
Credo che l'esperienza che stiamo vivendo a Trieste, a partire da lontano 1964, e direi con buoni risultati, possa rappresentare un utile modello per l'edificazione del progetto complessivo di ripensamento della nostra politica in materia di ricerca scientifica e in quello delle sue applicazioni tecnologiche. Sarebbe un errore pensare alla ricerca scientifica come esclusivamente collegata al mondo accademico in senso stretto. Va bene l'università - è ineliminabile - ma dobbiamo dare spazio anche alle filiazioni o alle istituzioni collegate all'università stessa. La invito, signor ministro, a prendere visione, anche di persona, di questa esperienza e in tal senso il mio è molto più di un atto formale di invito.

FABIO GARAGNANI. Nel ringraziare il signor ministro, desidero anche darle atto della linearità e, allo stesso tempo, del coraggio con cui ha individuato - pur con l'eloquio molto cortese e affabile - gli indirizzi del Governo in materia di politica scolastica. Indirizzi che mi paiono largamente innovativi, al di là delle parole e del consenso che è venuto anche da alcuni settori del centrosinistra. È positivo che, se vi è consenso, esso venga espresso; credo però che non possiamo ignorare - lo dico ai colleghi della sinistra - la profonda differenza che, in una materia delicatissima come questa, ha caratterizzato e continua a farlo - è la legge della democrazia - il nostro schieramento e quello del centrosinistra. Non è sfuggita l'enfasi di tutti gli interventi che si sono succeduti sui principali provvedimenti dei governi dell'Ulivo; credo che ciò sia emblematico di una volontà di rivincita o, perlomeno, di condizionamento, peraltro legittimo, ma che rifiutiamo perché il programma esposto dal ministro evidenzia dei punti fermi che sono la netta antitesi di quelli dei governi Prodi, D'Alema e Amato. Si ipotizza, infatti, una formazione ed un indirizzo culturali che, credo, si discostino notevolmente dalle scelte di coloro che ci hanno preceduto.
Devo comunque esprimere anche preoccupazione e che non dobbiamo nasconderci dietro a luoghi comuni o a falsi unanimismi di facciata, che non servono ad un confronto serio in Commissione. La prima preoccupazione è che se è vero, come è vero, che la scuola è patrimonio di tutti e se è vero che la scuola non può essere «balcanizzata» per regioni, è altrettanto vero che essa non può essere prigioniera delle devastazioni culturali che l'hanno caratterizzata molto spesso in questi anni dove minoranze, settarie e faziose, di insegnanti provenienti principalmente


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dalla sinistra, se ne sono serviti per inculcare determinate idee, per fare politica - come nelle ultime elezioni - ma non per educare le giovani generazioni. Credo, pertanto, che un mea culpa - non dico collettivo o un autodafé - occorra farlo; nessuno vuole vietare agli insegnanti - ci mancherebbe - di avere una propria idea, un proprio curriculum formativo, una propria impostazione ideale.
Ritengo però che una riflessione sul rapporto tra docente e discente, che non ha possibilità di competere con una formazione di un certo tipo, ed il rispetto che si deve alla personalità del discente debbano rappresentare un punto fermo sui quali confrontarsi chiaramente. Non vorrei essere equivocato - sono a favore della libertà di insegnamento - ma ritengo che una analisi sull'introduzione di meccanismi per la salvaguardia della libertà di insegnamento, di apprendimento e del rispetto della personalità del docente e del discente sia più che mai opportuna. Veniamo da una fase storica, ancora attuale, nella quale la scuola non è stata patrimonio di tutti ma, bensì, di minoranze faziose e settarie - non sempre, vi sono professionalità eccellenti - che se ne sono servite per fini di parte. Avrei dovuto annotare, in occasione delle recenti elezioni, le frasi di incitamento, durante lezioni, con le quali veniva boicottato e demonizzato il presidente Berlusconi nelle scuole di ogni ordine e grado. Non credo che questo sia un buon modo di fare politica! Se si fossero demonizzati Prodi o altri...

FRANCA BIMBI. Dato il risultato!

FABIO GARAGNANI. Infatti ho parlato di minoranze. Sarebbe comunque assurdo, in questa fase, misconoscere e negare dati di fatto. Quando si interviene su temi tanto delicati bisogna essere sempre rispettosi della realtà e confrontarsi con la situazione che molti di noi conoscono ed è inutile nasconderci dietro le parole o dietro falsi unanimismi.
Credo di condividere pienamente con il ministro l'affermazione che lo Stato non può essere il custode esclusivo della formazione, ma deve favorire la possibilità di accesso e di apprendimento a tutti i suoi cittadini, riservando un compito particolare alla famiglia. Il diritto di scelta, di fatto, è stato misconosciuto; si tratta di definire un percorso che, attraverso una necessaria fase di transizione, senza destabilizzare gli attuali equilibri scolastici e formativi, consenta alla famiglia, in un lasso di tempo ragionevole, di diventare veramente l'arbitro del tipo di educazione che vuole riservare ai propri figli. Questo non significa «balcanizzare» il sistema di insegnamento (scuole cattoliche, mussulmane o laiche), ma significa realizzare un sistema integrato che riconosca a qualunque offerta formativa, dotata di un alta dignità professionale, la possibilità di competere nel mercato e di misurarsi con le opzioni della collettività.
Sono convinto che, accanto a taluni punti di eccellenza, nella nostra scuola statale si sia raggiunto - lo diciamo tutti - un livello di formazione culturale non sempre adeguato agli standard europei. Ciò deriva anche dalla salvaguardia di rendite di posizione che di fatto hanno «stratificato» un corpo insegnante sempre più demotivato, sempre più convinto che non esistano controlli ed esami e che è stato spinto quindi a tirare a campare, tranne lodevoli eccezioni. Siamo di fronte ad una situazione dove molto spesso viene penalizzata la meritocrazia - questo è un altro appello che rivolgo al ministro -; non è possibile che la scuola di Stato diventi un luogo dove frequentemente il criterio della selezione non ha più spazio, perché vi albergano concezioni falsamente umanitaristiche ed assistenziali nelle quali è necessario solamente aiutare. Siamo d'accordo che bisogna intervenire, ma alla fine si deve aiutare lo studente e il bambino ad apprendere e a capire che ha precisi doveri oltreché diritti. La sanzione non esiste quasi più! Il collegio dei docenti è diventato, sovente, quasi un ente di assistenza e beneficenza, e non più un organismo che deve anche, se del caso, premiare o punire chi non raggiunge certi livelli di efficienza o di preparazione. È necessario che il giovane si affacci al


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mondo del lavoro con la consapevolezza delle difficoltà che lo attendono, ma essendovi preparato. I problemi della meritocrazia, del giusto riconoscimento ma anche della equa sanzione sono questioni che dobbiamo porci; purtroppo gran parte del corpo docente, cresciuto con determinate impostazioni e determinate teorie, ha stabilito semplicemente il teorema che sanzionare significa penalizzare i meno abbienti e, di fatto, estromettere dalla società un giovane che ha bisogno di essere aiutato. Da questa impostazione derivano promozioni indiscriminate, senza alcuno sforzo, dettate da motivazioni umanitarie.
Dobbiamo abbandonare questo concetto per adottare, nel rispetto anche delle categorie più deboli che spesso sono anche particolarmente dotate, il criterio che chi più ha studiato e meritato deve vedere i suoi sforzi riconosciuti. Anche qui vi è molto da fare; è necessaria una reimpostazione culturale completamente diversa ed invito il ministro - pur con il tono soft che la caratterizza - a farsi carico di questa preoccupazione, perché il sistema scolastico italiano rimarrà nelle secche in cui si trova se non reinventerà se stesso e se non verrà attuata una vera e propria rivoluzione culturale rispetto a certi moduli della sinistra che l'hanno governato negli ultimi anni. Non a caso si è sempre detto che la sinistra ha scelto due campi sui quali concentrare la propria attività: la scuola e la magistratura (o almeno parte di essa). Nella scuola, soprattutto nelle discipline letterarie, storiche e filosofiche, sono prevalse impostazioni politiche che di fatto hanno realizzato tutto questo. Nessuno pretende di creare liste di coscrizione, ma giustamente, un Governo ed una maggioranza hanno il compito di delineare orientamenti di fondo ben precisi quali quelli da me ricordati.
In questo contesto ritengo quanto mai opportuno che, accanto ad un recupero della meritocrazia, vi sia anche quello del valore dell'insegnante - benissimo ha fatto lei, signor ministro, a proporre il principio dell'agenzia esterna di valutazione - perché se un docente non si sente costantemente monitorato sull'efficacia del proprio insegnamento, che non significa una spada di Damocle sulla testa che gli impedisca di lavorare, non ha stimoli per progredire. Inoltre vi è il problema della retribuzione economica, del riconoscimento di una dignità che in questi anni è venuta meno e dei motivi per i quali questo è accaduto.
Accanto a tutto questo vi è il problema di garantire un'autentica competizione tra gli istituti, che è l'unica strada che potrà consentire alla scuola di Stato di eccellere. La situazione, così come si è sviluppata finora, e per come l'hanno voluta i colleghi della sinistra, non consentirà la nascita di zone di eccellenza ed una conseguente capacità di competizione. Condivido pienamente la necessità di definire dei curricula nazionali accanto alle competenze regionali. Il sapere deve avere degli orientamenti nazionali, la difesa dell'identità e della tradizione culturale del nostro popolo non può essere demandata, solo ed esclusivamente, alle regioni. Segnalo in questo senso l'opportunità di una presenza nazionale al fine di riequilibrare, in materia di diritto allo studio e di parità scolastica, l'orientamento delle varie regioni. Abbiamo da un lato la regione Lombardia che ha adottato una legge - secondo me - di alto valore (ed in questo senso ha fatto bene il ministro a ritirare il ricorso), dall'altro, la regione Emilia-Romagna che ha invece modificato recentemente in direzione statalista la già restrittiva legge approvata nel 1999 - alla quale ho contribuito anch'io seppure da posizioni di minoranza - non solo non attuando la parità scolastica, ma addirittura ristabilendo il principio assoluto del predominio dell'ente locale, ed in particolare della regione.
Vorrei, inoltre, porre all'attenzione il problema del ruolo tradizionale dei provveditorati agli studi, ormai di assoluta irrilevanza, vista la tendenza ad un loro graduale superamento, che spesso non combacia con il ruolo sostitutivo che dovrebbero svolgere le regioni.
Un'ultima considerazione per quanto riguarda i libri di testo; si tratta di un


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discorso di estrema delicatezza che se, in nome della libertà di insegnamento, viene lasciato solamente ai collegi dei docenti rischia di tagliare fuori le altre componenti della scuola: gli studenti, le famiglie e lo Stato. Esistono testi scolastici di storia e di educazione civica, cito ad esempio il Camera-Fabietti, che ancora oggi, a distanza di trent'anni, compiono vere e proprie deformazioni nella storia del nostro paese e della storia europea e mondiale.
Infine valuto positivamente l'introduzione del nuovo codice deontologico per la tutela e la dignità della funzione di insegnante, perché esso ci consentirà di porre in essere anche misure, di tipo non dico disciplinare, ma comunque di condizionamento verso quegli insegnanti che non si mostrano ligi all'impegno che hanno assunto nel momento della immissione in ruolo.

GIOVANNA BIANCHI CLERICI. Signor ministro, anch'io, a nome del gruppo della Lega Nord, le porgo i più cordiali auguri di buon lavoro per il suo nuovo incarico. Devo dire che ho apprezzato la relazione da lei svolta quest'oggi sia per i contenuti sia per i modi e credo si tratti di un ottimo punto di partenza. In particolare mi ha impressionato favorevolmente il forte richiamo iniziale alla centralità dello studente e della sua famiglia all'interno del mondo della scuola, proprio perché ha rappresentato il motivo guida della nostra azione in Commissione durante la passata legislatura. Il mondo della scuola spesso e volentieri è troppo autoreferenziale, le lobby, nel senso migliore del termine, dei docenti e di coloro che operano nel sistema sono molto più ascoltate delle esigenze degli studenti e delle loro famiglie.
Trovo anche molto giusto aver richiamato l'attenzione sulle risorse umane della scuola, viste le gravi difficoltà in cui essa versa e la sua inadeguatezza. Il quadro idilliaco tracciato anche oggi da alcuni colleghi dell'opposizione non corrisponde assolutamente alla realtà; abbiamo una scuola pubblica inadeguata sotto ogni profilo, a partire dall'edilizia scolastica, passando per l'organizzazione, fino a giungere all'insegnamento. Credo che il punto fondamentale sul quale dovremmo lavorare tutti sia la formazione e la valorizzazione, sia economica che culturale, dei docenti.
Sono d'accordo con la sospensione della riforma dei cicli scolastici portata avanti nella passata legislatura a colpi di maggioranza senza alcuna condivisione con l'opposizione; ci sembra assolutamente indispensabile una sospensione al fine di operare un ripensamento dei contenuti e delle modalità di attuazione.
Ci sono notizie sulla stampa e sui mezzi di comunicazione riguardo alla devoluzione che, secondo me, rischiano di creare equivoci. Ricordo che la devoluzione è uno dei principali punti del programma della Casa delle libertà; proprio sulla base dell'accordo sulla devoluzione delle competenze in materia di sicurezza locale, di sanità e di istruzione è stata creata la coalizione che ha poi vinto le elezioni del 13 maggio. Ora, operare una devoluzione delle competenze nel settore dell'istruzione non significa modificare i programmi scolastici o fare in modo che ogni regione o comune realizzi il proprio, anche perché ci troviamo già in una situazione di autonomia delle istituzioni scolastiche dove il ministero decide solamente una parte dei programmi, mentre l'altra è nella disponibilità della singola istituzione. Il problema semmai è un altro: le singole istituzioni scolastiche, proprio per le difficoltà in cui si trovano ad operare, non hanno ancora avuto la capacità di presentare un'offerta formativa adeguata alle esigenze di genitori ed alunni, magari proponendo una serie di discipline complementari che siano in grado di soddisfare anche il legame, importantissimo, con il tessuto socio-economico in cui vivono. Abbiamo preso atto che anche nel DPEF si prevede che una parte di competenze rimarranno allo Stato centrale, il quale deve indirizzare e governare, non gestire.
La devoluzione, così com'è scritto chiaramente nel programma della nostra coalizione, significa soprattutto l'opportunità per le regioni di offrire il migliore livello possibile di servizio, a partire dal reclutamento


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degli insegnanti, e quindi anche dalla loro formazione e dal loro trattamento economico, fino all'organizzazione scolastica; sono convinta che seguendo questa strada arriveremo ad una soluzione che sarà in grado di eliminare quelle pecche e quelle inefficienze che caratterizzano la scuola italiana, così com'è rigidamente articolata al momento, e credo che non mancheranno in tal senso opportunità di confronto tra lei ed il ministro delle riforme istituzionali in sede di Consiglio dei ministri. Non dimentichiamoci infatti che le riforme dell'Ulivo hanno mantenuto lo strettissimo controllo centrale, penalizzando le autonomie. Faccio un esempio: i dirigenti scolastici hanno sulla carta forti poteri e competenze, senza però disporre di risorse, né umane né materiali, per metterli in pratica; un dirigente spesso deve gestire edifici e strutture scolastiche che servono quasi mille alunni.
Vorrei fare alcuni riferimenti finali. Il primo riguarda la parità scolastica, che attualmente non garantisce una libera scelta da parte delle famiglie; anche noi apprezziamo il ritiro del ricorso contro la regione Lombardia per quanto riguarda i buoni-scuola. È pacifico che esso rappresenta solamente il primo passo (mancano ancora alcuni passaggi) verso la libera scelta che deve essere garantita a tutti, anche a coloro che non godono di ampie entrate economiche.
Sull'università condividiamo la scelta, peraltro caldeggiata anche da alcuni noti docenti universitari e da intellettuali del nostro paese, di attuare a due velocità l'avvio della riforma. Come prima ricordava un collega, ad esempio in Lombardia vi sono già le condizioni per tale avvio, laddove in altre regioni non è, invece, ancora possibile.
L'ultimo argomento che vorrei trattare è quello della ricerca. In questi anni si sono spese grandi parole, anche nei documenti di programmazione economica e finanziaria. Ricordo in particolare il primo DPEF del Governo Prodi dal quale sembrava che in pochi mesi si sarebbe colmato questo gap che ci divideva, e tuttora ci divide, dall'Europa e dal resto del mondo, ma in realtà i risultati non sono arrivati. Ricordo perfettamente che, nella legge finanziaria per il 1997, venne addirittura approvato un nostro emendamento che prevedeva sgravi fiscali e agevolazioni per la piccola impresa che voleva investire nella ricerca, ma poi tutto è finito nel deserto più totale.
Auspico, quindi, che il Governo intervenga su questo aspetto, con grande decisione, perché il nostro è ancora un paese dove, ad esempio, gli scambi tra università sono penalizzati, mancando ancora una cultura di questo tipo. Ricordo la brutta figura che abbiamo fatto con alcuni studenti stranieri invitati dal ministero per uno scambio culturale: il ministero non aveva più i soldi per pagare il biglietto di ritorno nei paesi di origine. Questa purtroppo è la situazione che ci troviamo di fronte.
Mi auguro, pertanto, che su questa linea si possano veramente riuscire ad ottenere risultati migliori di quelli conseguiti finora.

PRESIDENTE. Diversamente da quanto preannunciato in precedenza relativamente alla decisione di rinviare a domani il seguito degli interventi, i colleghi Palmieri, Ranieli e Santulli possono prendere ora la parola, in modo da snellire il prosieguo dei nostri lavori previsto per domattina.

ANTONIO PALMIERI. Rivolgendo al ministro gli auguri per lo svolgimento del suo incarico, vorrei esprimere tre considerazioni: una di merito, una culturale e una «lombarda».
La considerazione di merito riguarda una delle tre «i» della nostra campagna elettorale: Internet. Sia nel DPEF, sia nel nostro programma di Governo, è dato grande risalto alla questione dell'alfabetizzazione digitale per i docenti e per gli alunni. Proprio ieri, in un articolo pubblicato da Italia Oggi si sottolineava che, secondo l'Organizzazione delle Nazioni Unite, il nostro paese è pesantemente arretrato su questo versante; vorrei pertanto


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sapere come il Governo intenda procedere. Vorrei suggerire, richiamando il contenuto della proposta di legge Berlusconi-Tremonti sulla new economy presentata nel 1999 ed anche la mia precedente esperienza professionale in televisione, che l'uso della TV di Stato ai fini dell'alfabetizzazione, non solo del corpo docente e degli alunni, ma dell'intero paese potrebbe rappresentare uno strumento molto interessante per consentirci di abbreviare, in modo consistente, i tempi di questa importante azione.
Vorrei aggiungere che l'e-government rappresenta un forte «anticalcare» nei confronti della burocrazia, nel senso sia di fornire attraverso di esso servizi direttamente agli utenti, sia di riorganizzare l'apparato interno dell'azienda scuola per essere adeguati all'uso di questa tecnologia.
La mia seconda considerazione è di tipo culturale: ho apprezzato il prudente ma deciso accenno alla scuola della libera scelta, alla scuola della famiglia, e quindi alla scuola della concorrenza e della competizione. Sono consapevole che, su questo tema, le forze politiche probabilmente si divideranno, al di là delle osservazioni dei colleghi intervenuti in precedenza perché, come spesso accade, una stessa parola, come ad esempio la parola sussidiarietà, assume significati completamente diversi a seconda dell'impostazione culturale delle parti che la fanno propria.
Relativamente alla mia terza considerazione, quella «lombarda», vorrei sottolineare che la riforma adottata da Formigoni ha il pregio di mettere la famiglia in una posizione centrale. Concordo con l'osservazione della collega Bianchi Clerici che si tratterebbe di un primo passo da estendere probabilmente a tutto il sistema scolastico. Bisognerebbe, poi, ragionare dell'abolizione legale del titolo di studio, che potrebbe anche surrogare, almeno in parte, il problema dei cosiddetti diplomifici.
In conclusione, mi auguro che la stagione che comincia adesso per la scuola possa essere una fase di un lungo e fecondo riscatto.

MICHELE RANIELI. Vorrei ringraziare il ministro per la sua relazione, per la compiutezza della conoscenza dei problemi evidenziati, ma anche per la disponibilità con cui si è posto nei confronti della Commissione.
La scuola italiana, certamente, ha vissuto e vive momenti di grande difficoltà. La riforma arriva con vent'anni di ritardo, rispetto al contesto europeo. I titoli di studio italiani, molti diplomi e quasi tutte le lauree non sono ancora riconosciuti all'estero, a causa dei cosiddetti principi di uniformità che non abbiamo sottoscritto a livello europeo. La scuola italiana vive un momento di grave ritardo soprattutto per quanto riguarda la conoscenza delle lingue straniere e l'innovazione informatica e telematica, perché manca ancora una alfabetizzazione diffusa in tutto il nostro sistema scolastico.
La scuola italiana, soprattutto quella elementare ma anche quella dei licei, si è sempre distinta per qualità e per essere la scuola umanistica per eccellenza: sappiamo tutto dei filosofi, dei greci, dei Borboni e così via. Sappiamo tutto della storia antica, ma siamo tutti fermi alla seconda guerra mondiale, nel senso che non conosciamo i fatti storici e culturali verificatisi nel nostro paese dopo il secondo conflitto mondiale. Questo è lo stato di arretratezza della scuola italiana: chi ha sostenuto il fatto che la riforma avesse risolto i noti problemi del settore ha evidentemente dimenticato le arretratezze metodologiche, legislative e culturali che invece il mondo della scuola vive. È una situazione di arretratezza anche quella in cui la scuola, soprattutto quella elementare, ha spesso accompagnato le famiglie, o addirittura si è sostituita ad esse, con grande senso di responsabilità e di capacità dimostrato dal personale docente e da quello operante all'interno della scuola.
La delusione di una riforma che non arrivava ha trasformato l'educatore in un impiegato comune dello Stato: gli ha fatto perdere l'attaccamento e la passione di essere educatore, di essere quindi qualcosa in più del comune impiegato statale. Ho apprezzato molto quanto detto dal ministro


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sulla necessità di porre al centro della scuola, non soltanto l'alunno, ma anche e soprattutto l'insegnante ed il personale che opera all'interno della scuola stessa, affinché possano sentirsi diversi dai comuni impiegati dello Stato. Per realizzare ciò è necessaria una formazione continua e porre, sotto il profilo della dignità e dell'autonomia del metodo didattico, nonché dell'autonomia finanziaria, il personale docente e non docente nella condizione di operare in modo più adeguato alla società del terzo millennio.
Dalla relazione svolta dal ministro emerge chiaramente la volontà di rivoluzionare questo sistema. Ritengo che l'istituzione di un centro di valutazione nazionale autonoma sia un'iniziativa in grado di fornire una risposta unitaria a livello nazionale. Anche l'istituzione di un tavolo delle semplificazioni è sicuramente significativa, così come la concessione di maggiore libertà ed autonomia agli istituti scolastici. Come diceva la collega Bianchi Clerici, un dirigente non può essere veramente tale se non dispone di risorse umane e finanziarie. Gli organici di fatto assegnati a livello centrale ai vari dirigenti sono quasi sempre insufficienti per poter pensare di andare oltre l'ordinario apprendimento del quotidiano nel mondo della scuola e, forse, a volte sono anche inadeguati a garantire l'ordinario. Mi riferisco alle strutture ed alle infrastrutture fatiscenti e soprattutto alla carenza di nuove tecnologie informatiche e telematiche, in particolare nelle aree del Mezzogiorno.
Alcuni passaggi della relazione del ministro non mi sono completamente chiari e in proposito vorrei qualche chiarimento e maggiori informazioni. Per esempio, il gruppo di lavoro nazionale costituito per approfondire la ricerca dei cicli, mi fa pensare ad un ripristino della scuola dell'obbligo, cioè la reintroduzione del ciclo delle scuole elementari e di quello della scuola media.
Con riferimento alla formazione obbligatoria, parallela al sistema scolastico, questa per essere efficace deve vivere a contatto diretto con l'impresa: una sorta di formazione in azienda. Non ho sentito parlare di formazione continua, né di FTS, formazione tecnica superiore integrata, che a mio parere deve essere rafforzata perché può anche diventare la cosiddetta laurea breve (il post diploma che diventa laurea breve, altamente specializzata in alcuni settori della tecnologia e della domanda proveniente dalla società dell'azienda e dell'impresa). Credo che tutto ciò vada - ripeto - rafforzato tenuto conto che almeno il 20 per cento di coloro che raggiungono un diploma non si iscrive all'università, e circa il 65 per cento degli iscritti non si laurea. Lo Stato, il Governo, e certamente la Casa delle libertà devono interrogarsi e dichiarare cosa possa essere offerto a questo 50 per cento nella sua interezza, tenuto conto che esistono difficoltà, una certa svogliatezza, in presenza di un mondo del lavoro che non offre occasioni.
Dobbiamo creare delle opportunità che possano essere rappresentate dalla formazione tecnica superiore integrata, concepita con curricula nazionali dove, nell'ambito degli FTS, deve diventare obbligatorio l'apprendimento di due o tre lingue straniere, dei sistemi informatici e telematici, di un sistema di pubbliche relazioni (cioè di come porsi di fronte all'interlocutore e al mondo dell'impresa). In sostanza gli FTS italiani potrebbero diventare quello che in Inghilterra chiamano baccellierato.
Non ho sentito parlare dei master e dei diplomi postlaurea, che non possono essere solo ed esclusivamente i dottorati di ricerca, perché abbiamo saputo e vissuto sulla nostra pelle come sono stati gestiti: in primo luogo con la limitatezza dei posti, in secondo luogo con il fenomeno del nepotismo (il barone di turno che gestisce alcune postazioni universitarie). Occorre allargare e ampliare al massimo i master attraverso i quali le università, i consorzi e gli enti di formazione italiani e stranieri possono utilizzare i fondi comunitari. In qualità di coordinatore degli assessorati regionali alla formazione e all'istruzione, ho constatato che la mia è stata la prima regione italiana ad utilizzare interamente i fondi comunitari per la predisposizione


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di master della durata di due anni (dei quali sei mesi si trascorrevano presso università estere che rilasciavano l'attestato, che le nostre non erano ancora abilitate a fare). Dobbiamo incentivare la ricerca perché l'Italia è quasi ultima per livello di investimenti; attraverso la ricerca è possibile non soltanto adeguarci alle nuove esigenze e alle nuove tecnologie, ma anche sviluppare il settore occupazionale in modo serio e significativo per i giovani laureati. Anche in tale caso non basta investire, occorre soprattutto aumentare la disponibilità e gli spazi per quanto riguarda i dottorati di ricerca.
Credo che complessivamente la devolution, così come emerge dal documento di programmazione economica e finanziaria, sia un fatto che non sconvolge nessuno. Anzi, per quanto mi riguarda, mantenere un unico quadro di riferimento nazionale e trasferire ai dirigenti regionali alcune competenze e funzioni, significa certamente introdurre una semplificazione dal punto di vista della funzionalità e di una maggiore efficacia nella gestione della scuola. Mi domando anche se i provveditorati agli studi debbano necessariamente essere cancellati o se essi rispondano ancora ad una logica che, come dimostra anche l'ultimo decreto-legge sui precari che abbiamo approvato, demanda ai singoli capi di istituto (per esempio la possibilità di procedere alla nomina). Personalmente, ritengo che, forse, i provveditori agli studi rispondano ad una logica soprattutto territoriale, perché in alcune realtà del Mezzogiorno raggiungere l'interlocutore regionale significa percorrere 300 o 350 chilometri, non garantendo un servizio né alla didattica, né al cittadino. Forse il provveditorato agli studi risponde ancora alla logica territoriale del servizio che vogliamo fornire al mondo della scuola.
Sono preoccupato perché non possiamo ancora temporeggiare sulla riforma della scuola: lo abbiamo fatto per un ventennio e l'Europa ci impone di fare in fretta, di adeguarci di fatto agli standard europei e, soprattutto, di mettere gli insegnanti e le risorse umane primarie, che sono i giovani, nelle condizioni di pari opportunità per poter competere in termini di linguaggio (e perciò insisto sull'insegnamento di almeno due lingue straniere e sul sistema alfabetico informatico in ogni stato e grado dell'istruzione e dell'informazione). Le nuove tecnologie ci consentono, oggi, di recuperare le lacune delle quali il paese ancora soffre a causa di difetti e ritardi strutturali e infrastrutturali. Sono convinto che un manager come il ministro Moratti saprà velocemente colmare tali lacune e farci recuperare ritardi ormai ultraventennali, che gravano sul sistema scolastico italiano.

PAOLO SANTULLI. La ringrazio, signor ministro, perché mentre lei svolgeva la sua relazione mi veniva naturalmente da annuire in quanto le sue dichiarazioni, per persone che hanno vissuto come genitori o come docenti nella scuola, fanno veramente pensare che ci possa essere una svolta. Si è sempre parlato della centralità della scuola per la crescita civile di un paese, però si sono fatti sempre i conti in termini di risorse ed i risultati non davano la possibilità di rendere centrale questa idea. Oggi, invece, ascoltando ciò che lei ha detto, sono convinto che veramente ci troviamo di fronte - ripeto - ad una svolta epocale: me lo auguro, perché il mondo della scuola e l'intero paese ci osservano e ci guardano. Effettivamente la scuola riguarda tutti, nessuno escluso, ed è per tale motivo che sono contento di poter partecipare in qualche modo al suo sviluppo. Provarci è necessario: è evidente che gli ostacoli non mancano, in quanto dobbiamo fare sempre i conti con la borsa e le difficoltà sono obiettive, però ritengo che ci troviamo ad un punto di non ritorno.
Lei parlava di investimenti strutturali per la scuola ed io credo che ciò sia fondamentale, atteso che, signor ministro, al sud stiamo ancora vivendo, per quanto riguarda le strutture scolastiche, sulla legge Falcucci, emanata per risolvere i soliti problemi dei doppi, tripli e, a volte, quadrupli turni. Non vi è stata in tal senso una politica di investimenti e, addirittura,


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si continuano a prendere in locazione strutture indegne, che fanno sperperare denaro pubblico. La invito, perciò, a pensare a qualche provvedimento veramente forte, come è stato, a mio giudizio, la legge Falcucci. Mentre al nord si dismettono gli edifici scolastici, al sud siamo ancora in condizioni precarie: gli enti locali non hanno risorse, i ragazzi non hanno la possibilità di poter sviluppare funzionalmente un discorso che, altrove, è ordinario.
Tali forme di discriminazione non possono essere più accettate in un paese come il nostro. È vero che l'Italia è stretta e lunga, ma quello che vale per Milano, signor ministro, deve valere anche per Reggio Calabria. Dobbiamo fare in modo che ciò avvenga, ci dobbiamo almeno provare. Parlo di problemi che conosco bene: la legge n. 88 del 7 febbraio 1958, mai abrogata, stabilisce che un istituto con 20 classi deve disporre di una palestra, mentre oltre tale limite, sono necessarie due palestre, ma in Italia non vi sono neanche le scuole. Poiché tale legge non è stata mai abrogata e l'educazione fisica è una materia pratica vi è una discriminazione di fatto nel suo insegnamento. Atteso che non vi sono materie di serie A e di serie B (tutte concorrono alla formazione), ci dobbiamo guardare negli occhi e stabilire quello che dobbiamo fare oppure dobbiamo rivedere quelli norme ancora in vigore, ma inattuate. Diversamente, alcuni enti locali, seguendo la legge, operano in un certo modo, altri enti locali, non osservando la normativa, agiscono in modo diverso.
Ho parlato di palestre, quindi di sport, che dà la possibilità ai ragazzi di avere un legame con la scuola, perché sono attività che veramente permettono loro di sentirsi bene nella scuola. Laddove si sviluppano le discipline che fanno fare ai ragazzi ciò che a loro piace, è evidente che vi è la possibilità che essi non vadano altrove e non cerchino altrove. Facciamo in modo che la scuola diventi un luogo nel quale, quando suona il campanello, non si cerchi di fuggire (come invece è sempre successo a noi in quanto non esistevano le possibilità di sentirsi veramente bene nella scuola). Inoltre ritengo, signor ministro, che ultimamente determinate scelte ideologiche abbiano appesantito, penalizzato e addirittura mortificato la scuola. Se lei pensa - lo diceva nella sua relazione - a ciò che hanno dovuto e devono subire i docenti, converrà con me sulla necessità di approfondite alcune questioni. Non sono più ammissibili, per gli insegnanti, inutili carichi di lavoro che fanno perdere di vista la loro funzione docente: è evidente che essi non sono più motivati in quanto gli vengono attribuiti compiti che devono essere affidati ad impiegati di segreteria. Se guardiamo alla scuola di un tempo - come dicevano gli amici dell'opposizione - sicuramente non tutto ciò che è stato fatto deve essere cancellato. Anche nelle radici della nostra scuola, quella che hanno voluto cancellare, vi erano tradizioni che andavano mantenute: abbiamo una scuola elementare che è la migliore d'Europa, una scuola secondaria che va benino, perché la riforma della scuola media del 1962 ha dato risultati eccezionali. Perché allora non rivedere qualche aspetto e cercare di recuperare una tradizione che, purtroppo, si è voluto cancellare? Non sappiamo ancora per quale motivo siano state invertite determinate tendenze e tradizioni che erano funzionali e produttive.
Cerchiamo di mettere un freno ad alcuni meccanismi perversi che si sono realizzati negli ultimi anni per l'acquisizione di titoli per la progressione della carriera. Cerchiamo di operare diversamente, in quanto gli insegnanti sono stati mortificati e hanno dovuto fare la corsa per ottenere certificazioni e privilegi finalizzati a certi incarichi e per guadagnare quel poco di salario in più.
È indispensabile offrire alla scuola un'autonomia gestionale reale, perché, signor ministro, ultimamente si sono realizzati progetti a tema con i quali, a livello centrale, si sono sperperati miliardi inutilmente: la scuola non ne aveva bisogno, ma il collegio dei docenti, pur di non perdere quelle opportunità, faceva «al mare il progetto della montagna e alla montagna il progetto del mare». Tali iniziative


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servivano solo ed esclusivamente ai docenti che le realizzavano, non ai discenti e agli alunni. Diamo, allora, la possibilità alle scuole di ottenere finanziamenti, ma di realizzare autonomamente, secondo le reali esigenze e necessità, i progetti collegati con l'offerta formativa già programmata, argomenti che lei ha centrato appieno nella sua relazione, che tuttavia ho voluto rimarcare perché sono aspetti molto sentiti.
Relativamente all'università vorrei chiederle, signor ministro, se non sia possibile valutare quelle esigenze del mondo del lavoro che l'università non riesce praticamente ad attuare. Vi sono lauree brevi dove il numero chiuso non consente la partecipazione di tanti studenti, mentre, invece, il mondo del lavoro ha bisogno di molti operatori specializzati. In questo modo facciamo proliferare il numero di personale aspecifico che occupa posti di lavoro attraverso specializzazioni organizzate da enti ed agenzie che non hanno alcun titolo legittimante (addirittura diplomifici che vengono poi equiparati e riconosciuti). Perché allora non dare la possibilità all'università di avviare tali specializzazioni e di adeguarsi per poter formare meglio il personale in questione?
Concludo il mio intervento con un argomento sul quale è opportuno soffermarci: la questione degli insegnanti di sostegno. Signor ministro, il problema è molto grave. Bisogna intervenire drasticamente perchè - lo denuncio pubblicamente - alcuni docenti, senza una sincera motivazione, acquistano le licenze e, non avendo passione e inclinazione verso quella professionalità, a chi danno sostegno? Abbiamo eliminato le scuole differenziali con l'introduzione delle integrazioni, ma non esiste niente. Bisogna rivedere anche tale questione: affidiamo ciò alle università, facciamo partecipare tutti. Chi veramente se la sente vada all'università e dopo a svolgere determinate attività, ma rispettando quanti hanno bisogno di essere sostenuti in questa azione e non mortificando ulteriormente famiglie e persone che hanno necessità di tale servizio, perché così non facciamo giustizia in nessun senso. È importante che gli enti locali, le aziende sanitarie locali e le strutture deputate ai servizi sanitari e riabilitativi attuino una concertazione, perché vi sono figure professionali che possono operare in sinergia, veicolando professionalità che esistono, ma non vi è nessuno che si preoccupa di strutturare funzionalmente tali percorsi.

PRESIDENTE. Nel ringraziare il ministro per la sua disponibilità e i colleghi per i loro interventi, rinvio il seguito dell'audizione alla seduta di domani 19 luglio, alle ore 9. Avverto che a seguire avranno luogo le sedute della Commissione già convocate per domani a partire dalle 14,15.

La seduta termina alle 18,05.